Rivoluzione Industriale Inglese e Americana PDF

Summary

Questo documento fornisce una panoramica sulla rivoluzione industriale inglese, analizzandone le basi politiche, culturali ed economiche. Il documento esplora anche il contesto storico, l'evoluzione del sistema economico e i fattori che contribuirono al successo dello sviluppo economico del Regno Unito. Vengono inoltre descritti i cambiamenti sociali e culturali associati a questo periodo.

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**LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE INGLESE** **[LE BASI POLITICHE, CULTURALI ED ECONOMICHE DEL PRIMATO INGLESE ]** **UN CAMBIAMENTO EPOCALE** L\'espressione \"rivoluzione industriale\" fu coniata da alcuni scrittori francesi del secondo decennio dell\'Ottocento, in analogia con la rivoluzione politica...

**LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE INGLESE** **[LE BASI POLITICHE, CULTURALI ED ECONOMICHE DEL PRIMATO INGLESE ]** **UN CAMBIAMENTO EPOCALE** L\'espressione \"rivoluzione industriale\" fu coniata da alcuni scrittori francesi del secondo decennio dell\'Ottocento, in analogia con la rivoluzione politica scoppiata in Francia nel 1789. Diversamente da questa e dal quasi contemporaneo rivolgimento politico avvenuto in America del Nord, con la ribellione delle colonie inglesi alla madrepatria e la nascita degli Stati Uniti d\'America, la rivoluzione industriale non fu in realtà un processo repentino; adottando tale definizione, tutta-via, si intendeva - e si intende tuttora - sottolineare quanto essa sia stata determinante nel superamento del sistema economico ereditato dall\'Antico regime e nell\'avvento di una società completamente nuova. La rivoluzione industriale inglese fu infatti un processo di trasformazione economica dagli effetti profondi e irreversibili, capace di dissolvere i vincoli che fino ad allora avevano limitato la crescita della produzione, dei redditi e degli standard di vita della popolazione. Grazie a essa, l\'economia inglese - e poi quella continentale - fu in grado di produrre nuove tipologie di beni materiali in quantità inimmaginabili fino a pochi decenni prima, in base a tecniche completamente nuove, che affiancavano il lavoro delle macchine a quello umano, e secondo un\'organizzazione del lavoro radicalmente diversa da quella del passato. Ma le sue conseguenze furono anche più estese, interessando il contesto culturale, l\'organizzazione sociale, la politica. Gli storici si sono domandati a lungo perché proprio l\'Inghilterra del Settecento - ricca e fiorente a livello commerciale e finanziario, ma per il resto non più progredita di nazioni come Francia o Paesi Bassi - sia stata il centro di una catena di trasformazioni di così grande importanza. A rendere la Gran Bretagna l\'\"officina del mondo\" contribuirono diversi fattori concomitanti: un contesto politico e un clima culturale più propizi che altrove allo sviluppo economico; l\'introduzione delle innovazioni in campo agricolo già dalla fine del Seicento e il connesso, impetuoso incremento demografico; l\'acquisizione o il perfezionamento di particolari cognizioni tecniche; l\'espansione dei traffici commerciali. Si tratta di fattori dal peso specifico diverso, ma la cui combinazione consentì di avviare e sostenere il decollo industriale del paese, che conobbe una crescita economica del tutto inedita nella storia dell\'umanità. **UN CONTESTO POLITICO E CULTURALE FAVOREVOLE** Dopo la rivoluzione del 1688-1689, che aveva cancellato gli ultimi residui dell\'assolutismo, si era affermato in Gran Bretagna un regime costituzionale stabile incentrato sul ruolo del Parlamento. Il maggior interprete di questo nuovo sistema istituzionale, oltre che il più affidabile rappresentante degli interessi della gentry (la piccola nobiltà di campagna) e dei ceti mercantili e finanziari londinesi, era il partito whig, da cui provennero i ministri che, insediatisi stabilmente alla guida del paese alla fine del secolo, assecondarono le forze sociali più intraprendenti, su tutte la borghesia. Furono abrogate in questo periodo molte norme di stampo mercantilistico ancora in vigore in altri paesi: vennero tolte le limitazioni agli scambi commerciali con l\'estero e certe minuziose prescrizioni delle vecchie corporazioni artigianali sulle attività delle manifatture; vennero rimossi i vincoli sull\'impiego della manodopera e gli impedimenti in materia di costituzione di società per azioni, che ostacolavano gli investimenti di capitale. Inoltre, fin dal 1624, fu introdotta una legge che tutelava i diritti di proprietà sui brevetti, incentivando quindi l\'innovazione e la ricerca di nuove tecniche. Accanto a una progressiva deregolamentazione dell\'economia, vennero promulgate anche disposizioni legislative per la razionalizzazione del sistema fiscale e venne istituito una sorta di ministero del commercio estero (Board of Trade), per promuovere e coordinare gli scambi. Nel complesso, quindi, il Parlamento e il governo britannici affrancarono il sistema economico dagli ultimi retaggi dell\'ordinamento feudale e corporativo (che sopravvivevano invece in varie parti d\'Europa), assicurando in tal modo la tutela dei diritti individuali e lo sviluppo della libera iniziativa. Più in generale, la società inglese era caratterizzata da un notevole dinamismo. Le componenti più attive cominciarono a costruire le proprie fortune attraverso imprese commerciali e industriali, piuttosto che facendo assegnamento sui \"frutti oziosi\" della rendita fondiaria o sull\'esercizio di determinate cariche nell\'amministrazione pubblica. Gli investimenti finalizzati al profitto vennero sempre più considerati dalla borghesia come il principale strumento d\'ascesa sociale, ma la stessa la nobiltà e la gentry non ritenevano disdicevole occuparsi d\'affari, diversamente da quanto avveniva sul continente; anzi, numerosi loro esponenti si trasformarono da semplici percettori di rendite a capitani d\'industria e uomini di finanza. Uno dei maggiori interpreti, sul piano intellettuale, di questa mentalità e di queste attitudini fu lo scozzese Adam Smith (1723-1790), considerato il fondatore della moderna economia politica. Nella sua opera più nota, Indagine sulla ricchezza delle nazioni (1776), Smith sostenne l\'idea che l\'armonica composizione tra interessi individuali e interessi collettivi fosse possibile solo nell\'ambito di un libero mercato. In quest\'ottica anti-mercantilistica, lo Stato doveva limitarsi a stabilire le imposte, a occuparsi della sicurezza e dell\'ordine pubblico e ad amministrare la giustizia e i servizi essenziali di uso collettivo; non rientrava invece nelle sue competenze la definizione delle linee-guida delle attività produttive e commerciali, che dovevano essere lasciate agli operatori privati e alla libera contrattazione nell\'incontro tra domanda e offerta. La teoria di Smith era fondata sull\'assunto secondo cui il sistema economico era in grado di autoregolarsi. La libera concorrenza avrebbe assecondato il progresso e lo sviluppo più di qualunque politica economica decisa dallo Stato, mentre l\'accumulazione individuale di beni e di ricchezze, lungi dall\'essere in contrasto con il progressivo arricchimento della nazione, ne era, al contrario, il presupposto. Le interrelazioni di imprenditori, mercanti, artigiani, contadini, di per sé contrastanti, erano governate per il meglio da una sorta di \"mano invisibile\", e contribuivano nel complesso alla prosperità della collettività. La propensione all\'intrapresa economica aveva infine radici nella mentalità religiosa anglosassone. Secondo un\'interpretazione tradizionale, vi era uno stretto legame tra individualismo economico e protestantesimo, tanto più forte in tutte quelle confessioni che affondavano le loro radici nel calvinismo, e cioè in particolare le sette puritane (pietisti, quaccheri, battisti, metodisti); la dottrina della predestinazione avrebbe infatti spinto i fedeli verso una vita di \"ascetismo mondano\", in cui la parsimonia e il successo nel proprio lavoro rappresentavano altrettanti segni sicuri della grazia divina e quindi valori da perseguire scrupolosamente durante l\'esistenza. All\'intreccio tra puritanesimo e industrialismo avrebbe contribuito anche il fatto che quanti professavano il calvinismo erano esclusi dagli incarichi pubblici e che le loro scuole e università erano più propense delle altre alla sperimentazione e agli studi tecnico-scientifici. Tuttavia, il ruolo dei puritani nella rivoluzione industriale non va enfatizzato, in quanto certe regole di comportamento dettate da un vivace spirito d\'iniziativa e da un robusto pragmatismo erano diffuse, come abbiamo visto, nell\'intera società inglese, indipendentemente dal credo religioso. **GLI EFFETTI PROPULSIVI DELLE INNOVAZIONI AGRICOLE** Su un piano più strettamente economico, tra i fattori che concorsero all\'affermarsi della rivoluzione industriale inglese vanno sottolineati anzitutto i progressi dell\'agricoltura. Mentre l\'agricoltura