Summary

Questo documento esplora il concetto di globalizzazione, analizzando le sue diverse definizioni e prospettive. Viene discussa la storia della globalizzazione, le sue dimensioni, e i suoi impatti sulla società e sull'economia. Il testo presenta vari approcci teorici e mette in luce le complessità di questo fenomeno.

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INTRODUZIONE: COS’E’ LA GLOBALIZZAZIONE Il concetto di globalizzazione è un concetto non ancora ben definito. Vi possono essere diversi modi per definirlo. Il primo modo consiste nel considerare la globalizzazione come il trionfo della società in rete. Affinchè quest’ultima vi sia, ci deve essere un...

INTRODUZIONE: COS’E’ LA GLOBALIZZAZIONE Il concetto di globalizzazione è un concetto non ancora ben definito. Vi possono essere diversi modi per definirlo. Il primo modo consiste nel considerare la globalizzazione come il trionfo della società in rete. Affinchè quest’ultima vi sia, ci deve essere una rete e quindi strumenti che permettano di averla, come internet. La globalizzazione, dunque, nasce dal momento in cui nasce questa tecnologia e quindi con la nascita del www (=world wide web) degli anni 25/30. Il secondo modo per definire la globalizzazione è considerarla come l’integrazione mondiale politica, sociale, economica e culturale. Sotto questo punto di vista la globalizzazione presenta una storia più profonda, in quanto ha inizio da quando l’uomo prende coscienza che il mondo è altro oltre ciò che conosce. L’europeo scopre che il mondo è più ampio di quello che lo circonda e di cui è a conoscenza. Si comprende che la terra è sferica e grazie a ciò nasce la globalizzazione perché l’uomo comprende le reali forme e dimensioni del mondo e le sfrutta. La globalizzazione è un concetto che attiene alla diagnosi del presente. Si tratta infatti di un concetto utilizzato inizialmente solo nelle pubblicazioni specialistiche di economia. Negli anni 90, infatti, gli economisti coniarono la parola globalizzazione. Negli anni 90 si ha la caduta del muro di Berlino e ciò rappresenta la caduta della divisione in due del mondo. Dopo la guerra, in Europa era caduta una cortina di ferro rappresentata metaforicamente dal muro di Berlino che divideva la Germania. Con la caduta del muro, si ha un’integrazione dei paesi comunisti creando un’integrazione mondiale. Il mondo diviene sempre più piccolo per la facilità delle comunicazioni e dei trasporti, ma dall’altra parte il mondo è sempre più grande per via della difficoltà nel regolarne la complessità. Viene di continuo confermato anche il senso più banale del concetto di globalizzazione: il mondo diventa sempre più piccolo e aumentano i legami con ciò che è lontano. Ma nello stesso tempo il mondo diventa più grande, poiché non siamo ancora in grado di dominare i nuovi orizzonti che si dischiudono al nostro sguardo. La globalizzazione, inizialmente, costituiva una novità perché significava essere in un contesto storico differente dai precedenti. Tuttavia, gli storici ritenevano che fosse necessaria una maggiore precisione. Quest’ultima, infatti, ha permesso di definire meglio il concetto di globalizzazione. A questo punto tocca agli storici entrare nel merito della discussione. Da una parte sono loro ben note alcune cose che nella letteratura sociologica vengono invece celebrate come novità. Per esempio: gli storici dell’economia hanno già descritto con sufficiente precisione il processo di formazione e di successiva integrazione dell’economia mondiale, ben prima che si affermasse il termine globalizzazione. In questo caso il compito degli storici è di essere precisi tanto nel descrivere i fatti quanto nell’individuare cause ed effetti. Tuttavia, in molti settori anche gli storici adottano il metodo della semplificazione. Da molto tempo la scienza storica interpreta le trasformazioni che da circa due secoli e mezzo hanno investito il mondo con l’ausilio di concetti molto ampi, che indicano dei processi: razionalizzazione, industrializzazione, urbanizzazione, burocratizzazione, democratizzazione, individualizzazione, secolarizzazione, alfabetizzazione, e altri ancora. Tutti questi processi hanno in comune di essere eventi di lunga durata, di verificarsi in forme e con intensità differenti in tutti i continenti, e di liberare forze trasformatrici che è molto raro riscontrare nella storia precedente, la storia della premodernità. Il metaconcetto di modernizzazione tenta di tenere insieme i singoli processi indicati, con riferimento a un unico processo complessivo. La globalizzazione, già dal punto di vista lessicale, sembra avere le carte in regola per diventare uno dei macroprocessi del mondo moderno. Non è necessario porre il termine sullo stesso piano di modernizzazione (o addirittura al di sopra di esso) e vedere nell’intensificarsi delle connessioni a distanza il tratto caratteristico dello sviluppo del mondo. Se il termine globalizzazione si guadagnasse davvero un posto tra i grandi concetti di sviluppo verrebbe colmata una grave lacuna. Vi sarebbe infatti un luogo in cui potrebbe collocarsi tutto ciò che è inter-continentale, inter-nazionale, inter-culturale, ecc. Si può dire che la globalizzazione nasce in età moderna, la quale comprende vari processi, la cui ultima fase è data dalla globalizzazione. Nella maggior parte delle definizioni della globalizzazione di cui disponiamo giocano un ruolo centrale l’estensione, l’intensificazione e l’accelerazione delle relazioni su scala mondiale. Da questo punto di vista, le definizioni vengono spesso già messe in relazione con la diagnosi sul presente. Le questioni al centro del dibattito sono se la globalizzazione - implichi il declino dello Stato nazionale: una parte della società, infatti, potrebbe non rispondere più allo stato, come ad esempio le imprese nel momento in cui diventano multinazionali. Per via di ciò, lo stato ha difficoltà nel far fronte ai problemi economici creati con la globalizzazione. La globalizzazione revoca in dubbio il significato dello Stato nazionale e disloca il rapporto di potere tra gli Stati e i mercati a vantaggio di questi ultimi. I beneficiari di questo sviluppo, favorito dai governi nazionali attraverso le facilitazioni al libero commercio, sarebbero le imprese multinazionali, che possono scegliere nel mondo intero i luoghi economicamente più favorevoli per le proprie attività senza vincoli di lealtà nei confronti dei paesi d’origine. Le possibilità di intervento di politica economica da parte dei governi degli Stati nazionali ne risulterebbero pregiudicate, al pari del loro accesso alle risorse, soprattutto fiscali. Anche gli interventi assistenziali di politica sociale sarebbero smantellati e così ridotta nel contempo la legittimità dello Stato: per gli entusiasti neoliberali della globalizzazione un guadagno in termini di libertà personale; per gli oppositori della globalizzazione l’irruzione dell’anarchia, che andrebbe a vantaggio solo dei più forti. - conduca all’uniformità del mondo: si ha il rischio di un’uniformità culturale per via della crescente globalizzazione. Tale rischio, però, porta al voler affermare un’identità specifica. Per affermare quest’ultima vengono utilizzati gli stessi mezzi usati dalla globalizzazione: si parla di glocalizzazione che unisce il locale e il globale. Roland Robertson ha introdotto il concetto di glocalizzazione per sottolineare come le tendenze globali agiscano sempre a livello locale e come questa coincidenza di omogeneizzazione ed eterogeneizzazione possa essere definita come simultanea «universalizzazione del particolare e particolarizzazione dell’universale». Mass media, viaggi in paesi lontani e beni di consumo globalmente richiesti sono i più importanti meccanismi della glocalizzazione. - conferisca nuovo senso ai concetti di spazio e tempo: la globalizzazione riduce le dimensioni dello spazio e del tempo. La facilità e la frequenza con cui uomini, merci e soprattutto informazioni coprono grandi distanze hanno indotto molti interpreti a descrivere la globalizzazione come una trasformazione radicale delle categorie di spazio e tempo, come space-time compression (compressione spazio-temporale), secondo l’espressione del geografo David Harvey. Questo può essere considerato il terzo elemento caratteristico dell’interpretazione della globalizzazione fornita dalle scienze sociali. La space-time compression, cominciata già con la radicale riduzione dei costi telefonici e con la diffusione della posta elettronica, crea un presente comune e un insieme virtuale, fornendo così i presupposti per rapporti sociali, reti e sistemi di portata mondiale, all’interno dei quali la distanza effettiva è essenzialmente inferiore a quella geografica. Il concetto di globalizzazione è difficile da definire; alcuni sociologi tentarono di farlo. IL CONCETTO DI GLOBALISMO DI MARTIN ALBROW Albrow parlò di globalismo e definisce un nuovo quadro di riferimento che distingue il presente da tutta la storia passata. Albrow cita le seguenti dimensioni del globalismo: 1) le questioni ambientali si collocano nell’ambito dell’ecosistema globale: i problemi ambientali riguardano tutti 2) le armi di distruzione di massa portano con sé il rischio di distruzione per l’intero pianeta: inizialmente le guerre riguardavano i soldati, gli eserciti e difficilmente veniva coinvolta la popolazione. Con la prima guerra mondiale e maggiormente con la seconda guerra mondiale, si ebbero esplosioni sulla popolazione 3) i sistemi di comunicazione e i mercati si estendono sul mondo intero. Il globalismo è infatti l’emergere di questioni che hanno rilevanza globale, cioè quelle questioni che riguardano tutti. L’IDEA DI SOCIETÀ IN RETE DI MANUEL CASTELLS La globalizzazione è il sorgere della società in rete, di una forma di società storicamente inedita. Non tutte le relazioni costituiscono una rete: non basta che vi siano relazioni, ma è necessario che vi sia un medium per creare una rete. Un primo intermediario è dato dal web, che permette di arrivare a società diverse da quella in cui ci si trova. La tecnologia informatica renderebbe per la prima volta possibile il darsi di relazioni sociali indipendentemente dal fattore territorio. La forma organizzativa dell’economia e della politica non sarebbe più la grande organizzazione gerarchica e burocratizzata, ma l’organizzazione orizzontale della rete connessa in modo flessibile. Il risultato è la trasformazione dei fondamenti dell’esercizio del potere e della spartizione delle risorse: il potere non si manifesta più come rapporto di comando e obbedienza, ma appare ancorato all’esistenza di una organizzazione in rete orientata a scopi di volta in volta determinati. Al posto dell’oppressione e dello sfruttamento, del sopra e del sotto in termini sociali, del centro e della periferia in termini geografici, nella società in rete subentrerebbe il principio dell’appartenenza alla o dell’esclusione dalla rete. La grande distinzione nel nuovo mondo di Castells è quella che passa tra chi è connesso e chi non è connesso alla rete. Accanto a questi ambiziosi orientamenti interpretativi, che assumono talvolta coloriture profetiche, si pongono approcci più sobri, nei quali la globalizzazione non appare mistificata come potenza che agisce sul piano della storia, ma viene piuttosto interpretata come concetto di tipo descrittivo che comprende una serie di concreti processi di trasformazione. DAVID HELD La globalizzazione è il risultato di processi in atto già da lungo tempo, e che non procedono necessariamente secondo una linea di continuità. I rapporti economici, politici, culturali e militari seguono la loro dinamica specifica e i loro differenti input, e anche la loro portata appare differenziata. Gli effetti di questi processi sono molto diversi secondo il luogo, il tempo e lo strato sociale. In questa prospettiva la globalizzazione non è un processo determinato (in termini banali: programmato); non dissolve le istituzioni in cui si organizza la nostra vita collettiva come gli Stati, le imprese, le chiese, la famiglia, ecc., ma le trasforma profondamente. È