Riassunto Storia del Lavoro PDF
Document Details
Uploaded by ToughAcademicArt9621
Università degli Studi di Roma Tre
Tags
Summary
Il documento riassume la storia del lavoro nello Stato Pontificio, analizzando le dinamiche economiche, demografiche e politiche del periodo. In particolare, si concentra sulle agitazioni contadine, descrivendo le condizioni di lavoro e le proteste dei lavoratori agricoli.
Full Transcript
**[Stato pontificio: storia di un'agitazione contadina]** Nel periodo del Quarto secolo a Roma si registravano circa 1 milione di abitanti e quello rappresentava un massimo demografico per la città susseguito dal minimo storico nel Nono e Decimo secolo con 17 mila abitanti. Con il Sacco di Roma del...
**[Stato pontificio: storia di un'agitazione contadina]** Nel periodo del Quarto secolo a Roma si registravano circa 1 milione di abitanti e quello rappresentava un massimo demografico per la città susseguito dal minimo storico nel Nono e Decimo secolo con 17 mila abitanti. Con il Sacco di Roma del 1526, vi fu un aumento demografico causato dagli importanti flussi migratori che permise l'ingresso in città di numerosi artisti. Il picco demografico si registrò nel 1794, con circa 170000 abitanti. Ci fu poi una fase di contrazione demografica, a partire dal 1815, che fu scaturita dalle campagne napoleoniche con le quali ci furono dei pesanti attacchi al mondo ecclesiastico e durante le quali Roma venne invasa per poi essere successivamente annessa al Regno d'Italia. In questo periodo dal punto di vista demografico si registrò una fase di declino, generata dalla migrazione di gran parte della popolazione, che in risposta alle campagne napoleoniche decise di lasciare le proprie terre. Un'ulteriore crescita demografica si ebbe a metà Ottocento. Nel 1870 avviene la caduta dello Stato Pontificio e cominciarono ad emergere le numerose differenze tra Roma e le altre capitali Europee come, ad esempio, Parigi che in questi anni contava già 2/4 milioni di abitanti, quindi, era una città molto più ampia rispetto a Roma e soprattutto più moderna; a Roma, infatti, questo processo di modernizzazione doveva ancora essere messo in atto a causa dell'arretratezza dello Stato Pontificio. **[Stato ed Economia]** Tra Stato ed Economia c'era un rapporto molto stretto; l'economia era organizzata intorno alla rendita, ai trasferimenti dall'estero verso Roma in quanto quest'ultima era la capitale del cattolicesimo e infine sui consumi. Gli elementi fondamentali dello Stato Pontifico sono: - **ELEVATO DEBITO PUBBLICO** che rappresentava un limite in quanto non permetteva la crescita quindi i rendimenti erano assicurati dallo Stato pontificio - **MERCATO PRIVATO RISTRETTO** causato dalla fragilità della borghesia Lo stato aveva un ruolo dirigentista/interventista ed esercitava due influenze: - **INFLUENZA DIRETTA** in quanto entravano nelle politiche mercantilistiche. Era infatti uno Stato pervasivo che metteva molti vincoli e focalizzava la propria attenzione sui beni di prima necessità che non dovevano scarseggiare per non creare mal contento tra i cittadini e mantenere il consenso poiché era la capitale del cattolicesimo doveva dare il buon esempio e non trascurare i suoi cittadini. Si verificava l'esistenza di corporazioni. lo Stato Pontificio veniva definito come STATICO dal punto di vista delle relazioni commerciali anche se, tuttavia, applicava delle politiche mercantilistiche (basate sul concetto secondo il quale la potenza di una nazione sia accresciuta dalla prevalenza delle esportazioni sulle importazioni ,si parla di surplus commerciale) - **INFLUENZA INDIRETTA** legata alla presenza di istituti assistenziali e caritari sempre nell'ottica in cui Roma doveva risultare accogliente e sempre un modello per il mondo cattolico **[Capitale Politica e Religiosa]** Questo doppio ruolo che veniva ricoperto a quei tempi da Roma comportava dei benefici e dei costi **BENEFICI** - **DOMANDA DI BENI LEGATA AI RUOLI**: in base al ceto sociale di appartenenza la domanda di beni variava ad esempio la domanda di beni di lusso era più orientata verso le corti - **POLITICA ANNONARIA**: che si basava sull'approvvigionamento minimo - **MOBILITA' SOCIALE**: le nuove elezioni del papato comportavano un ricambio di famiglie con conseguenti cambiamenti dal punto di vista delle relazioni sociali e degli interessi. **COSTI** - **ELEVATA PRESSIONE FISCALE NEI CONFRONTI DEL CETO MEDIO**: con questa misura si va a danneggiare maggiormente la borghesia perché i ceti sociali dominanti in quel periodo erano gli aristocratici e gli ecclesiastici che andavano a sfavorire il ceto borghese - **STATO TROPPO PERVASIVO**: che limitava ulteriormente l'ascesa della borghesia, gli aspiranti imprenditori dovevano seguire alla lettera le regole delle Corporazioni. **[Analisi Agitazione di un'agitazione contadina all'epoca della restaurazione]** **CAPITOLO 1** L'agro romano era costituito da latifondi (tipici del centro Italia) che venivano coltivati a livello estensivo con cereali oppure venivano dedicati al semplice pascolo di animali. Il paesaggio agrario romano risulta diverso rispetto ai paesaggi presenti in Italia tra il 700 e l'800. Vi sono delle caratteristiche concordi in diversi racconti. L'agro romano era infatti caratterizzato dalla scarsità o assenza di popolazione, la mancanza di case, alberi, colture e prevalenza di attività pastorali. La presenza di contadini era infatti in contrasto con la reale situazione demografica dell'epoca. All'interno delle colture che avvenivano in quel secolo il principale sistema utilizzato era quello del maggese. È opportuno specificare che l'agricoltura era di tipo estensivo latifondistico e avevano un certo rilievo la preparazione dei terreni e le attività cerealicole. Si può dunque concludere che l'immagine che veniva trasmessa dell'agro romano è quella di un territorio in stato di degrado, con un'agricoltura antica e scarsamente produttiva. I fattori ambientali e demografici determinavano uno speciale modello di domanda di lavoro agricolo caratterizzato da una notevole flessibilità sulla divisione del lavoro, sul numero di addetti e sull'assenza di salariati fissi. I latifondi erano molto estesi e di conseguenza venivano affittati a diverse aziende agricole; questo causò una eccessiva frammentazione di quest'ultimi che ha ostacolato la rivoluzione agraria che necessitava di elevate dimensioni dei latifondi. Il problema principale era per le imprese di piccole dimensioni che necessitavano di grandi investimenti senza però ottenere un ritorno economico. La novità è rappresentata dai **MERCANTI DI CAMPAGNA** che si occupavano dell'organizzazione dell'azienda del campo suddividendo i lavoratori in: - **SALARIATI FISSI** (ad esempio il fattore che era la figura più importante e aveva una funzione direttiva e i capoccia che si occupavano della preparazione delle lavorazioni del terreno e inoltre si occupavano dell'assunzione dei bifolchi). Il numero di salariati fissi era contenuto. Questi dipendenti erano retribuiti sulla base di un salario annuo e potevano essere licenziati con un preavviso di tre mesi. - **SALARIATI NON FISSI** (i bifolchi che erano i braccianti stagionali o annuali ma che venivano pagati per le giornate effettive di lavoro e potevano essere licenziati senza preavviso il mercoledì e il sabato che erano i giorni di paga. I guitti o monelli che erano reclutati dai caporali. Rappresentavano la categoria più numerosa che offriva in termini di giornate lavorative il maggior contributo all'agricoltura. Tra i principali monelli rientravano le figure di aquilani (provenienti dall'Aquila), falciatori e mietitori (provenienti da Marche e Umbria). Il contratto per quest'ultimi era di regola a cottimo prevedendo un compenso fisso per un massimo di undici giorni. Se il lavoro si fosse prolungato oltre l'undicesimo giorno il compenso sarebbe stato proporzionale alle giornate lavorative e pagato dall'imprenditore.) Per il reclutamento dei salariati non fissi avveniva una trattativa tra imprenditore agricolo ed il caporale per trovare un'intesa anche sulle modalità di prestazione delle opere. L'accordo poteva essere concluso da una stretta di mano, lettera privata o all'invio di una caparra prestabilita. Il contratto forniva le informazioni di numero e qualità dei lavoratori precisando se uomini, donne o ragazzi. Una volta ricevuta la caparra il caporale provvedeva a reclutare i lavoratori tra i contadini del proprio paese di origine (monelli). La rivoluzione agraria si arrestò per lungo tempo, per quasi tutto l'800, anche per gli ostacoli frapposti a causa del deficit di capitali fondiari, della scarsa manodopera locale, scarsa visibilità e presenza di paludi e malaria. Questi accordi che venivano definiti portarono a stabilire una conduzione capitalistica dell'agro romano. Il problema principale però era rappresentato dall'alta diffusione della malaria (contrastata durante il fascismo) che colpiva i lavoratori nel periodo da aprile a settembre; per questo motivo si è passati alla recluta di lavoratori stagionali (provenienti ad esempio dal regno di Napoli). Un'ulteriore problematica era legata al fatto che Roma fosse la città senza contado e disponeva di insufficienti risorse che la costrinsero ad attingere dalle altre regioni. Un ultimo aspetto riguarda i ridotti interscambi sia di uomini che di merci. **CAPITOLO 2** L'agitazione ebbe inizio mercoledì 16 maggio 1832; la protesta venne effettuata da parte di 53 bifolchi (che erano caratterizzati da una relativa stabilità del lavoro, questa era importante per creare una comunità. Provenivano dall'area laziale e romana. A questa protesta non parteciparono tuttavia i monelli poiché non facenti parte della comunità.) appartenenti a sette tenute (la maggior parte dei quali appartenenti alla tenuta di Torre in Pietra). L'iniziativa di questa protesta viene definita come non spontanea, era rappresentata infatti da una mobilitazione collettiva e venne studiata con obiettivi e strumenti da parte dei bifolchi con 2/4 settimane di anticipo. La polizia non faticò a rintracciare i bifolchi appartenenti alla protesta e dopo quattro ore vennero fermati all'altezza della tenuta di Boccea (fuori dalle mura aureliane). Vennero arrestati 10 bifolchi successivamente rilasciati, dopo un interrogatorio, il 18 maggio. Le autorità di polizia non si limitavano a effettuare l'interrogatorio, ma per accertare la dinamica degli avvenimenti e le effettive responsabilità sentirono anche i mercanti di campagna ed un sacerdote, Don Luca Riccelli, il quale era stato individuato come istigatore della rivolta. Quest'ultimo fece alcune ammissioni affermando che terminato il proprio lavoro si informava sulle attività dei campagnoli e offriva loro da bere, smentì infine di aver istigato la protesta o di aver fornito aiuto o assistenza per quella messa in atto. Aveva infatti convinto i bifolchi ad effettuare una protesta pacifica convalidando le loro ragioni e consigliava loro di rivolgersi direttamente allo Stato per la tutela. L' obiettivo principale dei bifolchi era quello di protestare a Piazza Farnese. La polizia effettuò i controlli preliminari cercando di capire il motivo intrinseco alla protesta. Dopo aver ascoltato gli affittuari si accertò che i bifolchi si erano presentati al casale di Boccea con un foglio in mano contenente la loro richiesta; inoltre non avevano usato alcuna violenza ma si erano limitati a chiedere del pane che era stato già somministrato. Nei territori circostanti nei giorni successivi avvennero proteste con bifolchi armati di bastoni i quali richiedevano dei pagamenti in natura per il loro operato. Occorre ricordare che la protesta dei lavoratori non era diretta contro il governo ma contro gli imprenditori agricoli. Le investigazioni che ebbero luogo nei giorni successivi da parte delle magistrature locali fornirono supporto e comprensione verso i campagnoli. A quest'ultimi, infatti, venivano forniti cattivi alimenti che producevano malattie e mortalità. Un contributo prezioso per la comprensione dei caratteri della rivolta è offerto da una serie di manifestini scritti di mano di uno dei rivoltosi e consegnato dai contadini ai capoccia delle loro tenute. Si tratta in complesso di quattro manifestini con un contenuto omogeneo nell'indicazione delle richieste e delle modalità di risoluzione della protesta. I bifolchi si rivolgono ai padroni con diffidenza ma anche con