Riassunto di Diritto Costituzionale Pisa PDF
Document Details
Uploaded by EyeCatchingEuphemism
Università degli Studi di Siena
Andrea Pisaneschi
Tags
Summary
Questo riassunto del libro di diritto costituzionale di Andrea Pisaneschi esplora i concetti chiave delle Costituzioni, dal potere costituente alla suddivisione dei poteri. Il testo analizza le caratteristiche di una Costituzione e mette in risalto la differenza fra costituzioni moderne e quelle di epoche precedenti.
Full Transcript
lOMoARcPSD|4121920 Riassunto di diritto costituzionale Pisaneschi Diritto costituzionale (Università degli Studi di Siena) StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo. Scaricato da Alberto Lorenzin (lo...
lOMoARcPSD|4121920 Riassunto di diritto costituzionale Pisaneschi Diritto costituzionale (Università degli Studi di Siena) StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo. Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 Andrea Pisaneschi Riassunto del libro di DIRITTO COSTITUZIONALE Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti PARTE I LA COSTITUZIONE CAPITOLO I COSTITUZIONE E POTERE COSTITUENTE 1. La Costituzione: prime definizioni Costituzione può essere qualificata come quell'insieme di norme che costituiscono il fondamento di un ordinamento statale e occorre che questo insieme di norme sia dotato di determinate caratteristiche di contenuto e di forma per essere qualificato come Costituzione, differenziandosi da altri atti normativi che invece Costituzione non sono. A questo punto la definizione di Costituzione in senso meramente giuridico si incrocia con la storia e con l'evoluzione della società; è infatti l’evoluzione storica che attribuisce a quell'insieme di norme, le caratteristiche che differenziano le Costituzioni da altri atti normativi che non possiamo definire come tali. Normalmente, per definire una Costituzione, si fa riferimento a quattro elementi principali: due la caratterizzando da un punto di vista della forza, e altri due dal punto di vista della sostanza o del contenuto. si ritiene infatti che una Costituzione moderna sia caratterizzata da quell'insieme di norme che costituiscono il fondamento dello stato, stabili nel tempo, superiori rispetto alle altri norme giuridiche (forza), che contengono principi e valori generalmente condivisi in tema di diritti fondamentali, nonché un modello organizzativo nella distribuzione dei poteri dello stato (sostanza). Elementi formali (di forma) ed elementi sostanziali (contenuto) contribuiscono dunque a identificare la costituzione. Analizziamo gli elementi caratterizzanti sopra individuati: STABILITÀ - Significa capacità della Costituzione di durare nel tempo, ovvero non è volta a regolare equilibri transitori. SUPERIORITÀ - Significa maggiore forza rispetto alle altre norme che compongono un ordinamento giuridico. Una Costituzione è superiore perchè tutte le altre norme devono rispettarla in quanto norma fondamentale dello stato. VALORI E PRINCIPI GENERALMENTE CONDIVISI - Le norme costituzionali esprimono principi che la gran parte dei cittadini, considerano come propri. MODELLO ORGANIZZATIVO NELLA DISTRIBUZIONE DEI POTERI DELLO STATO - Contiene un modello di organizzazione del potere pubblico di vertice, disciplinandolo e limitandolo ( poiché le Costituzioni nascono proprio come strumenti di limitazione del Sovrano e per organizzare e bilanciare i poteri dello Stato). [Nel momento in cui la Costituzione diviene espressione del potere costituente, cioè della volontà consapevole di un popolo, essa è espressione di un atto (manifestazione di volontà) e non di un fatto (un mero comportamento), perciò, in quanto manifestazione di volontà, è spesso collegata la forma scritta. Inoltre la forma scritta conferisce alla Costituzione un rafforzamento 2 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti della sua stabilità, cosicché può dirsi che da un punto di vista storico le Costituzioni moderne tendono ad assumere la forma scritta.] Questi quattro elementi sono intimamente legati tra loro. In definitiva, i requisiti relativi alla "forza" della