difficile, tuttavia, stabilire quale definizione sia giusta. Ciò che si può fare è cercare nella storia tutto ciò che può essere considerato globale. DIMENSIONI DELLA GLOBALIZZAZIONE Affermare che la globalizzazione è un fenomeno caratteristico degli ultimi decenni e addirittura l’inizio di una nuova epoca storica è in generale possibile solo se ciò che è nuovo viene contrapposto a ciò che è stato finora. Se invece la globalizzazione viene considerata come il risultato dell’operare congiunto e del rafforzarsi reciproco di processi di lunga durata, allora in questo caso (e solo in questo) ci troviamo propriamente al centro di importanti questioni d’interpretazione storica. La prima impressione è che gli storici si siano fino a pochi anni addietro occupati assai poco di globalizzazione: solo in pochi libri di storia compare nel titolo questo termine o il corrispondente aggettivo globale. E’ mai possibile che uno dei grandi processi di sviluppo della modernità si sia potuto verificare di soppiatto e sia potuto passare inosservato? Ovviamente, no. Dobbiamo allora analizzare la letteratura sul tema andando alla ricerca di altre parole chiave e altri titoli. Anche solo per questo sarebbe auspicabile che il concetto estremamente ampio di globalizzazione venisse scomposto nei suoi singoli elementi. Prima, però, il concetto di globalizzazione deve essere brevemente situato nel contesto della storia delle idee e della storia della scienza. Gli storici, nella loro grande maggioranza, restano storici nazionali esperti di regola nella storia della propria nazione. E tuttavia si sono andati sviluppando ambiti di ricerca storica i cui risultati possono essere di utilità anche per la storia della globalizzazione. Per studiare la dimensione storica della globalizzazione bisogna affidarsi ad alcuni elementi chiave: La storia dell’economia mondiale = si tratta di un campo decisivo della ricerca in ambito economico, dalla storia economica alla geografia economica. Negli ultimi due o tre decenni era però diventata alquanto marginale, mentre solo adesso è oggetto di rinnovato interesse. La nuova spinta dell’espansione coloniale europea dopo il 1880 e i coevi processi di intensificazione degli scambi internazionali di merci e di capitali erano già stati descritti in termini scientifici dai contemporanei. Un campo decisivo di ricerca, coltivato soprattutto in Gran Bretagna – il centro della finanza internazionale di un tempo – riguarda i movimenti internazionali dei capitali e la storia dei gruppi industriali multinazionali. La ricerca sulle migrazioni = Anch’essa attestata già a partire dal tardo XIX secolo, coniuga i problemi e i metodi della demografia con quelli della storia sociale. Cerca di applicare ai movimenti migratori un approccio statistico e geografico; è interessata alle motivazioni e alle circostanze dell’emigrazione (senza trascurare le deportazioni e le espulsioni violente) e studia le esperienze degli immigrati nei luoghi d’arrivo. Uno dei suoi campi fondamentali d’interesse è quello delle migrazioni d’oltreoceano, all’interno delle quali appare particolarmente analizzato il caso del commercio atlantico di schiavi. La storia delle relazioni internazionali = E’ stata finora soprattutto una storia o delle relazioni bilaterali tra gli Stati o degli sviluppi interni al sistema europeo delle grandi potenze. Le stesse guerre mondiali del Novecento per lungo tempo non sono state studiate in tutte le loro implicazioni globali. Nel frattempo però sono in aumento i libri scritti da studiosi che esaminano le relazioni sistemiche al di là dei confini continentali. La storia dell’imperialismo e del colonialismo = E’ una fonte particolarmente importante per la storia della globalizzazione. Non a caso alcuni dei più insigni rappresentanti internazionali di questo indirizzo di studi propongono di ampliare la imperial history a global history. Questo ambito di ricerca riceve produttive sollecitazioni dall’etnologia (in particolare dall’antropologia culturale) e trae profitto sia dall’interesse che i contigui post- colonial studies mostrano per le questioni attinenti alla formazione delle identità culturali – spesso casi di glocalizzazione – sia dalla loro critica all’eurocentrismo. Dall’unione di queste dimensioni sta nascendo la storia globale che non è ancora storia della globalizzazione. Ciò fa comprendere come la prima fase della globalizzazione è, invece, europeizzazione, ma anche che la storia del mondo non si ferma a quella europea e che quindi i paradigmi e la periodizzazione che noi abbiamo usato non vale per gli altri. WALLERSTEIN Un tentativo di studio della globalizzazione è data dal sociologo Wallerstein, che studia quello che lui definisce sistema-mondo. A partire dal 1974 il sociologo americano Immanuel Wallerstein ha elaborato in una lunga serie di scritti una teoria del moderno sistema-mondo, che anche dai suoi detrattori è stata riconosciuta come un contributo di grande rilevanza. In stretto contatto con la ricerca storica, Wallerstein ha voluto studiare le relazioni varie che si estendono toccando tutti gli ambinti del pianeta e per fare ciò, ha attuato il suo progetto di ricerca per il periodo che va dal 1500 al 1850 (non andò oltre a causa della sua morte). L’approccio incentrato sul sistema-mondo non è quindi giunto ad analizzare i rapporti realmente globali. Esso rimane un’interpretazione dell’espansione dell’economia-mondo capitalistica di matrice europea. E nemmeno Wallerstein è arrivato, per esempio, alla soglia a partire dalla quale gli USA intervengono direttamente, plasmandole, nelle relazioni dell’economia mondiale. A prescindere da questo rilievo, va sottolineato che i seguenti aspetti del metodo d’analisi di Wallerstein si sono dimostrati utili anche al di fuori del rigido quadro di riferimento teorico della sua analisi: L’idea di una scala di piani di ricerca, che dal sistema-mondo arriva all’economia domestica, e tra i quali allo Stato nazionale non è accordata alcuna particolare preminenza. Wallerstein passa infatti da dimensioni globali a locali e domestiche e con ciò vuole dimostrare come la globalizzazione è capillare. L’idea di un’incorporazione (annessione) dei territori esterni ai confini di un’economia- mondo capitalistica in continua espansione – incorporazione concretamente descrivibile nei singoli casi in termini geografici e istituzionali e differenziata per gradi;. Il concetto della semi-periferia, che indica una terza posizione variabile tra i centri economici e le periferie. Dal momento che intendiamo affrontare i processi di globalizzazione a partire dalle interazioni osservabili tra individui e gruppi, la rete sarà uno dei nostri concetti fondamentali. E’ necessario precisare che non ogni rapporto sociale tra più di due persone costituisce già di per sé una rete. Un’organizzazione in rete presuppone un certo grado di stabilità e di sostegno istituzionale, ma anche in questo caso, come sottolinea Manuel Castells, continua a essere una forma flessibile, sebbene non molto stabile, di organizzazione sociale. BURTON Partendo da un punto di partenza completamente diverso, vale a dire dalla teoria delle relazioni internazionali, egli giunse già all’inizio degli anni Settanta a descrivere i rapporti sociali di estensione mondiale utilizzando il modello della tela di ragno. Egli, per esempio, propose di riportare su una carta geografica del mondo priva di confini politici tutte le conversazioni telefoniche, i viaggi e i movimenti delle merci. Sulla sua mappa venivano così riprodotti non i territori e i confini degli Stati, ma le interazioni sociali. L’immagine che ne risultava assomigliava ai rilevamenti tratti dalle foto satellitari del globo terrestre di notte, nelle quali non si vedono confini ma solo spazi di densi insediamenti umani con elevato impiego di energia. Solo in questo «mondo transazionale», come lo definisce Burton, le interazioni si intensificano sino a diventare reti, strutture o sistemi. Ciò dimostrò come fosse necessario definire il concetto di rete in quanto quella data da Castells minimizza la profondità. Infatti la nozione di rete induce ad appiattire i processi sociali, a minimizzare le gerarchie e le differenze di potere e a trascurare le differenze di profondità e di intensità delle relazioni. Quando si parla di rete bisogna definire: 1. Estensione degli scambi e loro importanza = C’è una differenza tra paesi – come per esempio la Francia – che non hanno sostanzialmente preso parte alle grandi emigrazioni verso l’America di fine Ottocento e dei primi del Novecento e paesi che si sono invece ritrovati privi di una parte consistente della propria popolazione a causa dell’emigrazione: nel 1914 due terzi di tutti i nativi irlandesi vivevano all’estero. Negli USA sono nate di conseguenza estese immigrant communities irlandesi, ma non francesi (presenti invece in Canada da lungo tempo). I criteri dell’estensione e dell’importanza devono poi essere valutati in rapporto reciproco: reti locali sono sempre esistite, ma con la globalizzazione aumenta l’importanza relativa delle reti di grande estensione. Detto in modo più semplice: la distanza diventa sempre più importante per gruppi determinati di persone. Intorno al 1800 un prodotto «made in China» – come le porcellane o la seta – era sicuramente un oggetto di lusso per gli europei, mentre oggi è un’ovvietà. 2. Intensità e velocità dei contatti = Questo aspetto dipende dai mezzi tecnici a disposizione e dalle condizioni organizzativo-istituzionali che sono sempre indispensabili per utilizzare al meglio la tecnologia. Bisogna porsi anche la questione dei canali attraverso cui avviene il collegamento in rete: già con capacità relativamente limitate di trasporto lo scambio a grande distanza di idee o di metalli, che entrano in gioco come mezzi di potere economico e militare, può conseguire notevoli effetti. Agenti patogeni, al pari di piante e animali importati, possono addirittura produrre relazioni causali tra le società anche in assenza di un contatto diretto tra le persone. 3. Durata e frequenza dell’interazione = Attraverso la regolare ripetizione, i singoli scambi possono trasformarsi in una rete stabile in cui tra i partecipanti si creano una stabile divisione del lavoro e un orientamento ai bisogni economici e ai sistemi simbolico-culturali. Nelle differenti dimensioni dell’agire sociale le reti possono seguire estensioni e dinamiche proprie e specifiche. E’ però anche possibile che tramite un forte centro politico esse si concentrino in un unico spazio geografico, o vengano «coordinate» tramite un conflitto onnipervasivo. Più è frequente l’interazione e più è corretto parlare di rete. Riassumendo, possiamo dire che se si interpreta la globalizzazione come la costruzione, l’intensificazione e il crescere d’importanza delle reti mondiali, il concetto perde il suo significato statico e totalizzante. La questione non è più se il concetto di globalizzazione rappresenti un’adeguata descrizione del mondo di oggi, ma l’attenzione si sposta piuttosto sulla storia dei rapporti mondiali, del loro sorgere e della loro erosione, della loro intensità e dei loro effetti. PERIODIZZAZIONI La periodizzazione è la suddivisione dello sviluppo in fasi temporali. Essa è inevitabile quando si raccontano delle storie. I processi storici raramente procedono con regolarità meccanica: si strutturano nel tempo attraverso accelerazioni e rallentamenti, cesure e impulsi, punti alti e bassi dello sviluppo, attraverso la complessa vicinanza temporale delle innovazioni. I confini tra le epoche appaiono ovvi solo nel caso in cui coincidano con le date più significative della storia degli eventi politici e militari – 1789, 1914, 1945 o 1989. Ma anche queste vistose svolte non hanno necessariamente il significato di altrettante cesure negli ambiti della vita, che evolvono in modo più continuo rispetto agli eventi politici. Poiché la globalizzazione interessa diversi di questi ambiti – economia, tecnica, organizzazione dello Stato, cultura, solo per citare i più importanti – si intrecciano diverse periodizzazioni. Questo rende particolarmente difficile imprimere alla storia un ordine univoco. Ogni proposta di periodizzazione che abbia qualche fondamento risulta perciò sempre discutibile; e tali discussioni non di rado sono utili alla nostra comprensione della storia. Viene seguita la periodizzazione proposta da Immanuel Wallerstein, che si suddivide in quattro periodi: 1500-1750 = si fa coincidere l’avvio moderno della globalizzazione con la costruzione degli imperi coloniali portoghese e spagnolo a partire dal 1500 circa. Fu l’inizio di un processo di messa in rete mondiale in linea di principio irreversibile. Le esplorazioni geografiche e i regolari rapporti commerciali, infatti, pongono per la prima volta in contatto diretto l’Europa, l’Africa, l’Asia e l’America, e da questi contatti si sarebbe sviluppata a metà Settecento una stabile interdipendenza multilaterale. Verso la metà del Settecento esistevano reti transcontinentali stabili, almeno dal punto di vista economico, e ricche di potenzialità. Le reti presentavano poca velocità. 