rispetto; alla base della loro lotta vi era il ripristino degli equilibri naturali tra padrone e sottoposto che erano stati progressivamente violati. In questo quadro lo Stato non è un obiettivo diretto di contestazione politica ma bensì viene richiamato per la sua funzione di garante sociale, da esso ci si aspetta un'azione di mediazione politica. Sugli aspetti più importanti della protesta emerge il lato economico in riferimento sia alla parte monetaria che alla parte in natura del salario. La motivazione economica riguardava prevalentemente il salario ricevuto; esso, infatti, non permetteva l'autosufficienza ai bifolchi. Questi ultimi per ottenerla dovettero chiedere dei prestiti ai loro mercanti di campagna e quindi avevano debiti che comportavano loro una riduzione del salario. Con il salario ridotto non erano infine in grado di avere del potere d'acquisto all'interno del mercato. La protesta era prevalentemente incentrata sul terreno economico, non si avevano ambizioni politiche ma veniva richiesta prevalentemente un adeguamento del salario o del contratto e l'applicabilità di quest'ultimo. Il salario in natura era rappresentato nella maggior parte dei casi da pane andato a male oppure "inverminato". Il pane veniva calcolato non al peso ma in termini monetari, questo comportava, anche a causa dell'inflazione, una diminuzione progressiva delle quantità. Tra le ragioni della rivolta rientrano anche le condizioni di vita. La situazione di povertà nel corso del tempo divenne insostenibile. Dal punto di vista del salario in natura la richiesta che veniva fatta da un punto di vista economico era concernente la creazione di uno standard minimo di pagamento in natura, lo standard doveva essere rappresentato dalla qualità del pane. **CAPITOLO 3** Le autorità di governo avevano ormai acquisito attraverso i rapporti della forza di polizia i verbali degli interrogatori dei bifolchi arrestati, nonché dei personaggi direttamente o indirettamente implicati nella vicenda. L'orientamento del governo fu deciso tra il governatore di Roma, il cardinale segretario di Stato e papa Gregorio XVI. La scelta fu di rifiutare un'azione repressiva e, raccogliendo la sollecitazione avanzata dai bifolchi, di svolgere un ruolo attivo di mediazione politica tra le parti in conflitto. I bifolchi vennero ammoniti a ritornare a lavoro e a non ripetere analoghe azioni di protesta ma di utilizzare le petizioni al sovrano. Allo stesso tempo venne garantito loro l'interessamento del governo per la difesa dei loro legittimi interessi ed in particolare la somministrazione di un vitto sano ed un giusto salario. I mercanti di campagna furono richiamati al dovere di un equo trattamento dei campagnoli. Questo clima di distensione viene sancito dal fatto che i bifolchi arrestati furono rilasciati solamente due giorni dopo. l'intervento delle forze di polizia e l'opera di persuasione del governo miravano all'obiettivo del mantenimento dell'ordine pubblico. Oltre ad una serie di chiari motivi non vi furono problemi per il governo a considerare come principali colpevoli della situazione verificatasi i mercanti. Quest'ultimi rappresentavano la borghesia all'interno dello Stato e l'obiettivo del governo (composto da aristocratici ed ecclesiastici) era quello di limitare l'insurrezione della borghesia. Fra le principali ragioni che spinsero il governo a dare ragione alla protesta dei bifolchi vi fu una ragione politica ed una componente sanitaria. La ragione politica è da ricercare all'interno dei moti liberali del 1831; in quel periodo la parte più produttiva dello stato pontificio aveva dichiarato una propria indipendenza creando una crisi a quest'ultimo. Successivamente i territori occupati furono liberati dall'esercito francese ed austriaco. Sul piano sanitario la somministrazione di un vitto di cattiva qualità era considerata pericolosa da un punto di vista di diffusione di un'epidemia di colera. In questo caso si fa riferimento al pane che veniva somministrato, l'idea era quella di aumentare la qualità sana di quest'ultimo per evitare e combattere questo flagello. **CAPITOLO 4** Dopo aver ricevuto le disposizioni, il presidente della Camera di Commercio provvide, il 20 maggio, a convocare una seduta del Consiglio allargata ai mercanti di campagna con l'obiettivo principale di formulare una prima risposta di carattere interlocutorio verso il Governo. Da questa riunione emerse la volontà della Camera di Commercio di prendere tempo per analizzare al meglio i fatti accaduti. La lettera presentata dal presidente Valentini poiché mostra l'emergente nascita di una solidarietà fra gli interessi della Camera e i mercanti di campagna. Valentini attraverso una lettera condanna i fratelli Merolli (principali mercanti di campagna), attraverso una drammatizzazione dell'episodio riguardante le condizioni del pane dato ai lavoratori confinando però l'episodio ad un caso limite, isolato ed accidentale. La Camera prospettò un coinvolgimento del Governo e un concorso di responsabilità con quest'ultimo il quale aveva il compito principale di sorvegliare la politica annonaria del tempo (politica del tempo riguardante il genere alimentare e di approvvigionamento). La lettera, dunque, "attacca" indirettamente la Prefettura dell'Annona, la quale aveva il compito di controllare i Forni di Roma insieme al Governo, il quale era co-responsabile. L'osservazione critica della Camera portò successivamente ad un richiamo da parte del pontefice nei confronti della Prefettura. Attraverso la Camera, i mercanti di campagna si trasformarono da imputati in critici esaminatori della funzionalità degli apparati burocratici del Governo. Da qui la Camera di Commercio entra in contrasto non esplicito con il Governo, invitandolo a diffidare dalle richieste dei contadini circa la volontà di avere un aumento salariale. Il contrasto non riguardava la questione se aumentare effettivamente il salario ma bensì la possibilità di perdere la capacità contrattuale tra parti sociali della Camera e del Governo. Ciò poteva comportare infatti un aumento delle sommosse da parte degli altri lavoratori e la perdita delle redini dal punto di vista del comando all'interno della società. Venne redatto ed infine inviato il 5 giugno 1832 un documento da parte della Camera di Commercio all'interno del quale si presentavano delle contraddizioni tra l'analisi della situazione e le misure proposte per superarla. La Camera si affrettava a dichiarare la propria netta opposizione ad un provvedimento che fissasse un salario minimo per legge perdendo così la libertà di contrattazione fra le parti. L'ideologia alla base era quella di lasciare la determinazione del salario senza vincoli contrattuali, con la possibilità di determinare quest'ultimo attraverso l'incontro tra domanda e offerta. Si sanciva dunque un principio di liberismo economico e portando così alla determinazione del "giusto salario". La seconda proposta avanzata nel documento dalla Camera fu quella di predisporre un Regolamento di Polizia Rurale al fine di disciplinare in modo organico i rapporti tra i mercanti di campagna e i lavoratori con la volontà di conteggiare quest'ultimi. La Camera avanzo la richiesta dell'istituzione del libretto di lavoro che avrebbe dovuto avere anche la funzione di carta di sicurezza di allontanare la gente con il sospetto di vagabondaggio e di delitti e rassicurare contemporaneamente il Governo ed il Pubblico della loro condotta. Il denominato Progetto di un Regolamento di Polizia Rurale mirava a consolidare il potere di controllo dei mercanti sulla manodopera agricola; quanto poi lo strumento individuato fosse coerente con la libertà espressa nel punto precedente appare di difficile comprensione. L'ultima proposta avanzata nel documento della Camera fu quella di dotare i fondi di un proporzionato numero di abitazioni rurali. Tuttavia, il documento precisava che si trattava di un problema che non riguardava i mercanti di campagna ma quella dei proprietari fondiari; a questi, infatti, avrebbe dovuto competere l'effettuare i necessari investimenti date le loro crescenti disponibilità economiche. I proprietari dovevano essere posti di fronte alla loro responsabilità verso la comunità; la costruzione di casali avrebbe avuto conseguenze benefiche non solo per i lavoratori ma anche per le attività produttive, sul piano demografico e della salute pubblica. Le affermazioni riguardanti i proprietari avevano una portata più vasta; erano la manifestazione di un disagio crescente dei ceti imprenditoriali di fronte sia ai vincoli giuridici, i quali ostacolano l'accesso alle proprietà fondiarie alle forze economiche emergenti, lasciandole in mano alla parte aristocratica ed ecclesiastica, sia al potere economico e sociale della grande proprietà. Le proposte che vennero avanzate lasciavano tuttavia poco spazio ad una contrattazione visto le differenti posizioni prese dal Governo e dalla Camera di Commercio. **CAPITOLO 6** Sulle origini delle proteste i manifestini lasciati dai bifolchi forniscono degli elementi ben precisi: profonda insoddisfazione per il salario in moneta e in natura; motivi che vengono comunque confermati dalla stessa documentazione prodotta dalle forze di polizia e dalla parte padronale. L'agitazione costituì l'occasione per una specie di inchiesta sulla condizione dei salariati agricoli. Il problema principale emerso non era solo di tipo quantitativo, poiché la frode sulla qualità era ancora più sofferta dai salariati che venivano colpiti nella persona e menomati nella loro capacità lavorativa. Non era, tuttavia, solo la cattiva alimentazione a mettere in pericolo la salute dei lavoratori agricoli; un peso importante era rappresentato anche dall'ambiente e dall'inadeguatezza delle abitazioni rurali. L'inadeguatezza del salario è indirettamente confermata sia dagli interrogatori di polizia sia dalla posizione di indebitamento dei lavoratori. Questa posizione era denunciata dai bifolchi che, pur essendo subordinati al lavoro dovevano richiedere delle somme ai mercanti così da essere in grado di poter comprare le provviste necessarie per l'auto sostentamento e privandosi della libertà economica. Il quadro generale che emerge è quello di una condizione di profonda miseria e precarietà dei bifolchi nell'agro. Nel complesso dell'agitazione le motivazioni di ordine economico risultano fondamentali, ma esse acquistano un determinato spessore in riferimento alle più generali condizioni di vita ed all'evoluzione dei rapporti sociali di produzione. In particolare, non fu soltanto il peggioramento in senso assoluto dei salari a provocare l'agitazione, ma anche la loro diminuzione in senso relativo, la modifica nei rapporti con gli altri ceti sociali, e in particolare con i mercanti di campagna, la convinzione, cioè, che si fosse rotto un equilibrio considerato equo o quantomeno accettabile. Un ruolo di particolare rilevanza sembra essere stato assunto dalla valutazione della nuova collocazione sociale dei mercanti di campagna. I lavoratori erano scontenti di alcuni atteggiamenti, come ad esempio il fatto che loro andassero in carrozza a spese dei lavoratori. Uno studio inoltre è stato condotto sulle forme di protesta con cui gli avvenimenti del 1832 possano essere prevalentemente riferiti. È opportuno specificare che mancano per la zona dell'Agro romano episodi significativi di protesta in epoca precedente. Si può ritenere però che il rapporto del lavoro salariato, l'estraneità dell'ambiente, la relativa brevità del soggiorno, l'agevole sostituibilità di manodopera hanno costituito un forte freno alla nascita di forme di protesta nell'Agro. Va posta l'attenzione, inoltre, sulla mancanza di comunità di villaggio e non va dimenticato che quest'ultime sono alla base dell'organizzazione di agitazioni rurali. Gli avvenimenti del maggio 1832 rappresentano dunque degli interessanti elementi di novità rispetto al passato e ad altri fenomeni contemporanei di protesta sociale nella città di Roma. La novità della protesta dei bifolchi venne percepita all'epoca con preoccupazione e incredulità. Per quanto attiene all'organizzazione, certamente non ci si trova di fronte all'azione di gruppi consociati in modo stabile. Vi sono inoltre teorie attraverso le quali i bifolchi nelle settimane precedenti avessero rifiutato cibo e scritto petizioni dirette al Governo, resta documentato il fatto che la protesta ebbe un periodo di organizzazione dalle 2 alle 4 