continentale, al netto di poche e isolate eccezioni, mostrava un panorama statico e arretrato, in Gran Bretagna il moltiplicarsi delle enclosures stava producendo cambiamenti profondi nell\'assetto fondiario del paese. Con la progressiva concentrazione delle terre nelle mani di pochi grandi e medi proprietari, si formarono estese unità agricole date in conduzione ad affittuari e gestite con criteri imprenditoriali. Cominciò così ad affermarsi una concezione secondo cui le risorse provenienti dalla terra non dovevano più venire consumate unicamente per mantenere lo stile di vita lussuoso dei proprietari, ma dovevano servire invece per investimenti di tipo produttivo e quindi per accrescere le esportazioni in un mercato internazionale in forte espansione. Inoltre, numerosi piccoli proprietari cedevano gli appezzamenti di cui erano in possesso, impiegando le risorse così acquisite in attività manifatturiere o trasformandosi in affittuari. La sopravvivenza di quanti traevano la propria sussistenza dai raccolti di qualche esigua striscia di terra si rese invece sempre più difficile in seguito alla crescente riduzione delle terre comunali e dei campi aperti, un tempo utilizzati per pascolare il bestiame, raccogliere legna e cacciare; molti di costoro si ridussero perciò a braccianti salariati a servizio delle aziende agricole che producevano per il mercato, oppure, specie negli ultimi decenni del Settecento, abbandonarono i villaggi d\'origine per andare a lavorare nei distretti minerari e nelle zone dove sorgevano i nuovi opifici. La trasformazione del regime fondiario comportò anche l\'investimento di capitali destinati a introdurre nuove tecniche agricole e più razionali sistemi di coltivazione. Una delle innovazioni più importanti fu la quadruplice rotazione (tra colza, orzo, trifoglio e grano), al posto del vecchio sistema trifase (basato sull\'alternarsi del maggese, cioè un riposo dalle coltivazioni, su un terzo del terreno). Si scoprì infatti che radici e leguminose da prato (come la colza e il trifoglio), oltre a fornire foraggio per il bestiame, avevano un alto potere fertilizzante; la loro coltivazione consentiva perciò una riduzione del maggese e assicurava un aumento della quantità di terra effettivamente messa a coltura. La quadruplice rotazione favorì anche una maggiore integrazione dell\'agricoltura con l\'allevamento: infatti, seppure la superficie destinata al pascolo fosse diminuita a vantaggio delle terre arabili, il numero di animali allevati rimase lo stesso di prima, proprio per la crescente disponibilità di foraggio. Furono così sottoposte a coltivazione intensiva piante alimentari a più elevato rendimento, come l\'orzo e la patata, che si diffusero sempre più. Infine, l\'adozione di attrezzi di ferro - la meccanizzazione dell\'agricoltura si sviluppò solo dalla metà del XIX secolo - non solo migliorò i lavori di aratura e di semina delle terre, accrescendone la produttività, ma agì anche da supporto all\'incremento della produzione industriale, generando una nuova domanda per le manifatture che producevano tali strumenti. Strettamente legata alle trasformazioni del mondo rurale fu anche quella che si può definire \"rivoluzione demografica\", importante componente del decollo industriale inglese nella misura in cui rese disponibile alla nascente industria una manodopera più numerosa e perciò a basso costo. A partire dalla metà del Settecento la popolazione inglese crebbe infatti in modo costante: dai 6 milioni di abitanti del 1740 passò ai circa 9 nel 1801 e agli oltre 14 nel 1830. Questa tendenza fu dovuta all\'effetto congiunto dell\'aumento del tasso di natalità e della riduzione della mortalità. I progressi agricoli garantirono un\'offerta più consistente di generi di prima necessità a costi inferiori rispetto al passato, con un conseguente miglioramento della dieta: ciò permise tassi di sopravvivenza più consistenti nelle fasce intermedie della popolazione, ovvero quelle con un maggiore potenziale riproduttivo. Il declino di malattie infettive come la peste o la malaria - quest\'ultima frenata dalle bonifiche e dal prosciugamento di molte aree malsane - e la maggior disponibilità di alimenti fecero inoltre aumentare la speranza di vita. **IL PRIMATO COMMERCIALE BRITANNICO** La diffusione del lavoro salariato nelle campagne e, come vedremo, nelle manifatture cittadine determinò la progressiva riduzione dell\'autoconsumo, che, insieme alla crescita generale dei redditi e all\'aumento demografico, stimolò la formazione di un vivace mercato interno. Ciò che da sempre si era fabbricato in casa - stoffe, stoviglie, attrezzi da lavoro e, in genere, oggetti di uso comune - venne sempre più frequentemente acquistato. Al progressivo ampliamento del mercato nazionale - il cui ruolo come fattore della crescita economica inglese non deve essere comunque sopravvalutato - contribuirono anche l\'estensione e il miglioramento della rete dei trasporti, che consenti l\'abbattimento dei tempi e dei costi di circolazione delle merci. Oltre al miglioramento della rete viaria, anche l\'estensione della rete dei canali navigabili, particolarmente utili per il traffico di materiali pesanti come il ferro e il carbone, contribuì all\'allargamento del mercato dalla seconda metà del secolo. Il primo canale venne costruito tra il 1759 e il 1761; quarant\'anni più tardi l\'estensione dei canali navigabili superava il migliaio di chilometri. Nella spiegazione del successo economico britannico della fine del Settecento va infine ricordato il ruolo del commercio internazionale. Nel corso del secolo la Gran Bretagna aveva conquistato una posizione dominante nei traffici commerciali, specie in quelli d\'oltremare, che avevano fatto di Londra il centro nevralgico dell\'economia mondiale. Il commercio oceanico produceva enormi profitti e nel suo finanziamento si erano specializzate le banche britanniche, che avevano così esteso il loro raggio d\'azione nelle Americhe e in Asia. Ad aumentare le fortune del regno aveva contribuito anche la conclusione vittoriosa della guerra dei Sette anni: grazie al costante e ingente flusso d\'oro in entrata nel paese era notevolmente aumentata la ricchezza circolante, che poteva essere reinvestita nelle attività industriali. Il controllo di nuovi territori e l\'intensificarsi dei traffici internazionali assicurarono alle manifatture britanniche un rifornimento rapido e a basso costo di materie prime, nonché un ampio mercato di vendita per i prodotti finiti: tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo oltre un terzo della produzione industriale inglese era destinata alle esportazioni. **[I FATTORI ALLA BASE DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE]** **L'IMPETUOSA CRESCITA DEL SETTORE TESSILE** Nell\'ambito del contesto fin qui descritto, un ruolo di rilievo nell\'innescare il processo di industrializzazione fu ricoperto dalle innovazioni tecnologiche. Intorno al 1760 fecero la loro comparsa molti nuovi congegni, soprattutto nell\'industria del cotone e in quella del ferro. Protagoniste assolute furono due \"macroinvenzioni\": il filatoio meccanico e la macchina a vapore. Da allora si aprì la strada a un flusso di \"microinvenzioni\" in molti settori. Le innovazioni non furono dovute a un maggior grado di sviluppo delle conoscenze scientifiche in Gran Bretagna rispetto agli altri paesi d\'Europa; furono invece il prodotto dell\'inventiva di brillanti operai e artigiani, che seppero escogitare miglioramenti e soluzioni pratiche, per superare i limiti insiti nei procedimenti tecnici tradizionali. Fino a tutta la prima metà del Settecento la filatura e la tessitura avvenivano con tecniche invariate da secoli: nell\'ambito della manifattura rurale decentrata - gestita da un mercante-imprenditore che consegnava ai contadini le materie prime e spesso procurava loro anche gli attrezzi necessari per lavorarle; quindi, ritirava il prodotto finito e lo collocava sul mercato - le donne filavano, arrotolando il filo a mano sui fusi, mentre gli uomini tessevano servendosi di grossi telai di legno dal funzionamento più o meno complesso a seconda dei tipi di stoffa. La produzione era incentrata soprattutto sulla lana, una manifattura d\'antica e prestigiosa tradizione. L\'industria cotoniera era invece un settore relativamente marginale, con una produzione di mediocre qualità effettuata quasi interamente a domicilio. Lo scenario cambiò intorno alla metà del XVIII secolo. Il consumo di tessuti di lana e lino, più costosi e meno resistenti, andò riducendosi a favore dell\'utilizzo di quelli di cotone importati dagli Stati Uniti e dall\'India, passata sotto il controllo inglese dopo la guerra dei Sette anni. Ma la leva decisiva per il decollo industriale fu il fatto che, nel giro di vent\'anni, vennero man mano introdotte nella filatura e nella tessitura alcune innovazioni tecniche che modificarono radicalmente le lavorazioni. Tra le nuove tecnologie che si diffusero per prime, la spoletta volante, inventata da John Kay