1750-1880 = L’affermarsi di rapporti mondiali d’intensità fino ad allora sconosciuta avviene all’insegna delle capacità di produzione, di trasporto e di comunicazione messe in moto dalla rivoluzione industriale. Nello stesso tempo l’Europa si ripiega politicamente su se stessa: le strutture degli imperi coloniali delle Americhe si dissolvono quasi completamente; il «sorgere dell’economia mondiale» avviene sotto il segno di un libero commercio che si sta affermando con successo. Contemporaneamente si verifica l’esportazione nel mondo delle istituzioni europee – fra le quali lo Stato-nazione – e della mentalità europeo-«occidentale». Negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento sono per la prima volta operative sul terreno economico delle interdipendenze realmente globali, alcune delle quali possono addirittura essere statisticamente dimostrate con sufficiente precisione. Le reti si intensificano grazie a maggiore velocità e stabilità per via della rivoluzione industriale. 1880-1945 = Dopo il 1880 si afferma una politicizzazione della globalizzazione: le società che ora si interpretano in termini nazionali vogliono gestire politicamente gli effetti prodotti dalle reti dell’economia mondiale. Verso l’esterno l’economia mondiale viene intesa come politica mondiale, ossia in funzione della potenza nazionale. Ben presto sorgono conflitti tra le potenze mondiali, che preannunciano un’epoca di de-globalizzazione economica e nello stesso tempo di crisi e di guerre mondiali. 1945-1975 = Dopo il 1945, si fa strada lo sforzo consapevole di costruire un ordine internazionale migliore secondo due modelli alternativi, in due blocchi di potere alternativi. Da un lato, quindi, nascono le strutture all’interno delle quali si è anche sviluppata la globalizzazione che noi conosciamo – in particolare attraverso la decolonizzazione, le multinazionali, la politica dello sviluppo, la società dei consumi, ecc. Dall’altro fa la sua comparsa un nuovo tipo di globalizzazione: il mondo come comunità di destino di fronte alla possibilità del suo annientamento nucleare e dinanzi al graduale affacciarsi sulla scena di problemi ambientali che superano i confini delle nazioni. CAP.1: LA SCOPERTA DELL’AMERICA LA CADUTA DELL’IMPERO BIZANTINO Il Mar Mediterraneo costituiva il centro per gli europei. Tale mare è un mare chiuso e sicuro, utile per gli scambi soprattutto orientali, che avvenivano via terra e via mare. Nel 1453 nasce l’impero ottomano mediante i turchi ottomani che attaccarono l’impero bizantino con capitale Costantinopoli. L’impero bizantino costituiva il vecchio impero romano d’Oriente, che prende il nome dalla sua capitale Bisanzio, divenuta successivamente Costantinopoli. L’impero bizantino agli inizi del XV secolo era in declino. Costantinopoli non era altro che «una città isolata, un cuore, rimasto miracolosamente vivo, di un corpo enorme, da lungo tempo cadavere» (Fernand Braudel). L’impero bizantino era, infatti, un impero senza vitalità destinato a cadere per vari motivi: Rivalità commerciale → l’allevamento del baco da seta in Italia e lo sviluppo, che ne derivò, dell’industria tessile, tolsero alla città anche l’antico monopolio di quel prodotto. Desiderio di ampliamento da parte dei turchi ottomani. Su questa città in rovina si abbatté un nemico potente: i turchi ottomani (dal nome Osman o Otman del fondatore del loro Stato), che avevano preso in Asia Minore il posto dei turchi selgiuchidi, la cui compagine era stata abbattuta dai mongoli. Nel 1453 il sultano turco Maometto II attaccò dalla terra e dal mare Costantinopoli, che cadde la mattina del 29 maggio. Gli abitanti furono massacrati. La chiesa di Santa Sofia fu trasformata in moschea. Costantinopoli fu ora chiamata anche Istanbul e divenne la base sulla quale gli ottomani costruirono la loro potenza marittima. Si consolidava l’Impero ottomano, destinato anch’esso a lunga vita: durò infatti dal 1453 al 1918. Con la conquista ottomana di Costantinopoli si determinò uno sbarramento alla penetrazione veneziana e genovese nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero. Maometto II non nascondeva il sogno di nuove conquiste nel Mediterraneo, come mostrava l’intraprendenza della sua flotta. Il Mediterraneo venne occupato quasi completamente dall’impero ottomano, portando così a definirlo come lago ottomano. Il limite dell’espansione ottomana era l’Italia. I turchi riuscirono a sbarcare in Puglia e occuparono la città di Otranto, massacrandone gli abitanti. Si trattava, però, di una conquista breve, in quanto la morte di Maometto II, avvenuta nel 1481, e la lotta di successione che si aprì alla corte ottomana alleggerirono la pressione sull’Italia. La morte del sultano diede avvio ad una lotta di successione tra i figli che portò l’esercito a rientrare per occuparsi di ciò, che aveva provocato una guerra civile. Con l’impero ottomano si rompe nel Mediterraneo l’unità religiosa: iniziano a convivere cristiani e musulmani. Questo provocò difficoltà nei commerci. Spagna e Portogallo, avendo difficoltà maggiori, decisero di trovare un’altra via commerciale per arrivare in Oriente. A seguito di tali difficoltà, i reali di Spagna finalizzarono la campagna di Colombo, il quale si basa su un assunto scientifico: la sfericità della terra. Cristoforo Colombo, il 12 ottobre 1492, sbarcando nella piccola isola di Guanahani, da lui ribattezzata San Salvador (nelle attuali Bahamas), Cristoforo Colombo immaginava di essere giunto in Asia. Dal 1492 al 1504 Colombo percosse la tratta per quattro volte per cercare di superare la barriera di isole e giungere in Cina, dove vi sono società avanzate, per ripristinare gli scambi con l’Oriente, interrotti per via degli ottomani. Pur modificando nelle quattro spedizioni la rotta non riuscì a trovare la Cina, ma trovò soltanto popolazioni autoctone, con usi e costumi più semplici rispetto gli europei. La quarta e ultima spedizione si conclude con un naufragio, che lo induce a tornare, ormai sconfitto, in Spagna. Gli storici si chiesero come mai un uomo moderno come Colombo (è moderno perché è a conoscenza della sfericità terrestre) possa non rendersi conto che la terra in cui è giunto non è l’Asia ma è un nuovo continente. La risposta è che per quanto possa essere moderno, Colombo appartiene a quell’epoca e non essendo un geografo o uno scienziato, non può immaginare di trovare altro. Colombo era a conoscenza soltanto di una nozione scientifico e spinto da questa e dall’ossessione degli spagnoli di ripristinare gli scambi con l’Oriente, partì. Colombo, dopo essere giunto nel nuovo continente, si trova dinanzi a popolazioni indigene, le quali mostrano di non essere mai stati civilizzate. Questo da agli spagnoli la possibilità di impadronirsene. Spagna e Portogallo, che sono i paesi più lontani dall’area orientale dello spazio mediterraneo e che già da tempo si sono mossi verso navigazioni atlantiche, trovano ragione per incrementare progetti di esplorazione geografica e commerciale, tutti proiettati a raggiungere – come è il caso, del resto, anche dell’impresa di Colombo – i mercati asiatici. Nel 1493 Papa Alessandro VI Borgia (spagnolo) con la bolla Inter coetera, riconosce ai sovrani spagnoli il diritto al possesso e al godimento delle terre che fossero state scoperte ed esplorate in loro nome, oltre le cento miglia di distanza a occidente delle isole Azzorre e di Capo Verde. Vincolava, però, questo riconoscimento alla evangelizzazione delle conquiste spagnole oltre l’Atlantico. Nel 1494 si ha la firma del trattato di Tordesillas, con cui Spagna e Portogallo stabilivano che tutto ciò che fosse stato scoperto e conquistato a occidente del meridiano che correva a 370 miglia a ovest delle Azzorre sarebbe stato possesso della Spagna, mentre al Portogallo sarebbe toccato tutto ciò che fosse stato scoperto e conquistato ad est di quella linea. I primi due soggetti a conquistare sono dunque Spagna e Portogallo, i quali utilizzarono due strategie diverse: 1. La Spagna si affida a Colombo, il quale si basa sulla conoscenza scientifica della sfericità terreste, navigando verso Occidente. 2. Il Portogallo decide di usare un’altra strategia: trattandosi di un paese atlantico e avendo scoperto l’Africa, decidono di circumnavigarla e risalire poi verso l’Oceano Indiano, consentendo di giungere in Asia. A differenza di quella spagnola, si trattava di una rotta perfettamente compatibile anche con l’ipotesi di una Terra non rotonda, ma piatta. Nel 1487, il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz era riuscito a superare il terribile capo Tempestoso (al quale in questa circostanza egli muta il nome in capo di Buona Speranza) all’estremità dell’Africa, aprendo, così, la prospettiva di un possibile raggiungimento delle coste dell’India. Nel 1497 Vasco da Gama raggiunge il capo di Buona Speranza lungo l’itinerario tracciato dieci anni prima da Bartolomeo Diaz. Lo supera e arriva in India. Nel 1500 Pedro Alvares Cabral, viaggiando anch’egli verso Calicut, si ritrova davanti alle coste di una terra che da lontano gli appare ricca di alberi che hanno un acceso color rosso, come le braci. La chiama, per questo Brasile. E, poiché si trova a meno di 370 miglia dalle Azzorre, quella terra appartiene al Portogallo. La presenza degli ottomani provoca conflitti nel Mediterraneo. A fronteggiarsi nei conflitti sono principalmente Spagna e Impero ottomano, i quali avevano confini vicini. Nessuna delle due potenze è abbastanza forte da sconfiggere l’altra definitivamente. Significativa è la vittoria di Lepanto in cui la flotta cristiana vince sugli ottomani. Tuttavia, questa battaglia non è definitiva: la vittoria di Lepanto, per gli storici, non costituisce una vera e propria vittoria per i cristiani sugli ottomani. Si crea una situazione di equilibrio tra le due potenze, le quali convivranno nel quadro moderno del Mediterraneo. Si parla, infatti, dopo la vittoria di Lepanto, di pace mediterranea poiché non si hanno più grandi conflitti. La pace si interrompe quando nel Mediterraneo giungono altre potenze, come la Francia. Non si può parlare ancora di globalizzazione perchè gli europei avevano ancora scoperto poche isole. Nel 1500 il fiorentino Amerigo Vespucci, al servizio della Corona del Portogallo, è incaricato dal sovrano portoghese di una spedizione che ha per obiettivo non tanto la ricerca di un passaggio verso Oriente tra quelle terre incognite, ma la vera e propria esplorazione di esse. Alla sua conclusione, Vespucci si dichiarava persuaso – lo scrive nella sua opera Mundus Novus (Mondo Nuovo) – di essere in presenza di un continente, di una «quarta parte» del mondo fino allora conosciuto e diviso in tre parti. E’ la terra di Amerigo, l’America, come questo mondo incognito viene finalmente descritto e chiamato. L’esistenza di una «quarta parte» del pianeta poneva problemi totalmente nuovi. Essa obbligava a guardare a quel continente come cosa a sé, non semplice intermediario dei mondi già conosciuti. Sollecitava, sul piano concreto, a stabilire con esso rapporti – di governo politico, di sfruttamento economico, di scambio commerciale – assolutamente diversi da quelli che si sarebbero dovuti immaginare con interlocutori «tradizionali» dell’Oriente asiatico o della stessa Africa. Si tratta di un passaggio fondamentale poiché gli europei si trovano a creare nuovi rapporti col il mondo nuovo e le loro popolazioni. Gli europei, infatti, si posero il problema su come rapportarsi a queste nuove popolazioni, le quali non erano a conoscenza di molte cose quali la religione cattolica. Nel frattempo, le esplorazioni del continente americano continuano: 1497-1498 = Due italiani, padre e figlio, Giovanni e Sebastiano Caboto, al servizio dell’Inghilterra portarono alla scoperta della baia di Hudson e delle coste del Labrador, nella parte più settentrionale dell’oceano Atlantico. 