settimane. Gli sconvolgimenti politici dell'età delle rivoluzioni segnarono in modo permanente comportamenti e mentalità ai quali anche i bifolchi dell'Agro Romano si ispiravano. Tuttavia, per i bifolchi la rivoluzione non ha un significato politico e sociale generale ma è una rivoluzione campagnola con ambito sociale e geografico ben delimitato. Gli obiettivi dell'agitazione risultano indicati con molta precisione con una controparte individuata nei mercanti di campagna. Non si richiedeva soltanto più pane, più salario in moneta ma si stabiliva anche di ottenere nuovi accordi sul lavoro. È un'agitazione che si poneva obiettivi concreti perché aveva le sue basi in una condizione insopportabile di vita. Sul piano degli strumenti infine sembrano due gli aspetti su cui richiamare l'attenzione; la redazione di manifestini con l'indicazione delle richieste e il dichiarato intendo di ottenere la garanzia di coinvolgere lo Stato negli avvenimenti. La lotta non fu indirizzata verso lo Stato ma contro i mercanti, anzi, lo Stato venne considerato un interlocutore da privilegiare ed evocato come garante di un ordine fondato sui principi di giustizia. Le prime reazioni dello Stato e dei suoi apparati alla notizia della protesta furono quelle tipiche dei governi dell'epoca; ogni agitazione era sinonimo di tumulto, ribellione e violenza. Ma la strategia dei bifolchi costrinse il Governo a confrontarsi e a misurarsi con i fatti. Le indagini di polizia misero a nudo il duro sfruttamento dei bifolchi con il pane che venne consegnato direttamente ai cardinali, i quali notarono con un certo sgomento le condizioni del salario in natura dato dai mercanti. Quest'ultimi considerarono con preoccupazione il coinvolgimento del governo. Si mostrarono restii ad ogni concessione non solo per difendere i loro interessi, ma perché preoccupati nello stabilire un precedente pericoloso per il futuro e per i possibili effetti imitativi delle altre categorie di lavoro. La novità della protesta mise a nudo la contraddizione tra il rifiuto ideologico dello Stato in materia salariale e la pressante richiesta di un intervento del Governo sull'adozione sia di misure repressive per far tornare al lavoro i bifolchi, sia di provvedimenti volti ad introdurre misure più stringenti per il controllo sulla manodopera. Gli esiti della protesta furono assai limitati per i bifolchi che non ottennero alcun aumento salariale, ma dei risultati furono comunque conseguiti. Intanto il Governo fu costretto a misurarsi con un fenomeno sociale nuovo come quello dell'agitazione. I bifolchi ottennero dai mercanti, nel timore di ulteriori sommosse, un miglioramento del vitto in qualità e quantità. I lavoratori, inoltre, videro puniti con una molta salata i mercanti. Tuttavia, i mercanti non vengono considerati come gli "sconfitti", anzi; erano riusciti a non concedere un aumento del salario rimanendo in una posizione di vantaggio nei confronti dei bifolchi. Il Governo affermò la sua capacità di ricucire l'ordine sociale senza ricorrere a severe misure repressive. L'agitazione rappresenta infine il tramonto dell'intervento da parte del Governo in materia economia sul giusto prezzo e salario. **[Storia del lavoro in Italia]** **Capitolo 1** La storia del lavoro in Italia nei centoquarant'anni trascorsi dalla fondazione del Regno d'Italia ha visto cambiamenti radicali simili e radicali come quelli che hanno investito la popolazione italiana da un punto di vista sociale e culturale. Due sono stati i cambiamenti di carattere generale che hanno caratterizzato il mutamento sociale della società industriale; 1\. Il tasso d'attività. Nel 1861, quasi due abitanti su tre appartenevano alla popolazione attiva, svolgevano cioè un'attività lavorativa volta all'acquisizione del reddito; a distanza di circa cento anni, all'inizio degli anni Settanta del Novecento, all'apice della crescita per l'occupazione industriale, il rapporto si era rovesciato: aera attiva poco più di una persona su tre, mentre al giorno d'oggi si registra un lieve aumento con il rapporto pari a due persone su cinque. La diminuzione del tasso d'attività non è dipeso da un aumento della disoccupazione; i disoccupati sono considerati infatti parte della popolazione attiva in quanto ricercano lavoro. La popolazione non attiva è invece costituita da coloro che non lavorano e non sono interessati a un'occupazione retribuita. Sono tre i principali fattori che hanno determinato la diminuzione del tasso: 1. Il primo fattore è rappresentato dall'aumento della scolarità, la quale ha comportato un ingresso in ritardo nel mercato del lavoro da parte delle nuove generazioni. All'Unità d'Italia tre cittadini su quattro erano analfabeti e l'obbligo scolastico era posto a due anni. La progressiva estensione dell'obbligo scolastico ha in genere anticipato la tutela del lavoro minorile con la quale sono stati imposti limiti d'età per l'accesso al lavoro. L'estensione dell'obbligo scolastico avvenne nel 1904 con l'introduzione della V e VI elementare e un obbligo fino ai 12 anni (Governo Giolitti). La riforma Gentile del 1923 (avvenuta dopo la Marcia su Roma dell'ottobre 1922) istituì la VII e l'VIII elementare estendendo l'obbligo scolastico fino a 14 anni; si trattò tuttavia di un'estensione puramente formale in quanto il titolo di studio minimo legale era ancora la V elementare. Solo in corrispondenza della creazione della scuola media unica obbligatoria, nel 1962, l'età di accesso al mondo del lavoro fu inalzata a 13 anni, poi nel 1967, fu portata a 14 anni. Il mancato parallelismo nel corso della storia tra età minima del lavoro e dell'obbligo scolastico ha portato all'inosservanza delle norme. 2. In secondo luogo, va considerato lo sviluppo del sistema pensionistico che, assieme al progressivo innalzamento della speranza di vita, ha comportato la crescita della quota di popolazione ritirata dal lavoro. 3. Infine, il terzo fattore è stato la diminuzione del lavoro produttivo femminile con l'aumento delle casalinghe a tempo pieno. Si tratta di un fenomeno connesso all'esodo dalle aree rurali e alla crescita della popolazione nelle città. Con il passaggio dalle attività agricole a quelle industriali e dei servizi, le donne, che in precedenza collaboravano nelle aziende contadine si sono inserite meno frequentemente nel mercato del lavoro. Nel periodo del lungo miracolo economico italiano tra il 1950 e il 1970, si è diffusa la figura della casalinga a tempo pieno. Negli ultimi decenni si è verificato tuttavia un aumento del tasso di attività femminile anche se quest'ultimo rimane comunque inferiore rispetto a quello maschile (57 % femminile; 75% maschile). Accanto alla diminuzione del tasso di attività si è verificata una riduzione degli orari di lavoro, almeno per quel che riguarda il lavoro dipendente. Dalle 70 ore e più settimanali della fine dell'Ottocento si è passati alle 60 ore del 1906-1907 fino alle 48 ore ottenuto nel primo dopoguerra nel 1919 insieme all'introduzione delle ferie retribuite (6 giorni), alle circa 40 ore settimanali odierne. Nonostante la diminuzione del tasso di attività e del tempo di lavoro, la crescita della produttività del lavoro grazie alla società industriale e al progresso tecnologico ha consentito di accrescere la produzione. Con le riduzioni degli orari contrattuali (contratti part-time), si è registrato un aumento del lavoro straordinario o del doppio lavoro, sia autonomo che dipendente anche in nero. 2\. La distribuzione della popolazione attiva. Accanto alla diminuzione del tasso di attività, la seconda grande trasformazione secolare è stata il passaggio di forze di lavoro dal settore primario alle attività extra agricole. Fino alla Seconda guerra mondiale, il processo si è sviluppato lentamente in Italia, date le limitazioni territoriali e quantitative dell'industrializzazione: negli anni Venti l'agricoltura occupava ancora la metà della popolazione attiva, e ha conservato il primato tra i tre settori fino al 1951, con una quota in quell'anno pari al 42 per cento, contro il 32 dell'industria e il 26 del settore terziario. Successivamente, il boom economico ha trasformato milioni di contadini in lavoratori industriali e dei servizi innescando un cambiamento sociale rapidissimo. Nel 1971 l'industria ha raggiunto la quota massima di addetti (44 per cento), salvo poi perdere il primato nel decennio successivo nei confronti del settore terziario. Al giorno d'oggi il settore dei servizi rappresenta il 70% degli occupati, l'industria invece rappresenta il 27% (l'Italia è seconda in Europa per percentuale di occupati in imprese manufatturiere). Il passaggio della popolazione dall'agricoltura all'industria è stato accompagnato da numerose migrazioni dalle aree rurali ai centri urbani. I GRUPPI SOCIALI DALL'UNITÀ A FINE SECOLO 1\. I lavoratori agricoli Nel 1861 gli addetti all'agricoltura sfioravano il 70 per cento della popolazione attiva. Una quota così alta era indicativa dall'arretratezza italiana in confronto ai paesi dell'Europa centro -- occidentale. Nel 1881 con 8 milioni e mezzo di addetti, l'agricoltura rappresentava il 65 per cento della popolazione attiva; la quota scesa più velocemente nel ventennio successivo fino al 58 per cento. La struttura sociale delle campagne era complessa e variegata. Nel quadro generale di arretratezza, avevano grande diffusione le figure occupazionali miste, che svolgevano contemporaneamente attività di lavoro autonomo e prestazioni di lavoro dipendente. I criteri statistici variarono significativamente nei primi censimenti unitari, riflettendo gli interessi delle classi dirigenti verso i fenomeni di trasformazione che volevano mettere in risalto. Nel censimento del 1881 la popolazione agricola era suddivisa in nove categorie. Quattro di queste erano costituite da professioni minori ( giardinieri, ortolani, cacciatori, pescatori ecc.). Le cinque categorie principali erano costituite dagli agricoltori che lavoravano terreni propri, mezzadri, enfiteuti (concessionari di terreni), braccianti e bifolchi o contadini. Quest'ultima era la categoria più numerosa, metteva insieme i lavoratori stabili, le figure a metà strada tra la compartecipazione e il lavoro salariato ed i semplici contadini. Si metteva in risalto in questo modo la parte della popolazione attiva che veniva classificata come lavoratori dipendenti. A distanza di vent'anni nel 1901, accadeva l'esatto contrario; si sottolineava la persistenza delle piccole imprese a conduzione propria, scorporando i contadini dai salariati fissi. In questo modo i salariati fissi scendevano al 10 per cento e i conduttori proprietari salivano al 28 per cento. Di notevole rilevanza erano inoltre le differenze regionali presenti. In Val Padana si potevano distinguere l'area del "bracciantato classico", un'area mista ad agricoltura capitalistica e mezzadria e l'area della "cascina lombarda" dove prevalevano forme di conduzione a salariati fissi. Nell'alta pianura padana e nella zona collinare predominavano la piccola proprietà o in piccolo affitto. Nel Mezzogiorno e nell'Agro romano prevaleva invece il latifondo; qui la terra continuava a essere coltivata a cereali coltura estensiva da contadini poverissimi. Nel Mezzogiorno, una maggior diffusione della conduzione intensiva e dell'impiego di manodopera salariata si aveva nelle aree di agricoltura specializzata (viti coltura, olivi coltura e agrumeti). In vaste zone delle regioni centrali, specie nelle aree collinari, prevaleva un'altra forma tradizionale di conduzione, la mezzadria: qui il raccolto, ricavato dal podere coltivato dal mezzadro e dalla sua famiglia, veniva suddiviso con il proprietario, latifondista o borghese urbano, secondo proporzioni stabilite (di solito la metà), con l'obbligo aggiuntivo per il mezzadro di prestazioni di vario genere. Nel contratto di mezzadria la maggior presenza di colture miste arboreo -- erbacee assicurava comunque ai contadini migliori condizioni alimentari. Questa forma permetteva un aumento dell'organizzazione, della formazione e anche degli investimenti. Il grado di mercantilizzazione dell'agricoltura italiana era piuttosto arretrato sebbene le principali merci prodotte dai contadini venissero vendute direttamente ai mercati cittadini più vicini non permettendo la sviluppo di un vero e proprio sistema mercantile. Nell'ultimo quarto dell'Ottocento la crisi agricola dell'età della grande depressione aveva portato a una crisi dal punto di vista demografico; si aggravarono nelle aziende familiari contadi negli squilibri tra bocche, braccia e terra da coltivare. In assenza di uno sviluppo industriale sufficientemente robusto e geograficamente omogeneo da assorbire la manodopera agricola eccedente, le aree rurali erano gravate da una crescente sovrappopolazione, che alimentò infine l'emigrazione. Con il nuovo secolo si accentuarono nelle campagne le tendenze in atto: la crisi della piccola proprietà portò a un aumento della quota dei lavoratori dipendenti. Secondo il censimento del 1901, nonostante esso tendesse a ingigantire le fila della conduzione in proprio, braccianti e salariati fissi costituivano il 40 per cento della popolazione agricola; la loro concentrazione nella pianura padana e nel Tavoliere delle Puglie portò al rafforzamento delle leghe bracciantili. L'emigrazione di massa all'estero agì invece come valvola di sfogo per la sovrappopolazione ed evitò un ulteriore impoverimento della popolazione. 