Summary

This document explores the field of sociology of work. It introduces key concepts and examines the contributions of classical sociologists, such as Marx and Durkheim. The text analyzes the evolution of work in different contexts, particularly within capitalist societies. It discusses the division of labor and its impact on social cohesion and examines the changing nature of work.

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TEMI E PERCORSI DI SOCIOLOGIA DEL LAVORO CAPITOLO 1: LA SOCIOLOGIA DEL LAVORO E IL CONTRIBUTO DEI CLASSICI 1.1 Cos’è la sociologia del lavoro? Possiamo definire la sociologia del lavoro come la scienza che si propone di riconoscere, osservare e interpretare i fenomeni sociali che si producono tram...

TEMI E PERCORSI DI SOCIOLOGIA DEL LAVORO CAPITOLO 1: LA SOCIOLOGIA DEL LAVORO E IL CONTRIBUTO DEI CLASSICI 1.1 Cos’è la sociologia del lavoro? Possiamo definire la sociologia del lavoro come la scienza che si propone di riconoscere, osservare e interpretare i fenomeni sociali che si producono tramite il lavoro. Da un punto di vista generale possiamo considerarlo come un'attività umana dotata di uno scopo, che implica una trasformazione della natura attraverso l'impegno di capacità fisiche e mentali. Tale definizione include forme "particolari" di lavoro non remunerato come, ad esempio, il lavoro domestico. Il lavoro retribuito occupa, pertanto, una posizione ben precisa all'interno delle società capitalistiche. Come afferma Gorz la caratteristica essenziale del lavoro è di essere un'attività che si offre nella sfera pubblica, un'attività richiesta, definita e riconosciuta utile da altri che, per questo, la retribuiscono. È attraverso il lavoro remunerato (e in particolare il lavoro salariato) che noi apparteniamo alla sfera pubblica, acquistiamo un'esistenza e un’identità sociale (vale a dire una professione) e siamo inseriti in una rete di relazioni e di scambi in cui ci misuriamo con gli altri. Lo studio delle pratiche lavorative, ed in particolare il modo in cui il lavoro è mutato nel tempo nei vari contesti, ci permette di comprendere le grandi trasformazioni generate dai processi di urbanizzazione e industrializzazione che hanno interessato le società occidentali. Una definizione più puntuale ed esaustiva è quella proposta da Friedmann e Naville secondo i quali la sociologia del lavoro consiste nello studio delle collettività, assai diverse per dimensione e per funzioni, che si costituiscono in occasione del lavoro; delle reazioni esercitate su di loro ai diversi livelli, da parte delle attività di lavoro che sono continuamente rimodellate dal progresso tecnico; delle relazioni esterne, tra di loro, e di quelle interne tra gli individui che le compongono. Tali autori, sottolineano con forza la centralità del lavoro nell'industria. Si diede avvio ad una fase intensa di studi e ricerche finalizzati ad esplorare le connessioni tra i modelli organizzativi del lavoro e della produzione nell'industria ed il cosiddetto "fattore umano" (ovvero la dimensione psico-sociologica ignorata dalla razionalizzazione introdotta da Taylor con i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro), nonché elementi quali la motivazione, la leadership, i gruppi di lavoro, le tipologie e l’intensità del controllo manageriale sugli operai. È nel corso del XX secolo definito da alcuni autori come il secolo del lavoro e dei lavoratori o anche come società del lavoro, che tale forma di lavoro assume i caratteri standard di lavoro tipico dipendente e gerarchicamente subordinato nella grande industria. L’importanza del lavoro che si stava delineando, definita di volta in volta come post moderna o post fordista è stata messa in discussione da un’ampia scuola di pensiero: Alain Touraine invitava a guardare alla società del lavoro come una specificità storica; Dahrendorf sosteneva che la perdita di centralità del lavoro nella vita umana era da ricondurre alla progressiva riduzione degli orari, all’estensione delle attività scolari e formative, all’anticipazione del pensionamento ed alla maggiore fruizione di tempo da dedicare alle attività nel tempo libero; Luciano Gallino pur non riconoscendo al lavoro un ruolo determinante nella formazione del pensiero sociologico moderno ritiene che la sua posizione rimane ancora centrale nella struttura della società; Kern afferma che la società rimane a pieno titolo una società del lavoro nonostante le trasformazioni. In particolare, egli sottolineava che i posti di lavoro offerti non sarebbero semplicemente cambiati, bensì sarebbero diventati più qualificati e interessanti. In questo quadro si inserisce l’affermazione del modello giapponese orientato alla logica della qualità e del miglioramento continuo dei prodotti e dei processi. Il passaggio dalla logica della standardizzazione e delle riduzioni dei costi alla cosiddetta "qualità totale" ha avuto come prima e immediata conseguenza la valorizzazione del lavoro umano che diviene "risorsa" per l'organizzazione. A partire dai primi anni Novanta emergono nuovi modi di organizzare ed il lavoro si trasforma assumendo nuove caratteristiche e nuovi significati sia per gli uomini che per le donne. All'inizio del '900 il lavoro era quasi sempre fatica e sudore, il grosso dei lavoratori viveva in un mondo a parte e le prime organizzazioni venivano spesso perquisite. Le case dei lavoratori erano quasi sempre in periferia e ai figli era riservato il medesimo destino. Alla fine del '900 il lavoro è diventato fluido e molto più leggero e il grosso dei lavoratori non si distingue quasi più dal resto della popolazione, sia per dove abita sia soprattutto per come veste. Le organizzazioni dei lavoratori sono forti e rispettate. I nuovi paradigmi organizzativi del lavoro e della produzione sono profondamente influenzati dalla dimensione internazionale e da ciò che accade in altri contesti, anche molto distanti. Come dimostra l'esperienza della FIAT-Chrysler, le aziende diventano globali, producono e vendono i loro prodotti in più mercati, si confrontano all'interno di sistemi di relazioni industriali differenti, utilizzano ampie masse di lavoratori qualificati avvantaggiandosi di differenze anche significative nel costo del lavoro. Allo stesso modo anche i sindacati diventano globali e si organizzano su base internazionale per assicurare nei diversi paesi uguali e migliori condizioni di lavoro nelle imprese multinazionali. 1.2 Marx e l'analisi del modo di produzione capitalistico Karl Marx è sicuramente uno degli studiosi che con le sue opere ha maggiormente influenzato la sociologia del lavoro e dell'industria. Per Marx il modo di produzione è un insieme di mezzi per la produzione (le materie che si utilizzano, gli strumenti che si adottano, tecniche di cui si dispone) e di rapporti di produzione (cioè i rapporti che gli uomini stabiliscono tra loro riguardo al produrre per esempio il rapporto fra padroni e schiavi nell’antica Roma). Per rapporti di produzione Marx intende non soltanto le tecnologie disponibili, ma anche l’insieme dei rapporti sociali che gli individui stabiliscono attraverso la loro partecipazione alla vita economica. Ad esempio, la fabbrica moderna, basata sui principi di stampo taylor-fordista e su un determinato tipo di macchinari, rappresenta un rapporto sociale di produzione. L'aggettivo "capitalistico" sottolinea la centralità del capitale nel modo di produzione. Per Marx la produzione capitalistica ha origine nel momento in cui il capitale utilizza, allo stesso tempo e nello stesso spazio, un numero considerevole di operai per cui il processo lavorativo si ingrandisce, fornendo prodotti su scala quantitativa più ampia rispetto al passato. Nel modo di produzione capitalistico i rapporti sociali si caratterizzano per l'interazione tra due gruppi di individui o classi distinte, tra loro antagoniste in quanto portatrici di interessi e ideali differenti: da una parte i capitalisti (la borghesia), cioè i proprietari dei mezzi di produzione, dall'altra i proletari costretti a vendere (in cambio di denaro) la propria forza lavoro, intesa come merce, sul mercato. Il prezzo pagato dal capitalista in cambio del lavoro prestato dall'operaio costituisce il salario, mediante il quale i lavoratori soddisferanno i loro bisogni e provvederanno alla loro sopravvivenza. Marx specifica: Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo. La forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l'uno compratore, l'altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali. Marx nota che il lavoro prestato produce ben più del valore di scambio effettivamente pagato dal capitalista per l'acquisto della forza lavoro. Tale differenza aggiuntiva (pluslavoro), da cui deriva il profitto del capitalista, è definita da Marx come plusvalore. A partire da tale condizione Marx introduce il concetto di alienazione, vale a dire l'espropriazione all'operaio di ciò che egli produce. I rapporti sociali che si stabiliscono sono basati sullo sfruttamento degli operai ad opera dei capitalisti. La fabbrica rappresenta il luogo fondamentale in cui si sviluppa l'antagonismo tra le classi, tra sfruttatori e sfruttati, tra coloro che si appropriano della forza-lavoro e coloro che sono costretti a venderla. Nella sua opera più celebre, Il capitale, Marx afferma che la struttura economica della società capitalistica è derivata dalla società feudale, il modo capitalistico di produzione conduce alla formazione di una classe di proletariato industriale e sarà proprio questa ad abbattere il regime e a determinarne il superamento. 1.3 La divisione del lavoro in ambito sociologico Fin dalle origini del pensiero sociologico "moderno" il tema della divisione del lavoro ha assunto un ruolo centrale sviluppandosi spesso in aperto contrasto con le interpretazioni fornite da Adam Smith e dagli economisti del Settecento secondo i quali la divisione dei compiti si propone razionalmente di aumentare la produttività del lavoro. Con il suo primo libro “La divisione del lavoro sociale”, Emile Durkheim intraprende un percorso sullo studio delle diverse forme di società, ed il conseguente passaggio da una forma all'altra, a partire da una visione organicistica secondo la quale ogni società, come un organismo biologico, è composta da parti differenti a ciascuna delle quali corrisponde una determinata funzione. Durkheim utilizza il termine divisione del lavoro per indicare ogni forma di specializzazione di una funzione sociale, estendendo così la sua applicazione al di là della sfera economica. L'idea centrale nel suo pensiero è rappresentata dalla comprensione di ciò che tiene insieme gli individui che compongono una determinata società. L'effetto più notevole della divisione del lavoro non è il fatto che essa aumenta il rendimento delle funzioni divise ma che le rende solidali. Il suo compito in ogni caso non è semplicemente quello di abbellire o di migliorare le società esistenti, ma quello di rendere possibili società che, senza di essa, non esisterebbero Esso oltrepassa infinitamente il campo degli interessi puramente economici, poiché consiste nello stabilimento di un ordine sociale e morale. Individui che altrimenti sarebbero indipendenti sono vincolati reciprocamente: invece di svilupparsi separatamente, essi concentrano i loro sforzi e sono solidali. Egli considerava le forme di divisione del lavoro come strettamente connesse ai diversi tipi di ordine sociale e di ciò che egli definisce come "solidarietà". Per Durkheim la solidarietà si fonda sulla morale intesa come un insieme di norme (fatti sociali) alle quali ciascun componente della società è vincolato sia dall'esterno che dall'interno. Durkheim distingue due tipi principali di solidarietà che contraddistinguono due forme specifiche di società. La prima forma, definita come solidarietà meccanica, corrisponde alla società semplice o segmentaria cui si ha una divisione del lavoro molto limitata. In questa società la coscienza collettiva comune trascende gli individui, e tanto più essa è forte quanto meno forti sono le personalità dei singoli. L'altra forma di solidarietà, definita organica, corrisponde invece alle società strutturalmente complesse e differenziate al proprio interno in cui la divisione del lavoro rappresenta un elemento imprescindibile e fondamentale. La struttura sociale si basa su un ordine diverso che tiene insieme gli individui tra loro sempre più differenziati. Egli afferma che al crescere della complessità sociale, intesa come intensificazione e sviluppo dei rapporti sociali, aumenta la divisione del lavoro e la differenziazione dei compiti, e ciò conduce al prevalere nel tempo delle società organizzate su quelle segmentate. Tuttavia, le società complesse richiedono maggiore coordinamento tra gli individui ed implicano una maggiore tenuta delle norme morali. In queste società si presenta, quindi, il rischio di vere e proprie patologie, tra cui l'anomia, vale a dire l'assenza di norme morali unanimemente condivise, rappresenta la più importante ed al tempo stesso la più pericolosa. I rimedi possibili, secondo Durkheim, consistono nel corporativismo, cioè nella diffusione di associazioni professionali intermedie capaci di svolgere un ruolo di intermediazione, ma soprattutto un potenziamento dei processi educativi tali da diffondere e imporre a tutti gli individui valori morali condivisi. 