Costituzione e i requisiti relativi alla "sostanza" della Costituzione, requisiti che concettualmente devono essere tenuti distinti, sono però tra loro legati. Le norme costituzionali differiscono da tutte le altre norme anche per il loro contenuto, infatti la Costituzione deve contenere principi sufficientemente generali da essere ampiamente condivisi e da poter durare a lungo del tempo, a differenza delle altre norme che servono a regolare fatti concreti della vita. Le norme costituzionali hanno dunque caratteristiche di generalità sconosciute alle altre norme, e sono dotate, inoltre di un elevato livello di flessibilità, per potersi adattare a situazioni storiche, sociali o politiche diverse rispetto al momento nel quale la Costituzione è stata approvata. Gli ordinamenti giuridici prerivoluzionari non conoscevano Costituzioni nel senso ora determinato. I documenti definiti "costituzionali" prima della rivoluzione francese erano perlopiù accordi transitori tra monarchia, nobiltà e clero, accordi che riconoscevano alcuni diritti degli uni nei confronti degli altri (per esempio: l'inglese Magna Charta libertatum del 1215; il Bill of rights del 1689). In questi accordi mancano tutti e quattro i presupposti che sono gli elementi caratterizzanti la Costituzione in senso moderno. 2. L'origine della Costituzione come limite al potere: potere costituente e poteri costitutivi Le condizioni per la nascita di una Costituzione in senso moderno si verificarono per la prima volta nella storia con la rivoluzione francese e la rivoluzione americana, che portarono sulla scena costituzionale il popolo, vero autore delle Costituzioni post-rivoluzione di fine settecento. Le Costituzioni di questo periodo furono elaborate da organismi rappresentativi (le convenzioni o le Assemblee Costituenti), ritenute titolari, in autonomia e senza negoziazioni con altri organi, del potere costituente, cioè del potere di darsi una nuova costituzione. L'esercizio di questo potere è ciò che attribuisce ad un documento la natura di Costituzione in senso proprio. Attraverso l'esercizio del potere costituente, incardinato in un unico organo (Assemblea Costituente), la Costituzione che ne scaturisce sarà volta a dettare principi condivisi, che in ragione delle generale condivisione, a loro volta sono considerati stabili. Inoltre, l'esercizio del potere costituente fornisce la giustificazione della superiorità della Costituzione rispetto alle altre norme. Con l'approvazione della Costituzione il potere costituente si estingue, mentre i poteri che derivano dalla Costituzione sono poteri definibili come costituiti, nel senso che trovano fondamento e legittimazione nella costituzione ( cioè gli altri poteri non sono più originari ma derivati, perchè conseguono dalla Costituzione). I principi del costituzionalismo moderno: a) la Costituzione è la legge fondamentale e suprema della Nazione. Questo implica che non è modificabile con i mezzi ordinari. Vi è in questo ragionamento l'idea della superiorità della costituzione in quanto conseguenza dell'esercizio del potere costituente. b) Da ciò consegue che una legge che si pone in contrasto con la Costituzione è invalida. Vi è in questo ragionamento l'idea che la legge, potere costituito, è inferiore alla costituzione. c) Da ciò consegue ancora che qualora il giudice debba applicare una legge contrastante con la Costituzione, la legge non può essere applicata. Vi è in questo ragionamento l'idea della giustizia costituzionale, nel senso che, quando vi è una Costituzione superiore, 3 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti necessariamente l'ordinamento deve prevedere un organo che abbia il potere di giudicare se una legge è contrastante con la costituzione. Questi tre elementi sono tutti principi connaturati con il costituzionalismo moderno. 