2\. I lavoratori industriali Tra gli addetti al settore secondario rilevati dai primi censimenti della popolazione, condotti tra il 1861 e il 1881, gli operai di fabbrica in senso stretto rappresentavano solo una piccola minoranza; fonditori, fabbri, calderai, falegnami ecc. erano proprietari di botteghe. Anche secondo il censimento del 1881 il tessile risultava il settore dominante; su 4 milioni complessivi di addetti all'industria: - 600.000 erano lavoratori edili o di industria - Su 3.300.000 residui, 1.300.000 erano impiegati nel tessile e un altro 1.000.000 erano artigiani addetti all'abbigliamento e al vestiario - La restante parte di lavoratori erano impiegati in falegnameria, metallurgia, alimentari e lavorazioni - Solo 1.500 erano destinati al settore energetico e 67.000 all'industria estrattiva L'industriale tessile impiegava, specie in seguito all'introduzione del telaio meccanico, manodopera femminile e minorile di scarsa qualificazione, ma l'uso delle macchine era ancora limitato e vi era un ampio ricorso al lavoro a domicilio. Gli stabilimenti erano solo in parte situati nelle città; venivano più frequentemente costruiti allo sbocco delle valli, in prossimità dei corsi d'acqua usati come fonte d'energia. Con la crescita demografica, lo spostamento di popolazione dalle campagne alle città si fece consistente. Tra il 1861 e il 1901 la popolazione italiana aumentò del 30 per cento, quella delle undici principali città italiane del 70 per cento. La popolazione urbana, che aveva tassi di natalità nettamente più bassi rispetto a quella rurale, cresceva a causa del saldo migratorio positivo. L'immigrazione nei centri urbani non era stabile, la manodopera era principalmente attratta dall'edilizia e dalle attività di servizio amministrative. Esistevano inoltre alcuni isolati impianti metallurgici, di grande meccanica e cantieristici, nati su iniziativa pubblica o cresciuti con l'aiuto dello Stato per le esigenze di produzione militare e dei trasporti ferroviari. Nel 1881 gli artigiani rappresentavano ancora il 16 per cento della popolazione attiva ed erano più numerosi di salariati dell'industria che raggiungevano, compresa l'edilizia, il 13 per cento. Con il progressivo affermarsi dell'economia di mercato e dell'impresa capitalistica, gli artigiani furono investiti dai processi di separazione dei lavoratori dal possesso degli strumenti di lavoro. Stando ai censimenti della popolazione tra il 1881 e il 1901 il numero di artigiani si ridusse da 2.3 milioni a 1 milione. La fine della grande depressione coincise, nell'ultima parte dell'Ottocento, con l'avvento dell'elettricità come forza motrice a disposizione degli impianti produttivi. Grazie alla nuova fonte di energia, che liberava dalla dipendenza dai corsi d'acqua e dalla costosa importazione di carbone, i nuovi stabilimenti poterono insediarsi nelle periferie delle città, in prossimità delle linee ferroviarie utilizzate per il trasporto delle materie prime e dei prodotti finiti. La quota della popolazione addetta al settore secondario aumentò dal 18 per cento del 1861 al 24 per cento del 1901. In quel periodo il numero di lavoratori di fabbrica può essere stimato intorno al milione. Emergevano comunque ormai, ad inizio secolo, nuclei consistenti di lavoratori che assumevano le sembianze di operai per la loro qualificazione, cultura e vita associativa. A metà Ottocento, gli stabilimenti che concentravano una numerosa forza lavoro industriale appartenevano all'industria tessile. Al di fuori del tessile gli stabilimenti di grandi dimensioni erano per lo più gli arsenali e le fabbriche d'armi o manifatture di tabacchi. Nel tessile e nell'industria dell'abbigliamento prevaleva nettamente la manodopera femminile, numerosa anche nell'industria alimentare; negli altri settori la figura centrale era l'operaio maschio adulto, qualificato, erede di un mestiere artigiano fatto di abilità manuale e capacità tecnico-pratiche. Gli operai di mestiere divennero il centro di organizzazioni sindacali ristrette ma sufficientemente coese da riuscire a sviluppare movimenti rivendicativi e a trovare consensi nel proletariato meno stabile e qualificato. 3\. I lavoratori dei servizi. All'indomani dell'Unità d'Italia il settore terziario era ancora poco sviluppato, in relazione all'arretratezza dell'economia italiana. La quota degli addetti ai servizi sulla popolazione attiva, pari al 12 per cento nel 1861 aumentò al 18 per cento nel 1901 con una velocità di crescita maggiore rispetto agli addetti al settore secondario. Nonostante il grado piuttosto elevato di mercantilizzazione della produzione agricola, il numero degli addetti al commercio era ancora ridotto, perché le merci erano in buon parte scambiate su mercati o fiere locali. Nel 1881 gli addetti al commercio erano quasi 560 mila, circa il 4 per cento della popolazione attiva, mentre 35 mila erano venditori ambulanti. Da notare come 1 lavoratore su 6 nell'ambito del commercio fosse dipendente, questo dato mette in risalto come la situazione del lavoratore ambulante fosse molto presente a causa del difficile incontro tra domanda e offerta sul mercato. Nell'ultimo ventennio del secolo il rapido ampliamento della rete ferroviaria e la diffusione delle tranvie urbane e suburbane determinarono la formazione di nuove e numerose catene di lavoratori dipendenti, ferrovieri e tranvieri, che diedero vita a organizzazioni sindacali. La quota dei lavoratori dipendenti nei trasporti aumentò rapidamente raggiungendo circa 1 un addetto su 3 ad inizio secolo. Tuttavia, la più numerosa categoria di lavorati dipendenti nel terziario era rappresentato dagli addetti ai servizi domestici. Nel 1881 si contavano circa 400 mila addetti alla pubblica amministrazione, con un aumento intorno ai primi anni del Novecento fino a 500 mila portando ad un aumento delle strutture e delle funzioni. Gli impiegati privati erano meno numerosi di quelli pubblici. Crebbero tuttavia piuttosto rapidamente passando da circa 100 mila nel 1881 a 150 mila nel 1901. Erano presenti in misura limitata nelle imprese industriali, che facevano ancora scarso uso di personale tecnico intermedio e di uffici commerciali data l'organizzazione scarsamente articolata e le dimensioni limitate, gli impiegati erano distribuiti nelle attività creditizie assicurative e finanziarie. Infine, primordiali erano i servizi sanitari con 59 mila persone occupate nel 1881 e 69 mila nel 1901. LO SLANCIO INDUSTRIALE DEL PRIMO NOVECENTO Tra i censimenti del 1901 e del 1911 non si registra alcuna accelerazione rispetto ai decenni precedenti nel trasferimento di forze di lavoro dall'agricoltura all'industria e ai servizi. La quota dell'agricoltura continua la sua discesa passando dal 58 per cento al 55, mentre industria e servizi salgono rispettivamente al 25 e 20 per cento. Nel ventennio che va dalla fine dell'Ottocento allo scoppio della Prima guerra mondiale la struttura occupazionale all'interno dei settori registra notevoli variazioni. In agricoltura si ebbe un'ulteriore spinta al processo di proletarizzazione, con una diminuzione dei coltivatori in proprio e una crescita dei braccianti e salariati. I settori maggiormente interessati allo sviluppo occupazionale furono l'industria energetica, chimica e metal meccanica; continuò invece la diminuzione del tessile, ma per effetto della caduta dell'occupazione femminile connessa al declino dell'attività a domicilio. Nel terziario i comparti che si espansero più rapidamente furono i servizi creditizi, trasporti e pubblica amministrazione Il primo vero e proprio censimento industriale, condotto nel 1911 (segno di arretratezza rispetto agli altri paesi), considerò imprese gli esercizi con almeno un addetto oltre il padrone o direttore e che utilizzassero un locale apposito (volontà di mettere in risalto l'industrializzazione del paese). I grandi stabilimenti che si erano affermati nell'industria tessile e quelli nati nei grandi settori durante la seconda rivoluzione industriale erano circondati da un tessuto ancora artigianale tipico dei settori manufatturieri tradizionali, all'interno dei quali solo alcune imprese riuscivano a meccanizzarsi. Vi era una suddivisione dei settori in: 1. Leader, tipici della prima rivoluzione industriale Tessile 21.9 per cento Meccanica 15.9 per cento Alimentare 13 per cento 2. Emergenti, tipici della seconda rivoluzione industriale Chimica 2.6 per cento Metallurgia 2 per cento Industria energetica 1.5 per cento Emergevano tre realtà occupazionali dal peso molto diverso. La prima era quella delle fabbriche tessili, che occupavano un quinto della manodopera; esse si trovavano ai primi posti per dimensione media delle aziende (1 posto per occupazione; 2 posto per dimensioni) La seconda era quella dei comparti moderni che occupavano circa il 10 per cento degli addetti. Qui rientravano i settori del secondo gruppo, ovvero quelli emergenti e molto deboli. La terza e ultima realtà occupazionale, di gran lunga la più numerosa, era quella dei settori tradizionali di origine artigianale, alimentare vestiario e pelli; qui il numero delle microaziende era elevatissimo, mentre la quota degli addetti alle imprese con più di dieci addetti restava abbondantemente al di sotto della metà e la dimensione generale restava ridottissima (dai 4 ai 7 addetti). Lo sviluppo industriale aveva comportato, oltre alla diversificazione delle strutture produttive interne ai settori merceologici, un aumento dei divari regionali. La metà del totale degli addetti all'industria era concentrata nelle tre regioni del Nord-ovest: la Lombardia occupava da sola più di un quarto degli addetti all'industria, 28.6 per cento, seguita da Piemonte con il 14.9 per cento e dalla Liguria con il 5.6 per cento. Nel Nord-ovest la classe operaia aveva ormai raggiunto un peso sociale rilevante. Lo sviluppo economico di inizio secolo aveva dato avvio a quella che può essere definita come la seconda fase dell'industrializzazione italiana, quella delle città industriali. Nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova, e in particolare nei tre capoluoghi con il loro circolo, si era formato un numeroso proletariato di fabbrica in senso moderno; questi lavoratori avevano rescisso i legami con il mondo agricolo che avevano caratterizzato la manodopera industriale. La formazione di ampi strati di proletariato di fabbrica alimentò il conflitto industriale, che si traspose in campo sociale e politico. Nelle grandi città industriali emersero così due nuovi soggetti che dominavano ormai la scena sociale e politica: gli imprenditori e gli operai di fabbrica. I nuovi gruppi imprenditoriali assumevano sempre maggior peso culturale e politico. Capaci di affermarsi introducendo le fondamentali innovazioni della prima e seconda rivoluzione industriale, di distinguevano per origine sociale dalle classi dirigenti tradizionali legati alla proprietà terriera. Una prima fase di formazione della borghesia industriale, tra l'Unità e gli anni Ottanta, aveva visto emergere le imprese familiari da un'estrazione piccolo--medio borghese e artigiana; una seconda fase si era aperta con l'impegno più diretto dello Stato nella promozione dei settori strategici e aveva visto nascere un'imprenditoria politica legata alle commesse per oligopoli siderurgici, cantieristici e per la grande meccanica. In età giolittiana fece la sua comparsa un terzo tipo di imprenditori, caratterizzati dalla formazione universitaria, da un