1.4 Max Weber e l’approccio economico alla sociologia Max Weber può essere sicuramente considerato come uno dei grandi maestri del pensiero sociologico. Nella sua opera più famosa Economia e società Weber definisce in modo sistematico il concetto di sociologia precisandone l'oggetto di studio. La sociologia deve designare una scienza, la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l'agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti. Inoltre, per "agire" si deve intendere un atteggiamento umano, se ed in quanto l'individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. Per " agire sociale" si deve però intendere un agire che sia riferito, secondo il suo senso, intenzionato dall'agente o dagli agenti, all'atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo. La sociologia si propone quindi di comprendere l'agire sociale, vale a dire quella particolare forma di agire orientata verso altri individui. Tale agire può essere determinato in modi diversi: In modo razionale rispetto allo scopo, in questo caso il fondamento dell'agire è il calcolo razionale mediante il quale l'individuo cerca di raggiungere i propri scopi valutando accuratamente i mezzi più efficaci a tale fine; In modo razionale rispetto al valore, l'agire è orientato in base al valore in sé di un determinato comportamento, senza che entrino in causa elementi di natura strumentale; Affettivamente, vale a dire in base alle emozioni o particolari stati d’animo percepiti dall’individuo. Tradizionalmente, cioè in virtù di un’abitudine acquisita nel tempo. Weber afferma che l’agire sociale può essere definito agire economico se orientato ad ottener prestazioni di utilità desiderate. Ciò che contraddistingue l’agire economico da altre forme di agire economicamente orientate è l’uso pacifico di un potere di disposizione. Per weber i due tipi fondamentali di agire economico sono l’amministrazione domestica, orientata al soddisfacimento dei fabbisogni dei membri di una determinata società e l’economia acquisitiva (produzione per l'acquisizione) che si caratterizza per la ricerca del guadagno attraverso lo scambio. In questa seconda tipologia assume un ruolo centrale l'impresa (e di conseguenza la figura dell'imprenditore) che identifica un agire economico di tipo acquisitivo orientato alle opportunità di mercato con l'obiettivo di guadagnare attraverso lo scambio. L'impresa è orientata dunque alla redditività, cioè ad ottenere un incremento. La fabbrica rappresenta un tipo particolare di impresa (l’impresa di officina) che si caratterizza per l’uso di lavoro formalmente libero e capitale fisso. Fabbrica significa dunque organizzazione del processo produttivo, cioè organizzazione di lavoro specializzato e coordinato all'interno delle officine con l'utilizzo di capitale fisso e contemporaneo calcolo del capitale. Altre precondizioni indispensabili per la diffusione del modello produttivo centrato sulla fabbrica sono l'esistenza e la disponibilità di una tecnica a basso costo, unitamente all'ampia disponibilità di forza lavoro formalmente libera che rende possibile per Weber l'affermazione in Occidente della fabbrica moderna. L'impresa e l'agire economico razionale finalizzato all'accumulazione del capitale sono pertanto alla base dell'organizza-rione economica denominata come capitalistica. In particolare, un'impresa capitalistica razionale è un'impresa con calcolo di capitale, cioè un'impresa acquisitiva, la cui redditività è controllata attraverso calcoli, a mezzo della contabilità moderna e della stesura di un bilancio. L'analisi di Weber sull'impresa presenta similarità rispetto al pensiero di Marx, tuttavia, se ne differenzia sostanzialmente per due aspetti fondamentali: da una parte il fondamento razionale (rispetto allo scopo) dell'agire economico capitalistico, dall'altra l'assenza del tema dello sfruttamento del lavoratore salariato (centrale in Marx) che per Weber rappresenta soltanto un aspetto morale. Anche in merito alle origini del capitalismo moderno Weber prende le distanze dalla tesi di Marx, in quanto egli conferisce al capitalismo, ed alle condizioni del suo sviluppo in epoca moderna, un carattere prevalentemente culturale e sociale, legato al pensiero religioso protestante per il quale il risparmio e la conseguente rinuncia al consumo rappresentano una condizione indispensabile. Lo sviluppo del capitalismo tende tuttavia a perdere progressivamente il proprio fondamento culturale legato all'etica protestante, nel senso che il successo negli affari, la produzione di beni, l'accumulazione della ricchezza diventano nel tempo un obiettivo fine a sé stesso, scollegato dalla dottrina della predestinazione e dalla dimensione prettamente culturale tipica della fase iniziale. Nella sociologia weberiana un altro concetto particolarmente importante è quello di classe. La definizione di classe data da Weber si avvicina molto a quella di Marx, ma a differenza dell'approccio marxista egli ritiene che le disuguaglianze sociali non siano semplicemente legate al possesso dei mezzi di produzione, attribuendo grande importanza anche alle risorse culturali e politiche. Nell'ambito prettamente economico, la classe è considerata come insieme di uomini accomunati da «una specifica componente causale delle loro possibilità di vita, nella misura in cui questa componente è rappresentata semplicemente da interessi economici di possesso e di guadagno - nelle condizioni del mercato dei beni e del lavoro». La classe accomuna quindi individui che condividono interessi economici simili. Weber opera una distinzione tra classi possidenti (i redditieri), classi acquisitive (gli imprenditori), e classi sociali (i lavoratori nel loro insieme, la piccola borghesia, gli intellettuali e i tecnici non possidenti). All'interno della sfera culturale la stratificazione sociale si manifesta, invece, attraverso i ceti. Per ceto si deve intendere un gruppo di individui che condivide gli stessi modelli e le stesse risorse culturali, uno stile di vita comune (preferenze e gusti) e un comune senso di appartenenza. Nella società i ceti sono stratificati in base allo status di prestigio che godono in seno alla società stessa. Per Weber il ceto è la dimensione di un gruppo che è condizionata da una valutazione sociale dell'onore legato a una qualche qualità comune del gruppo stesso (la stima oppure il prestigio). Secondo Weber è proprio lo status che consente ad un individuo di sviluppare un senso di appartenenza ad un gruppo e di considerarlo in relazione ad altri gruppi. CAPITOLO 2: DALLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE ALLA PRODUZIONE DI MASSA: IL TAYLOR- FORDISMO 2.1 Le origini del taylorismo Il taylorismo rappresenta una tappa fondamentale dello sviluppo industriale. La descrizione più completa del taylorismo e delle ragioni storiche che hanno portato alla sua affermazione e diffusione a livello internazionale è, per l'Italia, quella di Bonazzi secondo il quale il motivo che ha portato alla nascita del taylorismo risiede nella «percezione di una non più tollerabile contraddizione tra le potenzialità produttive di un'industria ormai alle soglie della produzione di massa e i metodi arcaici della sua conduzione». Agli inizi del Novecento, infatti, erano ormai presenti una serie di fattori socioeconomici il cui operare congiunto ha determinato il superamento della produzione artigianale e l'affermazione della cosiddetta produzione di massa su larga scala. Il primo fattore è insito nello sviluppo della scienza e nelle nuove tecnologie, ossia in macchine specializzate o "dedicate", cioè in grado di compiere una sola o comunque un numero limitato di operazioni, particolarmente adatte a lavorazioni e prodotti standardizzati. Il secondo fattore, direttamente connesso al primo, è legato allo sviluppo del gigantismo industriale, vale a dire alla crescita delle industrie di grandi dimensioni, anche oltre i 1.000 addetti. L'utilizzo delle nuove tecnologie e dei nuovi macchinari, più rigidi, stabili, ma anche più ingombranti rispetto alle macchine polivalenti utilizzate in precedenza, richiedono spazi più ampi. Le imprese tendono ad assumere le dimensioni e la struttura verticalmente integrata che sarà una delle caratteristiche fondamentali della produzione di massa. Le imprese inglobano al loro interno fasi del processo produttivo, a monte (approvvigionamento e gestione delle materie prime e dei componenti) e a valle (gestione dei servizi di distribuzione, vendita e assistenza ai clienti), che in precedenza erano svolte da aziende distinte. Il terzo fattore è rappresentato dalla particolare natura della forza lavoro utilizzata nelle fabbriche americane agli inizi del Novecento. Dal 1890 al 1915 sono circa I5.000.000 gli immigrati negli Stati Uniti, provenienti soprattutto dall'Est europeo (polacchi, ungheresi, rumeni, lituani, tedeschi) e dal Sud (italiani e greci). Per la stragrande maggioranza si trattava di lavoratori poco qualificati che avevano lasciato le campagne nei paesi di origine affollando le grandi città americane in cerca di occupazione senza mai avere avuto alcun contatto con le manifatture ed il lavoro industriale. Il quarto fattore, che ha esercitato un ruolo particolarmente importante sul cambiamento del paradigma organizzativo, è da ricercare nelle caratteristiche dell’ambiente in cui Taylor viveva ed operava che si caratterizzava prevalentemente per la sua stabilità e prevedibilità. Era convinzione diffusa che, riducendo i costi di produzione attraverso le economie di scala, si potesse avere uno sviluppo del mercato potenzialmente illimitato. Puntare alla riduzione dei costi per battere la concorrenza piuttosto che sulla qualità dei prodotti sembrava possibile perché una volta indovinato il prodotto da immettere sul mercato, la sua produzione poteva andare avanti per lungo tempo senza particolari variazioni. A tali caratteristiche dello sviluppo industriale non corrispondeva una moderna e razionale gestione dei processi organizzativi sia del lavoro sia della produzione. Al contrario, le tecniche di conduzione delle fabbriche si caratterizzavano per l'assenza di criteri rigorosi e uniformi nell'impostare il lavoro. Non esisteva quindi una vera e propria figura manageriale, intesa in senso moderno, bensì il capitalista descritto da Marx che si limitava a contrattare dall'esterno le quote globali di produzione e che si riappropriava di una parte consistente dei profitti alla fine del ciclo produttivo. La fabbrica era dunque concepita come una sorta di "scatola nera" in cui si sapeva ciò che entrava e ciò che usciva, senza alcuna consapevolezza da parte del capitalista di ciò che avveniva all'interno del processo produttivo. La riflessione di Taylor e l'elaborazione del suo metodo scientifico (scientific management) nascevano proprio dal rifiuto di una tale organizzazione, considerata poco efficiente e irrazionale. In particolare, Taylor e i suoi consideravano la divisione del lavoro fondata sulla tradizione, sulla conoscenza tacita e sull'empiria come inefficiente dal punto di vista sia tecnico che economico. A ciò si deve aggiungere il rallentamento deliberato e sistematico del lavoro da parte degli operai dovuto sostanzialmente a due cause fondamentali, da una parte l'istinto naturale di tutti i lavoratori a prendersela comoda, dall'altra la carenza di metodi organizzativi appropriati. Partendo dunque da osservazione delle principali inefficienze del modello organizzativo tipico della produzione artigianale Taylor ha proposto dei nuovi principi, rigorosamente scientifici, che costituiscono il cuore della sua teoria e l'essenza dell'Organizzazione Scientifica del Lavoro. 