3. La costituzione nelle monarchie dualistiche e nel primo dopoguerra le Costituzioni di questo periodo sono definibili come DUALISTICHE, perchè la sovranità è contrastata tra il Re e una determinata classe sociale, infatti nel periodo pre-rivoluzione francese i sovrani concedono le Costituzioni alla borghesia, cosicché le Costituzioni diventano strumenti di limitazione del potere Sovrano. Queste Costituzioni pretendono di disciplinare l'ordinamento dello Stato, l'organizzazione dei poteri e alcuni diritti di libertà ma nonostante ciò sono carenti dei presupposti per essere considerate Costituzioni nel senso moderno del termine. Queste Costituzioni in primo luogo non sono il frutto dell'esercizio del potere costituente, in secondo luogo non è dalla Costituzione che deriva il potere, ma al contrario è dato per implicito che il POTERE PREESISTENTE NEL RE e quest'ultimo si limita semplicemente a sottoporlo ad alcune limitazioni attraverso lo strumento costituzionale. Ciò implica che il potere incardinato nel Sovrano è superiore rispetto alla Costituzione stessa, e il potere del sovrano non è un potere costituito poiché non deriva dalla Costituzione ma preesiste a essa. Se il potere del Sovrano preesiste alla alla Costituzione, infatti, la Costituzione deriva dal Sovrano, che come la concede la può allo stesso tempo revocare. In terzo luogo, e come conseguenza, le Costituzioni ottocentesche non hanno quel carattere di superiorità tipico delle Costituzioni moderne e in quarto luogo, se la Costituzione non è superiore, non può esistere un sistema di giustizia costituzionale. In definitiva, queste Costituzioni avevano solo il contenuto definibile come costituzionale, ma non la forza o la forma, né gli strumenti di garanzia Anche le Costituzioni del primo dopoguerra presentano caratteri di dualismo e di sovranità indecisa, poiché si basavano, in sostanza, sul permanere di un equilibrio complesso tra due forze opposte. E questo equilibrio era necessariamente transitorio, con la conseguenza che la Costituzione era a sua volta fisiologicamente instabile. 4. Le Costituzioni contemporanee e la rigidità come tratto caratterizzante Le Costituzioni che si affermano dopo la seconda guerra mondiale e dopo le dittature fascista e nazista presentano un carattere nuovo. La guerra mondiale e la inesistenza di un ordine giuridico pregresso al quale fare riferimento, aveva invece condotto ad una situazione nella quale era la stessa società che doveva essere ricostruita, con la conseguenza che la Costituzione doveva svolgere il compito sia di rifondare l'ordinamento giuridico dello Stato, sia di indirizzare, in qualche misura, anche la ricostruzione della società. Le Costituzioni, per conseguenza, si allungano molto, ricomprendendo valori e principi comuni a tutte le forze politiche, e soprattutto divengono anche programmi sociali, all'interno dei quali ciascuno forza politica esercita un ruolo e fa propria una parte del programma. Questi modelli costituzionali sono detti dello STATO PLURALISTA, poiché sono caratterizzati da una pluralità di forze politiche, da una pluralità di valori e interessi, che convivono all'interno della Costituzione. Il cambiamento rispetto alle Costituzioni dell'ottocento e del primo dopoguerra è evidente. Infatti quest'ultime si fondavano sull'esistenza di un potere "ultimo", che la Costituzione poteva servire a limitare, regolare e confinare ma che non poteva essere comunque eliminato. Nelle costituzioni contemporanee questo potere non c'è più: tutte le componenti politiche e sociali 4 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti hanno accettato il compromesso costituzionale e sono parte dell'accordo, ciò non significa comunque che non vi siano conflitti tra parti sociali o forze politiche ma significa che il conflitto non è distruttivo come lo era un tempo. Questa situazione, che è storica e sociale ma non ancora giuridica, produce conseguenze giuridiche sulle caratteristiche della Costituzione. In primis visto che nessuna delle forze politiche e sociali si ritiene detentrice del potere ultimo, la Costituzione può svolgere il ruolo di garantire quel nuovo sistema sociale e qual nuovo ordinamento giuridico. Per svolgere questa funzione, deve essere anche necessariamente superiore ai poteri che essa stessa disciplina (poteri costituiti). Inoltre occorre invece garantire