approccio scientifico e tecnologico, propensi a valorizzare un'etica produttivistica e a guadagnare consensi con il contributo al progresso economico e sociale. La maggior parte degli imprenditori stentava a superare la tradizionale concezione paternalistica dei rapporti di lavoro. Le concessioni venivano date per bontà alla classe operaia senza un vero e proprio accordo tra parti. Nel 1910 nasce inoltre la Confederazione dell'industria (sindacato tra gli imprenditori). Si riduce la sub alternità tra imprenditore aristocratici e borghesi ponendoli sullo stesso piano. Quanto ai ceti impiegatizi, l'istruzione divenne il canale di accesso alle professioni liberali e agli impieghi per strati di piccola borghesia agraria e urbana che puntavano all'ascesa sociale dei figli o più semplicemente alla conservazione di una posizione nelle occupazioni non manuali. L'incremento dei posti da impiegato nell'industria e nel terziario privato era però ancora lento. TRA DUE GUERRE Con l'ingresso dell'Italia nella Prima guerra mondiale, la mobilitazione delle industrie per la produzione bellica e le conseguenti ingenti commesse statali crearono le condizioni per una crescita rapidissima delle maggiori aziende. Le strutture industriali del paese furono sottoposte a uno sforzo gigantesco per rifornire le truppe di armi, munizioni, mezzi di trasporto ecc. Ne derivò un forte impulso allo sviluppo dell'apparato produttivo, specie per i settori di base, le industrie meccaniche, chimiche e di produzione di energia elettrica. La guerra agì così da levatrice della grande impresa in Italia. Nel 1918, all'apice dell'occupazione per la produzione di guerra, il gruppo Fiat sfiorò i 40 mila operai. Le fabbriche mobilitavano nuovi strati di manodopera. Si intensificarono i movimenti migratori verso le città determinando un ulteriore accrescimento della popolazione urbana e degli strati proletari al suo interno. Aumentò l'impiego dei giovani, e molti settori che in precedenza non facevano uso di manodopera femminile aprirono i cancelli alle donne. Le campagne fornirono il grosso dei combattenti; tuttavia, la produzione agricola non diminuì proporzionalmente alla riduzione della manodopera maschile. Nel Mezzogiorno si mantenne invariata, a indicare la forte quota di quota di forze di lavoro familiari non utilizzate. Al termine del conflitto si aprirono molteplici problemi legati alla smobilitazione e alla riconversione produttiva. Nella città l'ulteriore processo di concentrazione industriale aveva allargato gli strati di proletariato delle medie e grandi fabbriche, che diedero corpo a un movimento politico rivendicativo sospinto anche dai venti rivoluzionari provenienti dalla Russia con Lenin nel 1917. Nelle campagne, le promesse fatte durante la guerra di una futura redistribuzione delle terre ai contadini-soldati provocarono comportamenti conflittuali non solo da parte dei braccianti ma anche dei contadini poveri e dei mezzadri. Con la smobilitazione dell'esercito si presentò il problema del rimpiego dei reduci. Il ritorno delle donne alle faccende domestiche, per far posto agli ex combattenti, era voluto da tutti gli schieramenti politici dell'epoca. Le polemiche riflettevano le forti tensioni sociali e il desiderio di rivalsa antioperaia dei ceti piccolo-borghesi danneggiati dalla caduta dei redditi fissi in un periodo di alta inflazione. Mentre i reduci di estrazione contadina o proletaria rientravano in un mercato del lavoro già abitualmente caratterizzato dalla precarietà dell'impiego e dalla sottoccupazione, anche i reduci provenienti dalla piccola borghesia che avevano servito per alcuni come graduati e ufficiali si trovarono in difficoltà di fronte alla carenza di occupazioni manuali. Un importante fattore influenzò negativamente la situazione occupazionale nel periodo interbellico ovvero il venir meno dell'emigrazione come valvola di sfogo come valvola di sfogo della sovrappopolazione relativa, in parte a causa delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti, in parte per le difficoltà economiche del dopoguerra e della crisi del 1929-33. Inoltre, una volta esaurita la prima fase liberista del governo fascista gli espatri furono osteggiati dal regime che nel 1927 iniziò a considerare la volontà di aumentare la demografia e considerò la ricerca del lavoro all'estero un danno per l'immagino del paese. Dopo la ripresa del protezionismo agrario con la "battaglia del grano" (1925) e i progetti di "bonifica integrale", furono adottate, a partire dalla fine del 1928, misure contro l'urbanesimo volte a frenare l'emigrazione dalle campagne verso le città. Nel mondo rurale i rapporti familiari e comunitari nascondevano i disoccupati, che avrebbero potuto creare problemi di ordine pubblico se concentrati nelle città. Fu lanciata la parola d'ordine della "sbracciantizzazione", che puntava a ridurre la consistenza del proletariato rurale favorendo la conduzione diretta. Nel periodo interbellico, accanto ai settori tipici del lavoro precario, dall'edilizia ai settori privati, si ampliò il tessuto di microimprese che utilizzava il lavoro poco costoso del proletariato marginale. Ne risultò uno sviluppo industriale ineguale, con la creazione di un polo tra poche grandi imprese e una miriade di piccole e microaziende subordinate alle prime con scarsa diffusione della media impresa. Si mantenne così molto ampia la manodopera fluttuante. La stabilità dell'occupazione, peraltro, non era garantita neppure per la manodopera centrale, nonostante l'ampliamento delle dimensioni aziendali e il potenziamento degli interventi di sostegno pubblico alle imprese in difficoltà. I censimenti mostrarono, tra il 1921 e il 1936, una consistente diminuzione dei braccianti e un correlativo aumento dell'imprese familiari, in particolare affittuari e mezzadri. Questi cambiamenti sono riconducibili a politiche di sostegno alla conduzione in proprio che non puntavano tanto allo sviluppo di una piccola proprietà autonoma e robusta, quanto piuttosto al rilancio di rapporti tradizionali di mezzadria e di compartecipazione. Il sostegno alla piccola conduzione e le norme antiurbanesimo riuscirono a frenare i flussi migratori in direzione dei maggiori centri urbani, ma non li bloccarono. Il principale effetto di queste norme fu la formazione, nelle grandi città, di un segmento di mercato del lavoro semiclandestino, che si affiancava a quello della manodopera sottoccupata. Al termine della depressione mondiale dei primi anni Trenta, il riassorbimento della disoccupazione fu lento e parziale, nonostante la riduzione dell'orario di lavoro a 40 ore imposta nel 1934. Nella seconda metà del decennio, la ripresa all'insegna del riarmo (Campagna di Etiopia) non fu abbastanza sostenuta. Il censimento industriale condotto tra il 1937 e il 1940 evidenziò la crescita delle industrie meccaniche, che giunsero a superare il settore tessile con il 21% degli addetti agli esercizi industriali contro il 18%. Crebbero ulteriormente i divari regionali, a favore del triangolo industriale. Le persistenti difficoltà occupazionali furono affrontate dal regime fascista nell'ambito di una politica della famiglia che tendeva a rafforzare la tradizionale differenziazione dei ruoli di genere: la donna doveva essere madre e casalinga. I provvedimenti di controllo e limitazione dell'assunzione di personale femminile (più nel settore dei servizi e del pubblico impiego) non ebbero di per sé effetti determinanti, solo qualche vantaggio per l'occupazione maschile. Una certa quota di manodopera femminile, più conveniente sotto il profilo economico, non fu mai contestata alle aziende industriali, specie quelle impegnate nella concorrenza internazionale. Il regime fascista operò in senso protettivo, introducendo norme a tutela delle lavoratrici in maternità. Tra il 1921 e il 1936 la percentuale delle donne sul totale degli addetti all'industria scese mentre nel terziario salì. Questa diminuzione fu dovuta non tanto alla politica fascista della famiglia quanto alla perdita di peso del settore tessile a fronte della crescita dell'industria pesante, della meccanica, dell'industria energetica e chimica. Si rafforzò invece la presenza delle donne nel lavoro a domicilio. Nel terziario le politiche a sostegno dell'occupazione maschile ebbero un impatto maggiore: rallentarono la tendenza alla femminilizzazione dell'occupazione impiegatizia ai livelli medio-bassi (es. preferenza nelle assunzioni e negli avanzamenti di carriera per i capi famiglia, limitazione o impedimento dell'accesso ai concorsi per le donne). La nuova espansione dei centri urbani favorì l'allargamento delle attività di intermediazione, aprendo opportunità di mobilità ascendente anche per persone di scarsi mezzi e limitata formazione. Crebbe con particolare rapidità il commercio ambulante. Dal punto di vista della distribuzione del reddito va notato che, mentre gli operai e i braccianti, che avevano ottenuto dei miglioramenti salariali nel biennio postbellico, subivano i provvedimenti fascisti, la piccola borghesia veniva favorita sia dalla politica deflazionistica che tutelava i redditieri e i risparmiatori con il rafforzamento della lira, sia dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, i ceti medi impiegatizi godevano di retribuzioni superiori rispetto a quelle degli operai. Questa ampia differenziazione dei redditi si ridusse con le conquiste sindacali del primo dopoguerra. Ma con l'avvento del fascismo i miglioramenti retributivi ottenuti da operai e braccianti vennero erosi. Gli impiegati pubblici recuperarono il potere d'acquisto perduto tra guerra e dopoguerra. Oltre alle differenze di paga, gli impiegati godettero anche di condizioni normative e di trattamenti previdenziali più vantaggiosi di quelli riservati agli operai. Con l'entrata dell'Italia nella Seconda guerra mondiale vennero abrogate le norme limitative dell'impiego femminile, a eccezione delle località ove fosse esistita disoccupazione maschile. L'occupazione aumentò fino al 1943, nel 1945 la disoccupazione ufficiale raggiunse i 2 milioni di persone, e si presentò, assieme all'inflazione, come il massimo problema economico lasciato in eredità dal conflitto. LA GRANDE TRASFORMAZIONE -- LA RICOSTRUZIONE Al termine della guerra, per attenuare l'esplosività della situazione sociale, fu decretato il blocco dei licenziamenti nelle imprese con più di 35 addetti. Alla situazione critica delle aree industriali del Nord si aggiungeva la sottoccupazione del Mezzogiorno e più in generale delle aree rurali, comprese le zone bracciantili e mezzadrili dell'Italia centrale. Nell'immediato dopoguerra, nonostante l'oggettiva debolezza sul mercato del lavoro, il movimento operaio e contadino ottenne successi di rilievo sul piano contrattuale grazie alla lotta resistenziale. Dopo la rottura dell'alleanza tripartita e l'uscita della sinistra dal governo, nell'agosto 1947 l'inflazione fu affrontata dal ministro Einaudi con un deciso intervento di restrizione creditizia che determinò un brusco aumento della disoccupazione. La depressione durò fino al 1950, poi la ripresa internazionale e le commesse per la guerra di Corea avviarono i primi passi verso il miglioramento economico. Il grande boom della seconda metà degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta sfruttò un basso costo del lavoro a causa della rottura dell'unità sindacale e l'indebolimento delle leghe bracciantili. Finita la guerra, la sovrappopolazione agricola, compressa nelle campagne durante il fascismo, era sul punto di rompere gli argini. L'emigrazione tornò a fungere da valvola di sfogo e fu nuovamente incentivata anche come strumento di acquisizione di valuta estera attraverso le rimesse (favorivano la bilancia dei pagamenti). Al contrario la legge antiurbanesimo del 1939 fu mantenuta fino al 1961; nell'immediato dopoguerra era ritenuta utile a consentire l'assorbimento dei disoccupati urbani, poiché riduceva la concorrenza dei nuovi immigrati dalle campagne. Con i provvedimenti di riforma agraria adottati nel 1950-51 vi fu una rottura definitiva del latifondo soprattutto nelle aree centro meridionali; tuttavia, il futuro dei contadini era rappresentato dal lavoro salariato e non più dal possesso della terra. Negli anni Cinquanta l'Italia si trasformò da paese agricolo a paese industriale. L'agricoltura perse il primato occupazionale detenuto nel 1951. Con una caduta fortemente accelerata rispetto ai decenni