2.2 I principi dell’organizzazione scientifica del lavoro L'organizzazione scientifica del lavoro consiste fondamentalmente in un certo numero di principi generali di vasta portata. Tali principi (quattro) sono il risultato di un intenso processo di razionalizzazione organizzativa che passa attraverso la rigida definizione dei tempi e dei metodi di lavoro (task management), l'individuazione di criteri e procedure rigorosamente scientifici per il reclutamento e la selezione della manodopera, l'instaurazione di rapporti di lavoro improntati non più sulla paura bensì sulla collaborazione e, infine, attraverso la ristrutturazione della direzione aziendale sulla base di una netta separazione tra la fase di ideazione e quella di esecuzione. Il task management o organizzazione per compiti (da task = mansione, compito) rappresenta il fulcro intorno al quale ruota l'intero ragionamento di Taylor. Il compito principale del management è quello di raccogliere tutta la conoscenza insita nei tradizionali processi di produzione artigianale e quindi classificarla, schematizzarla e codificarla con regole, leggi e principi che potessero avere una valenza scientifica. Il task management nasce dalla constatazione della quasi totale assenza di regole e criteri oggettivi nell'impostazione del lavoro artigiano e consiste, secondo Taylor nella preparazione dei vari compiti e nel farli eseguire conformemente alle istruzioni emanate dalla direzione. Per determinare scientificamente il modo ottimale di svolgere il lavoro, Taylor eseguì alcuni esperimenti noti anche con il nome di Time and Motion Studies. Tali studi furono eseguiti con l'uso del cronometro con l'intento di pervenire alla totale determinazione della condotta dell'operaio e dei tempi necessari allo svolgimento di quel particolare lavoro. Nel primo esperimento relativo al trasporto della ghisa presso la Bethlehem Steel Company, Taylor selezionò all'interno di un gruppo composto da 75 lavoratori, tutti molto abili nel loro lavoro, quattro dei migliori operai. La scelta avvenne dopo aver attentamente esaminato il carattere, la forza fisica e la muscolatura per poter sollevare e trasportare il maggior carico di materiale. Tra i quattro Taylor scelse un manovale di origine olandese, al quale fu chiesto di lavorare seguendo scrupolosamente le istruzioni di un supervisore che definivano in modo dettagliato gli strumenti (la pala o altri strumenti di trasporto e solleva-mento), i compiti, i movimenti e i tempi. In questo modo la movimentazione del materiale passò dalle 12,5 alle 47 tonnellate giornaliere. In cambio di una tale prestazione Taylor offrì a Schmidt un salario di 1,8s dollari al giorno, rispetto a quello percepito dagli altri operai pari a un dollaro e 15 centesimi. Schmidt accettò e, seguendo fedelmente le istruzioni del supervisore, riuscì a trasportare le 47 tonnellate giornaliere per tutto il periodo in cui lavorò alla Bethlehem Steel Company. Attraverso tali esperimenti, Taylor arrivò a scomporre il lavoro operaio in attività parcellizzate e a definirle in standard stabilendo i movimenti più razionali (eliminando quelli falsi e inutili) per eseguire il lavoro, il tipo di utensili e attrezzi da utilizzare, il tempo teorico strettamente necessario per eseguirle. L'organizzazione del lavoro così elaborata diviene quella standard da insegnare dapprima agli istruttori e, quindi, agli operai, e sarà utilizzata fino a quando non saranno individuate scientificamente, attraverso la sperimentazione, altre modalità più razionali che permetteranno di svolgere il lavoro in minor tempo o a costi ridotti. Consapevole delle difficoltà nella sua implementazione, per incentivare i lavoratori all'adozione del nuovo metodo Taylor propose un incremento del salario fino al 60% circa della paga giornaliera. La paga, nella nuova logica organizzativa, doveva intendersi non più solo come la remunerazione per il lavoro svolto bensì come un premio di rendimento o cottimo a tempo per il lavoratore che ha eseguito fedelmente e nei tempi unitari previsti i compiti come definiti dall'ufficio tempi e metodi. Allo stesso modo, per evitare scostamenti dalla produzione giornaliera impostata a monte dalla direzione, Taylor aveva previsto una diminuzione proporzionale del salario, anche sotto forma di multe o altre sanzioni, in caso di mancato raggiungimento del "task". Il secondo dei quattro principi proposti da Taylor nell'organizzazione scientifica del lavoro si basa sul reclutamento e sulla selezione scientifica dei lavoratori. Oltre a dare un'impostazione scientifica a tutte le operazioni svolte dagli operai, il compito della direzione aziendale era quello di selezionare, istruire, addestrare e sviluppare il lavoratore con metodi scientifici. La scientificità di tali metodi si basava sull'accurata analisi e valutazione di ogni singolo lavoratore, considerato non più come membro indistinto di una massa, bensì come portatore di particolari capacità e di limiti. In sostanza, secondo Taylor, le attitudini, le condizioni fisiche e le abilità innate dei lavoratori sono tra loro così diverse che non tutti sanno svolgere bene e in modo uguale ogni mansione, ma ciascun operaio sa essere di "prim'ordine", cioè sa svolgere particolarmente bene almeno un lavoro. Il compito della moderna direzione aziendale era appunto quello di individuare, attraverso colloqui, valutazione dei curricula, test psico-fisici, il lavoro giusto per ciascun operaio sulla base delle proprie capacità. È evidente, quindi, la differenza e la novità rispetto ai metodi di reclutamento utilizzati nel periodo precedente, basati sul caso, sull'approssimazione, sulla simpatia o anche sulla corruzione dei capisquadra. Il terzo principio riguarda l'instaurazione di rapporti collaborativi tra la direzione e la manodopera allo scopo di assicurare che tutto il lavoro formulato dalla direzione venisse eseguito in conformità ai principi dello scientific management. In particolare, mentre nel modello artigianale le relazioni di lavoro erano governate dal sistema della spinta o dello spintone (il drive system era un sistema tradizionale che consisteva nel fare lavorare gli operai sempre più in fretta e più duramente minacciandoli di licenziamento, di provvedimenti disciplinari o di riduzione della retribuzione), l'organizzazione scientifica del lavoro era impostata invece sulla stretta collaborazione tra direzione e manodopera. In questo modo si voleva disciplinare il rapporto tra capi squadra e operai evitando l'estemporaneità delle soluzioni e che tutto il lavoro e la soluzione di ogni problema venissero lasciati esclusivamente agli operai. Come riconosceva lo stesso Taylor, il passaggio dall'organizzazione empirica tradizionale a quella scientifica comportava non soltanto lo studio dei tempi e dei metodi migliori per svolgere il lavoro, l'adattamento degli utensili e delle attrezzature dell'officina, ma richiedeva anche e soprattutto un radicale cambiamento delle relazioni tra capi e lavoratori e un mutamento dell'atteggiamento psicologico nei confronti del lavoro e dei datori di lavoro. Taylor voleva soltanto richiamare l'importanza dei metodi e dei tempi standard di lavoro a cui il comportamento dei capi, ma anche degli operai, dovevano conformarsi per consentire una efficace collaborazione con la direzione. Taylor si è mostrato particolarmente ostile nei confronti del sindacato e in più occasioni nel suo lavoro ne manifesta l'avversione. Se esiste un sindacato tra gli operai, riconosciuto dall'azienda, diventa impossibile comunicare individualmente con i lavoratori, poiché il sindacato insiste affinché ciò avvenga attraverso i suoi rappresentanti ufficiali. Quindi bisogna prendere tutte le precauzioni per impedire che si formi un sindacato. Gran parte dell'ostilità di Taylor nei confronti del sindacato derivava dalla pratica, allora largamente diffusa, del cosiddetto closed shop, in base alla quale ogni sindacato che organizzava gli operai di mestiere imponeva alle aziende l'assunzione esclusivamente dei propri iscritti limitando, di fatto, la libertà della direzione nel reclutare e selezionare scientificamente i lavoratori. Il quarto principio dell'Osi prevede una equa distribuzione del lavoro e delle responsabilità tra dirigenti e operai e rappresenta una vera e propria ristrutturazione dell'apparato secondo criteri di razionalità ed efficienza organizzativa. Mentre in passato la maggior parte del lavoro e delle responsabilità di gestione erano affidate ad operai di mestiere o ai "contrattisti", la moderna direzione scientifica assume su di sé tutti i compiti per la conduzione della fabbrica, lasciando agli operai lo svolgimento delle mansioni puramente esecutive. Con Taylor si è realizzata una netta separazione tra la fase di ideazione e la fase di esecuzione che spettava invece agli operai. Tale separazione ha segnato di fatto la fine di un'era nell'organizzazione del lavoro e, svuotando il lavoro operaio di quei contenuti intelligenti che erano alla base del "mestiere", ha sancito il passaggio dall'operaio professionale della manifattura al cosiddetto operaio massa. Concentrando le aree vitali della pianificazione e del design nelle mani della direzione il taylorismo ha eliminato un'importante fonte di potere e di conoscenza-controllo del processo produttivo nelle mani dei lavoratori, generando una forza lavoro dequalificata e meno costosa. Separando il lavoro dei dirigenti da quello operaio Taylor ha dovuto affrontare anche il problema di organizzare in maniera più razionale il ruolo dei dirigenti. In particolare, egli ha proposto un nuovo modello organizzativo, la direzione funzionale, basata sull'aumento dei quadri intermedi, denominati capi funzionali, a ciascuno dei quali veniva assegnata la responsabilità di una particolare area della gestione. I vari capi funzionali, in qualità di tecnici dell'ufficio programmazione, dovevano provvedere a istruire la manodopera, ad assisterla e ad indirizzarla. Taylor introdusse, quindi, per la prima volta le funzioni di staff (la tecnostruttura) con il compito di affiancare e supportare il comportamento dei manager. Le teorie del moderno management suddividono in questo modo l'organizzazione di fabbrica tra la direzione, a cui spettano le decisioni e le responsabilità più rilevanti, i tecnici, gli ingegneri e i capi, a cui è delegato il lavoro intellettuale di definire i prodotti, i compiti e le attività di lavoro e di controllare il lavoro e gli operai, che devono attenersi alla semplice esecuzione dei compiti. Taylor ha stabilito inoltre le relazioni che si sarebbero dovute instaurare tra le diverse figure e ha disciplinato i flussi della comunicazione tra i vari livelli introducendo il cosiddetto "principio di eccezione". L'idea che sottende il principio di eccezione è, ancora una volta, garantire al dirigente quei margini di autonomia e, soprattutto, il tempo per dedicarsi all'attività più importante, cioè la programmazione e la pianificazione delle attività che i capi più in basso nella gerarchia funzionale e, successivamente, gli operai dovranno eseguire. Il principio di eccezione stabilisce che al responsabile dell'organizzazione devono arrivare soltanto le "eccezioni" cioè soltanto quelle pratiche che i capi funzionali non riescono a gestire nell'ambito delle proprie competenze. Inoltre, il responsabile dovrà ricevere dei rapporti riassuntivi e comparativi su tutto ciò che accade all'interno della struttura in modo da avere sempre tutte le informazioni fondamentali per poter pianificare. Il risultato della ristrutturazione è la creazione di una vera e propria burocrazia aziendale in cui vengono chiaramente specificati i ruoli e i compiti che ciascuno deve eseguire attenendosi rigorosamente alle direttive che provengono dall'alto. L'elemento centrale è rappresentato dallo stretto controllo esercitato dai capi funzionali sugli operai, non solo attraverso la disciplina che si realizza tramite le multe, la sospensione dal lavoro fino ad arrivare al licenziamento, ma principalmente attraverso la frammentazione, la definizione standardizzata dei tempi e dei compiti e l'istituzione del cottimo a tempo per l'esecuzione di ogni singola attività. 