1524 = La navigazione del toscano Giovanni da Verrazzano al servizio del re di Francia consentì la quasi completa conoscenza delle coste dell’America settentrionale. 1513 = Lo spagnolo Vasco Núñez de Balboa si spinge fino all’altezza dell’istmo di Panama, fonda la città di Darién, si affaccia, stupito, sull’oceano che verrà chiamato, per l’apparente tranquillità delle acque, Pacifico. 1517 = Francisco de Montejo sbarca nella penisola messicana dello Yucatan e avvia la penetrazione nello spazio occupato un tempo dalla civiltà maya, del cui passato splendore essi, poco alla volta, incontrano – a Palenque, a Chichén Itzá – le straordinarie testimonianze architettoniche. 1519-1522 = Una flotta guidata da un navigatore portoghese, Ferdinando Magellano, al servizio, però della Spagna, parte da Siviglia con l’obiettivo di circumnavigare il globo. Un’impresa aspra, sospesa tra conoscenza e conquista, che costa la vita allo stesso Magellano e a circa il 90% dei suoi uomini. L’impresa si conclude con scarsi risultati pratici (nelle isole Filippine, che la Spagna rivendicherà come suo possesso, Magellano muore, appunto, ucciso dagli indigeni), ma con due straordinari risultati scientifici: la scoperta di un passaggio a sud del continente americano, nelle pericolosissime acque tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, e la definitiva certezza della sfericità della Terra. Dopo millenni in cui il continente americano era ignoto, in 30 anni fu scoperta buona parte della America e fu confermata la sfericità della Terra. La scoperta di un quarto continente pone la questione di doversi configurare con l’altro, cioè le popolazioni indigene autoctone. Si tratta di un rapporto che si configura nella dialettica dei conquistatori, cioè un rapporto conquistatori- conquistati. Gli spagnoli, infatti, non si limitano a penetrare nella nuova terra ma la conquistano: si hanno i cosiddetti conquistadores. I conquistadores sono uomini che progettano avventure nelle quali il desiderio di conquista, di appropriazione, si mescola in maniera sempre più evidente e sempre più prevalente con quello di conoscenza. La loro spinta di avventura è data da: 1. l’avidità di ricchezza → i conquistadores si volevano arricchire sulla base di leggende, come la leggenda della città di Eldorado, cioè città edificate in oro, simbolo di ricchezza per gli europei. 2. Desiderio di mutare la propria condizione di origine → un desiderio di ascesa sociale che si spiega in larga misura con la provenienza di questi uomini. Nessuno tra loro appartiene alla grande aristocrazia spagnola. Sono persone che nel migliore dei casi appartengono ad una piccola nobiltà priva di beni, raramente primogeniti, ma secondi e terzi figli di famiglie abbastanza numerose che non avrebbero mai potuto, o voluto, assicurare a loro condizioni di vita, non solo economica ma anche sociale, all’altezza delle loro aspirazioni. 3. Sentimento di essere stati investiti da una missione religiosa→ il papa aveva affidato loro il compito di evangelizzare nel continente. Si tratta di un retaggio derivante dal Medioevo, in cui i cavalieri, con la croce sul petto, combattevano gli infedeli. I conquistadores, infatti, si sentono eredi dei crociati, combattono difatti la stessa battaglia, cioè quella di portare il messaggio del Vangelo in terre in cui non era mai arrivato. Tuttavia, i conquistadores si accorgono che nel momento in cui si imponeva agli indigeni il crocifisso, questi non avevano alcun tipo di reazione poiché non ne conoscevano il simbolo. LA CONQUISTA DELL’IMPERO AZTECO L’America centrale e meridionale presentava popolazioni che vivevano in società rudimentali: si trattava dei cosiddetti ‘selvaggi’. Tuttavia, non vi erano solamente selvaggi ma anche popolazioni dalle società avanzate, quali l’impero azteco e l’impero inca. Tra il 1519 e il 1521 si ha la spedizione di Hernan Cortés verso l’interno del Messico alla conquista dell’impero azteco. Organizzazione dell’impero azteco: Le città erano divise in distretti amministrati da funzionari governativi. L’impero si basava sull’agricoltura, dove accanto alla proprietà privata, i contadini lavoravano in regime di proprietà collettiva. Il commercio vedeva la forma del baratto. Aveva una grande importanza e, di conseguenza, i pochteca (mercanti-viaggiatori) occupavano un posto rilevante nella gerarchia sociale. La capitale era Tenochtitlan, costruita tra il 1460 e il 1480, su alcune isole della laguna del lago di Texcoco (i conquistadores non esiteranno a paragonarla a Venezia), poteva considerarsi un’autentica metropoli, di circa 350.000 abitanti, ben ordinata nelle strade e nel suo impianto urbanistico, ricca di magnifici edifici pubblici e di imponenti luoghi sacri. I conquistadores si trovarono davanti costruzioni imponenti, le quali sembravano dimostrare le leggende di cui avevano sentito parlare. Cause che portarono alla conquista dell’impero: 1. Irriducibile ostilità delle popolazioni confinanti 2. Costante insofferenza delle popolazioni sottomesse ad un governo imperiale che Montezuma II rende più rigido ed esclusivo. 3. Divario tecnologico dal punto di vista militare 4. L’apparizione degli spagnoli non produce sin da subito ostilità in quanto la visione degli spagnoli, cioè uomini bianchi in sella al cavallo, fa rimbalzare alla mente degli aztechi credenze azteche, in quanto sembravano essere gli spagnoli figure mitologiche: cerdevano fossero gli dei tornati dall’oriente dopo la creazione del mondo. Gli spagnoli sfruttano tale equivoco e con inganno chiedono al sovrano Montezuma II di recarsi in Spagna per poi assassinarlo. Senza guida diviene facile conquistare la popolazione degli aztechi. Nel 1522 Carlo V nomina ufficialmente Cortés governatore di ciò che da quel momento assume il nome di Nuova Spagna. LA CONQUISTA DELL’IMPERO INCA Organizzazione dell’impero inca: La capitale Cuzco si trova nell’attuale Perù e si estende verso l’attuale Bolivia e si spinge poi a nord verso l’attuale Ecuador e a sud verso l’attuale Cile. Inoltre, presenta vicinanza con la catena montuosa delle Ande. La principale risorsa, in un ambiente fisico aspro come quello andino, è la coltivazione della terra. Le terre coltivabili vengono divise in tre parti, una per lo Stato, una per le necessità del culto religioso, la terza ripartita tra i contadini in ragione della consistenza del loro nucleo familiare. Normalmente i lavori agricoli venivano svolti in forma collettiva e i prodotti delle terre avanzati venivano ammassati in magazzini statali, che, lungo le vie di comunicazione, avrebbero dovuto assicurare la sussistenza degli eserciti, del corpo sacerdotale e, in caso di carestia, della popolazione locale. Le strade costituirono uno dei problemi cruciali e mai completamente risolti a causa della difficoltà del territorio e della rapida estensione dell’impero. Per quanto riguarda l’organizzazione politica e amministrativa, si ha una struttura fortemente accentrata al suo vertice, dove dominava la vecchia nobiltà incaica. Al di sotto di esso, era stata lasciata larga autonomia alle popolazioni sottomesse e alle loro classi di governo. La religione era legata al culto del Sole imposta a tutte le popolazioni conquistate. Conquista: Tra il 1531 e il 1534 Francisco Pizarro e Diego de Almagro sottomettono l’impero inca. Si sviluppa, però, una resistenza accanita agli spagnoli, attraverso una guerra di guerriglia, guidata dall’ultimo sovrano inca Tupac Amaru, al punto che fu solo nel 1572 che gli spagnoli poterono dire di avere sufficientemente assicurato il proprio potere sugli antichi domini incas, l’Ecuador e su larga parte del Perù. ALTRE SCOPERTE E CONQUISTE DA PARTE DEI CONQUISTADORES 1517 = Francisco de Montejo sbarca nella penisola messicana dello Yucatan e avvia la penetrazione nello spazio occupato un tempo dalla civiltà maya, del cui passato splendore essi, poco alla volta, incontrano le straordinarie testimonianze architettoniche. 1540-1554 = La spedizione di Pedro de Valdivia assicura il possesso della costa pacifica e del Cile nella sua parte settentrionale e centrale. 1541-1544 = Francisco de Orellana, partendo da Quito e seguendo il corso del fiume Neto, scopre, verso oriente, il Rio delle Amazzoni, che chiamerà così raccontando di donne guerriere che egli aveva incontrato nella sua spedizione. L’ORGANIZZAZIONE COLONIALE DEGLI SPAGNOLI Organizzazione economica: Dal punto di vista economico, l’unità di base è l’encomienda, cioè una concessione temporanea di diritti di signoria su terre e villaggi fatta dalla Corona spagnola a soggetti privati. Nella versione coloniale diventa un riconoscimento di signoria su un certo numero di indigeni che il destinatario della concessione poteva utilizzare per lavorare in comunità stabili. La Corona fu sempre molto attenta ad evitare che si trasformasse in una istituzione di tipo feudale. Come pure cercò di evitare, attraverso una normativa che rimase largamente inosservata, l’emergere di vere e proprie forme di schiavismo nelle condizioni di lavoro della popolazione indigena. Di fatto, tuttavia, si trattava di schiavismo anche se, secondo i rapporti giuridici, non si trattava di ciò. Gli indigeni lavoravano in haciendas, imprese produttive prevalentemente agricole, ma anche di allevamento e, soprattutto, di estrazione di minerali preziosi, in cui, anche se nell’impero spagnolo non si può mai parlare in senso stretto né di schiavitù né di lavoro servile, la sovrabbondante manodopera indigena fu caratterizzata dallo sfruttamento e dal lavoro forzato. Le produzioni giungevano in Spagna ed è proprio qui che venivano decisi i prezzi e le varie quantità da destinare nelle diverse categorie. Organizzazione amministrativa: Appare una derivazione del modello utilizzato nella madrepatria. L’impero coloniale è strutturato, al vertice, in due viceregni – quello della Nuova Spagna (Messico e territori vicini) e del Perù, mentre quello della Nuova Granada (Colombia, Ecuador e Venezuela) fu istituito solo nel 1717. Ai viceré spetta il controllo di ultima istanza, ma si tratta di un potere che la Corona guarda sempre con grande sospetto. Essi, dunque, rimanevano in carica solo per tre anni ed erano sottoposti alla visita ispettiva del visitador reale, incaricato di verificarne la condotta politica e amministrativa così come un’inchiesta sul loro operato era prevista alla fine del mandato. Gli encomenderos, i proprietari delle grandi aziende, che, puntualmente, per tutelare i propri interessi entrano in contrasto con le strutture pubbliche dell’amministrazione e che rimanevano stabilmente sul territorio, esercitavano il vero potere. Il carattere specifico della colonizzazione spagnola è l’urbanizzazione. Il controllo del territorio procede, cioè, attraverso la costruzione di nuovi centri abitati o nella valorizzazione di centri preesistenti. L’unità di base è il cabildo, cioè il consiglio cittadino retto da un alcalde. CONSEGUENZA DELLA SCOPERTA Wolfgang Reinhard (storico tedesco) disse «Il mondo come unità storica si realizza solo in seguito all’espansionismo europeo». Si deduce, dunque, che l’espansionismo europeo porta ad un’unità storica. Ecco come la globalizzazione tende a coincidere con l’europeizzazione. Da questo momento in poi si può parlare di un’unità storica. La scoperta dell’altro si rivela un problema per gli europei, i quali si devono interfacciare con nuove popolazioni, creando un rapporto conquistatore-conquistato. Tra le conseguenze troviamo: 1. Epidemie. La sola presenza fisica degli uomini provenienti dal Vecchio mondo, e il contatto con essi, provoca un trauma biologico dovuto all’introduzione di malattie anche relativamente innocue (come l’influenza, il morbillo), che, per gli indigeni, che non ne erano immunizzati, risultano fatali. Nel Messico gli abitanti si riducono, nell’arco del Cinquecento, da 25 milioni a poco più di un milione. Nell’intero continente, la popolazione, stimata all’inizio del secolo XVI in 40 milioni, non supera i 10 milioni alla fine di esso. 2. Condotta dei conquistatori. Non sono soltanto le violenze, ma anche e soprattutto il totale stravolgimento dei precedenti rapporti economici, sociali, ambientali che essi impongono nella successiva fase di organizzazione delle conquiste. Lo sfruttamento intensivo, spietato, della forza-lavoro, lo spostamento di popolazioni dai loro territori di origine, la disarticolazione dei sistemi produttivi e dei legami sociali precedenti, la distruzione delle reti quotidiane di comportamenti, di abitudini, di credenze, sono le cause determinanti di una riduzione, fino alla scomparsa, delle popolazioni indigene nell’arco di poco più di un secolo. 