nel 1733 (entrata poi in uso verso il 1760), permise di produrre stoffe di qualsiasi lunghezza e di accelerare il lavoro di tessitura. Ciò spinse a trovare nuove soluzioni anche nel campo della filatura. Nel 1764 James Hargreaves ideò la *spinning jenny*, filatrice semi-meccanica che consentiva a un solo operaio di produrre più fili insieme; nel 1769 fu la volta del filatoio automatico ad acqua - ossia azionato da energia idraulica - brevettato da Richard Arkwright. Nel 1779 la *mule jenny* di Samuel Crompton, un filatoio intermittente, combinò i vantaggi di quelli precedenti, producendo filati di miglior qualità, robustezza e uniformità a prezzi inferiori: impiegando un solo operaio, si riusciva infatti a produrre - nel medesimo tempo di lavoro - una quantità di filati per la quale sarebbero occorsi in passato almeno cento lavoratori. Anche nella tessitura proseguirono le innovazioni: con la stampa della stoffa e soprattutto con il telaio meccanico messo a punto da Edmund Cartwright nel 1785. In breve tempo i progressi tecnologici divennero tali che si riuscì a sperimentare un tessuto di puro cotone di qualità equivalente a quello indiano ma di costo inferiore. In virtù di queste due caratteristiche e in seguito a una domanda crescente, in Inghilterra fu abolita una legge che vietava di produrre stoffe di puro cotone (1774) e vennero triplicati i dazi di importazione sui tessuti di pregio provenienti dall\'India. Per questi motivi, il tradizionale flusso commerciale dall\'estero si invertì: l\'Inghilterra era ormai in grado di esportare degli ottimi tessuti di cotone e l\'India divenne uno dei principali mercati per la loro vendita. Alla fine del XVIII secolo l\'industria cotoniera si era imposta nei traffici con l\'estero fino a coprire il 25% del valore di tutte le esportazioni (mentre i panni di lana scesero dal 50% al 28%) e contribuendo all\'aumento del reddito nazionale ancor più che l\'industria del ferro; a questo risultato concorse anche il primato britannico nei traffici sui mari. Grazie al fatto che non richiedeva investimenti cospicui e produceva merce di prima necessità con una domanda in costante crescita, il comparto tessile agì da traino per la rivoluzione industriale, che si estese poi ad altri settori. L\'industria tessile, come vedremo a breve, avanzava a un passo sempre più spedito grazie all\'impiego della macchina a vapore. Allo stesso tempo venne migliorato lo sfruttamento dell\'energia idraulica, che seguitò a rappresentare la principale fonte d\'energia per lo sviluppo dell\'industria tessile (tale sarebbe stata soprattutto, nei decenni successivi alla rivoluzione industriale inglese, nei paesi in via di industrializzazione dotati di corsi d\'acqua a elevata potenza, come la Francia, la Svizzera e gli Stati Uniti). **LA MACCHINA A VAPORE, IL CARBONE E IL FERRO** L\'altro decisivo campo di applicazione delle innovazioni tecnologiche fu quello dell\'energia. Dai tempi della rivoluzione agricola del Neolitico - 8000 anni prima di Cristo - e fino a metà Settecento l\'umanità aveva sempre svolto le mansioni agricole e manifatturiere con l\'ausilio di sole fonti di energia animata (la forza fisica di uomini e animali) o, al più, ricorrendo ai mulini a vento e ad acqua. Nelle attività produttive che facevano invece uso di energia termica - il calore che alimentava i forni per la cottura del pane o le fornaci per la produzione di materiali edilizi - il combustibile di gran lunga più impiegato era il legname. Le due grandi novità introdotte dalla rivoluzione industriale furono la possibilità di ricorrere in modo sistematico, per la prima volta nella storia, all\'energia inanimata (le macchine) per sostituire il lavoro umano; e l\'impiego di nuove fonti di energia, alternative al legname, per alimentare tali macchine. Il primo obiettivo fu ottenuto in particolare con la macchina a vapore, brevettata da James Watt (1736-1819) nel 1775, con la quale l\'energia termica (ottenuta dall\'e-bollizione dell\'acqua) veniva convertita in energia meccanica (il movimento di una pala o di una ruota). Il secondo obiettivo fu invece raggiunto con l\'impiego di nuovi combustibili. La crescita demografica e l\'espansione economica avevano infatti determinato un notevole aumento dei consumi di legname (impiegato non solo nelle attività produttive, ma anche e soprattutto per il riscaldamento domestico e per le costruzioni), dando luogo a un processo di progressivo disboscamento, con un conseguente e significativo aumento del prezzo della legna e del carbone da legna. In alcuni paesi europei, soprattutto in Olanda e Inghilterra, già nel corso del Seicento si era cercato di ovviare al problema ricorrendo in misura crescente a due combustibili fossili già noti ma poco utilizzati sino ad allora: la torba e il carbone. Alla fine del Settecento, la presenza di giacimenti di carbone nelle regioni nord-orientali dell\'Inghilterra fu uno dei fattori del primato industriale inglese. Nelle sue prime applicazioni la macchina a vapore venne utilizzata per l\'estrazione del carbone (impiegato anche nella produzione del ferro) consentendo di prosciugare pozzi a sempre maggiore profondità; successivamente il suo impiego come fonte di energia si diffuse in molti settori, dal comparto tessile all\'industria del ferro. Nel giro di pochi anni la macchina di Watt conobbe vari perfezionamenti: ne fu migliorata l\'efficienza e furono ridotti i consumi energetici. Grazie a questi progressi l\'ingegnere inglese Richard Trevithick, nel 1796, fu in grado di progettare e costruire la prima locomotiva a vapore. Nel 1823, applicando la macchina a vapore all\'energia idraulica, si giunse poi alla costruzione della prima turbina, che permetteva di trasformare quasi tutta l\'energia idraulica in energia meccanica. Un settore dove le innovazioni furono meno radicali ma di notevole impatto per l\'economia nel suo complesso fu quello del ferro. L\'Inghilterra era ricca di giacimenti minerali ferrosi e poté dare avvio a una fiorente industria mineraria e metallurgica. Nel corso del Settecento i risultati della fusione del ferro erano stati migliorati sostituendo al carbon fossile il carbone purificato - il coke -, ottenuto secondo un metodo sperimentato fin dal 1709 da Abraham Darby, con il quale si evitava il problema della fragilità della ghisa derivante dall\'elevato contenuto di zolfo presente nella torba e nel carbone. Di conseguenza i produttori vennero invogliati a progettare macchine che consentissero di sfruttare al meglio le possibilità offerte dal ferro. Per facilitare la sua conversione in ghisa (una lega del ferro utilizzata come materiale da costruzione) si ricorse a vari espedienti finché la questione fu risolta dall\'invenzione, da parte di Henry Cort, del forno di puddellaggio (1783-1784). In questo forno potevano essere sviluppate altissime temperature, consentendo una lavorazione più semplice del materiale e soprattutto più efficace nell\'eliminazione delle scorie. I nuovi metodi permisero una riduzione del consumo di energia (per produrre una tonnellata di ghisa si passò da 10 a 4 tonnellate di coke), che determinò un progressivo abbattimento dei costi e l\'aumento della produzione metallurgica. Lo sviluppo dell\'industria siderurgica - che si avvalse largamente della macchina a vapore - diede un forte impulso alla crescita del settore minerario, dei trasporti e delle costruzioni; la riduzione dei costi di produzione favorì, a sua volta, l\'impiego del ferro nei diversi settori dell\'industria meccanica. **L'ESORDIO DEL SISTEMA DI FABBRICA** Accanto ai profondi mutamenti nei metodi di produzione generati dalle innovazioni tecniche, durante la rivoluzione industriale ebbe inizio un processo di radicale trasformazione nell\'organizzazione del lavoro, che avrebbe portato nel corso di qualche decennio alla piena affermazione del moderno sistema di fabbrica. Le lavorazioni vennero progressivamente concentrate in unità di produzione di grandi dimensioni, che riunivano un elevato numero di lavoratori e di macchinari. Non si trattava di una novità assoluta: anche in età preindustriale esistevano manifatture accentrate (ad esempio nel settore minerario e dell\'edilizia monumentale, negli arsenali e nelle tintorie), ma prevalevano forme decentrate di produzione, come la manifattura rurale a domicilio, nel caso dell\'industria tessile, o le piccole officine artigianali. La formazione del sistema di fabbrica fu il risultato di una transizione graduale, che si sarebbe compiuta in Inghilterra solo intorno alla metà dell\'Ottocento (ancora più tardi nel resto del continente), dovuta all\'introduzione di macchinari azionati da un\'unica fonte di energia. L'accentramento in un unico luogo di produzione aveva anche il vantaggio di agevolare un controllo più efficace delle lavorazioni e di quanti vi erano addetti. In seguito alla crescita dei volumi e della gamma dei prodotti, per i mercanti-imprendi-tori erano infatti andate aumentando le difficoltà e le spese per il coordinamento delle