2.3 Il fordismo e l’avvento della produzione di massa Nonostante la notevole portata delle innovazioni proposte da Taylor con l'organizzazione scientifica del lavoro, sono state molte le resistenze da parte degli industriali americani. L'opera di Taylor costituisce la base dalla quale riparte un altro illustre personaggio dell'epoca: Henry Ford. Il grande successo di Ford sta proprio nel riuscire in ciò in cui Taylor aveva in qualche modo fallito, vale a dire adattare al lavoro operaio grandi masse dequalificate. Il punto di svolta risiede nella trasformazione delle operazioni di montaggio che trova nella assembly line (catena di montaggio) lo strumento della sua realizzazione. Con l'introduzione nel 1913 della catena di montaggio, i pezzi da montare vengono trasportati dal nastro davanti a postazioni fisse in cui le singole operazioni, semplificate e parcellizzate, vengono svolte dagli operai man mano che i pezzi passano. Con la catena di montaggio i tempi di lavoro sono incorporati dalla macchina e si impongono oggettivamente all'operaio che diventa una mera appendice della macchina stessa. Ford sceglie di puntare sulle masse piuttosto che sul saggio di profitto. Questo significa vendere di più ma a basso costo, piuttosto che in quantità minori a prezzi più alti. Il risultato di questa politica è il celebre modello da turismo (T), la prima automobile che permise a gran parte degli americani, per efficienza e basso costo (850 dollari), l'acquisto di un mezzo motorizzato. Fino al 1927 il modello T sarà l'unico prodotto dalla Ford e dalle sue officine usciranno 15 milioni di unità prodotte. Il successo del modello T è enorme, Il prezzo scende fino a giungere a 440 dollari. La produzione monta ad un ritmo vorticoso; nel 1915 Ford raggiunge un milione di vetture prodotte, mentre il 31 ottobre 1925 un vero record è stabilito: 9.109 macchine escono dalle officine Ford in un singolo giorno. E mentre i prezzi scendono, Ford aumenta i salari. Nel 1914 Ford annuncia unilateralmente, cioè senza aver concordato nulla con il sindacato, un accordo denominato five dollars day con il quale aumentava i salari da 2,3 a 5 dollari al giorno, per una giornata lavorativa ridotta da nove a otto ore. Tale accordo non si applicava a tutti i lavoratori, ma era ristretto ai soli maschi di "Buona moralità", oltre il ventunesimo anno di età. In questo modo, attraverso il disciplinamento dei lavoratori, si realizzava dunque un vero e proprio controllo sociale. Alla base del five dollars day risiede innanzitutto la necessità di assicurare un costante rifornimento di forza lavoro. Infatti, all'interno delle fabbriche del tempo nel settore delle auto c'era un elevatissimo livello di turn over, non esistevano diritti di anzianità, ogni lavoratore era usato alla giornata, il lavoro era monotono e alienante, per cui gli operai abbandonavano il lavoro dopo soli pochi giorni. La genialità di Ford è stata appunto quella di comprendere ed esaltare gli enormi vantaggi di un sistema quasi chiuso e massimamente stabile e questo ha consentito l'enorme aumento della produttività anche grazie all'operare di due meccanismi complementari: la specializzazione dei compiti e la standardizzazione dei componenti. Per quanto riguarda la specializzazione dei compiti, nel modello fordista-taylorista, ai lavoratori era richiesta una forma di cooperazione passiva intesa come fedele esecuzione di quanto stabilito dalle norme organizzative. La separazione tra le fasi di ideazione ed esecuzione è rigida. Il controllo sulla prestazione di lavoro era assicurato dal controllo sulle procedure lavorative in virtù della perfetta corrispondenza tra processi di produzione e procedure teoriche. L’idea chiave sottesa, invece, alla standardizzazione del prodotto era stata quella di scomporlo in un insieme di pezzi perfettamente intercambiabili e dotati di massima predisposizione all'incastro, la cui differenziazione era riservata alla sola fase finale di assemblaggio. Anche il processo veniva in questo modo notevolmente semplificato fino ad arrivare a lavorazioni monoprodotto a ciclo continuo, nelle quali si esaltava al massimo il principio della divisione del lavoro. La produzione in grandi quantità di prodotti standardizzati permetteva, inoltre, di ridurre i costi unitari di produzione sfruttando le cosiddette economie di scala. Inseguendo il modello della one best way le imprese ricevevano gli standard già precostituiti dal leader tecnologico, sacrificando così necessariamente la loro diversità individuale e quindi le occasioni di sviluppo e innovazione originale del prodotto e del processo, e questo smorzava la loro capacità auto-propulsiva e di risposta originale. La diffusione del fordismo ed il suo radicamento nei vari contesti nazionali hanno differito sensibilmente, influenzati soprattutto dai fattori di natura culturale e istituzionale. Le differenze emergono chiaramente se si confrontano, ad esempio, l'esperienza americana, laddove il fordismo è nato e si è sviluppato più veloce-mente, e quella della maggior parte dei paesi europei o del Giappone, oltre che tra differenti settori nello stesso paese. Nonostante le differenze riscontrabili nei vari contesti, il fordismo presenta comunque dei tratti fondamentali comuni che si riflettono sia nell'organizzazione del lavoro e della produzione sia nell'ambito delle relazioni industriali. In questo ambito nascono i sindacati industriali che organizzano sia gli operai specializzati che quelli comuni senza l'esclusione di nessuno, come avveniva per i sindacati di mestiere. Si estende e prende piede, come principio per la tutela del lavoro, la contrattazione collettiva. Con essa gli operai comuni acquisiscono diritti universali di tutela del loro lavoro come quello del salario minimo, o retribuzione di base in rapporto al grado di qualificazione senza l'esclusione di nessuno e dell’orario standard massimo di lavoro (8 ore giornaliere) a cui tutti devono, salvo eccezioni, attenersi. Con la contrattazione collettiva e con l'intervento dello Stato i lavoratori ottengono l'assistenza medico sanitaria e il diritto alla pensione attraverso la contribuzione congiunta lavoratore-datore di lavoro su fondi appositamente creati con questa finalità. Si ha, inoltre, un'estensione del ruolo dello Stato finalizzato a regolare la domanda, tenendo sotto controllo gli squilibri tra produzione e consumi. In questo modo si ottiene un effetto di controllo e stabilizzazione del mercato, creando le condizioni per il proliferare della produzione di massa che si determinano nel periodo post-bellico della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, la società occidentale fu spinta a omologarsi nei gusti e nelle scelte, a perdere l'identità e la particolarità delle comunità ristrette. Ciò rappresentò una fonte di malessere sociale dalle grandi conseguenze. L'industria, infatti, non trovava ostacoli alla sua espansione se non nella sua medesima capacità di produrre. I lavoratori si trasformavano da produttori in consumatori del loro stesso prodotto, infatti producevano una merce e percepivano un salario adeguato per comprarla. Le merci prodotte venivano vendute ad un prezzo sempre più basso in forza dell'automazione e della produzione in serie, mettendo così in condizione i "produttori-consumatori" di acquistarne sempre di più. Il modello produttivo fordista identificava i diritti dei cittadini con le esigenze del mercato: veniva riconosciuto il diritto di cittadinanza solo a coloro che erano collocati all'interno del mondo produttivo, in funzione della loro capacità di produrre. Nella filosofia fordista "la produzione produce il mercato", ossia la fabbrica produce ciò che si “deve" comperare, genera i consumi e con i consumi le mode, i costumi, le abitudini, i vizi, i modi di vivere e di pensare, e con essi le pseudo e le vere culture. Ed effettivamente in questo modello quanto usciva dalla fabbrica si piazzava sul mercato. Come diceva Ford, "tutto ciò che si produce si vende". La logica che ispira la produzione è di tipo verticale (logica Push), nel senso che la tipologia dei beni e i volumi produttivi sono stabiliti a monte dalla direzione aziendale, indipendentemente dalle quantità e dalle preferenze dei consumatori finali e del mercato. Dunque, la fabbrica è luogo centrale di decisioni strategiche, vi si decide cosa produrre, quanto produrre, con quali tempi e con quali modi. La fabbrica fordista era un luogo di scontro prevedibile fra due entità contrapposte perché portatrici di due interessi antagonisti: quello dell'impresa era di massimizzare la resa del lavoro, mentre quello degli operai era di minimizzarne l'erogazione. Nella fabbrica la distanza degli interessi dei lavoratori dipendenti da quelli della proprietà è data come naturale, accettata come un fattore antropologico. La tradizionale figura del padrone che aveva con gli operai un rapporto personale e diretto era stata sostituita da quella astratta e lontana della società per azioni, in cui uomini sconosciuti e lontani disponevano delle sorti dei dipendenti. La conseguenza di ciò fu che spesso l'intero agglomerato urbano divenne una sorta di appendice della fabbrica: nacquero le one company town, la città gravitante intorno alla sua fabbrica più importante dalla quale dipendeva interamente la maggior parte della popolazione. 2.4 Per una lettura critica del taylorfordismo Le critiche fatte al taylorismo si possono sintetizzare all’interno di tre principali chiavi di lettura: Il taylorismo inteso como modo di produzione capitalistico che intensifica lo sfruttamento del lavoro operaio Il taylorismo considerato come “utopia tecnocratica”, irrazionale nella sua pretesa di arrivare alla totale determinazione della condotta dei lavoratori Il taylorismo come formula organizzativa contingente all’ambiente ed al periodo storico in cui si è sviluppato. 2.4.1 Il taylorismo come sfruttamento Una prima chiave di lettura è interna alla corrente progressista della sociologia industriale e del lavoro che considera il taylor-fordismo come un insieme di principi e di metodi che determinano un'intensificazione dello sfruttamento del lavoro operaio. Tale chiave di lettura comprende al suo interno due distinte posizioni. La prima posizione è rappresentata dalla cosiddetta "critica umanistica" al taylorismo e trova in Georges Friedmann il suo esponente più noto. La "critica umanistica" si caratterizza per una diversa attenzione al problema dello sfruttamento del lavoro, sottolineando tra le principali conseguenze negative del progresso della scienza e della tecnica (il macchinismo industriale) l'assoluta mancanza di attenzione a quello che già Mayo, alcuni anni prima, aveva definito come "fattore umano". L'errore "tecnicista" di Taylor consiste nell'avere isolato la fabbrica dal complesso dei fattori fisiologici, psicologici, sociali e morali. Il cronometraggio dei tempi unitari, l'assimilazione del lavoro umano a un gioco di meccanismi inanimati, il misconoscimento del modo di funzionare fisico e mentale dell'organismo e delle sue esigenze specifiche, il procedimento di remunerazione dello sforzo, l'assenza di orientamento professionale, la selezione in base al rendimento provano che il creatore del sistema è stato senza dubbio un grande tecnico, ma non ha mai varcato i confini del suo universo da ingegnere. Niente è loro più estraneo della necessaria e costante collaborazione del tecnico col fisiologo e lo psicologo per uno studio veramente solido e penetrante dei problemi dell'industria. Friedmann propone una diversa organizzazione del lavoro che prenda invece in considerazione due aspetti principali: quelli fisio-biologici e quelli psico-sociologici. Per quanto riguarda gli aspetti fisio- biologici, lo studio della fatica, della monotonia del lavoro, delle condizioni ambientali in fabbrica (rumore, calore ecc.) rappresenta il primo approccio al problema che tiene presente l'ambiente di lavoro e le sue conseguenze quali malattie, infortuni etc. In sostanza, partendo dall'analisi dei fattori fisio-biologici, ci si