3. Le novità. Nuova e sconosciuta è la vegetazione, le specie animali, le produzioni agricole che giungono alla loro reciproca esperienza. Gli spagnoli scoprono la patata, il mais, il pomodoro, mentre, all’opposto, giungono nel Nuovo mondo il caffè, la canna da zucchero. Il cavallo sorprende i nativi, come il lama e le singolari specie di uccelli o di rettili sorprendono gli spagnoli. E mentre l’Europa si riempie di nuove specie alimentari, in America si assiste ad una massiccia importazione di animali di uso domestico (ovini, bovini). Tuttavia, la conquista non produce un riconoscimento reciproco, ma esattamente il contrario: la negazione, da parte del vincitore, di una uguale condizione umana del vinto. Bartolomé de Las Casas, uno dei protagonisti della conquista, che, rientrato in Spagna, si fa frate domenicano e pubblica una sconvolgente Relazione della distruzione delle Indie, in cui racconta le brutalità e le violenze che si accompagnano alla conquista. In quel periodo, gli europei si chiedevano: ‘Se Dio ha creato il mondo e gli uomini, possono essere considerati gli indigeni parte dell’umanità se non lo conoscono?’. Per spiegare la natura originaria di quelle popolazioni, Las Casas afferma un principio di straordinaria importanza, che ritroveremo spesso nello sviluppo della modernità. Si tratta il principio della religione naturale: agli esseri che egli ha creato – spiega – Dio ha conferito attitudini e diritti che li rendono uguali a tutti gli esseri umani anche prima, e anche in assenza, della rivelazione della sua parola. La religione naturale impone, insomma, il rispetto di ogni uomo come creatura divina, senza preoccuparsi se egli appartenga ad una religione rivelata, qualunque essa sia, anche il cristianesimo. È proprio su questo principio che si baserà la tolleranza. Cap. 2: LA SCOPERTA DELL’ASIA LA SPEDIZIONE DI VASCO DA GAMA Il 20 (o forse il 27) maggio 1498, il navigatore portoghese Vasco da Gama, dopo aver doppiato il capo di Buona Speranza, giunge nel porto di Calicut, città dell’India sulla costa del Malabar. E’ stata una navigazione lunga e in molti tratti difficoltosa. Partito da Lisbona il 7 luglio 1497 (dieci mesi prima, dunque) con una flotta di quattro navi e circa 170 uomini complessivi di equipaggio, da Gama effettua, tra l’andata e il ritorno, una traversata oceanica più lunga di tutte quelle che si erano sperimentate fino ad allora, superiore anche ad un giro intero dell’equatore. Vasco da Gama segue sostanzialmente la rotta tracciata dalle esplorazioni portoghesi del Trecento e del Quattrocento giungendo, in pieno dicembre, fin dove – il capo di Buona Speranza, all’estremo sud del continente africano – si era fermata, dieci anni prima, nel 1487, l’impresa di un altro illustre portoghese, Bartolomeo Diaz. Vasco da Gama naviga, risalendo la costa africana, in uno spazio praticamente sconosciuto agli europei, ma saldamente presidiato dai mercanti arabi che da secoli vi avevano posto le basi di un commercio triangolare con la penisola arabica e il subcontinente indiano: Mombasa, sulla costa dell’attuale Kenya, dove assume un navigatore indiano esperto dei monsoni, poi l’isola di Mozambico, poi Malindi. Dopo aver lasciato Malindi il 24 aprile 1498, in un mese Vasco da Gama arriva in India. L’impresa di Vasco da Gama ha tracciato la vera rotta che consente di raggiungere i mercati dell’Oriente, superando la barriera posta dal dominio ottomano sul Levante mediterraneo e provando a sostituirsi a quel monopolio del commercio che al Mediterraneo arrivava dal mar Rosso e dall’oceano Indiano controllato da esperti mercanti arabi. L’obiettivo di Vasco da Gama era quello di ripristinare i commerci superando la questione dell’impero ottomano. Il problema, tuttavia, era quello di stabilire legami commerciali con il sovrano di Calicut. All’inizio Vasco da Gama viene ricevuto con gentilezza e persino con benevola curiosità dallo zamorìn, il sovrano di una dinastia Hindi che governava dalla metà del secolo XII una vasta area della costa del Malabar intorno alla città di Calicut (l’attuale città di Kozhikode), centro principale dei traffici commerciali dell’India meridionale. Gli incontri con il sovrano tardano, tuttavia, a dare i risultati sperati. Infatti, Vasco da Gama voleva ricevere agevolazioni di dogana, tuttavia, il sovrano di Calicut dichiarò che il Portogallo dovesse pagare come tutti gli altri. Da un punto di vista politico e commerciale la sua spedizione non ha raggiunto alcun risultato. Al suo ritorno a Lisbona, da Gama è accolto, tuttavia, come un trionfatore. Vasco da Gama non riuscì a creare relazioni commerciali, in quanto queste erano più difficili da costruire rispetto all’America, in quanto si trattava di rapporti già esistenti, con popolazioni civilizzate e dunque, non si poteva usare la stessa strategia adottata con gli americani. Nel 1501, il Portogallo invia due nuove armate in Asia a Calcut: la prima al comando di Pedro Álvares Cabral e la seconda dello stesso Vasco da Gama, con l’esplicito compito di raggiungere un trattato commerciale con il sovrano di Calicut. All’arrivo della flotta di Cabral scoppia una rivolta, guidata probabilmente dalle corporazioni mercantili della città, e vengono uccisi una settantina di marinai portoghesi. In risposta Cabral bombarda Calicut dal mare, mentre si avvicina l’armata di Vasco da Gama. Di fronte al rifiuto dello zamorìn di espellere i mercanti musulmani dalla città egli riprende, per due giorni, il bombardamento e sconfigge poi una flotta che il sovrano di Calicut aveva allestito in tutta fretta. Si assicura, poi, un accordo con due città concorrenti, Cochin e Cannanore, dove vengono stabiliti due empori mercantili portoghesi. Cabral rientra in patria, lasciando una flotta di undici caravelle a controllare le coste, senza aver formalmente ottenuto la firma dell’accordo con lo zamorìn, ma avendo imposto la sua supremazia militare. I portoghesi comprendono che con la superiorità marittima si può avere il potere. Il primo elemento della colonizzazione portoghese è dato dalla supremazia in mare. L’ESPANSIONE PORTOGHESE E LA RIVOLUZIONE MERCANTILE La penetrazione portoghese sulle coste dell’India meridionale prosegue a ritmi accelerati. Nel 1505 si ha la nomina di Francisco de Almeida quale primo governatore dell’India portoghese. Gli succederà presto Alfonso de Albuquerque, uno tra i più celebri navigatori dell’epoca. Alburquerque stia un programma di colonizzazione, che si presenta totalmente diversa da quella praticata, anche dagli stessi portoghesi, nel continente americano. Albuquerque esclude, infatti, ogni prospettiva di conquista territoriale, in quanto il Portogallo è un paese piccolo. La penetrazione in quella realtà può avvenire, piuttosto, attraverso la creazione di basi commerciali strategicamente rilevanti che non prevedano una successiva espansione nel territorio circostante. Inoltre, si doveva avere un mantenimento, per un verso, di buoni rapporti con i sovrani che governano quei territori, acquisendo la loro fiducia o inserendosi con prudenza e intelligenza nelle loro rivalità, e, dall’altro, non rinunciare ad un eventuale uso delle armi ove se ne manifestasse la necessità. È necessario creare basi navali ben difese e mantenimento di una flotta di controllo. Con questa strategia, si può avere l’affermazione, anche grazie alla forza militare, del monopolio portoghese sul commercio delle spezie. Nell’arco di meno di venti anni si costruisce l’Estado de India, l’impero portoghese in Asia, affidato in buona parte alla fondazione, con l’accordo dei sovrani locali, di empori mercantili fortificati, le feitorias, lungo le coste dell’India, Ceylon, Giava e Sumatra, ma anche con la conquista di vere e proprie città piazzeforti. 1509 = Primo tentativo di impadronirsi di Diu, in posizione strategica, sulla costa del Gujarat, per il commercio con la penisola arabica. 1510 = Conquista di Goa, anch’essa importante centro di traffici sulla costa indiana affacciata sul mare Arabico, che divenne la capitale dell’Estado. 1511 = Conquista di Malacca, all’estremità della penisola malese e affacciata sullo stretto che la divide dall’isola di Sumatra; poi le Molucche, anch’esse collocate, non lontane da Sumatra e dall’arcipelago dell’Indonesia, su quella «via delle spezie» individuata da Albuquerque come la rotta principale dell’espansione e dell’arricchimento portoghese. 1517 = Punto di arrivo di questo processo è l’arrivo di una flotta di otto navi portoghesi proveniente dalle Molucche, la prima flotta europea, nel porto cinese di Canton. E’ la prima volta che ci si è spinti così lontano, incontrandosi, e scontrandosi, con il potente impero cinese. 1557 = Fondazione della città di Macao, alla estremità dell’estuario del fiume delle Perle sul mar Cinese meridionale. Con la fondazione di Macao, l’impero portoghese raggiunge l’espansione massima. Tuttavia il Portogallo è grande solo per quanto riguarda l’espansione ma la somma dei km² è piccolo come impero e piccolo anche come numero di abitanti. Si può, a buona ragione, parlare a questo punto di una rivoluzione mercantile globale, in quanto avevano creato un tracciato marittimo lungo la via delle spezie per trasportarle in Portogallo. Il sistema di commercio assumeva una dimensione mondiale senza per questo trascurare, anzi integrandolo, quel commercio locale, interasiatico, che fino a quel momento, dal golfo Persico alle Molucche, era stato gestito dagli arabi anche come effetto della loro espansione politica in quell’area. L’obiettivo del Portogallo è solo il monopolio della via delle spezie e non quello di avviare una colonizzazione come quella spagnola in America. Il monopolio delle spezie era gestito direttamente dalla Corona portoghese, e solo in misura minore era prevista la concessione di una licenza (cartaz) a mercanti privati. A Lisbona, la Casa da India era il luogo in cui le merci affluivano e i traffici venivano regolati. In una prima fase, fino alla metà del Cinquecento, la massima parte di queste spezie venivano inviate ad Anversa, il principale mercato europeo, dove venivano vendute e raggiungevano le più diverse città del continente. Nel 1510 a Lisbona il pepe si vende a 20 ducati per 100 libbre, al Cairo a 192 ducati. In pochi anni il monopolio portoghese ha distrutto la concorrenza e ha imposto Lisbona come la piazza europea per il commercio delle spezie. Gli Stati danneggiati provano, quindi, a contrastare l’egemonia economica del Portogallo anche con alleanze insolite. Successivamente, Lisbona si affermò direttamente come piazza di compravendita, almeno fino al momento in cui anche il controllo quasi assoluto dei portoghesi sul commercio con l’Asia non cominciò rapidamente a declinare. Ben presto, però, emersero i limiti del Portogallo, che