varie unità di produzione disperse nel territorio. La fabbrica consentiva invece di tenere sott\'occhio i processi e i ritmi di produzione, nonché la qualità e la quantità del prodotto finito. Dal punto di vista dell\'organizzazione del lavoro, inoltre, le nuove manifatture permisero di sviluppare il principio della divisione del lavoro, osservato già da Adam Smith agli esordi della rivoluzione industriale, ancor prima dell\'introduzione del vapore e della conseguente meccanizzazione del lavoro. Secondo questo principio, il processo produttivo di un bene veniva distinto in varie fasi ben definite, affidate ciascuna a un lavoratore diverso. Laddove veniva applicata la divisione del lavoro, la produttività aumentava enormemente. I capitali necessari ad avviare le prime attività industriali provenivano in gran parte dall\'autofinanziamento: in genere, gli imprenditori che impiantavano una fabbrica mettevano in gioco il proprio patrimonio personale o raccoglievano quanto occorreva nell\'ambito di reti informali (la famiglia, le comunità d\'affari e quelle religiose). Sulle prime, in considerazione dell\'incertezza sui rendimenti delle nuove imprese manifatturiere, le banche erano restie a concedere prestiti o imponevano interessi troppo elevati. Tuttavia, nella fase iniziale dell'industrializzazione non occorreva molto denaro per acquistare le attrezzature che servivano a creare un\'azienda, specie nel settore tessile, mentre i ricavi ottenuti erano tali da consentire il finanziamento di futuri investimenti. La struttura organizzativa delle imprese fu nei primi tempi piuttosto semplice, spesso di carattere familiare: l\'imprenditore-proprietario ricopriva, con pochi collaboratori (i familiari o i soci in affari), tutte le funzioni di conduzione dell\'azienda, assumendo in prima persona la responsabilità della gestione, delle scelte strategiche (cosa produrre e come) e di quelle operative (dall\'amministrazione, all\'assunzione di lavoratori, all\'acquisto di macchinari). Nelle prime fasi dell\'industrializzazione il sistema di fabbrica incontrò comunque non poche difficoltà nel reclutare la manodopera, che proveniva in larghissima parte dall\'industria a domicilio. Nonostante la crescita demografica, i flussi migratori dalle aree che nel frattempo erano state interessate dalle trasformazioni dell\'agricoltura (come il Sud e l\'Est dell\'Inghilterra) verso quelle in via di industrializzazione (come il Lancashire, lo Yorkshire, le Midlands occidentali) furono modesti. Quando avvennero, gli spostamenti di manodopera rimasero comunque concentrati per lo più all\'interno delle singole regioni; solo nella prima metà del XIX secolo sarebbero divenuti più frequenti quelli su distanze maggiori. Nelle zone agricole meno sviluppate, dove erano minori le possibilità di impiego, la popolazione rurale tendeva a restare sul posto, continuando a lavorare nelle manifatture a domicilio o accontentandosi di impieghi saltuari. Un freno ulteriore alle migrazioni di manodopera era rappresentato dalla legislazione sui poveri (Speenhamland System, 1795), che obbligava gli assistiti alla permanenza presso le proprie parrocchie. La transizione al sistema di fabbrica comportò l\'ingaggio di interi nuclei familiari prima impegnati nella produzione a domicilio. L\'autorità del capofamiglia si mantenne inalterata anche all\'interno dei nuovi stabilimenti: a lui facevano capo gli altri familiari, sia per le mansioni sia per la contrattazione del salario. Era lui il lavoratore più qualificato e quello che rivestiva un ruolo gerarchico di controllo sul lavoro degli altri, che reclutava la manodopera e che si occupava della ripartizione dei guadagni, con fortissime disparità che penalizzavano soprattutto le donne e i ragazzi. Nonostante il livellamento dei profili professionali, determinato dalla crescente meccanizzazione dei processi produttivi, il ruolo degli operai di mestiere più capaci ed esperti, che costituivano una sorta di \"aristocrazia del lavoro\", sopravvisse ancora a lungo nelle fabbriche, anche in quelle più grandi. Nelle prime fabbriche, in particolare nelle filande, la presenza del lavoro femminile e infantile fu superiore rispetto a quello maschile. Donne e bambini, infatti, essendo categorie più deboli, venivano sfruttati indiscriminatamente: turni di lavoro che potevano durare dalle 12 alle 16 ore al giorno, condizioni igieniche scadenti, salari bassi e nessuna tutela in caso di malattia o licenziamento. Se il ricorso al lavoro minorile può essere considerato uno degli aspetti più negativi dell\'industrializzazione (sebbene i bambini fossero impiegati da sempre anche in altri settori), l\'ingresso delle donne nelle fabbriche, invece, ne favorì almeno in parte l\'emancipazione, anche se il lavoro come operaie non sostituì, ma si aggiunse alle più tradizionali mansioni femminili di cura della casa e della prole. Nell\'ambito di un acceso dibattito sulla condizione degli operai delle industrie del Settecento, gli storici si sono divisi per molto tempo tra una visione \"pessimistica\" che sottolineava gli elementi di rottura e le difficili condizioni di vita nel passaggio dal mondo tradizionale rurale e artigiano a quello dei nuovi centri industriali, e una prospettiva invece \"ottimistica\", che interpretava le trasformazioni determinate dal sistema di fabbrica in un\'ottica di lungo periodo, che avrebbero portato gradualmente verso l\'emancipazione dalla miseria endemica dell\'età preindustriale. Sta di fatto che, ai suoi primordi, l\'industrializzazione e i connessi movimenti migratori interni produssero una crescita massiccia e disordinata dei nuclei urbani dove erano localizzate le fabbriche: Londra, che già nel 1700 contava oltre mezzo milione di abitanti, cento anni dopo superava il milione; Liverpool, Manchester, Birmingham, Edimburgo e Glasgow crebbero altrettanto rapidamente, più che raddoppiando la propria popolazione nel corso del secolo, fino a oltrepassare tutte i 70.000 abitanti nel 1801. La crescita di queste e altre città inglesi e scozzesi avvenne in modo caotico, in assenza di interventi pubblici o privati che provvedessero ad allestire abitazioni e servizi per la popolazione di recente insediamento. Alle pesanti condizioni di lavoro in fabbrica, in ambienti malsani e insicuri, si aggiunsero così le dure condizioni di vita nei sobborghi urbani, con l\'ammassarsi delle famiglie operaie in case fatiscenti e improvvisate, in precarie situazioni igieniche per la mancanza sia di fognature sia di strade pavimentate. Negli agglomerati urbani interessati dall\' industrializzazione si verificò pertanto un forte aumento della mortalità, soprattutto infantile, che si prolungò almeno fino alla metà del XIX secolo. Fin dagli ultimi decenni del XVIII secolo s\'erano perciò manifestate le prime veementi reazioni contro l\'industrializzazione. In qualche caso la protesta diede vita a clamorosi gesti di sabotaggio e distruzione delle macchine, accusate di causare disoccupazione e di abbassare i salari. Il movimento venne denominato \"luddismo\", dal nome di un leggendario operaio, Ned Ludd, probabilmente mai esistito, che nel 1779 si sarebbe ribellato distruggendo il telaio a cui lavorava. Forme analoghe di reazione si diffusero poi anche tra i braccianti agricoli ostili alle prime trebbiatrici meccaniche. Contro queste e altre forme di protesta il Parlamento inglese adottò, tra il 1799 e il 1800, severe misure (Combination Act) contro gli scioperi e le associazioni operaie. Questi divieti però non bastarono a estinguere il fenomeno, che dopo qualche anno riprese con maggior violenza: tra il 1811 e il 1812 si ebbe infatti una vasta ondata di rivolte per mano dei luddisti, a cui fece seguito, l\'anno successivo, una dura repressione che portò persino alla condanna a morte di molti degli operai ribelli. Di fatto solo nel corso degli anni Trenta dell\'Ottocento cominciò ad affermarsi, in alcuni settori della classe politica inglese, una maggiore sensibilità per le condizioni del proletariato operaio. Tuttavia, la comparsa delle prime organizzazioni sindacali sarebbe avvenuta solamente due decenni più tardi. p.130 testo Adam Smith **LA RIVOLUZIONE AMERICANA** **[LE COLONIE AMERICANE NELLA SECONDA META' DEL SETTECENTO]** Nella seconda metà del XVIII secolo l\'impero coloniale britannico nel Nord America si estendeva su un territorio che abbracciava una vasta fascia di costiera atlantica, delimitata a nord dalla regione dei Grandi Laghi e a ovest dalla catena dei monti Appalachi. Nelle tredici colonie vivevano allora più di due milioni di persone, per la maggior parte di origine inglese, ma con ampie minoranze di scozzesi, tedeschi, olandesi e ugonotti francesi, oltre a diverse centinaia di migliaia di schiavi neri (più del 20% della popolazione, quasi tutti concentrati nella parte meridionale) e di nativi americani. A questa complessa geografia etnica e religiosa corrispondeva un quadro sociale ed economico che andava sempre più articolandosi, con nette differenze tra gli stati