rende conto che una migliore attenzione prestata alla macchina-uomo e alle sue reali caratteristiche può portare ad un più elevato livello di produttività. Lo studio del tempo e dei movimenti sarà compiuto all'unico scopo di diminuire la fatica, non di aumentare la produzione; il principio fondamentale dello studio dei movimenti non è la velocità, ma il ritmo: la serie migliore dei movimenti sarà non la più rapida ma la più comoda; Lo studio dei tempi deve servire ad analizzare un'operazione per migliorarla dal punto di vista dell'efficienza umana, non per standardizzarla e imporre lo standard basato su di essa; L'analisi dei tempi e dei movimenti s'inquadra in un vasto campo di studi dell'elemento umano dell'industria e può essere condotta solo in collegamento con altri problemi fondamentali. Oltre al rapporto produttività-miglioramento delle condizioni materiali di lavoro, l'attenzione deve concentrarsi sul rapporto esistente tra la produttività e una serie di variabili psico-sociologiche quali la considerazione di sé, la creazione di gruppi informali, la libertà dal controllo, tutte ruotanti, direttamente o indirettamente intorno al problema dell'autorità nell'impresa. La seconda posizione si rifà sostanzialmente a Harry Braverman ed alla critica marxista. Secondo Braverman lo sfruttamento e soprattutto l'alienazione, derivano dalla netta separazione tra la fase di ideazione e quella di esecuzione introdotta da Taylor con l'organizzazione scientifica del lavoro e sviluppata successivamente da Ford con la ulteriore parcellizzazione delle mansioni e la meccanizzazione delle operazioni. In particolare, secondo lui la direzione scientifica rappresenta l'espressione tipica del modo di produzione capitalistico. Il lavoro è svuotato dei suoi contenuti intelligenti e con essi il lavoratore perde il controllo sul proprio lavoro e sul modo di eseguirlo, controllo che passa ora nelle mani del capitalista. Per uscire dall'afflizione taylor-fordista e dalla situazione di degrado in cui versano i lavoratori, Braverman riprende Marx e individua una strada ben precisa, la fine del capitalismo attraverso la riorganizzazione del modo di produzione e la riappropriazione del controllo da parte degli operai. Per far questo il lavoratore deve ricomporre definitivamente quella frattura tra ideazione ed esecuzione con una maggiore istruzione e formazione per arrivare alla perfetta conoscenza delle caratteristiche del processo produttivo in ogni sua fase. A partire dalla fine degli anni Settanta la tesi di Braverman del progressivo impoverimento del lavoro operaio è stata in parte o del tutto confutata da numerosi autori, dando vita ad un ampio dibattito sociologico che costituisce la base di quella corrente di pensiero, prevalentemente anglosassone, definita Labour Process Theory. Per i teorici del processo lavorativo (Labour Process Theorists) la chiave interpretativa per comprendere le forme e le trasformazioni nell'organizzazione del lavoro risiede nei tentativi intrapresi dai capitalisti per rendere il lavoro più produttivo al fine di ottenere un profitto (o surplus) più elevato. Tali autori concentrano l'attenzione principalmente sul tema e sulle dinamiche del "controllo" e in particolare sulle strategie manageriali per accrescere la produttività e "contrastare" la soggettività operaia. La teoria dei processi lavorativi differisce sostanzialmente dagli approcci manageriali nello studio delle organizzazioni perché enfatizza alcuni aspetti fondamentali. Innanzitutto, il controllo sui lavoratori è considerato pervasivo e oppressivo, aperto alla contestazione ed al conflitto. Il controllo non rappresenta una modalità naturale ed inevitabile, bensì un prodotto sociale e storico e soggetto a molteplici sfide e trasformazioni. Tra primi a contestare il pessimismo della tesi di Braverman ricordiamo Andrew Friedman (1977) e Richard Edwards (1979). Nella sua analisi Friedman riconosce l'importanza della resistenza operaia contro i tentativi del management di intensificare lo sfruttamento e la dequalificazione dei lavoratori. Tuttavia, egli si discosta da Braverman sostenendo che, oltre al controllo diretto sul lavoro, il management ricorre spesso a strategie alternative, più sofisticate, definite come "autonomia responsabile". L'obiettivo è quello di "imbrigliare" i lavoratori favorendo la loro integrazione e il loro coinvolgimento nel processo produttivo, a tutto vantaggio dell’impresa, lasciando loro maggiore autonomia e responsabilità e garantendogli uno status più elevato. La crescita del consenso operaio e le nuove modalità di controllo sono al centro anche dell'analisi di Burawoy che fornisce uno dei contributi più significativi all'interno della Labour Process Theory. Egli sostiene che l'essenza del modo di produzione capitalistico non è quella di intensificare lo sfruttamento del lavoratore e di separare il momento dell'ideazione dalla esecuzione, bensì assicurare e occultare il prelievo di surplus. Il capitalista è quindi disponibile a dare anche maggiore autonomia ed arricchire di contenuti il lavoro operaio oppure a riconoscere alcuni diritti di tutela sindacale, ma tutto ciò dà origine solo al consenso e non ad una completa identità del lavoratore con il proprio lavoro. 2.4.2 Il taylorismo come utopia tecnocratica Taylor non considerava i membri dell’organizzazione come degli esseri umani bensì come dei meri ingranaggi di una macchina. La prima analisi critica sugli effetti del Taylor-fordismo è quella di Mayo e dei suoi collaboratori che, con le loro ricerche, segnarono la nascita del movimento delle "relazioni umane". Alle radici del movimento risiede l'individuazione dei rapporti tra gruppi di lavoro e direzione come uno dei problemi fondamentali della grande industria. Il punto di partenza è rappresentato dagli esperimenti effettuati da Mayo e dalla sua équipe di ricercatori, tra il 1927 e il 1932, su un gruppo di operaie della Western Electric Company di Hawthorne (una società che produceva apparecchiature elettriche) addette al montaggio di relè telefonici. In particolare, le ricerche di Mayo furono commissionate solo dopo alcuni esperimenti effettuati dalla direzione della società già nel 1924. Attraverso tali esperimenti, condotti secondo la logica "razionale" di stampo tayloristico, si era cercato di aumentare la produttività ricorrendo ad un miglioramento delle condizioni dell'ambiente di lavoro consistente nell'aumento della luminosità. In sintesi, i ricercatori della Western Electric Company avevano preso due squadre di operaie ed avevano modificato la luminosità dell'ambiente, aumentandola nel gruppo sperimentale e lasciandola invariata nel gruppo di controllo. Il risultato fu che la produttività aumentò per il gruppo sperimentale, ma anche nel gruppo di controllo, sia pure in misura inferiore. La confusione dei ricercatori aumentò quando, in un ulteriore esperimento, la produttività continuò a crescere anche a fronte di una diminuzione della luminosità. Gli esperimenti di Hawthorne avevano dimostrato, quindi, che non esisteva una correlazione chiara tra il grado di illuminazione e il rendimento delle operaie, ma era altrettanto evidente che c'era qualcosa di "inspiegato" che doveva essere ulteriormente investigato. Solo in seguito si giunse ad una spiegazione di questo fenomeno che venne definito come "effetto Hawthorne". In altre parole, per poter effettuare l'esperimento, le operaie selezionate erano state collocate in ambienti speciali, lontano dal resto dei lavoratori. Questa attenzione particolare della direzione nei confronti delle operaie era stata interpretata come una sorta di "privilegio" e si era tradotta in un incremento della produttività. Un'ulteriore interpretazione è quella secondo il quale le operaie del reparto di controllo, che erano al corrente dell'esperimento, avrebbero interpretato la diminuzione della luminosità come una sfida alle loro capacità, da qui la reazione e l'aumento della produttività. In entrambi i casi era comunque evidente l'operare di un meccanismo di tipo psicologico, fino ad allora non considerato, che andava ulteriormente approfondito. A tal fine i dirigenti della Western Electric Company decisero di affidare a Elton Mayo il compito di svolgere un intenso programma di ricerche. Tali ricerche si concentrarono su tre ambiti fondamentali: I fattori che favoriscono il rendimento operaio; I motivi di lamentela o soddisfazione nelle fabbriche; Le dinamiche ed i rapporti che si instaurano informalmente tra gli operai I fattori che favoriscono il rendimento operaio: In questo ambito di ricerca vennero condotti tre esperimenti. Nel primo, relativo ai fattori che favoriscono il rendimento, alcune operaie addette al montaggio dei relè telefonici furono collocate in un ambiente appositamente preparato ed attrezzato. Le operaie (cinque addette al montaggio ed una al rifornimento dei materiali) non erano più soggette al controllo della caporeparto, ma erano "osservate" da un rappresentante della direzione al quale spettava il duplice compito di annotare quello che accadeva nella stanza e, soprattutto favorire la creazione di un ambiente di lavoro più gradevole e armonioso. Il cottimo venne modificato e la retribuzione del singolo venne legata alla performance dell’intero gruppo. L’esperimento durò circa due anni e fu suddiviso in più periodi all’interno dei quali furono introdotte pause di lavoro e progressive riduzioni della giornata lavorativa. Il risultato finale fu un aumento della produttività. Il successo dell’esperimento fu dovuto da una parte gli incentivi economici, dall’altra all’introduzione delle pause di lavoro ed al il clima di amicizia che si era instaurato tra le operaie. In seguito, si avviarono altri esperimenti ma a differenza del precedente, non si registrò alcun aumento della produttività. Quindi rifacendosi soprattutto ai risultati del primo esperimento, Roethlisberger e Dickson sottolinearono, che l'aumento della produttività dipendeva innanzitutto dalla creazione di relazioni di lavoro amichevoli tra i componenti del gruppo e dalla mutata natura del controllo (la supervisione amichevole) sui lavoratori. I fattori di lamentela e soddisfazione nel luogo di lavoro: Il secondo ambito di ricerche fu un vero e proprio tentativo di assistenza psicologica non direttiva. L'esperimento consistette in un programma intensivo di interviste successivamente allargate a tutti i dipendenti dell'azienda finalizzate a conoscere i principali motivi di lamentela e soddisfazione da parte dei lavoratori. Il lavoro di ricerca fu interrotto a seguito della crisi economica, ma l'analisi delle interviste fino ad allora realizzate evidenziò il netto prevalere delle lamentele legate, soprattutto, all'esiguità della paga, al controllo troppo stretto da parte dei sorveglianti, alla lunghezza eccessiva dell'orario di lavoro. Le interviste, oltre a rilevare le principali fonti di lamentela, ebbero soprattutto l'effetto di cogliere lo sfogo dei lavoratori, i loro sentimenti, i loro stati d'animo. In altre parole, l'esperimento aveva investigato una dimensione umana, non razionale fino ad allora inesplorata che produsse un effetto inatteso e fece sì che i lavoratori percepissero l'iniziativa come un segnale di più maggiore attenzione dell'azienda nei loro confronti. Il ruolo dei gruppi informali nell'organizzazione: Il terzo ambito di ricerche focalizza l'attenzione sullo studio dei gruppi di lavoro informali e sulle dinamiche che si innescano tra i membri. A tal fine i ricercatori analizzarono il comportamento di un gruppo di quattordici operai per un periodo di sette mesi, al termine del quale constatarono effettivamente che il gruppo controllava e limitava intenzionalmente la produzione. In particolare, il gruppo aveva stabilito informalmente al proprio interno una serie di norme ben precise che regolavano il comportamento di tutti i membri secondo quella che era stata definita come "la giusta giornata lavorativa". Coloro i quali non rispettavano le regole del gruppo erano sottoposti a vere e proprie punizioni che potevano sfociare anche in maltrattamenti e prevaricazioni da parte degli altri componenti del gruppo. Dalla ricerca emerse, quindi, l'importanza del gruppo informale inteso come sub-sistema sociale all'interno dell'organizzazione della fabbrica, un gruppo