precedenti, nel 1961 la sua quota si ridusse al 29.1 per cento; fu raggiunta dai servizi ai quali andava il 30.3 per cento e largamente superata dall'industria che raggiunse il 40.6 per cento. IL MIRACOLO ECONOMICO La crescita economica si concentrò ancora una volta nel Nord e nel triangolo industriale. Mentre le zone di montagna di spopolavano in tutto il paese, i grandi centri urbani vedevano peggiorare le condizioni ambientali, per le gravi carenze dei servizi e la mancanza di abitazioni. Nello stesso periodo le regioni del Meridione persero 1.8 mln abitanti. I flussi si divisero a metà tra l'estero e il Nord, la disoccupazione diminuì considerevolmente, dall'8-10 per cento dei primi anni Cinquanta al 3 per cento del 1962, un livello quest'ultimo assimilabile alla piena occupazione, poiché corrispondeva alla disoccupazione frizionale. La forza lavoro disponibile venne assorbita solo in parte dall'industria manifatturiera (settore meccanico); qui tra il 1951 e il 1963 si ebbe un incremento dei lavoratori dipendenti del 40 per cento, ma l'occupazione crebbe più rapidamente nell'industria delle costruzioni e del commercio. L'abbondante manodopera liberata dalle campagne trovò collocazione anche nell'edilizia e nel commercio. Il "miracolo economico" si tradusse nel consolidamento e nella crescita del tessuto delle piccole aziende, che registrarono i più consistenti incrementi degli addetti: tra il 1951 e il 1961 l'occupazione crebbe dell'8 per cento negli stabilimenti con oltre 1.000 addetti e del 14.5 per cento in quelli tra 500 e 1.000; aumentò del 73.8 per cento nelle fabbriche tra 6 e 50 addetti. Si ebbe un fenomeno di formidabile mobilitazione e mobilità sociale che ebbe come protagonisti membri di diverse classi che furono capaci di cogliere le opportunità create dallo sviluppo economico. Tra il 1961-71 aumentò il peso dell'aziende con addetti tra 11 e 50 a discapito delle imprese con massimo 10 addetti. La piccola impresa andò incontro ad un processo di ristrutturazione e consolidamento delle dimensioni piccole e medie, nei settori dei mobili, tessuti, abbigliamento, calzature, produzioni metalliche e meccaniche, a fronte della selezione che eliminò attività artigianali e piccolissime. Tra gli elementi verificatisi nel miracolo economico vi fu anche una stabile monetaria senza precedenti che portò l'Italia a vincere il premio Nobel nel 1960 e 1965 rispettivamente per la stabilità monetaria ottenuta nel 1959 e 1964. Per buona parte degli anni Cinquanta l'elevata offerta di lavoro incise negativamente sui salari degli operai in quanto le paghe crebbero meno della produttività (elevata offerta di lavoro; rottura unità sindacale). Tra il 1960 e il 1963 la grande fase espansiva giunse al culmine, ma lo sviluppo non avvenne più a salari fermi, in quanto con la diminuzione della disoccupazione gli operai riuscirono, tra il 1959 al 1962, ad ottenere i primi aumenti salariali. Nell'ottobre 1963 le autorità monetarie decisero misure restrittive del credito che provocarono un biennio di recessione: nel 1965 l'occupazione industriale risultava diminuita del 4 per cento rispetto al 1963. Poiché il maggior costo del denaro incideva più pesantemente sugli investimenti delle piccole imprese, furono colpite in particolare le componenti della manodopera industriale più frequentemente impiegate dalle aziende minori vale a dire donne e minori. La diminuzione del tasso di attività femminile non derivò solo da fenomeni di espulsione o disincentivazione al rientro nel mercato del lavoro. Il lento ma costante miglioramento del reddito consentiva a una parte delle famiglie di lavoratori di prolungare gli studi dei figli e di poter disporre di una produttrice di servizio a tempo pieno o quasi, ovvero la "moglie a casa" il quale era diventato un obiettivo dichiarato per molti operai. Alla fine degli anni Cinquanta iniziarono a delinearsi dei fenomeni di segmentazione dei lavoratori che nel decennio successivo trovarono il loro consolidamento. All'inizio degli anni Settanta si potevano distinguere tre segmenti: 1. Il primo segmento corrispondeva alla manodopera centrale della media e grande industria, formata da occupazione relativamente stabile e garantita, costituita in prevalenza da uomini delle classi di età centrali, quelle più produttive per resistenza fisica e qualificazione. Era inoltre sindacalmente forte e legislativamente protetta, specie dopo l'introduzione dello statuto del lavoratore (1970). 2. Il secondo settore era la forza lavoro periferica, ad ampia presenza femminile, giovanile e di manodopera anziana non qualificata, legata a occupazioni precarie o stagionali nelle piccole aziende, nell'artigianato, nel lavoro a domicilio e nelle microimprese di servizi. 3. Il terzo segmento era rappresentato da lavoratori del terziario pubblico, a occupazione stabile, la cui espansione era legata alla crescita dell'intervento e dell'incombenze amministrative dello stato e del parastato. Uno dei fenomeni più significativi dello sviluppo italiano è stato l'emergere della "terza Italia": le regioni del Nord-est e del Centro protagoniste dello sviluppo dei distretti industriali in cui il radicamento sociale della piccola impresa è elevatissimo e i rapporti di lavoro sono fortemente improntati ai legami comunitari. Tra il 1966 e il 1968 l'economia si riprese, la produttività tornò a crescere più dei salari. Si aggravò la congestione dei maggiori centri urbani al Nord, data la carenza e il costo elevato dei servizi e delle abitazioni. Le tensioni sociali si aggiunsero al malcontento diffuso nelle fabbriche in relazione a un'organizzazione del lavoro rigida e severamente disciplinata da criteri tayloristi e fordisti. Esplosero così le lotte operaie dell'autunno del 1969, che diedero avvio a una stagione di conflittualità accesa, con rivendicazioni di tipo nuovo: - aumenti salariali uguali per tutti - cambiamenti dell'organizzazione del lavoro - lotta alla nocività Gli aumenti retributivi ottenuti negli anni Settanta furono considerevoli, tali da allineare i salari italiani a quelli europei. APOGEO DELLA SOCIETÀ INDUSTRIALE Tra il 1951 e il 1971 l'agricoltura perse quasi 5 milioni di lavoratori, la sua quota sulla popolazione attiva scese al 17.2 per cento. Sempre nel 1971 la quota dell'industria risultò ancora in salita raggiungendo il 44.4 per cento mentre i servizi crebbero al 38.4 per cento. Il rapido travaso dal settore primario al secondario e al terziario comportò rilevanti spostamenti tra i ceti e produsse fenomeni di mobilità sociale. Crebbero tutte le categorie di lavoratori extra agricoli ma a ritmi differenziati. Gli addetti all'industria aumentarono in complesso del 50 per cento, ma al loro interno gli impiegati aumentarono del 70 per cento, molto più rapidamente dunque gli operai. Gli addetti al commercio raddoppiarono. Il numero degli artigiani, invece, rimase stabile. Il numero dei piccoli commercianti continuò a crescere. Le forme di intervento protettivo messe in atto dalle autorità politiche, basate sul controllo attraverso la licenza obbligatoria introdotta durante il fascismo, rallentarono la diffusione della grande distribuzione. Anche il commercio all'ingrosso registrò un aumento, di poco inferiore al doppio. Diminuì invece il numero degli ambulanti, conseguenza dello sviluppo delle opportunità occupazionali. cambiamenti nella struttura occupazionale possono costituire la base di alcune osservazioni sui mutamenti degli equilibri tra le classi sociali. Se si considerano i coltivatori diretti alla stregua degli altri lavoratori autonomi, come parte della piccola borghesia tradizionale, e a questa si sommano i nuovi ceti medi impiegatizi, si può sostenere che, nel processo di industrializzazione, piccola borghesia e proletariato hanno mantenuto grosso modo invariato il peso relativo che essi avevano all'inizio del secolo. Nell'alta borghesia è fortemente diminuita l'incidenza economica, sociale e politica dei grandi proprietari terrieri la cui posizione dominante fu occupata dagli imprenditori proprietari o comproprietari di grandi aziende, ai quali si sono affiancati i dirigenti delle Spa e i manager delle imprese a partecipazione statale. Nel ceto medio diminuiscono i coltivatori diretti, aumentano gli impiegati e i commercianti, restano stabili gli artigiani. Nella classe operaia diminuiscono i salariati agricoli, aumentano gli operai dell'industria e dei servizi. Se si considerano i coltivatori diretti come una categoria a sé stante, si può sostenere che lo sviluppo industriale ha comportato una più netta collocazione o tra i ceti medi o tra la classe operaia di un'ampia quota di popolazione agricola dalla posizione sociale incerta. È difficile valutare se il passaggio dalla piccola proprietà agricola al lavoro operaio sia da considerarsi di segno positivo o negativo, in riferimento alla scala sociale; di certo, sotto il profilo economico, gli ex contadini ottenevano un reddito più stabile. Alla fine degli anni Sessanta la classe operaia aveva raggiunto un grande peso sociale, sia per la rilevanza numerica, con il lavoro salariato che sfiorava il 50 per cento della popolazione attiva, sia per la presenza di grandi concentrazioni operaie nei maggiori stabilimenti. Nel 1971, anche se la quota degli addetti alla grande industria sul totale non era aumentata in conseguenza dello sviluppo della piccola impresa, si contavano circa 1.230.000 lavoratori occupati in stabilimenti di più di 500 addetti. Allo stesso tempo le industrie meccaniche sfioravano il 30 per cento del totale degli addetti all'industria. Gli operai nelle grandi fabbriche si apprestavano a trasformare la loro centralità sociale in notevole peso politico. Successivamente, i processi di decentramento e ristrutturazione industriale, uniti alla terziarizzazione dell'occupazione, ne ridimensionarono visibilità e aspirazione collettive. GLI ANNI SETTANTA E OTTANTA: CONFLITTO E RISTRUTTURAZIONE INDUSTRIALE Gli anni Settanta furono caratterizzati da ristagno occupazionale, andamento produttivo altalenante, forte depressione inflazionistica e conflitti sulla distribuzione del reddito. Ne uscì modificata la distribuzione dell'occupazione industriale per dimensione degli stabilimenti. Negli anni Cinquanta si era verificato un allargamento occupazionale nelle unità produttive di piccola e media dimensione. Nel decennio successivo, tra il 1961 e il 1971 ì, la rapida ma pesante deflazione e la successiva ripresa avevano rafforzato le imprese maggiori. Tra il 1971 e il 1981, la crescita media del totale degli occupati fu pari al 12.2 per cento, molto più bassa rispetto ai decenni precedenti, a conferma della frenata subita dallo sviluppo negli anni Settanta. L'occupazione crebbe però a buon ritmo nelle aziende con meno di 50 addetti; ristagnò negli impianti tra 50 e 500 addetti e diminuì del 9.7 per cento negli stabilimenti con più di 1.000 addetti. Uno dei fattori all'origine di questa inversione di tendenza fu il decentramento delle attività produttive della grande industria, dove la forte concentrazione degli operai sui luoghi di lavoro e sul territorio favoriva la sindacalizzazione e rafforzava la conflittualità. Le maggiori aziende fecero più ampio ricorso all'appalto di lavori e servizi interni e alla fornitura di accessori o componenti da parte di imprese di piccole dimensioni, a scarsa o nulla sindacalizzazione e a costo del lavoro più contenuto e controllabile. Gli investimenti delle grandi imprese in nuovi impianti evitarono il gigantismo e scelsero insediamenti lontani dai grossi centri urbani, in zone a bassa tensione sociale, localizzate anche nelle regioni meridionali, per usufruire degli incentivi pubblici (es. Cassa del Mezzogiorno 1951-1981). Le fortune della piccola impresa si estero negli anni Ottanta. Un processo di mobilitazione sociale di capacità imprenditoriali presenti nel mondo dell'artigianato, dell'azienda agricola, del lavoro dipendente professionalizzato ha portato, fin dalla metà degli anni Settanta, allo sviluppo di una nuova area socioeconomica, la cosiddetta "Terza Italia, che si inseriva tradizionale dualismo Nord-Sud. Così, accanto ad un Nord-Ovest caratterizzato da grandi concentrazioni industriali paragonabili ai principali paesi europei, a un Sud non industrializzato, nonostante la crisi dell'agricoltura e i pochi impianti isolati sorti da impulsi esterni, si è posta un'area centrale e nord-orientale detta Nec: Nord-est e