del Sud e quelli del Centro-Nord. A sud si trovavano alcune fra le colonie di più antica fondazione: Virginia, Maryland, North Carolina, South Carolina e Georgia, abitate da una popolazione di origine prevalentemente inglese e di fede anglicana. Non vi erano grossi centri urbani e si era sviluppata una fiorente agricoltura che produceva per il mercato internazionale, per lo più attraverso la mediazione di società commerciali inglesi. Il sistema di piantagione - di tabacco, di riso e di indaco, mentre il cotone si sarebbe diffuso solo sul finire del secolo - comportava il ricorso a un abbondante manodopera, costituita quasi esclusivamente da schiavi africani. La stratificazione sociale era abbastanza simile a quella europea, ma con una maggiore mobilità sociale: nell\'aristocrazia dei piantatori poteva di fatto entrare chiunque avesse denaro a sufficienza per comprarsi un po\' di terra e degli schiavi. All\'estremo nord della fascia atlantica si trovavano le quattro colonie del New England: Massachusetts, la più importante, New Hampshire, Rhode Island e Connecticut. Anche in questi territori la popolazione era in prevalenza inglese, ma qui di tradizione puritana, contraddistinta da una spiccata operosità e da una severa sobrietà di costumi, che con il tempo era tuttavia divenuta meno rigida. Anche nelle colonie del Nord l\'attività principale era l\'agricoltura, qui però basata essenzialmente sulla coltivazione dei cereali, condotta su piccoli fondi e destinata per lo più al consumo interno. Nei numerosi centri situati sulla costa si erano inoltre sviluppati il commercio (in particolare di pellicce e di rum), la pesca e una fiorente industria cantieristica (la sola industria locale a essere sostenuta dalla madrepatria), favorita dalle enormi riserve di legname presenti nell\'entroterra. Fra questi due insediamenti antichi si trovava il nucleo più recente e dinamico, formato da New York e Pennsylvania - le due colonie più importanti - con New Jersey e Delaware. Una parte consistente della popolazione di queste colonie era costituita, oltre che dagli olandesi e dagli svedesi (i primi a insediarsi a New York e nel Delaware), da immigrati irlandesi, scozzesi e tedeschi: data l\'estrema varietà delle componenti etniche, in questi territori il pluralismo e la tolleranza religiosa erano dunque più radicati che nelle colonie del Sud o del Nord. Nelle valli del fiume Hudson e dei suoi affluenti le terre erano estremamente fertili, tanto da diventare in breve il granaio d\'America, ma era ben sviluppato anche il commercio e si trovavano i porti e le città più importanti dell\'intero complesso coloniale - Filadelfia, New York e Baltimora - da dove partivano le navi cariche di prodotti agricoli destinati ai Caraibi e all\'Europa. Nel corso del tempo, le relazioni tra i diversi insediamenti si erano fatte sempre più conflittuali, a causa di accese rivalità economiche e frequenti dispute di frontiera. Ancora a metà Settecento i particolarismi e l\'isolamento erano accentuati, oltre che da fattori di natura geografica, dalla quasi totale assenza di vie di comunicazione. Del resto, Londra non vedeva di buon occhio lo sviluppo di forme di collaborazione tra le colonie: dal momento che queste terre dovevano sostanzialmente servire gli interessi della madrepatria, era conveniente che rimanessero separate le une dalle altre, risultando in questo modo più facilmente controllabili. A metà Settecento i rapporti commerciali delle tredici colonie con la madrepatria erano regolati da un regime monopolistico, ispirato ai principi del mercantilismo. Le colonie dovevano vendere i loro prodotti primari (generi alimentari e materie prime come il legname o il tabacco) esclusivamente nei porti inglesi, così come potevano acquistare solo dalla madrepatria o dalle altre colonie britanniche ogni genere di merce o manufatto (articoli di lusso, mobili, abiti, armi), la cui produzione in loco era severamente vietata. In realtà questi divieti venivano da sempre largamente aggirati dai coloni attraverso la pratica del contrabbando, attuato con grande disinvoltura. Così, ad esempio, nel New England erano sorte numerose distillerie di rum, prodotto con lo zucchero acquistato nelle Antille francesi o spagnole, dove i prezzi erano significativamente più bassi rispetto ai Caraibi inglesi. Dalla vendita di liquori, i produttori americani realizzavano poi enormi profitti. Nel secondo Settecento la capacità produttiva delle colonie era in grado di rivaleggiare con quella inglese: la produzione di ghisa e di ferro aveva superato quella della madrepatria, mentre l\'industria cantieristica era arrivata da sola ad assicurare la produzione di metà del naviglio dell\'intera flotta britannica. Nelle colonie del Nord si era via via consolidata una classe borghese autonoma, che tollerava sempre meno i limiti imposti da Londra alla propria espansione economica. Nel Sud, considerata la pressoché totale inesistenza di attività industriali, il vertice della scala sociale era occupato dai grandi proprietari di piantagioni, divenuti un\'élite autonoma sempre più autorevole. A differenza che nella società britannica, negli insediamenti americani non esisteva alcuna nobiltà ereditaria, e dunque le fortune andavano e venivano rapidamente. Si era così formata una classe media composta da commercianti, piccoli coltivatori, negozianti e funzionari di città, per i quali la mobilità sociale era assai più elevata che nella madrepatria. Era soprattutto la disponibilità di terre - e la conseguente diffusione della proprietà - a ridurre i divari fra i coloni e ad assecondare il loro spirito di intraprendenza e di indipendenza: oltreoceano la maggior parte dei contadini possedeva la terra che coltivava, pur con sensibili differenze tra una colonia e l\'altra. Le ricchezze più cospicue, come le diversità sociali più evidenti, si potevano trovare nelle città, che, pur raccogliendo solo una minoranza esigua della popolazione (meno del 5%), ospitavano una vivace vita culturale e politica. Vicino ai centri più importanti erano sorti anche i primi istituti di istruzione superiore per le élite urbane. Ogni insediamento era retto da un consiglio presieduto da un governatore di nomina regia, che deteneva il potere esecutivo ed era a capo delle forze armate e dell\'amministrazione civile. Un\'assemblea legislativa (dalla quale erano escluse le donne) affiancava il consiglio. Sul piano giuridico il modello dominante era quello anglosassone, anche se i diritti e i principi irrinunciabili che esso aveva sancito nel corso del secolo erano validi solo per la popolazione bianca, e non per i nativi americani e gli schiavi africani. Nonostante le diversità etniche, religiose ed economiche, dunque, la presenza di un sistema istituzionale e giuridico comune contribuiva a rafforzare una coscienza e un\'identità condivise. Il conflitto con la Francia nell\'ambito della guerra dei Sette anni e gli scontri con i nativi, inoltre, avevano spinto i coloni a collaborare in modo più intenso, e a stringersi intorno allo scudo protettore della madrepatria. Negli ultimi decenni del Settecento, questa nuova consapevolezza di un\'appartenenza comune e di comuni interessi da difendere portò tuttavia i coloni ad assumere una posizione sempre più autonoma, pronta a sfidare gli interessi e le direttive imperiali della Gran Bretagna. **[I PRIMI CONTRASTI CON LA MADREPATRIA]** Alla fine della guerra dei Sette anni (1763), estromessi i francesi dal Nord America e liberate le frontiere dagli eserciti nemici, i coloni anglo-americani si sentirono ormai liberi di spingersi a Ovest, dove non incontravano più resistenze, se non quella dei nativi americani. Fino a quel momento le popolazioni indiane avevano difeso la propria indipendenza giocando sulla competizione franco-britannica, schierandosi ora con gli uni ora con gli altri, mentre adesso si ritrovarono sole a fronteggiare la pressione dei coloni di origine europea. Per impedire un\'espansione caotica e conflittuale, che avrebbe implicato l\'onere delle spese derivanti dal mantenimento dell\'ordine in territori tanto vasti, nello stesso 1763 Londra emanò un provvedimento (Royal Proclamation) che vietava ai coloni di spingersi nei territori al di là dei monti Appalachi. Il decreto costituì il primo pesante motivo di scontro fra la Gran Bretagna e i coloni, che considerarono illegittimo il limite posto alla loro espansione, riconosciuta come un diritto dagli statuti coloniali. A deteriorare ulteriormente i rapporti con la madrepatria, all\'indomani della guerra dei Sette anni - che aveva rappresentato un impegno economico e militare consistente per la Corona britannica, tanto che il debito nazionale era praticamente raddoppiato -, arrivarono nuovi provvedimenti di natura economica e fiscale, come il Revenue Act (1764) e lo Stamp Act (1765). Con il primo, il Parlamento inglese intendeva estirpare il contrabbando: alla marina furono perciò conferiti poteri di ispezione e sequestro, e la competenza su questo genere di reato