portarono al suo declino: 1) Dimensione del Portogallo 2) Knock out (=sapere) tecnologico 3) 10 mesi di navigazione con le caravelle, che portavano ad ogni spedizione alla perdita del 15% delle navi e del 20% degli uomini e per un paese piccolo come il Portogallo tali perdite sono rilevanti. Per questi e altri motivi, i portoghesi rischiano di essere subclassati da altre potenze, quali Olanda e Inghilterra. LA CONCORRENZA EUROPEA Il Portogallo dal1503 deve però combattere per mantenere il suo monopolio. Si crea, infatti, l’alleanza tra Venezia e il pascià d’Egitto (le principali vittime della supremazia portoghese), sostenuti dai mercanti locali del Gujarat colpiti anch’essi nei loro traffici. I portoghesi, invece, erano sostenuti da banchieri e non solo che avevano investito nelle spedizioni. La guerra si risolve, tuttavia, in un completo insuccesso e porta, come si è detto, alla conquista di Diu da parte del Portogallo. Da un punto di vista del sostegno economico, la buona riuscita dell’impresa portoghese aveva visto impegnati mercanti fiorentini, genovesi, lombardi, ma anche tedeschi e fiamminghi. Questi sostengono l’espansione portoghese in Asia in una chiave che è, nello stesso tempo, antiveneziana e antiottomana. L’Asia vede anche la presenza spagnola. La presenza spagnola rimane assai circoscritta. Essa si concentra sulle Filippine, assai più a oriente, lungo una rotta che parte direttamente dai porti messicani del Pacifico come Acapulco. La prima spedizione è del 1542, ma la svolta si ha solo nel 1571 con la conquista di Manila dopo un lungo confronto-scontro con la popolazione islamizzata delle isole meridionali, i moro. Ma perché conquistare le Filippine? Le isole delle Filippine non erano ricche di spezie né tanto meno di metalli preziosi. Il loro interesse si ridusse a farne base di transito nel commercio del Pacifico e punto di partenza per vagheggiate ipotesi di conquista della Cina o di espansione nella penisola indocinese (come accadde nel 1596 e nel 1598). Inoltre, le Filippine vengono utilizzate come colonia di conquista e di popolamento. L’organizzazione interna delle Filippine = ricalca il modello della Spagna imperiale in America. Lo sfruttamento agricolo del territorio viene affidato anche qui alla formula della encomienda, con la conseguenza di uno sfruttamento intensivo, spesso brutale, della manodopera contadina locale – sottoposta ovviamente ad una martellante azione di conversione al cattolicesimo – e della formazione di una grande proprietà latifondista in grande misura nelle mani degli ordini religiosi. La Spagna riuscirà ad avere un impero in Asia solo quando si avrà l’unione delle due monarchie di Spagna e Portogallo, con Filippo II. IL COMMERCIO OLANDESE E INGLESE Il Portogallo per mantenere il suo monopolio deve affrontare due nuove potenze, che non erano presenti nella spartizione Spagna-Portogallo: Olanda e Inghilterra. L’Olanda è un piccolo Stato, sia dal punto di vista geografico che demografico. L’Olanda era un possedimento spagnolo che riesce nel 500 ad ottenere l’indipendenza, a seguito di rivolte da parte dei protestanti olandesi che non accettarono la riforma della religione cattolica. L’Olanda utilizzò la stessa strategia di conquista del Portogallo. Infatti, trattandosi di uno stato piccolo avevano una scarsa propensione alla conquista territoriale. Si indirizzarono maggiormente nella creazione di una fitta rete di basi mercantili d’intesa con i commercianti locali. Ma cosa avevano in più Olanda e Inghilterra rispetto al Portogallo? Olanda e Portogallo utilizzarono una diversa strategia commerciale. Infatti, queste non utilizzarono il monopolio statale sui commerci. Nasce, dunque, la compagnia olandese delle Indie Orientali, cioè uno strumento associativo in cui si univano gli interessi privati, cioè le forze disperse degli imprenditori e dei finanzieri da un lato, e gli interessi statali. Lo Stato dà garanzie, infatti, cede il monopolio alla compagnia delle indie orientali. Si va a creare uno stato nello stato, in quanto la compagnia godeva di molti diritti, quali quello di dichiarare guerra a Paesi terzi e trattare propri trattati. L’Olanda si concentrò sull’Indonesia, non occupando le stesse basi portoghesi, ma gestendo il commercio interasiatico e non quello europeo. Modalità simili si hanno con l’Inghilterra. Nasce a Londra la Governor and Company of Merchants of London Trading into the East che, già dal nome, - Governo e comunità dei mercanti di Londra – fa capire come fosse ispirata dallo stesso meccanismo di quella che nasce in Olanda: l’incontro fra interessi politici dello Stato inglese e gli interessi economici dei suoi uomini d’affari. Partono le spedizioni inglese e così facendo in Asia iniziano ad esserci tre potenze: Portogallo, Olanda e Inghilterra. Le tre potenze, inizialmente, potevano convivere in quanto si focalizzarono su zone differenti dell’Asia. Nel 700 l’Inghilterra inizierà ad avere colonie di conquista e si ebbe la conquista dell’India, definita la perla inglese. Cap.3: LA NASCITA DELLO SPAZIO ATLANTICO Lo spazio atlantico può essere definito come il «Mediterraneo dell’età moderna», un mare, cioè, la cui vita è scandita dai rapporti che si stabiliscono tra le terre che vi si affacciano. Il Mediterraneo, nella visione eurocentrica, costituiva il centro in quanto collegava i tre continenti noti. Platone definiva gli europei come formiche attorno ad uno stagno, cioè il Mediterraneo. Con le nuove scoperte, il Mediterraneo inizia ad avere una posizione periferica, non avendo più tanta rilevanza nelle relazioni economiche e sociali. Come il Mediterraneo, che era stato il centro di gravitazione del mondo classico, si avvia a cambiare il proprio ruolo e la propria fisionomia e a diventare, per alcuni aspetti, periferia del nuovo sistema-mondo dell’età moderna, così l’Atlantico cessa di essere l’oceano misterioso e pericoloso e diventa lo spazio di attraversamento, il centro di un incessante scambio che è soprattutto economico – ma non è solo economico – tra il Vecchio e il Nuovo mondo. Un’altra differenza tra Atlantico e Mediterraneo attiene alle relazioni che si hanno difficoltà nell’avere nel nuovo mondo. Gli europei vivono con due concetti: egemonia ed equilibrio. Le potenze europee riescono a mettere in atto l’egemonia solo nel nuovo mondo, mentre in Europa si avrà l’equilibrio. La storia dell’Atlantico come «mare tra le terre» appare chiaramente divisa in due parti: 1. La prima, corrispondente alla seconda metà del Cinquecento, vede l’egemonia spagnola mantenersi pressoché intatta, con una evidente prevalenza dell’area centro-meridionale del mondo atlantico. 2. La seconda, che comprende la prima metà del Seicento, è l’area centro-settentrionale a diventare molto più dinamica e in essa si costruiscono le fortune di nuovi soggetti: l’Inghilterra per prima, l’Olanda e, successivamente, la Francia. Ci troviamo nell’epoca dell’«uomo raro». Si calcola che ancora negli anni Venti del Seicento la presenza di europei in entrambe le Americhe non superasse la cifra di 125 mila. Il rapporto uomo- territorio è, dunque, ancora squilibrato e non consente in quest’epoca, che non conosce ancora un intenso traffico e sfruttamento schiavistico, l’applicazione ad attività che richiedono un notevole impiego di manodopera. Sono, infatti, pochi gli europei che vivono nel continente americano: la densità demografica è bassa. La schiavitù, con la tratta degli schiavi, provocherà l’aumento della popolazione in America. Un altro importante passaggio è quello che i navigatori europei si accorgono della presenza di un elemento costante: i venti, cioè gli alisei. Gli alisei sono costanti in una fase dell’anno in direzione nord-est/sud-ovest, in un’altra fase in direzione sud-est/nord-ovest. Lo scambio commerciale si sviluppa, nel corso dell’anno, secondo un ritmo rigorosamente alternato: in un periodo nella direzione Europa-America, nell’altro in direzione opposta. COMMERICO ATLANTICO Tuttavia, si rileva un’estrema complessità del commercio atlantico che – tra organizzazione delle merci dai luoghi di produzione ai porti, imbarco, navigazione in epoche precise, sbarco – richiede un tempo che si misura spesso in anni. Bisogna, quindi, scegliere merci particolarmente preziose (oro e argento), il cui valore sul mercato di arrivo compensi la complessità e il costo dell’operazione mercantile. La ricerca dell’oro, frenetica nella prima fase della conquista, non durò a lungo. Inizialmente, la grande quantità di oro che si ha è frutto di razzia. Finita la quantità iniziale di oro se ne si trova sempre meno. Al di là delle leggende che circolavano sia tra gli indigeni sia tra gli europei, si capisce che l’oro è assai più raro di quanto si sperasse, in quanto non vi erano giacimenti. Il caso dell’argento è diverso. I giacimenti di argento sono sfruttati intensamente per tutto l’arco del XVI secolo. Rilevanti sono anche le produzioni agricole, in cui avevano un ruolo importante, in particolare il tabacco e il cotone. Nel Brasile portoghese prima e poi spagnolo a partire dal 1580 (e fino al 1640) si era andata affermando la coltura della canna da zucchero che attiva anche un’industria locale della molitura. Nella pianura della Plata argentina i primi allevamenti di bovini cominciano a fornire con una certa regolarità carne secca e pellame. Siamo, tuttavia, in un’epoca che precede ancora l’utilizzazione del lavoro schiavistico e, dunque, quantità e valori di queste merci, per quanto rilevanti e in crescita, rimangono sempre assai lontane dalle quantità e soprattutto dai valori del commercio dell’oro e dell’argento. CARRERA DE INDIAS Le merci, una volta imbarcate, seguivano la cosiddetta Carrera de Indias. Già nel 1526 il governo spagnolo dispone che tutte le navi che dovevano attraversare l’Atlantico avrebbero dovuto radunarsi all’altezza dell’isola di Hispaniola (l’attuale Haiti) e da lì partire insieme per raggiungere Siviglia, dove la Casa de contratación avrebbe provveduto a reindirizzare, sotto l’amministrazione della Corona, le merci sulle piazze europee. Si trattava di misure organizzative che miravano non solo a mantenere sotto il controllo dello Stato tutto il sistema dello scambio atlantico, ma anche a realizzare forme di sicurezza contro le sempre più frequenti incursioni della pirateria, soprattutto inglese e olandese. Nel 1561 la real cédula stabilisce, definitivamente, il funzionamento della carrera. Venivano create due flotte mercantili che partivano da Siviglia, l’una tra aprile e maggio in direzione di Veracruz (Flota de Nueva España) e l’altra (sempre in ragione degli alisei) ad agosto in direzione di Porto Bello, a Panama (Flota de Tierra Firme). Le due flotte passavano entrambe l’inverno in America e in marzo si ritrovavano all’Avana (Cuba) da dove ripartivano con il loro carico (soprattutto di argento) scortate dai galeoni armati della Flota de Guerra. Le navi mercantili erano normalmente dei galeoni, vascelli di forma rotonda tra le 200 e le 300 tonnellate. Più grandi si presentavano i galeoni di guerra, dalle 600 alle 800 tonnellate, e armati di una ventina di cannoni. La loro costruzione era affidata esclusivamente a manodopera spagnola, così come gli equipaggi erano composti solo da spagnoli. Il commercio atlantico era, insomma, un affare di Stato. Il monopolio imposto e protetto sul traffico tra le due parti dell’impero ha notevolmente avvantaggiato, almeno in una prima fase, la Spagna. Tuttavia, vi erano anche svantaggi. Con il tempo, i costi dell’organizzazione e della difesa di questo sistema – protezione armata, strutture amministrative, intermediazione finanziaria – cominciano ad essere davvero pesanti, poco remunerative. Appare soprattutto evidente, dopo la crescita iniziale, che in assenza di uno sviluppo di attività produttive nella madrepatria, il commercio spagnolo si traduceva in un arricchimento di quei paesi europei dove venivano fabbricati i prodotti che, imbarcati sulle flotte iberiche, raggiungevano i mercati al di là dell’Atlantico. L’argento, e in parte l’oro, che arrivavano a Siviglia o servivano a finanziare le