Centro, che ha visto lo sviluppo periferico di una moltitudine di piccole e medie imprese. Era caratterizzata per specializzazione, esportazione, reti sociali e informalità nelle transazioni. Le suddette imprese nacquero per produrre componenti alle grandi imprese. Una "Quarta Italia" può infine essere individuata nell'area romana, che ha saltato la fase dell'industrializzazione, operando un passaggio diretto all'occupazione terziaria. L'instabilità e lo scarso dinamismo dell'economia degli anni Settanta perdurò fino al 1983, successivamente si aprì un periodo positivo, favorito dalla contrazione dei prezzi dei prodotti petroliferi e dalla ripresa internazionale, fino alla nuova depressione mondiale dei primi anni Novanta. Negli anni Ottanta si verificò inoltre la terza rivoluzione industriale, anche denominata ICT. Questi furono gli anni della cosiddetta ristrutturazione. Vi fu la chiusura di molteplici impianti, ma i manager specializzati in determinati settori fondarono piccole imprese specializzate in determinati settori. Nel 1979 si verificò inoltre il secondo shock petrolifero (il primo era avvenuto tra il 1971 e il 1973 a causa della guerra del T-Pur con Israele invasa dall'Egitto), che portò allo scontro tra Iran e Iraq e un conseguente aumento dei prezzi fino al 2.5 per cento in più. All'inizio degli anni Ottanta l'industria operò una profonda ristrutturazione basata sull'automazione flessibile, con consistenti tagli del personale; l'occupazione nella grande industria diminuì del 20 per cento tra il 1980 e 1984. Le imprese ristabilirono l'autorità del management e gli scioperi si ridussero drasticamente. Il forte aumento della produttività del lavoro favorì la crescita della produzione e del reddito, avvicinando l'Italia ai principali paesi europei. Il declino dell'occupazione nelle grandi fabbriche è proseguito per tutto il decennio. La caduta dei salariati nell'industria non è stata in ogni caso compensata dall'aumento dei salariati nei servizi; tra il 1977 e il 1992 i lavoratori dipendenti nelle attività extra agricole sono scesi dal 78 al 74 per cento del totale degli attivi, con una diminuzione più marcata dell'occupazione maschile, mentre è cresciuta la quota degli imprenditori e dei lavoratori in proprio dal 21 al 27 per cento. L'aumento della piccola imprenditoria e del lavoro autonomo non deriva solo dalla mobilitazione sociale di impronta distrettuale; è connesso anche alla formazione di micro imprese manifatturiere o dei servizi (attraverso il cosiddetto spin off, la filiazione da imprese più grandi che "esternalizzano" segmenti di attività concordando con propri dipendenti o collaboratori la costituzione di una nuova impresa di fornitura); nascono nuove figure di lavoratori formalmente autonomi (liberi professionisti), che in molti casi svolgono però un lavoro parasubordinato: si tratta di rapporti quasi esclusivi con una o poche imprese da parte di individui con partita IVA, o di lavoro coordinato e continuativo senza vincolo di subordinazione ("lavoro autonomo di seconda generazione"). La quota degli addetti al commercio sulla popolazione attiva, dopo essere cresciuta fino gli anni Settanta, è rimasta anch'essa sostanzialmente stabile. È tuttavia mutato il peso relativo dei tipi di distribuzione. Gli ambulanti, che nel 1970 rappresentavano ancora il 17 per cento del totale, nel 1991 si sono ridotti al 3.4 per cento. Anche gli addetti al commercio fissi sono diminuiti dal 75 per cento al 61 per cento. Sono cresciuti invece gli addetti al commercio all'ingrosso dal 18 per cento al 35.6 per cento. Nel campo del lavoro salariato del terziario sono diminuiti in particolare gli addetti ai servizi domestici. Il loro numero si è ridotto a meno della metà in confronto al periodo antecedente alla guerra, quando avendo superato le 600 mila unità, rappresentavano il gruppo dominante dei salariati. Nel terziario è diminuito il numero degli addetti ai servizi domestici, tra gli anni Venti e Trenta, potersi permettere una persona di servizio aveva rappresentato uno *status symbol* per molte famiglie piccolo-borghesi. Con la crescita dei redditi dei ceti popolari, dopo il miracolo economico, è diventato sempre più difficile trovare ragazze disposte a fare la domestica fissa, preferivano lavorare a ore. Ad oggi i lavori domestici a tempo parziale e di cura delle persone anziane rappresentano opportunità di crescita occupazionale, si ricorre sempre più a donne immigrate dai paesi extracomunitari, essendo diminuita drasticamente la disponibilità di forza lavoro nazionale. In crescita si presenta ancora il pubblico impiego, nonostante i vincoli di bilancio e i tentativi di riduzione del deficit dello Stato abbiano portato a introdurre norme restrittive riguardanti le assunzioni. In alcuni casi il disimpegno delle amministrazioni centrali e locali ha favorito lo sviluppo di forme di lavoro cooperativo e dell'associazionismo nel cosiddetto "terzo settore" volto al sociale e al no profit. All'incremento secolare dei posti di lavoro non manuale di tipo impiegatizio si è accompagnata una tendenza alla progressiva riduzione del divario tra stipendi e salari, in parte dovuta alla pressione rivendicativa degli operai industriali negli anni Settanta. Si può stimare per l'inizio del secolo scorso, la differenza tra stipendio medio (spettava ai lavoratori) e salariato medio (spettava agli impiegati) si aggirava intorno a 3-3.5 di differenza, mentre ad oggi si aggira intorno all'1.2. La crescita dei redditi medi ha comportato l'aumento dei livelli di scolarizzazione e una più ampia diffusione della propensione allo svolgimento di lavori intellettuali creando anche una sovrabbondanza dell'offerta di lavoro non manuale. Un ulteriore fenomeno verificatosi negli ultimi decenni è la nascita del "Quarto capitalismo", con la presenza di multinazionali tascabili, ovvero di piccole dimensioni e rivolte a mercati di nicchia. Le multinazionali erano organizzate in gruppi, le cosiddette holding ed erano di natura familiare. La loro dimensione si attestava tra 50 e 250 addetti. La specializzazione era di tipo settoriale; agli albori riguardavano il made in Italy e quindi il settore tessile e dell'abbigliamento, mentre ad oggi sono specializzate nel settore meccanico, chimico e farmaceutico soprattutto nella zona Nord-est e Centro dell'Italia. GLI ANNI NOVANTA: QUESTIONE DI ATTUALITÀ La disoccupazione, divenuta numerosa con la depressione del 1992-94, non è stata riassorbita per tutti gli anni Novanta; inoltre, il sistema economico è sembrato incontrare crescenti difficoltà nel far fronte alla nuova offerta di lavoro, con il conseguente aumento dei giovani in cerca di prima occupazione. Il travaso di forze di lavoro tra i settori è sembrato incepparsi, e il terziario non è apparso più in grado di assorbire l'esubero di forze di lavoro industriali. A complicare il quadro di una situazione della disoccupazione carica di elementi contraddittori è intervenuta l'inversione dei flussi migratori. Paese di emigranti fino agli anni Sessanta, l'Italia si è trasformata in paese importatore di manodopera. Fenomeno destinato ad accentuarsi dato il forte divario dei tassi di natalità tra paesi ricchi e paesi poveri, in presenza di differenziali di sviluppo altrettanto ampi. Molti cattivi lavori (dal marinaio alla domestica al lavoratore agricolo stagionale) sono progressivamente rifiutati dagli italiani, e in essi cercano inserimento le nuove schiere di immigrati dal Terzo Mondo. Tuttavia, l'arrivo di giovani immigrati extracomunitari disposti ad accettare occupazioni di basso livello può contrastare la tendenza all'invecchiamento della popolazione, contribuire al riequilibrio del sistema pensionistico e rappresentare una risorsa preziosa per la crescita economica. Si assiste a un rilevante incremento delle aspettative professionali delle famiglie e dei giovani italiani, aspettative legate all'aumento dei livelli di istruzione e di reddito. I giovani italiani puntano a occupare posizioni più elevate dei loro padri, attraverso l'istruzione superiore conseguendo diplomi di geometra, ragioniere e maestro elementare. Gli anni Novanta in Italia si caratterizzano inoltre per: - mancata correlazione tra PIL e occupazione - diffusione del cosiddetto "terziario povero". Nonostante un aumento del reddito medio in Italia ha preso sempre più piede servizi come la ristorazione, servizi per la casa ecc. - perdita di attrattività del lavoro operaio a causa di due aspetti correlati; un salario basso per la mansione svolta e un eccessivo aumento degli affitti Infine, per quanto concerne il mercato del lavoro ad oggi: - Disoccupazione giovanile Italia: 18.3 per cento (6.2 della disoccupazione totale), Media UE 14.3 per cento (6.4) - Disoccupazione territoriale Nord 4.6 per cento, Sud 14 per cento - Gap occupazionale maschile e femminile Differenza di occupazione pari al 19.5 per cento, media UE 10.3 per cento - NEET; giovani disoccupati che non studiano e non cercano lavoro (15-29 anni) 16.1 per cento (penultimi), media UE 11.2 per cento **CAPITOLO 2** LE INNOVAZIONI DELLA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E I PROCESSI DI CONCENTRAZIONE Le innovazioni in campo produttivo possono essere distinte in due grandi categorie: le innovazioni di prodotto (si producono cose nuove, in tutto o in parte) e le innovazioni di processo (relative alle modalità di produzione). Le innovazioni di processo spesso sono il risultato di innovazioni di prodotto; queste ultime hanno il maggior impatto innovativo sulla società e l'economia: i nuovi prodotti spazzano via quelli vecchi e le imprese che fabbricano i prodotti nuovi operano l'autentica, impietosa concorrenza nei confronti delle imprese produttrici dei prodotti vecchi. Le innovazioni di processo sono invece connesse alla concorrenza tra imprese che fabbricano lo stesso prodotto, e sono rivolte al miglioramento della qualità del prodotto stesso o alla riduzione dei costi di produzione attraverso l'aumento della produttività del lavoro, la riduzione degli scarti, dei consumi energetici ecc. Ne derivano l'aumento della redditività dell'impresa e il miglioramento della sua posizione concorrenziale. Le innovazioni di processo possono derivare dall'applicazione di nuove tecnologie o da nuove modalità di organizzazione dei fattori della produzione esistenti; sotto il profilo economico, esse sono di grande rilievo per la storia del lavoro in quanto incidono sulle modalità con cui gli uomini lavorano. A partire dal 1870, nell'arco di una ventina di anni, una serie di importanti scoperte e innovazioni scientifiche e tecnologiche diede inizio a una nuova fase di trasformazione dell'economia e dell'organizzazione del lavoro nei paesi sviluppati: il motore a combustione interna, la bicicletta, gli pneumatici, la macchina da scrivere, la lampada elettrica, il telefono, il telegrafo senza fili ecc. Di enorme importanza furono le innovazioni nelle tecniche di fusione dell'acciaio, che ne abbassarono il costo di produzione a livelli di gran lunga inferiori in confronto alla prima metà dell'Ottocento; l'acciaio divenne il materiale con cui l'industria meccanica poté costruire i nuovi prodotti che sarebbero diventati nel Novecento i primi beni di consumo durevoli: macchina per cucire, da scrivere, la bicicletta, l'automobile. Le nuove tecnologie della seconda rivoluzione industriale richiedevano impianti produttivi di grandi dimensioni. Oltre che dalle necessità tecniche, la nascita delle grandi imprese fu favorita dal meccanismo della concorrenza. Agli albori dello sviluppo industriale le fabbriche erano di dimensioni ridotte, nascevano dalle trasformazioni dei laboratori artigiani o dall'accentramento dei filatoi e dei telai a mano sparsi nell'industria domestica delle campagne; gli investimenti necessari erano alla portata di numerosi piccoli e medi imprenditori. Le aziende si contendevano i clienti con i prezzi e la qualità, o fabbricando prodotti meglio rispondenti alle esigenze e ai gusti dei compratori. Quelle che riuscivano a sfruttare prima e meglio le innovazioni tecniche, o a organizzare più efficientemente il lavoro, o a garantirsi migliori condizioni di finanziamento o maggiori protezioni politiche, sottraevano quote di mercato ai concorrenti, mettendoli in difficoltà e acquisendone eventualmente gli impianti. Il processo di concentrazione industriale fu particolarmente accentuato nei settori trainanti della seconda