venne trasferita dalla magistratura ordinaria a quella militare. Furono anche aumentati i dazi su svariati prodotti di importazione, che colpirono soprattutto lo zucchero proveniente dalle colonie francesi e spagnole, danneggiando in particolare i produttori di rum del New England, i quali protestarono vigorosamente. Lo Stamp Act introdusse invece l\'uso del bollo per qualsiasi documento, transazione commerciale e atto legale, da acquistare solo presso rivenditori autorizzati dalla Corona e da pagare in sterline. Questa tassa di carattere generale, anche se poco gravosa, fu particolarmente malvista perché colpiva chiunque avesse bisogno di atti notarili e giudiziari, testamenti, contratti, licenze, certificati, giornali, libri o almanacchi: praticamente tutti. Di fronte alle nuove politiche imperiali i coloni reagirono con un\'energica opposizione: non si trattava solo di provvedimenti onerosi e dannosi per l\'economia, ma anche di misure anticostituzionali. Londra, sostenevano, non aveva il potere di approvare simili leggi sulle colonie perché le colonie non avevano rappresentanti al Parlamento britannico. Nessuna tassa avrebbe potuto essere applicata se prima non fosse stata votata dai rappresentanti di quanti ne avrebbero subito il peso. Alla rivolta fiscale si saldò quindi la rivendicazione politica, e cominciò a maturare quello che sarebbe stato il principio fondamentale della rivoluzione americana: no taxation without representation, ovvero \"niente tasse senza rappresentanza politica\". Nell\'ottobre del 1765 i rappresentanti delle tredici colonie si riunirono una prima volta a New York e, affermando di considerarsi britannici prima che \"americani\", chiesero al governo di essere ritenuti tali a tutti gli effetti e perciò di poter godere degli stessi diritti e privilegi di quanti erano nati in Gran Bretagna. Nella dichiarazione conclusiva stesa dall\'assemblea si ricordava - in linea con le tesi contrattualiste sostenute anche dagli illuministi europei in quegli anni - che la legittimità di un governo deriva dal consenso del suo popolo, il quale può dunque ritirarlo in forza dei \"propri diritti naturali\". La risposta di Londra, che negava i diritti richiesti, venne giudicata inaccettabile dai coloni e inasprì i rapporti con la madrepatria. In breve tempo un forte movimento d\'opinione coinvolse tutti i ceti sociali, dalle élite politiche ed economiche alle classi popolari, connotandosi in senso \"nazionale\" dal momento che poneva in primo piano gli interessi di tutti coloro che abitavano nei territori americani. Contro lo Stamp Act furono organizzate manifestazioni pubbliche e boicottaggi delle merci inglesi; nacquero anche le prime associazioni di resistenza. Le proteste dei coloni ottennero, almeno in parte, un primo successo: nel 1766 il governo fece infatti marcia indietro sullo Stamp Act, ma ribadì la condizione di sudditanza delle colonie dalla Corona britannica e il pieno diritto da parte del Parlamento di imporvi tasse. Alla revoca dello Stamp Act seguirono anni di relativa calma. Ma poi le tensioni riesplosero e cominciarono i primi incidenti. A Boston, il 5 marzo del 1770, le truppe inglesi fecero fuoco sulla folla che manifestava contro una nuova tassa sull\'importazione del tè, uccidendo cinque persone (l\'episodio fu poi chiamato \"massacro di Boston\"). Tre anni dopo, sempre a Boston, avvennero altri scontri provocati da un nuovo provvedimento con cui Londra attribuiva alla Compagnia delle Indie orientali il diritto esclusivo di vendere il tè nelle colonie americane (Tea Act). Nell\'intenzione del governo inglese questo monopolio avrebbe dovuto aiutare la Compagnia a superare una difficile congiuntura, e allo stesso tempo avrebbe favorito una diminuzione del prezzo al consumo della bevanda; tuttavia, il provvedimento danneggiava i mercanti americani, che sarebbero stati costretti a rinunciare ai facili guadagni dati dall\'importazione clandestina di tè dall\'Olanda. Le proteste raggiunsero il loro culmine il 16 dicembre 1773, quando una sessantina di coloni travestiti da \"indiani\" salì a bordo di una nave della Compagnia delle Indie e ne buttò a mare l\'intero carico. Con quest\'atto, conosciuto come Boston Tea Party, la rivoluzione stava per avere inizio. La reazione della madrepatria fu durissima: nella primavera del 1774 il porto di Boston fu chiuso, i poteri del governatore rafforzati e fu instaurata una sorta di stato d\'assedio che autorizzava a deportare gli oppositori in Inghilterra per sottoporli a giudizio. La tensione sali ancora quando, di lì a poco, il Parlamento inglese votò il Quebec Act, con cui assegnava al Canada le terre che oggi sono nell\'Ontario meridionale, verso cui da tempo i coloni volevano espandersi. Le rivalità interne tra le colonie furono a quel punto accantonate per far fronte comune contro la madrepatria. Nessuno pensava ancora di risolvere i problemi con l\'indipendenza, ma nel settembre del 1774, alla presenza dei delegati di dodici delle tredici colonie americane (erano assenti solo quelli della Georgia), si aprì a Filadelfia quello che significativamente venne chiamato il primo Congresso continentale, e fu rivolto un estremo appello a re Giorgio III perché, in forza della sua autorità, intervenisse sul Parlamento per revocare tutti i provvedimenti fiscali. Numerosi anglo-americani scelsero di schierarsi in difesa dell\'autonomia delle colonie e iniziarono a chiamarsi fra di loro \"patrioti\" (mentre per il governo di Londra erano dei \"ribelli\"). Costoro rappresentavano in gran parte le élite terriere e mercantili, alle quali si erano aggiunti alcuni gruppi provenienti dai ceti medi e popolari (come bottegai e artigiani delle città e agricoltori indipendenti) nonché taluni esponenti più radicali. Ma nei primi tempi del conflitto altrettanti coloni non presero affatto posizione: i pacifisti come i quaccheri, ad esempio, ma anche il grosso della popolazione rurale. Altri ancora, invece, rimasero leali alla Corona inglese, e furono per questo chiamati \"lealisti\"; essi appartenevano per lo più alle componenti politiche e sociali più conservatrici, legate agli interessi dell\'impero: funzionari regi, militari dell\'esercito britannico, membri della Chiesa anglicana. Tra l\'inverno e la primavera del 1775 la protesta dei coloni si trasformò in aperta ribellione. I patrioti si organizzarono in Comitati, che avevano lo scopo di pianificare i boicottaggi e di coordinare le iniziative: i \"cittadini-soldati\" raccoglievano armi e munizioni e formavano milizie sempre meglio addestrate. Contemporaneamente cominciarono a compilare elenchi di simpatizzanti e attivisti, ma anche liste nere di \"non-patrioti\". Vicini di casa, amici e persino familiari finirono per essere spiati, intimiditi, emarginati, accusati di tradimento. Nell\'aprile del 1775 la situazione precipitò. I comandi militari inglesi decisero di inviare truppe da Boston verso la cittadina di Concord, dove vi era un deposito di armi e munizioni. Sulla via di Concord, a Lexington, avvenne il primo scontro armato tra i due fronti, che vide la sconfitta del contingente britannico. Nel maggio successivo si riunì a Filadelfia il secondo Congresso continentale: visto il rapido succedersi degli avvenimenti i delegati stabilirono che era ormai tempo di assumersi ufficialmente compiti non solo di protesta, ma di governo. Di lì a pochi mesi fu deciso di battere moneta, di gestire autonomamente il commercio e il sistema postale, e di creare un esercito unificato, al cui comando fu chiamato un ricco possidente del sud, George Washington (1732-1799), che già era stato ufficiale nella guerra dei Sette anni e godeva di un ampio prestigio personale anche al di fuori della Virginia. Sebbene l\'indipendenza, nei fatti, cominciasse a essere considerata come una possibilità, l\'opinione pubblica e gli stessi congressisti restavano però divisi. Nel gennaio del 1776 le truppe americane guidate da Washington, schierate di fronte al porto di Boston difeso dagli inglesi, innalzarono la loro nuova bandiera con tredici strisce rosse e bianche, a rappresentare l\'unità delle colonie, e in un riquadro le croci dell\'Union Jack britannica, a simboleggiare la permanenza nell\'impero e la fedeltà alla Corona. Nell\'aprile di quello stesso 1776 le colonie aprirono i porti a tutti i traffici, rimarcando la loro piena autonomia commerciale dall\'Inghilterra. Nel maggio successivo, mentre si moltiplicavano le voci di un imminente sbarco di truppe britanniche lungo le coste nordamericane, il secondo Congresso continentale sciolse ogni riserva sul futuro e invitò le colonie a darsi nuove carte costituzionali e a dichiararsi indipendenti dalla sovranità britannica. Il gran passo era fatto. Da quel momento le colonie sarebbero divenute \"stati liberi e indipendenti\". **[LA NASCITA DEGLI STATI UNITI]** **LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA** Il Congresso ruppe gli indugi il 4 luglio 1776, e votò all\'unanimità la Dichiarazione di indipendenza. Nel preambolo