numerose guerre combattute dalla Spagna o andavano a pagare le merci prodotte altrove. Le flotte commerciali venivano accompagnate da una flotta militare per essere difese dai corsari. LA GUERRA DI CORSA Il logoramento del monopolio commerciale iberico si spiega, oltre che con ragioni interne, anche con ragioni che derivano dal contesto internazionale. Nel 1521, nel tratto fra le Azzorre e la Spagna si era verificato un episodio clamoroso. Il corsaro francese di origine italiana Jean Fleury (o Juan Florín come viene chiamato in castigliano) si era impadronito di due delle tre navi spagnole sulle quali Cortés aveva imbarcato il «tesoro di Montezuma»: 58 mila, a quanto si racconta, verghe d’oro, frutto della conquista spagnola del Messico. Fleury, che in passato era stato arruolato nella marina francese, agiva grazie alle patenti di corsa (da qui il termine «corsaro» e ‘guerra di corsa’). La lettera o patente di corsa era un’autorizzazione formale rilasciata da un governo ad un privato a impadronirsi di navi mercantili e dei beni in esse contenuti che appartenessero a potenze con le quali si era in situazione di guerra o più generalmente di ostilità (si era nel pieno del conflitto tra Francia e Spagna per il predominio in Italia). Si trattava di uno strumento che aveva avuto una larga utilizzazione nello spazio mediterraneo già nei secoli precedenti e che, a partire dal Cinquecento, diventa una delle modalità più diffuse attraverso le quali le grandi potenze, già in lotta tra di loro in Europa, trasferiscono il loro conflitto ai nuovi spazi aperti dalle esplorazioni di età moderna, a cominciare dallo spazio atlantico. I primi corsari erano francesi e inglesi. La pirateria inglese diventa, a partire dal regno di Elisabetta I, la protagonista di una guerra sui mari che non tarda poi a rivelarsi un conflitto aperto tra Inghilterra e Spagna. Elisabetta comprende che la guerra di corsa può risultare assai utile a una nazione, l’Inghilterra, che sta cercando di guadagnarsi un ruolo di primo piano nello spazio globale della modernità. Francis Drake è il protagonista di questa guerra. A lui si deve, tra il 1577 e il 1580, la seconda navigazione del globo, dopo quella di Magellano. Questa circumnavigazione è segno di come l’Inghilterra abbia raggiunto la potenza spagnola. Drake ha ventitré anni quando compie il suo primo viaggio nel Nuovo mondo e da quel momento comincia una vita che in parte è quella del commerciante (anche di schiavi), in parte del vero e proprio corsaro, in parte anche dell’esploratore e dell’uomo politico. Questa guerra non tarda ad allargare il suo teatro e a trasformarsi in guerra aperta. LA GUERRA TRA SPAGNA E INGHILTERRA Il quadro generale nel quale si sviluppa, nella seconda metà del Cinquecento, la guerra tra la Spagna e l’Inghilterra è assai vasto. Tocca aspetti di carattere politico, dinastico, religioso, economico. Abbraccia lo spazio europeo e, al tempo stesso, lo spazio atlantico e, quando nel 1580 il Portogallo è unito alla Spagna, anche lo spazio asiatico. Si tratta di una guerra strisciante, cioè non dichiarata tra Spagna e Inghilterra. Il carattere dinastico vede gli scontri tra Elisabetta I e Mary Stuart, che era di religione cattolica. Gli spagnoli spingevano verso Mary Stuart per restaurare la religione cattolica. Filippo II favorisce ogni tentativo di ritorno dell’Inghilterra al cattolicesimo e ogni complotto politico che abbia come obiettivo quello di portare sul trono Mary Stuart. Questo, dalla parte opposta, spinge Elisabetta I a una politica di controllo e di repressione dei cattolici inglesi, imprigionati e mandati spesso a morte con giudizi sommari. La repressione provoca l’aperta ribellione della cattolicissima Irlanda, sostenuta, ovviamente, dal denaro e dalle armi della Spagna. Questo quadro, all’apparenza sostanzialmente europeo, si dilata e rivela il suo carattere di primo, grande scontro «globale» dell’età moderna. Francis Drake è il protagonista di una vittoriosa spedizione su Cadice, uno dei principali porti atlantici della Spagna, dove è ancorata la flotta da guerra imperiale. Nell’arco di trentasei ore, con una straordinaria capacità di manovra marinaresca nella stretta imboccatura del porto della città, la flotta di Drake distrugge una trentina di navi da guerra spagnole. La Spagna armò una flotta enorme, chiamata Invincibile Armata, composta di 130 navi per 77 mila tonnellate di stazza complessiva, sulle quali erano imbarcate 60 mila soldati e 30 mila marinai. L’obiettivo era quello di invadere l’Inghilterra per piegare la potenza inglese e riportare in Inghilterra il cattolicesimo. Il combattimento prevedeva l’accostamento delle navi sotto il nome di Invincibile Armata e poi l’abbordaggio sfruttando il gran numero di soldati che le grandi, ma pesanti galee spagnole erano state in grado di trasportare. Il piano contemplava poi un secondo fronte di scontro, rappresentato da una flotta proveniente dai Paesi Bassi che, al comando di Alessandro Farnese, avrebbe dovuto fornire un ulteriore appoggio di soldati. Le navi di Drake, assai più leggere e manovrabili delle grandi galee spagnole e provviste, soprattutto, di una eccellente artiglieria, riuscirono a impedire a quelle spagnole di accostarsi e, dunque, di abbordare, colpendole a distanza e infliggendo loro molti danni. Solo la metà delle navi e un terzo degli uomini della Invincibile Armata fece ritorno in Spagna. Con la rovina della Invincibile Armata il disegno imperiale spagnolo subisce una sconfitta assai significativa. La superiorità della marina inglese, la maggiore capacità dei suoi comandanti e dei suoi equipaggi non permettono più di immaginare lo spazio atlantico come uno spazio occupato quasi per intero dal monopolio commerciale spagnolo. Filippo II prova in seguito ad armare una nuova potente flotta (un centinaio di navi) per sostenere la ribellione dei cattolici irlandesi. Con la morte di Filippo II e con quella di Elisabetta vengono meno i due grandi protagonisti di uno scontro di potenze che aveva occupato nello spazio atlantico tutta la seconda metà del Cinquecento. Comincia a delinearsi l’esistenza di un «doppio Atlantico», una duplice articolazione di quel mare, che nella sua parte meridionale conserva le caratteristiche assunte un secolo prima e vive nella cornice dell’impero spagnolo, mentre nella sua parte settentrionale è teatro di un progressivo processo di acquisizione territoriale e di sviluppo di regolari rapporti mercantili da parte di attori europei diversi: l’Inghilterra, la Francia e l’Olanda. LA PRIMA COLONIZZAZIONE DELL’AMERICA SETTENTRIONALE Col XVI secolo si assiste ad un interesse della Francia e dell’Inghilterra per l’America settentrionale. A muoversi per primi furono i francesi. Incaricato dal re Francesco I, il bretone Jacques Cartier intraprende un viaggio alla ricerca di favoleggiate ricchezze. Superata l’isola di Terranova, egli raggiunse la costa meridionale del Labrador e si inoltrò in un vasto golfo che immaginò essere un passaggio navigabile verso la Cina. Nel suo secondo viaggio Cartier capì di essere finito in un grande golfo, battezzato di San Lorenzo, nel quale si versavano le acque di un fiume molto vasto a cui fu dato lo stesso nome. Risalendo il fiume, Cartier arrivò a individuare la vasta regione del Québec, di cui egli è, dunque, considerato lo scopritore. L’incontro con gli indigeni nel terzo viaggio rese presto chiaro che non si trattava di terre cariche di tesori e metalli preziosi. L’idea di Cartier fu allora quella di farne una colonia di popolamento, sfruttando l’interesse per la pesca e per il commercio del pesce che i bretoni cominciavano a manifestare per le coste di Terranova. Lo sviluppo di Québec proseguì costante. Nel 1635 contava 200 abitanti, che erano diventati 2.500 nel 1663. Nel frattempo erano sorte le città di Trois-Rivières e di Ville-Marie (l’attuale Montréal) e nel 1635 era stato istituito a Québec un collegio gesuita. Gli inglesi avevano cominciato a esplorare le coste americane già nel primo Cinquecento. Walter Raleigh, durante la sua ultima spedizione, prova a fondare la prima colonia sulle coste di quella terra che, in onore della regina Elisabetta sua grande protettrice, chiama con il nome di Virginia. Re Giacomo I Stuart concede una parte meridionale della Virginia a Lord Baltimore, che, con duecento immigrati, inizia la colonizzazione. Baltimore era cattolico e in onore della regina Maria diede alle sue terre il nome di Maryland. Il ruolo fondamentale nella prima emigrazione inglese fu svolto da coloni puritani. Il puritanesimo è una confessione nata all’interno dell’anglicanesimo, ma fortemente influenzata dalle rigorose dottrine del calvinismo. I puritani lottano, quindi, contro la costruzione di una Chiesa nazionale della quale il sovrano sia il capo, volendole sostituire una organizzazione ecclesiale che sia espressione diretta dei fedeli, fondata su assemblee ecclesiali diffuse sul territorio e rette da consigli di anziani, secondo, appunto, il modello svizzero di Calvino. Naturalmente questa impronta più «democratica» favoriva la diffusione del puritanesimo nelle classi sociali più povere. 16 settembre 1620 = Un centinaio di fedeli puritani, donne e uomini, chiamati poi Pilgrim Fathers, i Padri Pellegrini, si imbarcano a bordo di un vascello della Compagnia della Virginia, il Mayflower. L’11 novembre, due mesi dopo, essi arrivano sulle coste del Massachussets e qui il 25 dicembre fondano la città di Plymouth. E’ il secondo insediamento inglese in America, dopo la Virginia. Ma per le sue caratteristiche, per l’esito di una decisione fatta in nome della libertà religiosa e del diritto di ogni uomo a trovare un luogo dove sentirsi libero di esprimere la propria fede e le proprie idee, esso viene considerato il nucleo originario del processo di colonizzazione che porterà un secolo e mezzo più tardi alla nascita degli Stati Uniti d’America. L’America settentrionale diventò una meta di popolazione europea che si trasferiva non per desiderio di conquista e di avventura, non per impiantarvi relazioni commerciali, ma per restarvi e abitarla. IL MODELLO OLANDESE La colonizzazione olandese si presenta alquanto diversa. All’inizio essa sembra non differire molto e più o meno analoghe sono i tempi in cui si realizza. Henry Hudson, esploratore inglese che negli anni precedenti aveva viaggiato in Canada, risalì, per conto della Compagnia olandese delle Indie occidentali, un vasto fiume sulla costa dell’America settentrionale, che prese il suo nome. Lungo l’Hudson, e nelle fertili pianure che lo circondano nella sua parte finale, prendono così a vivere alcuni insediamenti, come Fort Orange (l’odierna Albany), edificato nel 1629. Altri sorgono su isolotti lungo la costa, come Long Island o come Manhattan, l’isola delle colline nella lingua degli indiani algonchini che allora la abitavano. Negli anni successivi si assiste ad un rafforzamento della gracile struttura urbana del primitivo insediamento olandese. Su un precedente sentiero indiano viene disegnata una via più ampia, la Broadway, viene costruito un muro all’estremità meridionale dell’isola, che inizialmente non è altro che una palizzata in legno e viene tracciata una via lungo il muro, la Wall Street. Vengono acquistati alcuni terreni paludosi – Breucklen dalla parola fiamminga che indica la palude, e da qui Brooklin – non lontani da Manhattan. Quel villaggio sull’isola di Manhattan chiamato Nuova Amsterdam diventa, quando gli olandesi la cedono agli inglesi, il nucleo iniziale di una città chiamata New York. L’Olanda rimane legata ad una presenza nello spazio atlantico affidata alla forza delle sue flotte mercantili (e solo in parti militari) e dei suoi avamposti commerciali distribuiti lungo tutta la costa da sud a nord. L’Olanda diventa la principale interprete di una battaglia ideale e politica a favore della libertà di commercio. Le sue piccole dimensioni fanno sì, infatti, che anche il suo spazio di monopolio sia piccolo e che i veri vantaggi, i veri affari che può trarre dal commercio atlantico, e da quello mondiale più in generale, sono quelli legati alla libera navigazione, alla possibilità, cioè, di scambiare merci prodotte in aree le più diverse del pianeta a chiunque appartengano, imbarcate e sbarcate nei porti degli Stati più diversi, trasportate su navi delle più diverse nazionalità. 