in grado di elaborare autonomamente delle regole, di individuare delle strategie ben precise, di farle valere e rispettare tra i propri membri. In generale, le tre ricerche del gruppo di Harvard suggeriscono di ricollocare l'individuo, con i suoi bisogni, le sue capacità, le sue aspirazioni, i suoi valori al centro del processo lavorativo e dell'organizzazione restituendogli quegli spazi che gli erano stati tolti. Il punto di svolta consiste nel riconoscimento di una soggettività fino ad allora trascurata. Un altro aspetto riguarda il rapporto tra produttività e leadership. Secondo i teorici delle relazioni umane una maggiore attenzione della direzione nei confronti dei lavoratori conduce ad un incremento della produttività. La leadership è concepita, infatti, come strumento per influenzare e orientare nella direzione voluta il comportamento dei dipendenti. Essa deve avere alcune caratteristiche fondamentali: Deve essere democratica piuttosto che autoritaria; Deve avere come obiettivo la gestione dei dipendenti e non solo la produttività. Gli esperimenti avevano mostrato, infatti, che le operaie lavoravano meglio e producevano di più quando il rapporto con i capi era più diretto, c'era un rapporto di fiducia e di amicizia, e il controllo era meno serrato. Infine, una buona leadership è in grado di far leva sul morale dei dipendenti e, quindi, accrescerne l'impegno aumentandone il rendimento e la produttività, Tutto ciò, sottolinea Mayo richiede da parte dei manager un addestramento specifico per diventare maggiormente sensibili alle caratteristiche psicologiche e sociali dei propri dipendenti. Le ricerche di Hawthorne hanno messo in evidenza che, oltre all'organizzazione formale, esisteva anche una fitta rete di relazioni informali, fondate sull'amicizia, sull'appartenenza, sulla solidarietà tra i membri del gruppo di lavoro. Tali relazioni si traducono in regole non scritte che guidano il comportamento dei soggetti e, quindi, incidono direttamente sulle performance complessive dell'organizzazione. Ne deriva che la direzione, per trarne vantaggio ed aumentare la produttività, deve fiorire la creazione di piccoli gruppi informali, a differenza di quanto prescritto da Taylor, e deve essere sufficientemente abile nel ricreare all'interno del gruppo un clima di armonia e di collaborazione. Complessivamente però Mayo subì numerose e profonde critiche. Innanzitutto, molte delle ricerche condotte negli anni successivi da altri studiosi hanno rivelato che non esiste una correlazione univoca tra la soddisfazione personale (il morale dei lavoratori) e la produttività. Infatti, in alcuni casi l'elevata soddisfazione personale coincideva con bassi rendimenti, in altri, un basso grado di soddisfazione determinava rendimenti elevati. Michel Crozier va oltre questa semplice interpretazione mettendo invece in evidenza il ruolo della soggettività del lavoratore che si traduce in azioni concrete e strategie ben precise per sfuggire al controllo sempre più stretto del controllo dei manager. In particolare, Crozier nota come sia pure ridotti dall’organizzazione scientifica del lavoro ad un compito stereotipato, gli operai cercano in tutti i modi di introdurre di nuovo un elemento di imprevedibilità nel loro comportamento, sufficiente a ridar loro un po' del loro potere contrattuale. Un esempio di tali strategie sono i trucchi adottati dagli operai per bloccare o rallentare la linea produttiva oppure, al contrario, le lotte degli operai descritte per accumulare pezzi di riserva mediante l'accelerazione dei ritmi. Fare delle riserve dà all'operaio quel margine di sicurezza necessario per disporre di una certa libertà di azione all'interno della fabbrica. Questa libertà di azione permette al lavoratore di avere un po' di tempo per dedicarsi ad attività più personali o, comunque, di aumentare il margine di controllo sul proprio lavoro, infine gli offre un maggiore potere di scambio nei rapporti con i suoi superiori. Crozier conclude la sua analisi critica estendendo ad altri soggetti quant' aveva considerato a proposito degli operai. Egli afferma, infatti, che all'interno di un'organizzazione, in situazioni di incertezza, tendono a stabilirsi due tipi di potere, il potere dell'esperto, cioè il potere di cui un individuo (il manager) dispone per la sua capacità di controllare una determinata fonte di incertezza che può pregiudicare il funzionamento dell'organizzazione, e il potere gerarchico funzionale, cioè il potere che hanno a disposizione certi individui (gli operai), grazie al loro ruolo nell'organizzazione, per controllare il potere dell'esperto. In altre parole, in una qualsiasi organizzazione, ogni individuo, dispone di risorse personali, non completamente controllabili, traducibili in strategie che possono compromettere il corretto funzionamento dell'organizzazione, nonostante gli sforzi dei capi di imporre dall'esterno le regole e i comportamenti desiderati. 2.4.3 Il taylorismo come modello organizzativo contingente La terza interpretazione del taylorismo analizza il rapporto tra il modello organizzativo (scientific management) e l’ambiente. Tra gli autori più importanti troviamo Alain Touraine, Paul Lawrence e Lorsch. Touraine analizza il sistema di fabbrica e ricostruisce, utilizzando come variabile strategica la tecnologia, l’evoluzione nell’organizzazione del lavoro e della produzione alla Renault in tre distinti periodi (1920,1935,1948). In particolare, egli individua tre fasi: La prima è la cosiddetta fase A segnata dal predominio delle macchine universali e polivalenti a comando elettrico, macchine piuttosto flessibili in grado di compiere più operazioni. In questa fase si afferma una figura, l'operaio specializzato, caratterizzata da una elevata professionalità ed abilità nell'uso delle macchine. Il passaggio alla fase B, quella taylor-fordista, è segnato dalla specializzazione delle macchine, "dedicate" allo svolgimento di un numero limitato o di una sola operazione. Una tale trasformazione nella tecnologia è funzionale al lavoro da svolgere dal momento che, per gran parte del tempo, le macchine compiono la stessa operazione. Rispetto a quelle della fase precedente le nuove macchine "dedicate" sono più rigide, semplici da manovrare e da riparare, e ciò determina un cambiamento nella tipologia di operaio addetto alle macchine stesse. La dequalificazione del lavoro operaio, l'introduzione della catena di montaggio e l'applicazione dei principi dello scientific management hanno segnato quindi la fine dell'operaio di mestiere e l'affermazione dell'operaio massa. La fase C è quella delle macchine transfer o automatiche (i robot). Con l'introduzione delle macchine transfer l'organizzazione del lavoro si trasforma, la macchina si sostituisce all'uomo e ciò si traduce essenzialmente in due questioni. Da una parte, la sostituzione del lavoro "vivo" con lavoro "morto" ha determinato un incremento della disoccupazione, dall'altra, ancora una volta, ha mutato la natura del lavoro operaio che, da semplice prolungamento o appendice della macchina, si trasforma in "controllore" e manutentore della macchina. Anche i tempi e i ritmi di lavoro cambiano, infatti, si passa dai ritmi frenetici, quasi ossessivi della produzione taylor fordista alla routine ed alla normalità delle operazioni tecniche di controllo. Nella sua ricerca, finalizzata ad individuare le motivazioni che spingono le imprese a discostarsi dalla One best way e ad organizzarsi secondo modelli differenti, Joan Woodward (1975) analizza cento imprese inglesi operanti in settori differenti. A differenza di Touraine, la sua ricerca è di tipo comparativo tra imprese in un determinato periodo storico (agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso). In particolare, la Woodward ha utilizzato le variabili della quantità di produzione e quella tecnologica per distinguere tre differenti tipologie di imprese caratterizzate da un livello crescente di complessità della tecnologia utilizzata: 1. Imprese addette alla produzione di singole unità o di piccoli lotti, cioè imprese semi artigianali, specializzate nella produzione di beni qualitativamente elevati e di lusso, ad esempio le imprese che operano nel settore della moda; 2. Imprese addette alla produzione di massa, ad esempio le industrie nel settore automobilistico; 3. Imprese che producono sempre su economie di scala, ma che si basano su processi di produzione continua, cioè sulla trasformazione chimico fisica del prodotto e non attraverso interventi diretti di tipo manuale, ad esempio, le industrie siderurgiche e petrolchimiche. Dopo aver classificato ed analizzato le imprese, la Woodward si è accorta che con la crescita della dimensione di massa del mercato (da prodotti unici a prodotti di serie) e della complessità tecnologica, la struttura interna dell'organizzazione era sempre più formalizzata, rigida e definita stabilmente. Ad esempio, nelle industrie di processo il livello di predeterminazione era strettamente collegato alla natura delle lavorazioni altamente tecnologiche in cui poco spazio era lasciato all'intervento umano, se non il controllo tecnico delle macchine. Analogamente, nelle "industrie di massa" la dimensione del mercato e la complessità della tecnologia utilizzata richiedevano un modello organizzativo piuttosto rigido, anche se la maggiore utilizzazione del lavoro umano ha spinto alla ricerca di un migliore adattamento alle problematiche sociali che derivano dal lavoro in fabbrica. Nelle "industrie semiartigianali", invece, specializzate nella produzione di prodotti unici o in piccola serie, l'elevata differenziazione influiva sulla natura dell'organizzazione interna che doveva essere più flessibile, caratterizzata da una maggiore informalità delle relazioni e da un controllo meno rigido sui lavoratori. Secondo Lawrence e Lorsch sarebbe un gravissimo errore pensare che un modello organizzativo possa avere valore universale e produrre sempre gli stessi risultati anche in contesti diversi. Ambienti differenti pongono alle organizzazioni sfide differenti, per cui il modo "più efficace" di organizzare, e non il modo migliore, dipende dalla maggiore o minore capacità delle organizzazioni di adeguare la propria struttura interna alle caratteristiche dell'ambiente in cui operano. Loro sostengono inoltre che ogni organizzazione, al proprio interno, riproduce più modelli organizzativi, e non uno solo, per interagire più efficacemente con l'ambiente. Funzioni interne dell'organizzazione hanno relazioni diverse con l'esterno. L'ambiente, infatti, non è prevedibile, ma può essere suddiviso in tre distinte aree lungo un asse di prevedibilità- imprevedibilità. Le tre aree da loro individuate, caratterizzate da un livello decrescente di prevedibilità, sono: L'area scientifica, L'area commerciale, L'area tecnica alle quali corrispondono, nell'organizzazione, il settore ricerca e sviluppo (R&D); il settore marketing e, infine, il settore tecnico-produttivo. Ne deriva che in funzioni che rispondono a contesti caratterizzati da una elevata imprevedibilità sia preferibile un modello che potremmo definire "organicistico", cioè flessibile, caratterizzato da una bassa complessità organizzativa, formalizzazione e centralizzazione. Dall'altra parte, invece, le funzioni che rispondono ad ambienti stabili e prevedibili rappresentano il terreno più fertile su cui sperimentare soluzioni organizzative di tipo "meccanicistico", vale a dire con soluzioni molto formalizzate e con una elevata centralizzazione del potere decisionale. Il taylorismo ha rappresentato storicamente il modello organizzativo più adeguato alle caratteristiche dell'ambiente in quella fase, con un mercato stabile e prevedibile che ha reso possibile la nascita e la diffusione su vasta scala della produzione di massa. CAPITOLO 3: IL POST-FORDISMO E LA NUOVA ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO IN FABBRICA 3.1 L’evoluzione delle formule organizzative: dal taylor-fordismo alla lean production I primi sentori della crisi del modello fordista si sono avuti intorno agli anni 70. In un periodo di crescente competizione, l’impresa si è rivelata incapace di far fronte alle nuove e diversificate richieste della domanda, ai rischi crescenti ed alle pretese degli azionisti. Tra i fattori che hanno avviato il processo di