rivoluzione industriale, anche se lo sviluppo della grande impresa non fu di impedimento al moltiplicarsi delle piccole attività, per produzioni di nicchia o produzioni specializzate. In condizioni di oligopolio fu meno difficile per le maggiori imprese trovare accordi per limitare i danni reciproci della concorrenza. Nacquero allora i trust, i cartelli, i consorzi; varie forme di accordo tra grandi imprese sui prezzi da praticare, sulle quantità da produrre, sulle quote di mercato da spartirsi e sulle zone in cui vendere. Agli evidenti svantaggi per gli acquirenti in termini di prezzi, data l'assenza di concorrenza, si affiancarono gli effetti positivi nel campo delle tecniche produttive e della ricerca. Con il crescere delle dimensioni delle imprese e della complessità di macchinari e impianti nacquero anche nuove figure di tecnici, che si collocavano tra il proprietario e gli operai: gli ingegneri, conoscitori delle nuove macchine e dei nuovi sistemi produttivi, che organizzavano il lavoro; i manager, esperti nella gestione dell'impresa, figura accanto ai proprietari nella direzione della società, e anche al posto dei proprietari nel caso delle società ad azionariato diffuso (public companies). STATO E ORGANIZZAZIONE DEGLI INTERESSI Nel tardivo sviluppo industriale italiano, tra Ottocento e Novecento, si mescolarono la prima e seconda rivoluzione industriale. Allo sviluppo del settore tessile, e cotoniero, si aggiunsero le industrie metalmeccaniche, chimiche e la nuova industria elettrica, che rappresentarono i settori trainanti della seconda rivoluzione industriale, come il tessile lo era stato della prima. Come negli altri paesi *late comer*, il ruolo delle banche e dello stato nello sviluppo assunse un'importanza centrale. La costruzione di stabilimenti di grandi dimensioni richiedeva investimenti a redditività dilazionata, per i quali si rivelò funzionale un nuovo tipo di istituto di credito, nato in Germania: le banche miste che non si limitavano solo a svolgere attività del credito commerciale tradizionali a breve termine (sconto cambiario, passivo conto corrente), ma finanziavano anche investimenti industriali con prestiti a lunga scadenza, o attraverso l'acquisto di azioni di società industriali, quando queste decidevano aumenti del capitale sociale per finanziarie la crescita dimensionale. Gli immobilizzi industriali erano un'attività rischiosa, perché i prestiti a lungo termine e le partecipazioni azionarie si basavano anche sui depositi a breve termine dei piccoli risparmiatori, che avrebbero potuto chiedere in massa il ritiro dei propri depositi qualora avessero temuto difficoltà; il fallimento di una grande industria poteva comportare il fallimento della banca che l'aveva finanziata. Dato l'alto rischio, le banche miste concedevano prestiti a patto di poter controllare da vicino le imprese, acquisendo quote azionarie ed entrando con propri rappresentanti nei consigli di amministrazione. Nasceva in tal modo il capitale finanziario, dallo stretto intreccio tra banca e industria, tra capitale bancario e capitale industriale. La banca mista rappresentò un importante strumento di sviluppo economico, in quanto rese disponibile per l'investimento in impianti industriali numerosi soggetti di piccolo risparmio che isolatamente non avrebbero potuto effettuare investimenti produttivi. Il fallimento di un grande gruppo industriale o bancario apriva la prospettiva del ''salvataggio'' da parte dello Stato, perché dalla chiusura degli stabilimenti o degli sportelli bancari sarebbero derivate pesanti conseguenze per molte persone (dagli operai occupati ai risparmiatori possessori di depositi). In Italia, i salvataggi bancari e industriali da parte dello stato sarebbero stati attuati sistematicamente, fino a costituire la base della creazione, con l'Iri, dell'industria di stato durante la grande crisi del 1929-1934 (la legge bancaria del 1936 vieta partecipazioni delle banche nell'industria). Nell'epoca del capitale finanziario, i grandi gruppi imprenditoriali non chiedevano più che lo stato non intervenisse nell'economia: gli industriali rivendicavano la massima libertà di azione, ma premevano per ottenere sovvenzioni, commesse, protezione contro la concorrenza estera. Particolarmente attivi in questa ricerca di sostegno erano i settori più direttamente interessati ad avere lo Stato come cliente; industria siderurgica e meccanica, cantieri navali per le forniture militare, aziende per infrastrutture e servizi. Lo stato era disposto a concedere aiuto, in quanto la potenza economica e militare della nazione veniva sempre più strettamente rapportata alla potenza industriale. Mentre le grandi imprese si collocavano a capo di gruppi di pressione, anche i lavoratori dipendenti davano vita a nuove, più grandi e agguerrite organizzazioni sindacali che rivendicavano, nei confronti delle aziende migliori condizioni retributive e di lavoro, e nei confronti dello Stato riforme di sicurezza sociale. Allo stesso modo, anche gli imprenditiori fondarono proprie organizzazioni sindacali, per contrapporre un fronte comune alle rivendicazioni operaie e operare una sorta di rappresentanza politica nei confronti di Governo e opinione pubblica. Questo periodo segna la nascita di un nuovo sistema che sarebbe stato improntato all'azione dei tre attori collettivi principali, con rapporti più o meno conflittuali e collaborativi; - Big government - Big labour (organizzazioni sindacali) - Big business (da invisible hand a visible hand). IL SISTEMA AMERICANO Nell'epoca della seconda rivoluzione industriale si assiste negli Stati Uniti ad un'importante novità nel campo dell'organizzazione della produzione: *American system*. Nelle prime produzioni di serie si puntò alle parti intercambiabili, ottenute attraverso la manifattura di precisione: mentre in precedenza i pezzi venivano prodotti alle macchine utensili con ampie tolleranze per essere successivamente portati alle dimensioni richieste lavorando di lima, nell'*American system* l'uso di particolari attrezzature (maschere, calibri) consentiva la riduzione delle tolleranze e la standardizzazione dei pezzi; ne risultavano semplificate le operazioni di montaggio e notevolmente ridotti i tempi di lavorazione. Inoltre, grazie all'intercambiabilità poteva essere migliorata l'assistenza ai clienti, perché diventava possibile procedere alle eventuali riparazioni con pezzi di ricambio. Queste novità si accompagnavano normalmente a un cambiamento della disposizione (layout) degli impianti: si passava dall'organizzazione per famiglie di macchine all'organizzazione per famiglie di pezzi dove i reparti erano destinati non più a un tipo di lavorazione ma alla produzione di un pezzo, che richiedeva la presenza di diverse macchine per le varie lavorazioni. Tutto ciò consentiva di superare i metodi tradizionali ancora prevalenti in Europa e nelle fabbricano che non praticavano la produzione in serie ma che lavoravano su commesse o ordini della clientela; qui il montaggio richiedeva degli esperti operai e tempi lunghi, in quanto le parti venivano aggiustate al banco, con lima e martello per adattare il singolo prodotto. Proprio negli Stati Uniti, sulla base dell'*American system*, nacque la cosiddetta "organizzazione scientifica del lavoro" il cui fondatore fu Taylor, un ingegnere che fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento sperimentò nuovi metodi di organizzazione del lavoro in acciaieria in cui era direttore. In seguito, propagandò i suoi sistemi descritti in alcuni pubblicati tra il 1900 e il 1911. IL "METODO MIGLIORE" E LA SCOMPOSIZIONE DELLE MANSIONI Secondo Taylor era un'organizzazione del lavoro non razionale quella diffusa in quasi tutti i settori manufatturieri, in cui gli operai svolgevano un mestiere ancora simile a quello dell'artigiano, che richiedeva destrezza e esperienza acquisite con l'apprendistato. Taylor richiamava in particolare l'attenzione sul fatto che ogni operaio di mestiere lavorava con metodi propri. Si doveva invece studiare quale fosse il metodo migliore (one best way), ovvero il metodo che permettesse di compiere il lavoro in meno tempo, e farlo applicare a tutti gli operai. Il metodo migliore poteva essere trovato attraverso la sistemica analisi dei tempi e dei metodi di lavoro, che doveva essere svolta da un ufficio apposito (ufficio "tempi e metodi"), dove personale tecnico formato da cronometristi osservava un determinato lavoro, analizzava ogni singolo gesto compiuto dai lavoratori, cronometrava tutti i tempi parziali. Si cercava così di distinguere i gesti utili da quelli inutili, individuando la successione dei gesti più adatta a risparmiare tempo e a ridurre i tempi morti, vale a dire quei momenti in cui, tra un'operazione e l'altra, il lavoratore rimaneva inattivo perché la macchina doveva terminare una fase di lavorazione. Attraverso il cronometraggio, oltre ad essere il metodo migliore, gli analisti "tempi e metodi" dovevano valutare anche il tempo necessario per svolgere un certo lavoro; sulla base di questo tempo andavano poi fissate le tariffe di cottimo, ovvero il salario da pagare al lavoratore per ogni unità di lavoro. Si intendeva a tal modo incentivare gli operai a un maggior rendimento, sostituendo la paga oraria con la paga in base ai risultati. L'osservazione delle varie fasi e dei singoli gesti compiuti dagli operai doveva inoltre permettere agli uffici tecnici di separare ogni fase, ogni serie di gesti, affidandone ciascuna ad un lavoratore diverso. IL COTTIMO E IL "COMPITO DEFINITO" Gli operai di mestiere erano abbastanza autonomi nello svolgimento del loro lavoro, fatto di svariate operazioni e ancora troppo complesso perché potessero essere imposti tempi ben precisi da rispettare. Allo scopo di spingerli a lavorare più intensamente, gli industriali iniziarono, a fine Ottocento, a sostituire la paga a tempo con la paga a cottimo, cioè la paga in base alla quantità di lavoro effettivamente realizzata. Venivano così incentivati a produrre di più, per ottenere un guadagno un po' più elevato. Soprattutto all'inizio, gli operai e le loro organizzazioni furono decisamente contrari al cottimo. Giudicavano infatti che creasse concorrenza tra i lavoratori, ne minasse la solidarietà con il miraggio di più alti guadagni e ritenevano, inoltre, che potesse essere uno strumento di facili abusi da parte dell'imprese. Il cottimo, nonostante le molteplici proteste con cui fu accolto dai lavoratori più sindacalizzati, ebbe una notevole diffusione e divenne un territorio di conflittualità per le discussioni con cui venivano stabiliti i tempi di cottimo. Esistevano due tipologie di cottimo; - Lineare; alla lavorazione di un pezzo veniva assegnato un tempo base, in cui poteva essere realizzata senza particolari sforzi; il tempo base veniva tradotto in un prezzo da pagare all'operaio. Se l'operaio cottimista lavorava più svelto e terminava la lavorazione in minor tempo, riceveva la tariffa di cottimo e poteva guadagnare più della paga oraria. ( porta a un incremento proporzionale della retribuzione). - Rallentato; il guadagno operaio cresceva meno che proporzionalmente all'incremento del rendimento, venne introdotto con il passare del tempo. Il problema del cottimo stava in gran parte nella valutazione del tempo normale, stabilito in genere sulla base dell'esperienza dei capi i quali, di regola reclutati tra gli stessi operi di mestiere, erano in grado di valutare il tempo necessario. Il taylorismo invece proponeva e pretendeva, attraverso lo studio sistematico dei tempi e dei metodi di lavoro, di giungere alla fissazione di tempi "oggettivi", che avrebbero eliminato le discussioni. Tuttavia, il cronometraggio di un'operazione non teneva conto della fatica nel corso della giornata e della settimana lavorativa, pertanto, il giudizio sulla sopportabilità di un certo ritmo lavorativo restava ben poco oggettivo e scientifico e inoltre non era possibile tener conto anticipatamente degli imprevisti che potevano influire sul rendimento operaio. LE TAPPE DELL'INTRODUZIONE DEL TAYLORISMO Naturalmente l'allestimento di un ufficio "tempi e metodi", grazie al quale era possibile imporre il compito definito e realizzare la scomposizione delle mansioni aveva dei costi per l'impresa, la quale ne traeva dei vantaggi se la scala di produzione era in grade di coprire i costi e generare un profitto. Il taylorismo cominciò ad essere applicato nelle grandi fabbriche, que