venivano enunciate le ragioni di questo atto risolutivo. Vi si affermava che tutti gli uomini sono stati creati uguali e \"dotati dal Creatore\" di alcuni diritti inalienabili, tra cui quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Per questo, ogniqualvolta un governo cerchi di \"negare tali fini\", il popolo ha il diritto di \"modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo\". Veniva poi sancito il diritto delle \"colonie unite\" a rendersi \"stati liberi e indipendenti\". Quel giorno segnò un nuovo inizio, e dall\'anno successivo il 4 luglio fu dichiarato festa ufficiale dell\'indipendenza americana. La Dichiarazione venne scritta da un comitato di cinque rappresentanti delle colonie, presieduto da un ricco proprietario terriero della Virginia, Thomas Jefferson (1743-1826), ma era in tutto e per tutto figlia di un movimento culturale europeo, l\'Illuminismo, a dimostrazione di quanto le idee circolassero rapidamente e di quanto i coloni fossero solo geograficamente lontani dall\'Europa. Il testo affondava infatti le sue radici nelle teorie politiche di Locke e Rousseau, laddove stabiliva che un governo si fonda sul consenso dei cittadini. In un certo senso la Dichiarazione fu un compendio del pensiero dei Lumi in versione rivoluzionaria e repubblicana, motivo per cui il complesso di valori che affermava fu definito dalla pubblicistica come \"repubblicanesimo\". L\'annuncio dell\'indipendenza fu salutato da grandi folle con manifestazioni popolari, parate, brindisi e falò. Gli stemmi imperiali e i ritratti di Giorgio III furono bruciati nelle piazze, le statue che lo rappresentavano furono simbolicamente abbattute e private della testa. Nonostante questo clima di grande entusiasmo, le sorti della rivoluzione non erano per nulla certe. I comandi britannici passarono subito all\'offensiva, giungendo a controllare in breve tempo le principali città: New York cadde nell\'estate del 1776 e Filadelfia nel settembre 1777. La Gran Bretagna poteva disporre di forze infinitamente superiori e di una schiacciante supremazia militare e navale, mentre l\'esercito americano, oltre a essere carente di armi e munizioni, stentava a trovare coesione e disciplina adeguate al suo interno. Soltanto con la battaglia di Saratoga del 17 ottobre 1777 le truppe al comando di Washington riuscirono a ottenere un successo importante: la riconquista di Filadelfia, sede del Congresso. Già dal 1776 Benjamin Franklin (1706-1790), giornalista e scienziato della Pennsylvania che aveva soggiornato a lungo in Europa, era stato inviato a cercare l\'appoggio della Francia, mettendo in gioco tutto il suo prestigio personale e la sua notevole abilità diplomatica. Oltre che a corte, Franklin si adoperò attivamente nelle accademie, nei salotti e nei caffè di Parigi per mostrare quali legami ideali correvano tra la filosofia dei Lumi e la causa della rivoluzione americana. D'altra parte, per il re di Francia appoggiare la rivolta dei coloni significava rimettere in discussione il dominio imperiale inglese nel Nord America e riaprire così una partita che dopo la pace di Parigi del 1763 era sembrata definitivamente chiusa. La vittoria di Saratoga fu decisiva per arrivare a concludere l\'alleanza: la Francia si convinse a riconoscere l\'indipendenza dei nuovi stati, e assicurò loro il suo appoggio militare e finanziario. I primi volontari francesi giunsero in America nel 1777; l\'anno successivo arrivarono i finanziamenti e le truppe regolari. Nel 1779 i coloni ottennero anche il sostegno della Spagna, intenzionata a riprendersi Gibilterra (ceduta alla Gran Bretagna nel 1713, con il trattato di Utrecht). Il teatro del conflitto si era ormai allargato. Nel 1780, con la formazione della Lega della neutralità armata, alla quale aderirono Russia, Olanda e altri paesi europei, la Gran Bretagna si trovò inaspettatamente isolata sul piano diplomatico. L\'allargamento del fronte impegnò duramente le flotte britanniche nell\'Atlantico e nei Caraibi, rendendo difficili le comunicazioni fra Londra e le truppe dispiegate sul continente americano. Washington, tuttavia, non fu subito in grado di sfruttare la debolezza degli avversari, in quanto faticava a mantenere compatto il suo esercito: un numero crescente di soldati si rifiutava infatti di rinnovare la ferma militare e, tra defezioni e ammutinamenti, la situazione dei patrioti sembrò precipitare. Inoltre, tra il 1779 e il 1780 i comandi britannici spostarono l\'azione al Sud, dove potevano contare sull\'appoggio di numerosi \"lealisti\", sostenitori della Corona. Fu solo nel 1781 che la guerra si volse infine a favore dei \"ribelli\" americani. Le armate britanniche avevano occupato la città costiera di Yorktown, in Virginia, dove attendevano rinforzi da terra e dal mare. Qui, mentre la marina francese impediva l\'intervento della flotta britannica, l\'esercito di Washington mise sotto assedio la città e il 19 ottobre 1781 la costrinse alla resa. La caduta di Yorktown, per quanto non decisiva sul piano militare, convinse il Parlamento di Londra ad avviare negoziati con i coloni e a riconoscere l\'esistenza di una Confederazione di stati americani indipendenti. Con il trattato di pace, firmato a Versailles il 3 settembre 1783, il governo britannico riconobbe la sovranità delle ex colonie imperiali su un territorio assai vasto, che a nord si estendeva sino ai confini col Canada, a ovest sino al fiume Mississippi, e a sud sino alla Florida, riconsegnata alla Spagna (a cui era stata tolta dagli inglesi nel 1763); Gibilterra restò invece saldamente in mani britanniche. Alla Francia, che pure aveva contribuito in modo decisivo alla vittoria, vennero restituiti solo alcuni possedimenti africani nel Senegal e l\'isola di Tobago, nelle Antille. p.146 la dichiarazione di indipendenza degli stati uniti in relazione alla dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino **LA RICERCA DI UN NUOVO ASSETTO POLITICO: DA CONFEDERAZIONE A FEDERAZIONE** Con la pace di Versailles le tredici colonie non facevano più parte della Gran Bretagna. Si trattava ora di decidere se in futuro si sarebbero unite o meno in un unico Stato. Dal 1776 al 1780 si erano quasi tutte dotate di nuove costituzioni scritte (la prima e più famosa fu la Dichiarazione della Virginia, che divenne modello per le altre) e avevano scelto l\'opzione repubblicana. I nuovi stati post-rivoluzionari, indipendenti e retti da organi di governo autonomi, si sarebbero basati sul principio della sovranità popolare e sull\'uguaglianza civile dei cittadini, in modo da poter limitare i poteri dei governanti e difendere contro ogni possibile abuso i diritti fondamentali e naturali dell\'uomo. L\'applicazione pratica di questi principi generali diede però vita a norme e istituti giuridici molto diversi tra loro, che ben rappresentavano le grandi differenze economiche, sociali, di orientamento politico che avevano caratterizzato da sempre le colonie. Per avere un\'America più omogenea era indispensabile creare una forma politica capace di legare i singoli stati in un organismo unitario. Non vi era tuttavia accordo sulle forme che avrebbe dovuto assumere questa nuova realtà politica. La discussione fondamentale verteva sull\'opportunità o meno di creare un governo centrale, capace di rappresentare un interesse collettivo \"nazionale\" al di sopra dei singoli stati. Nel 1777, mentre la guerra era ancora in corso, il Congresso continentale di Filadelfia elaborò un progetto di Costituzione, intitolata Articoli di Confederazione, che prevedeva un tenue vincolo confederale tra gli Stati Uniti d\'America, secondo la denominazione ufficiale che le ex colonie si erano date. A un organo federale centrale, il Congresso, venivano affidati pochi poteri, come la soluzione di eventuali conflitti tra gli stati membri e la gestione delle relazioni internazionali, mentre i singoli stati avrebbero conservato tutte le loro peculiari prerogative interne. Malgrado si trattasse di una proposta \"minima\", la diffidenza verso un\'autorità centrale era così forte che ci vollero quattro anni perché gli Articoli di Confederazione fossero approvati in via definitiva. Gli Articoli di Confederazione restarono in vigore per otto anni, dal 1781 al 1789, durante i quali le ex colonie dovettero fronteggiare una pesante crisi politica, economica e sociale. Le finanze erano dissestate a causa delle spese per la guerra; il distacco dalla Gran Bretagna aveva provocato un\'interruzione nei traffici commercia-li; esistevano tensioni alle frontiere interne, sia con i nativi sia tra gli stati. Il Congresso si stava rivelando un\'istituzione troppo debole per assumere la direzione di un progetto politico ed economico capace di superare la frammentazione, rafforzando il paese sul piano interno e nel contesto internazionale. Fu così che settori sempre più ampi dell\'opinione pubblica si convinsero della necessità di una revisione costituzionale in senso maggiormente unitario. Allo scopo di modificare gli Articoli del 1781, nel maggio del 1787 