cambiamento del vecchio modello vanno ricordati la saturazione del mercato di beni standardizzati e di bassa qualità alla quale si accompagna la concorrenza dei paesi emergenti caratterizzati da un più basso costo del lavoro; la frantumazione del mercato dovuta alla crescente diversificazione nella domanda di beni di consumo; i costi e le rigidità della burocratizzazione aziendale e di un’organizzazione del lavoro troppo parcellizzata, in una situazione di instabilità che richiedeva maggiori capacità di risposta e adattamento alle mutevoli esigenze del mercato. L'insieme di questi fattori ha determinato il venire meno di quelle condizioni di prevedibilità e di stabilità nel controllo del lavoro e nel mercato dei beni. Pertanto, la flessibilità, diventa un'esigenza prioritaria per ogni organizzazione produttiva. Le tendenze di crisi del modello si manifestano in maniera più o meno dirompente a seconda della capacità dei differenti contesti istituzionali di frenare il conflitto industriale (esploso alla fine degli anni Sessanta) e di mantenere una politica di regolazione della domanda tali da garantire condizioni di maggiore stabilità. In particolare, l'esistenza di un sistema di rappresentanza più strutturato di tipo neocorporativo e di pratiche di concertazione, hanno reso meno dirompenti le tendenze di crisi del fordismo in alcuni paesi europei, mentre laddove mancavano questi caratteri istituzionali, come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Italia, lo shock è stato più forte e le trasformazioni sono state socialmente più costose. Agli inizi degli anni Ottanta, inizia lo sviluppo di un nuovo modello organizzativo, la fabbrica "automatizzata" (incentrata sui modelli di Computer Integrated Manufacturing), basato sull'uso delle nuove tecnologie di processo dell'informazione per svolgere mansioni operative. Ad esempio, l'automazione ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia dell'evoluzione organizzativa della FIAT, ponendo le basi di quello che sarà il modello organizzativo successivo: la fabbrica integrata. In particolare, a partire dai primi anni Ottanta la FIAT realizza a Termoli (in Abruzzo) ed a Cassino (nel Lazio) due tra gli stabilimenti più automatizzati a livello internazionale nel settore della produzione di automobili. Lo sviluppo di macchine quali i computer, capaci di memorizzare ed elaborare le informazioni; le reti telematiche, per trasferire i dati da un punto all'altro del sistema in tempo reale; le macchine automatiche, che realizzano trasformazioni materiali molto complesse sotto la guida di un programma operativo ad hoc, ha ridotto enormemente il costo dell'informazione per unità di tempo. Le singole macchine dimostrano di essere in grado di compiere, senza l'intervento dell'uomo, operazioni molto complesse all'interno di una gamma di possibilità già esistenti e precodificate. Le imprese tendono quindi a perseguire un nuovo obiettivo: la sostituzione del "lavoro vivo" con "lavoro morto" quale premessa per la progressiva indipendenza dal "fattore umano", considerato imprevedibile a causa di problemi e anomalie legate a fattori personali "devianti" rispetto alle modalità di lavoro predefinite che interrompono l'uniformità e la regolarità della prestazione lavorativa. Nel caso della FIAT, dal 1980 al 1982, il numero dei dipendenti nel settore dell'auto passa da 140.000 a meno di 100.000, con una riduzione pari a circa il 30%. Allo stesso tempo gli indici di produttività aumentano decisamente, si passa infatti dalle 9,4 auto per addetto del 1979 alle 19 del 1986, fino alle 31,2 del 1989. Le tecnologie dell'informazione iniziano ad agire sul livello di complessità divenuta ormai ingestibile tramite le tecniche della meccanizzazione. Tale orientamento portava a dominare la complessità con la realizzazione di sistemi cibernetici automatizzati in grado di reagire alle turbolenze esogene, tramite l'elaborazione di routine di risposta pianificate ab initio. La flessibilità incorporata in questo sistema era tuttavia una flessibilità statica, la quale si è rivelata rapidamente inadatta ad affrontare le sfide che si sono presentate all'apertura dell'ultimo decennio del secolo scorso. Gli impianti, progettati a livelli massimi di sofisticazione per ridurre o addirittura eludere l'intervento dell'uomo, si rivelarono troppo rigidi e incapaci di gestire adeguatamente le frequenti variazioni tecniche e le anomalie di processo. L'aumento nel numero delle fermate degli impianti dovute ad inconvenienti non programmabili a priori, ed una qualità del prodotto al di sotto degli standard prefissati rendevano quindi urgente un nuovo modello organizzativo caratterizzato da un apporto più attivo del lavoratore. Una delle strade perseguite dalle grandi aziende è stata quindi l'abbandono, agli inizi degli anni Novanta, delle prospettive della fabbrica automatizzata ed il ridimensionamento dell'ottica della completa integrazione informatica fra le varie funzioni aziendali. Allo stesso tempo si è sviluppato un processo di profonda ristrutturazione della produzione industriale. Con l'affermazione su scala mondiale delle aziende giapponesi, i modelli che sono stati definiti con i termini di «sistema produttivo Toyota» o «sistema produttivo giapponese» sono diventati il punto di riferimento delle grandi imprese internazionali per il radicale cambiamento dei concetti e dei criteri di progettazione e gestione della produzione. Agli inizi degli anni Novanta, è sembrato che la lean production (produzione snella), intesa come l'insieme dei tratti di validità universale dei modelli di produzione giapponesi, potesse dare un volto e una connotazione precisa al nuovo modo di organizzare il lavoro e la produzione. In tale prospettiva il capitale umano presente sia nell'individuo che nei team di lavoro assume nuovi connotati che lo rendono la più importante risorsa strategica in possesso di una organizzazione. I nuovi modelli organizzativi vengono definiti da gran parte della letteratura come market driven ovvero "guidati dal mercato". Il nuovo modello non ruota più intorno al concetto di standard e di posizione, bensì recepisce e fa proprio il concetto di unità organizzativa autosufficiente. La variabile critica cessa di essere la "routinizzazione" dei comportamenti, tipica del fordismo-taylorismo, per divenire la capacità delle diverse aree strategiche di gestire con maggiore autonomia parti dell'intero processo produttivo. Le imprese devono quindi confrontarsi con una crescente instabilità dell'ambiente che ha assunto carattere strutturale e con l'esigenza di una maggior sofisticazione dei prodotti e/o servizi. In questo modello vengono sottolineati i principi della messa a flusso della produzione, del trascinamento di essa da parte del mercato: passaggio dalla logica push alla logica pull. È implicito nella prima il concetto che i materiali debbano essere pronti e che debbano solo aspettare i lavoratori, in modo che nessun operaio debba perdere tempo nell'attesa. Per evitare questa perdita di tempo per lavoratori e macchine, il tradizionale approccio occidentale è di mantenere code di lavorazioni davanti a ciascuna macchina e cumuli di parti componenti in attesa di lavorazione. Questo atteggiamento nei confronti del controllo della produzione è definito appunto come metodo push, nel senso che i materiali dovrebbero essere spinti fuori dai magazzini o dai reparti produttivi in base a programmi prestabiliti. Le migliori aziende giapponesi hanno adottato, invece, una prospettiva del tutto diversa per affrontare il problema della programmazione della produzione. Qui i materiali non devono essere spinti verso la produzione, ma è necessario adottare un sistema che "tiri" (to pull, tirare) i materiali verso la fabbrica. I materiali escono dai magazzini e la produzione inizia in un determinato reparto solo quando questo è richiesto da una operazione a valle o dalla domanda finale. La produzione non viene quindi avviata dal programma di produzione, ma dalle necessità delle operazioni che seguono. I risultati di tale approccio sono riassumibili in livelli inferiori di scorte, migliore qualità del prodotto, flusso di produzione più armonico, maggiore coinvolgimento dei lavoratori. 3.2 I pilastri del livello giapponese Taïchi Ohno è considerato come il padre fondatore del sistema di produzione Toyota e della lean production, la fabbrica "snella" o "integrata", la cosiddetta fabbrica a sei zeri, vale a dire:' "zero stock" "zero difetti", "zero conflitto" "zero tempi morti di produzione", “zero tempo di attesa per il cliente" e "zero burocrazia". Come si evince dal suo testo i due pilastri del sistema Toyota per ottenere l'eliminazione totale degli sprechi sono il just in time e l'autoattivazione (o autonomazione) dei lavoratori. Il just in time rappresenta il principio organizzativo cardine che regola gli approvvigionamenti di materiali e componenti, in base al quale ogni attività lavorativa deve essere alimentata con i componenti richiesti, nel tempo richiesto, e nella quantità esattamente richiesta per l'assemblaggio del prodotto finale. In questo modo, ciascun componente arriva alle varie postazioni sulla linea di montaggio nei tempi e nelle quantità designate, prevenendo la necessità di mantenere scorte in magazzini o polmoni intermedi. Il just in time punta a ridurre i costi elevati di stoccaggio tipici della produzione di massa in grandi serie, attraverso la valorizzazione di quelle operazioni in grado di generare effettivamente valore aggiunto al prodotto. Lo strumento usato nella pratica per rendere effettivo il just in time è rappresentato dal sistema di comunicazione interna kanban. Con questo termine giapponese si intende il cartellino attaccato ai contenitori di parti che regolano la logica pull del just in time nel sistema produttivo Toyota, segnalando a monte produzione e consegne. Nel modello fordista il flusso della comunicazione procedeva linearmente dal centro verso la periferia dell'apparato produttivo, secondo un processo decisionale che vedeva al vertice i manager dell'impresa ai quali spettava il compito di stabilire i volumi produttivi ed i tempi di ciascun reparto, e si estendeva ai vari segmenti del processo lavorativo da monte a valle. Invece, nel sistema Toyota la comunicazione procede al contrario, da valle a monte, prendendo origine sulla linea di confine tra fabbrica e mercato trasmettendosi, sotto forma di domanda di pezzi o semilavorati, all'indietro lungo il ciclo lavorativo attraverso la segnalazione-richiesta che ogni stazione di lavoro fa alla precedente circa l'uso dei materiali necessari, istante per istante, per far fronte alla domanda. In questo modo, sono i segmenti finali che attivano il processo lavorativo e che impongono il ritmo all'intero sistema produttivo. Affinché il sistema possa operare correttamente ed in modo efficiente, i processi produttivi devono essere articolati in modo da ottenere il miglior livello possibile di continuità del flusso. La lean production adotta la disposizione ad "U" (in contrapposizione ai layout prodotti dal taylorismo e dal fordismo, del tipo a "gabbia d'uccello" "ad isole autonome", oppure "in linea"), la cui caratteristica principale è data dal fatto che le entrate e le uscite della linea devono trovarsi l'una di fronte all'altra. In pratica, il flusso produttivo è organizzato secondo diverse postazioni alle quali corrispondono delle serie di operazioni. A ciascun lavoratore, addetto a più macchine, vengono assegnate una serie variabile di operazioni stabilite sulla base della natura e del volume di ordini indirizzati all'impresa. I vantaggi dell'organizzazione ad "U" sono riconducibili alla drastica riduzione dei tempi d'attesa, di stoccaggio e di trasferimento. In questo modo, il lavoratore opera nella condizione di dovere necessariamente massimizzare il suo tempo operativo. In secondo luogo, su uno stesso tipo di layout, le mansioni assegnate a ciascun lavoratore possono essere ridefinite in ogni momento e ricomposte. Secondo Ohno occorre impedire che il lavoratore si senta fisicamente costretto attraverso la rigorosa delimitazione degli spazi d'attività individuale, evidenziando l'importanza della cooperazione. Per quanto riguarda, invece, l'autoattivazione viene definita come un particolare uso delle macchine e