1609 = Originata da una causa giudiziaria sorta dalla cattura di una nave portoghese nelle acque di Singapore, viene data alle stampe a Leida, in Olanda, il Mare liberum, un’opera del giurista olandese Ugo Grozio. E’ il testo con il quale si afferma, per la prima volta, il principio che il mare, come l’aria è libero e che, di conseguenza, la sua navigazione e il commercio che attraverso esso si svolge non possono subire alcuna limitazione. Sulla base di questo principio la marina olandese si impone, nella prima metà del Seicento, non solo come la più dinamica, ma anche come la più aggressiva (commercialmente parlando) e la più spregiudicata. E’, infatti, la prima a comprendere le novità che si stanno producendo nel mondo atlantico proprio in virtù di quella colonizzazione di popolamento che l’Olanda tende a non praticare. Essa diventa, così, la protagonista della prima fase, fino al 1650-1660, dell’economia schiavista. Gli olandesi sono tra i primi, e rimangono a lungo i più forti, a estendere la loro tradizionale attività di contrabbando anche al commercio degli schiavi. Nel corso del Seicento si passa dal milione circa di schiavi che raggiungono dall’Africa le coste dell’America meridionale e caraibica a una cifra complessiva di tre milioni. A partire da questo periodo si può affermare che il circuito della prima economia schiavista, quella legata alle colture agricole dell’area centro-meridionale dell’America, a cominciare dallo zucchero (e dal rum), sia pienamente decollata. L’afflusso di manodopera a bassissimo costo, come è quella degli schiavi, favorisce l’incremento a larga scala della coltura della canna. Il dominio del «mare libero» da parte degli olandesi permette di aggirare il monopolio formalmente esistente sulla esportazione di questi prodotti da parte della Corona spagnola, diventando così i veri signori (sia pure per via di contrabbando) del commercio atlantico almeno fino agli anni Cinquanta del Seicento. RETI DI COMMERCIO IN AFRICA E TRATTA DEGLI SCHIAVI Il commercio tra Africa subsahariana e Mediterraneo vede come prodotti principali di scambio stoffe tinte, ceramiche, sale e oro. Il sale va dal Mediterraneo all’Africa, e, a causa della scarsezza in questo continente e, dunque, del suo valore, acquista una tale importanza da giungere a essere scambiato a parità di valore con l’oro. L’oro, infatti, fa il cammino inverso: dall’Africa, dal Sudan attraverso l’Egitto o per le rotte carovaniere che passano a occidente, attraverso le saline di Taghaza, Timbuctù e poi verso Fès raggiungendo, sulla costa, Tangeri o Algeri. L’oro mediterraneo ed europeo è, dunque, per molti secoli un oro africano. Solo per pochi anni, quando la scoperta del Nuovo mondo lascia immaginare che esso racchiuda abbondanti giacimenti di oro, si crede di aver individuato nuove fonti di approvvigionamento. La situazione non cambia nemmeno quando la Spagna, dopo l’inizio dello sfruttamento delle miniere del Potosí, prova a sostituire la circolazione dell’oro con la circolazione dell’argento. In realtà, l’oro rimane per tutta l’età moderna la moneta (o se si preferisce, il metallo prezioso) di riferimento. Ancora nella seconda metà del Cinquecento, ricorda lo storico Fernand Braudel, gli eserciti spagnoli volevano essere pagati in monete d’oro. Questo obbligava i banchieri italiani e fiamminghi legati alla Spagna a scambiare l’argento proveniente dall’America con l’oro che continuava ad affluire dall’Africa. Le esplorazioni portoghesi lungo la costa del golfo di Guinea (fine del secolo XV) costituiscono un momento di svolta radicale rispetto ad una struttura degli scambi tra Africa ed Europa che va considerata plurisecolare, se non millenaria. Con i portoghesi si apre una nuova via mercantile al Mediterraneo che non passa lungo le rotte terrestri dell’attraversamento del Sahara, ma per mare mette in comunicazione gli approdi del golfo di Guinea con i porti della penisola iberica. Questa via che, nella sua fase iniziale, tra la metà e la fine del secolo XV, si presenta come una via aggiuntiva rispetto al medesimo obiettivo che è il Mediterraneo, cambia profondamente di natura e di prospettiva nel momento in cui gli spagnoli arrivano in America e si apre l’epoca dell’espansione commerciale portoghese in Oriente. Le coste dell’Africa occidentale diventano, da quel momento, un utile punto di passaggio sulla rotta che, circumnavigando l’Africa, raggiunge l’Asia e, nello stesso tempo, un punto di raccolta e di partenza di merci attraverso l’Atlantico verso le Americhe. La produzione intensiva di caffè, di zucchero, di rum nel Nuovo mondo dà impulso alla richiesta di manodopera a basso costo. Nascono, così, una nuova merce, gli schiavi, e un nuovo commercio, la tratta degli schiavi. La schiavitù non era certo ignota tra le popolazioni e negli Stati africani. Il Mediterraneo, poi, erra stato teatro, sin dall’antichità classica, di economie schiaviste e il commercio degli schiavi sulle sue coste africane appariva, in quegli stessi primi decenni dell’età moderna, particolarmente florido. Si trattava, in linee generali, di un assoggettamento schiavistico fondato sulla guerra o, piuttosto, come nel caso della pirateria barbaresca, di assalto e razzia, che si potrebbe entro certi limiti definire occasionale, per alimentare un mercato della forza lavoro che aveva, comunque, dimensioni quantitative abbastanza circoscritte. Ciò che si verifica nel continente africano nei secoli dell’età moderna appare come un fenomeno in parte simile, ma in parte maggiore assai diverso dalle precedenti forme di schiavismo. Esso si fonda su una richiesta strutturale di manodopera a bassissimo costo, con regolarità e per quantità che non si erano mai conosciute prima. L’origine di questa richiesta è il crescente aumento di forza lavoro per le piantagioni che i colonizzatori europei impiantano nell’America tropicale. Già dai primi decenni del XVI secolo ciò avviene ad opera dei portoghesi. Ma è solo a partire dal XVII secolo che il commercio degli schiavi attraverso l’Atlantico si impone come l’attività economica prevalente nell’intera Africa occidentale. Cap. 4: LE RIVOLUZIONI DELLA MODERNITÀ LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA Nel 1648 viene firmata la Pace di Vestfalia, una serie di trattati che pongono fine alla Guerra dei 30 Anni, con i quali si stabilisce il principio di equilibrio tra potenze, in quanto la guerra non riesce a definire la potenza vincitrice e vinta. Si tratta di un principio sulle relazioni fra stati. Inoltre, con la Pace di Vestaflia l’Europa non è più una res publica cristiana e anche gli europei: si diffondo in Europa varie religioni. Il primo effetto di questa rivoluzione si manifesta sul terreno che è all’origine di ogni religione: la spiegazione della genesi del mondo e delle sue leggi e il posto dell’uomo in esso. Alla fine del XVI si erano già avuti dei contributi radicalmente innovativi, che erano uno sviluppo di quella totale trasformazione della visione del mondo che era stata, alla fine del Quattrocento, la scoperta che la Terra è rotonda. Nel 1543 l’astronomo polacco Niccolò Copernico enuncia, nella sua opera La rivoluzione dei corpi celesti, l’ipotesi – detta appunto eliocentrica – che sia la Terra a girare intorno al Sole, e non il contrario, come si era creduto fino ad allora sulla base del testo della Bibbia e della teoria esposta intorno al 100 d.C. dall’astronomo e geografo Claudio Tolomeo. Le osservazioni condotte nel corso della sua vita, e di cui il De revolutionibus rappresentava l’ultima e principale sintesi, avevano portato Copernico a ipotizzare l’esistenza di un sistema di corpi celesti, i pianeti, indicati nella loro sequenza esatta da Mercurio a Saturno, tutti ruotanti, secondo orbite fissate, intorno ad una stella, il Sole. Questi pianeti – egli aggiungeva – possiedono anche un moto di rotazione intorno al proprio asse, così da spiegare, nel caso della Terra, l’alternarsi quotidiano di giorno e notte. Ciò costituì una rottura radicale con la scienza astronomica del passato che nasceva, tuttavia, più dall’analisi matematica che da una osservazione reale dei fenomeni, osservazione in quei tempi ancora assai difficile per l’inadeguatezza degli strumenti utili a studiare gli astri e la volta celeste. Keplero = giunse ad una determinazione molto precisa del movimento dei pianeti del sistema solare lungo le proprie orbite, avvalorando la teoria eliocentrica. Galileo Galilei pubblica nel 1632 il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, e mettendo a confronto il sistema copernicano e quello tolemaico, consacra definitivamente l’affermazione della teoria eliocentrica. Galileo poneva, nella sua opera, un problema di metodo. Questo problema era frutto di tutta la sua attività di lavoro che lo aveva portato a formulare ipotesi scientifiche a partire dalla osservazione diretta e concreta dei fenomeni naturali, primi fra tutti quelli astronomici. Non a caso egli aveva contribuito al miglioramento, se non all’invenzione, di molti strumenti di osservazione, in particolare il cannocchiale. Galilei sosteneva nelle sue opere che le leggi da cui è regolata la natura hanno un proprio carattere autonomo e possono essere comprese ricorrendo non ad un principio di verità esterno – sia esso la verità delle Sacre Scritture o quello del più grande filosofo dell’antichità, Aristotele -, ma all’osservazione e alla misurazione di ciò che accade, di ciò che vediamo, e sperimentando successivamente se le ipotesi che formuliamo – e che chiamiamo provvisoriamente leggi – corrispondano una volta applicate a ciò che accade e di cui fino a quel momento ignoravamo la ragione. E’ il metodo sperimentale, fatto di osservazione, misurazione, formulazione di un’ipotesi e sua verifica concreta: è ciò che chiamiamo scienza moderna, che entra rapidamente in conflitto con il principio di verità e di autorità intorno alla natura del mondo e alla spiegazione dei suoi meccanismi di funzionamento, di cui la religione riteneva di essere la depositaria. Un anno dopo la pubblicazione del Dialogo, Galileo fu imprigionato e sottoposto dalla Chiesa cattolica ad un processo davanti al tribunale del Santo Uffizio dell’Inquisizione che si concluse con l’abiura dello scienziato, quasi settantenne ormai e terrorizzato dalla minaccia della tortura, alle proprie idee. Galileo portò alla formulazione del metodo scientifico o sperimentale, secondo cui ci si basa sull’osservazione dei fenomeni mediante costanti, la cui interpretazione permette di formulare ipotesi da provare: se queste hanno effetto positivo divengono leggi. UNA NUOVA SOCIETÀ POLITICA Accanto al mutamento che investe il concetto e le forme di conoscenza della natura fisica, la svolta della metà del XVII secolo investe, con forza e radicalità non minore, l’idea e la pratica della politica. L’olandese Ugo Grozio nella sua opera Sul diritto di guerra e di pace fissa i punti di quella dottrina che prende il nome di giusnaturalismo. Nella sua condizione originaria, naturale, l’uomo, egli spiega, vive dotato di una serie di diritti naturali, che non possono essere violati in nessuna situazione successiva. Neppure la guerra – ed ecco perché Grozio è considerato il padre del diritto internazionale – può spingersi oltre il limite fissato dal riconoscimento e dal rispetto di quei diritti – la vita, la libertà dell’esistere – che gli appartengono in natura. Viene pubblicata l’opera generalmente considerata il punto di partenza della modernità politica, il Leviatano di Thomas Hobbes. A differenza dei giusnaturalisti, Hobbes non condivide l’idea che la condizione di natura sia una condizione in cui l’uomo gode pacificamente di una serie di diritti. Ma proprio perché egli è convinto che quella naturale sia una condizione orribile e precaria, una guerra di tutti c

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