venne convocata a Filadelfia, per volontà di George Washington, una Convenzione. Al suo interno si fronteggiarono due tendenze: quella federalista o \"nazionalista", che sosteneva la necessità di un forte governo centrale al fine di raggiungere la stabilità di cui il paese aveva bisogno, e che vedeva fra i suoi esponenti James Madison, Alexander Hamilton e John Jay; e quella antifederalista, raccolta attorno a Thomas Jefferson, che sosteneva i governi locali e vedeva nell\'autorità centrale una minaccia all\'indipendenza delle colonie proclamata nel 1776. Nel giro di soli quattro mesi i congressisti, riuniti per modificare gli Articoli, fecero in realtà molto di più: stesero una nuova Costituzione, che fu varata il 16 settembre 1787. Poiché a prevalere era stata la tendenza federalista, fu stabilita un\'unione politica sovrastatale, nell\'ambito della quale gli interessi dell\'autorità centrale avrebbero comunque dovuto essere bilanciati con quelli dei singoli stati. Per il nuovo organismo politico fu previsto un equilibrio fondato sulla separazione dei poteri, sulla scia degli insegnamenti di Montesquieu. La nuova carta prevedeva dunque un governo centrale retto da un presidente eletto ogni quattro anni, a cui era affidato il potere esecutivo. Il potere legislativo federale era invece affidato al Congresso, formato da due camere, il Senato e la Camera dei rappresentanti, costituite con modalità diverse che avrebbero dovuto salvaguardare l\'effettiva parità tra gli stati membri: al Senato ogni Stato avrebbe avuto due rappresentanti, indipendentemente dalla popolazione; alla Camera un numero di seggi proporzionale al numero degli abitanti. Infine, per quanto riguarda il potere giudiziario, fu deciso che i tribunali federali istituiti in ognuno degli stati fossero subordinati a una Corte suprema, i cui giudici venivano nominati dal presidente con l\'assenso del Congresso. Perché la nuova Costituzione fosse davvero espressione di un unico popolo, sarebbe stata idealmente necessaria la ratifica di tutti gli stati membri. Ma, consapevoli della forte diffidenza nei confronti del progetto federale, i membri della Convenzione stabilirono che, per entrare in vigore, la nuova carta non avrebbe avuto bisogno dell\'unanimità, ma solo del consenso di almeno nove stati. Il dibattito per la ratifica, alimentato da un\'intensa campagna pubblicista, infiammò a lungo l\'opinione pubblica. Quando la nuova Costituzione entrò in vigore, nell\'autunno del 1788, all\'appello mancava ancora la firma di due stati, il North Carolina, che aderì nel 1789, e il Rhode Island, che firmò solo nel 1790. La prima consultazione elettorale nazionale del 1789 vide la vittoria dei federalisti, e George Washington divenne il primo presidente degli Stati Uniti. Nasceva così il primo grande Stato federale moderno. Lanno seguente si stabili che gli Stati Uniti avrebbero avuto una nuova capitale, in seguito chiamata Washington in omaggio all\'ex generale diventato \"padre della patria\". Le rivalità politiche, tuttavia, continuavano a essere di non facile composizione. Coerentemente ai principi del 1776, la nuova repubblica federale era stata fondata sulla sovranità popolare, e questo solo fatto, di per sé, fu una novità rivoluzionaria. Tuttavia, il diritto di partecipare alla gestione della vita pubblica, come elettori e come eletti, venne stabilito in modo autonomo dai singoli stati, e quasi ovunque fu prerogativa di un\'élite privilegiata: maschi, bianchi e contribuenti oltre una certa soglia di ricchezza. I nativi americani - assimilati a nazioni straniere - e gli schiavi africani ne rimanevano del tutto esclusi. La permanenza della schiavitù era stata proprio uno dei compromessi da cui era scaturita la Costituzione: i grandi proprietari del Sud, che erano una componente decisiva dell\'élite rivoluzionaria, si erano detti disposti a sottoscrivere il testo costituzionale solo se fosse stata garantita per almeno vent\'anni l\'importazione di nuovi schiavi. Nel Nord, invece, la schiavitù fu gradualmente soppressa, anche perché non era un elemento fondamentale del sistema economico. Nel 1787 si decise che non sarebbe stata ammessa negli stati di nuova fondazione, quelli che già si prevedeva sarebbero sorti dall\'espansione verso Ovest. **I PRIMI PASSI DEL GOVERNO FEDERALE** Con la nascita dello Stato federale il contrasto tra federalisti e antifederalisti si trasferì all\'interno della nuova classe politica e si concentrò inizialmente su alcune ambiguità insite nella Costituzione. Le critiche degli antifederalisti si appuntavano soprattutto sulla mancanza nel testo di apposite garanzie su alcuni diritti dei cittadini: non si faceva ad esempio riferimento alla sfera religiosa né ai rapporti tra Stato e Chiesa, considerati materia di pertinenza dei singoli stati. La stessa Convenzione, a ogni modo, aveva contemplato la possibilità di introdurre emendamenti alla Costituzione, per correggerne i contenuti, su proposta di due terzi del Congresso e con l\'approvazione dei tre quarti degli stati. Fu così che nel 1791 il Congresso accolse le richieste degli antifederalisti ed elaborò un primo pacchetto di dieci emendamenti, noto come Bill of Rights (o Dichiarazione dei diritti), tutti riguardanti la salvaguardia delle libertà individuali dei cittadini, fra cui quelle di parola, di stampa, di riunione e, appunto, di religione, con la separazione tra Stato e Chiesa, contenuta nel Primo emendamento, il più celebre. Questi emenda-menti, e i successivi che furono via via apportati, corressero di fatto molte anomalie e molte ambiguità presenti nel testo originario. Durante i primi anni di vita del giovane Stato federale gli antifederalisti manifestarono una vigorosa opposizione alla politica fiscale dell\'esecutivo. Uno dei principali problemi che il nuovo governo statunitense dovette affrontare riguardava infatti l\'enorme debito pubblico che gli stati avevano accumulato negli anni di guerra. Animato da una grande fiducia nella centralizzazione, il federalista Alexander Hamilton, nominato da Washington segretario (ovvero ministro) del Tesoro, propose di consolidare i debiti interni ed esteri dei singoli stati in un unico debito nazionale, coperto dall\'emissione di obbligazioni federali. La questione era scottante: alcuni stati del Sud, in particolare la Virginia, avevano già provveduto a estinguere in gran parte il loro debito, ma questa iniziativa li avrebbe costretti a versare ulteriori tributi, accollandosi parte del disavanzo degli altri stati. Hamilton presentò anche altre misure finanziarie, fra cui l\'istituzione di una Banca federale centrale (1791) modellata su quella d\'Inghilterra e l\'adozione di una politica doganale basata su dazi di importazione piuttosto elevati, a protezione delle manifatture americane dalla concorrenza estera. Questi provvedimenti si sarebbero risolti a vantaggio del Nord, mentre non corrispondevano in alcun modo agli interessi degli stati meridionali, privi di attività industriali: per la loro economia un mercato di libero scambio era molto più conveniente, tanto più che il protezionismo li avrebbe costretti ad acquistare al Nord quegli stessi prodotti che, in un regime diverso, avrebbero potuto ottenere a prezzi molto più bassi altrove. Le proposte di Hamilton furono approvate, ma provocarono accese dispute nel Congresso, cosicché molti maturarono l\'impressione che lo Stato federale fosse più che altro al servizio degli interessi del Nord e dell\'industrializzazione. Fra i principali avversari di Hamilton vi era Thomas Jefferson, che nel 1792 diede vita a un Partito repubblicano autonomo, a cui si unì James Madison, ormai distaccatosi dai vecchi compagni federalisti. Le elezioni presidenziali del 1796 furono le prime che videro una vera e propria competizione tra due contendenti: ritiratosi Washington dopo due mandati, i federalisti candidarono John Adams, i repubblicani Jefferson. Adams vinse, ma nel 1800 si ebbe un rovesciamento di fronte e fu Jefferson, questa volta, a essere eletto presidente. L\'egemonia del nuovo partito durò per un\'intera generazione: a Jefferson sarebbe infatti succeduto Madison nel 1809 e James Monroe nel 1817, tutti repubblicani e tutti virginiani. La vittoria di Jefferson costituì l\'esordio di un laborioso processo di consolidamento del nuovo sistema di governo democratico. Nel suo discorso di insediamento lo stesso presidente affermò di voler instaurare un clima politico di conciliazione - famosa resta la sua frase \"siamo tutti federalisti, siamo tutti repubblicani\". Allo stesso tempo, parole d\'ordine del nuovo Stato sarebbero state rinnovamento, austerità e contenimento della spesa pubblica, che Jefferson onorò nel corso di tutto il suo mandato. Quanto al trasferimento della capitale da Filadelfia a Washington, rappresentò, in prati-ca, per gli stati del Sud, una compensazione agli svantaggi che venivano a subire in seguito alla creazione di un debito nazionale. p\. 151 Bill of Rights

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