del rapporto uomo-macchina diretto a permettere all'apparato produttivo di retroagire con l'ambiente, intervenendo direttamente nel caso si producano difetti del prodotto e auto correggendo l'errore in tempo reale, nell'esatto momento e nell'esatto segmento del ciclo lavorativo in cui il difetto si è generato. L'autoattivazione si propone di ovviare ad altri due punti di debolezza della produzione di massa. Da una parte, la mancata possibilità di arrestare la catena di montaggio, anche in presenza di difetti gravi, rimandando quindi la possibilità di interventi correttivi alle fasi successive a valle del processo produttivo; dall'altra la tendenza dei macchinari, dedicati alla produzione in grandi quantità, a riprodurre e moltiplicare all'infinito i difetti perché incapaci di bloccarli alla fonte. Per questo, la fabbrica lean si avvale di macchine "auto-attivate" dotate cioè di dispositivi di arresto automatico e di meccanismi di prevenzione delle difettosità, chiamati poka yoke. Il nodo essenziale consiste nel dotare la macchina di intelligenza umana e, allo stesso tempo, nell'adattare ogni movimento del lavoratore alla macchina auto attivata. All'interno della fabbrica snella, la trasparenza e la supervisione del processo produttivo sono garantite da una serie di procedure che rientrano nella cosiddetta “direzione con gli occhi” e permettono di rendere visibile ogni evento che può verificarsi nello svolgimento delle attività lavorative all'interno della fabbrica. L'andon è uno dei principali strumenti attraverso i quali si realizza la direzione con gli occhi. In pratica, è un indicatore luminoso il cui funzionamento è sostanzialmente simile a quello del sema- foro: la luce verde indica che le attività procedono normalmente; la luce arancione indica invece che un lavoratore deve compiere un'operazione di regolazione sulla linea e necessita di aiuto; la luce rossa, infine, indica che la linea è ferma in seguito a possibili problemi. L'andon fornisce, quindi, tutta una serie di informazioni che sono immediatamente disponibili e visibili dai lavoratori e dalla direzione aziendale e che permettono al lavoratore ed alla squadra di intervenire immediatamente senza che l'anomalia si ripercuota sull'intero processo. Il sistema di produzione Toyota richiede una produzione livellata e piccole quantità di prodotti differenziati. Il problema fondamentale era dunque originariamente rappresentato dalla necessità di adeguare le attività di stampaggio alle esigenze di un sistema minimizzando i costi. Infatti, la produzione in piccoli lotti richiede che lo stampaggio di un determinato componente non sia protratto per tempi troppo lunghi, ma, al fine di rispondere alle differenti tipologie di prodotto, lo stampo deve essere sostituito più volte nel corso dello stesso giorno. Pertanto, con il progressivo diffondersi del livellamento produttivo, la sostituzione degli stampi è passata dalle due, tre ore degli anni Quaranta, ai tre minuti degli anni Sessanta. Per il raggiungimento di tali risultati sono stati determinanti l'apporto e le idee di ciascuno, contribuendo alla creazione di quella cultura comune basata sul coinvolgimento e sulla partecipazione attiva dei lavoratori. In questo contesto assume particolare importanza la formazione dei lavoratori che devono acquisire le competenze e le conoscenze necessarie. La fabbrica lean opera quindi secondo uno spirito improntato alla valorizzazione delle risorse umane ed al miglioramento continuo del prodotto e dei processi, sia nel breve che nel medio e lungo periodo. L nuova modalità di funzionamento dell'intera organizzazione è basata sul trasferimento delle responsabilità della gestione a team permanenti i che operano secondo la logica del problem solving. Al lavoratore, che opera all'interno di un team, non viene più chiesto soltanto di eseguire ripetitivamente una sola mansione, ma si aggiungono il controllo della qualità di ciò che produce e gli interventi di manutenzione preventiva, secondo la logica della Total Productive Maintenance (IPM). Con l'avvento dell'era della lean production si assiste ad un incremento della variabilità delle condizioni della produzione e della necessità di prendere decisioni non programmate a tutti i livelli organizzativi. Da un lato le risorse umane non giocano più come nell'epoca della burocrazia il ruolo di ingranaggio, ma diventano il motore primo del cambiamento; dall'altro l'intensità del controllo dell'organizzazione sui propri membri si fa più pregnante, passando dalla gerarchia al mutuo adattamento. Di conseguenza si passa dalla cooperazione passiva, alla gestione attiva delle interfacce che richiede un agire professionale guidato dal principio della competenza, della responsabilità e da un forte orientamento ai risultati. Il fabbisogno di cooperazione è motivato dal fatto che, essendo diminuito il controllo gerarchico ed essendo parimenti aumentata la complessità di ogni task (mansione), per ottenere un elevato grado di coesione fra i vari subsistemi è necessario puntare sulla collaborazione fra individui, in modo da consentire di generare capacità di risoluzione dei problemi più intense rispetto ad altre forme di cooperazione. 3.3 La fabbrica integrata Nella fabbrica integrata l'innovazione riguarda tutte le aree funzionali ed il rapporto di fornitura con le altre imprese. L'importanza assunta dall'integrazione tra funzioni e unità produttive è dovuta al nuovo principio per cui l'efficienza viene raggiunta anche con una riduzione significativa dei tempi di progettazione e di ingegnerizzazione del nuovo prodotto (time to market) e di attraversamento dei prodotti (lead time). La differenziazione dei gusti, e la conseguente necessità di fornire con frequenza ai consumatori sempre nuovi e interessanti modelli, fanno sì che la riduzione dei tempi dalla progettazione al lancio sul mercato del nuovo prodotto risultino fondamentali. Nella fabbrica integrata il management delega ad aziende fornitrici, definite come Capo filiera, la produzione e la gestione di componenti complessi, dando loro anche il potere di controllo sulle altre aziende fornitrici ai livelli più bassi. Secondo questa prassi, definita dalla letteratura sul tema come outsourcing o esternalizzazione, i fornitori operano secondo una logica di partnership con l'azienda ed il loro coinvolgimento incide ormai per il 70% circa sul prodotto finale. La logica della partnership è fondamentale trattandosi di un sistema molto delicato e complesso che richiede una elevata precisione negli "appuntamenti" ed un affiatamento tra le parti molto maggiore rispetto alla fabbrica tradizionale. Il modello di controllo passa da una logica improntata al rispetto delle routine ad una logica di gestione "per norme e obiettivi": aumenta lo spazio formale di lavoro non proceduralizzato e aumenta la quantità di informazioni a disposizione del lavoratore per permettergli di prendere decisioni non ripetitive. Esso può intervenire nella raccolta e decodifica degli input informativi che scorrono anche in senso orizzontale, il sistema comunicativo diviene più trasparente e il lavoratore interagisce attivamente con esso divenendo un nodo reticolare di governo della variabilità. Cambia anche la distribuzione del potere tra line e staff. Nella fabbrica snella l'integrazione tra line e staff si ottiene tramite lo slittamento verso il basso degli staff ed il baricentro del nuovo modello organizzativo si sposta dagli uffici alle officine. Con l'avvento della lean production i tecnici sono scesi dal vertice, creando nuovi ruoli abilitati a lavorare in officina a fianco delle macchine. Le funzioni perdono la loro tradizionale indipendenza calandosi in maniera più razionale nelle problematiche relative alla produzione. Anche i manutentori si integrano nei team e per buona parte non risiedono più in reparti separati. Ad un primo esame, la fabbrica integrata ed il suo background culturale sembrano rappresentare un superamento, non una negazione del fordismo, nel senso che essa lo integra e lo sviluppa in alcuni elementi. Se il fordismo teorizza una separazione fra chi studia e progetta l'organizzazione della produzione e chi deve eseguire il lavoro attenendosi alle procedure sperimentate dagli specialisti, la produzione snella e la fabbrica integrata, pur mantenendo questa separazione nella progettazione e nell'ingegneria, promuovono una stretta interazione fra tecnici ed esecutori materiali in produzione poiché nessuno specialista è in grado di determinare a priori le routine di risposta più adeguate per risolvere le criticità. Diventa quindi necessario, per la massimizzazione della produttività del sistema, mettere ogni lavoratore in grado di dare il suo contributo attivo, fatto di esperienza concreta, creatività e autonomia nella gestione delle anomalie. Il nuovo paradigma tende a ridurre la parcellizzazione attraverso la polivalenza (multi tasking) in modo da favorire la crescita di esperienza e di professionalità del lavoratore, affinché possa dare il suo contributo su più mansioni. La fabbrica integrata si presenta in grado di metabolizzare localmente (a livello di unità operativa o produttiva) le possibili turbolenze, facendo in modo che esse non si riversino mai in risultati devianti per il sistema complessivo. I problemi vengono affrontati e risolti localmente e le informazioni vengono diffuse in tempo reale a tutta la rete, in modo tale che l'intero sistema possa immediatamente acquisire ed elaborare le informazioni necessarie per predisporre le azioni correttive. La produzione snella si regge sulla creazione di "gruppi di lavoro" o di team. La fabbrica integrata promuove, quindi, forme di autonomia e controllo delle prestazioni che possono condurre a situazioni professionali molto differenziate sotto il profilo della qualità del lavoro in termini di competenze, professionalità, impegno. Per garantire il raggiungimento degli obiettivi è necessario richiedere ai lavoratori comportamenti che si discostano in parte dagli standard. Agli operai vengono affidati compiti (e responsabilità) di carattere eterogeneo, di controllo, oltre che di produzione, con la conseguente richiesta di sviluppo di forti dosi di elevata polivalenza e polifunzionalità che conducono ad una saturazione del tempo di lavoro sia in termini fisici che intellettuali. La fabbrica integrata si propone di liberare il potenziale di cui dispongono le risorse umane, il quale viene considerato come fattore distintivo della propria cultura. 3.4 La centralità del lavoratore nella lean production La produzione snella, introdotta dai produttori auto giapponesi, si propone di ridurre i costi e la rigidità, rispettivamente della produzione artigianale e della produzione di massa utilizzando meno risorse umane; meno ore di progettazione; minor spazio produttivo e minori investimenti in impianti. Ricorre a lavoratori qualificati e motivati grazie ad una gestione "strategica" delle risorse umane ed al concetto di "azienda-comunità" che si basa sul contributo attivo e integrato degli stakeholders della stessa comunità aziendale allargata: operai, dirigenti, fornitori, clienti; realizza produzioni diversificate e flessibili, che si adattano alle richieste della nuova domanda a crescita lenta e personalizzata, grazie ai metodi del just in time e della qualità totale. Il principio intorno al quale ruota questa gestione è la complementarità asimmetrica tra organizzazione del flusso e direzione degli uomini: più le informazioni e le responsabilità del processo di produzione sono decentrate, più le regole, le istituzioni e l'amministrazione del personale sono centralizzate nel rispetto dell'uguaglianza di tutti nei confronti dell'impresa. Le regole sono poche e spesso implicite, non soggette a regolamenti aziendali o a norme scritte stabilite attraverso un confronto negoziale con le organizzazioni sindacali. Il successo di questo sistema è dovuto a tre principali incentivi riconducibili: 1. All'impiego a vita 2. Ad un particolare sistema di valutazione e remunerazione del lavoro 3. Alla caratteristica peculiare del sindacato d'impresa L'impiego a vita si riferisce alla sicurezza del posto di lavoro garantita dall'azienda in cambio della lealtà e della partecipazione attiva della manodopera.

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