la superiorità della Costituzione attraverso regole giuridiche, che prevedono la possibilità di una sua modificazione attraverso un procedimento particolare, aggravato e complesso. Le Costituzioni diventano pertanto rigide, cioè hanno la possibilità di essere modificate solo con un procedimento speciale e aggravato. La rigidità costituisce dunque una garanzia che possiamo definire formale e procedimentale della Costituzione. Superiorità e rigidità sono dunque due concetti simili, ma non esattamente coincidenti. La superiorità della Costituzione è conseguenza dell'esercizio del potere costituente. Tutti gli atti che vengono dopo la Costituzione sono costituiti e quindi inferiori, perchè nella Costituzione trovano la loro fonte di legittimazione: la superiorità è dunque un concetto collegato alla natura e non alla sua forma. La rigidità afferisce invece alle regole procedimentali per modificare la Costituzione al fine di renderne più complessa la eventuale modifica: è dunque una garanzia sia della superiorità che della stabilità nel tempo della Costituzione. La giustizia costituzionale deriva logicamente dalla superiorità e dalla rigidità della Costituzione. Se la legge deriva dalla Costituzione ne deve rispettare il contenuto, se non rispetta il contenuto significa che essa modifica la Costituzione. Ma la Costituzione, che è superiore, non può essere modificata da un potere costituito. Inoltre la Costituzione è rigida, cioè può essere modificata solo con un procedimento aggravato diverso da quello per approvare le leggi. Dunque una legge, approvata con un procedimento ordinario, non può modificare la Costituzione. Occorre quindi un sistema che consenta di giudicare sulla legittimità di una legge nei confronti della Costituzione. 5. Prime distinzioni di sintesi: Costituzioni flessibili e rigide, Costituzioni lunghe e brevi, formali e materiali Le Costituzioni possono essere innanzitutto flessibili o rigide. Sono Costituzioni flessibili quelle che sono modificabili attraverso una legge ordinaria e che non prevedono quindi un procedimento aggravato per la loro modifica, a differenza delle Costituzioni rigide. Le prima erano presenti nei periodi di accentuato dualismo e di lotta per la sovranità, mentre nel dopoguerra, venuta meno la lotta per la sovranità, le Costituzione diventano lo strumento per garantire il "nuovo patto sociale" e dunque vengono rese rigide. Le Costituzioni possono essere bravi o lunghe a seconda che abbiano un numero limitato o meno di articoli. Le Costituzioni brevi sono tipiche di un modello dualistico, in cui non si intendeva delineare un assetto complessivo della struttura sociale. Le Costituzioni lunghe sono invece tipiche della società contemporanea e sono collegate anche al modificarsi della forma di stato. In primo luogo queste Costituzioni intendono determinare un assetto organico della società. Esse sono infatti Costituzioni nate da un accordo complessivo tra tutte le forze politiche e sociali e dunque designano un modello complessivo di organizzazione del potere e del sistema dei diritti nel quale tutti possono riconoscersi. In secondo luogo esse sono collegate al nascere dello Stato sociale contemporaneo. Quando lo Stato assume il compito di rimuovere e 5 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti pareggiare le differenze materiali tra i cittadini (art. 3 comma 2 della Costituzione "principio di eguaglianza sostanziale") per raggiungere questo obbiettivo devono essere svolti nuovi compiti e funzioni. Le Costituzioni si allungano quindi al sociale e alla determinazione di "valori" che lo Stato deve perseguire. In terzo luogo le Costituzioni contemporanee non si limitano normalmente a dettare norme di tipi "VERTICALE", cioè relative al solo rapporto Stato-cittadino, ma dettano anche norme di tipo "ORIZZONTALE" cioè relative ai rapporti tra i cittadini. Anche questa evoluzione, che provoca un ulteriore allungamento della Costituzione è conseguenza del modello di Stato sociale, del principio di eguaglianza materiale, e dei fini di pareggio che lo stato si prefigge. Per conto bisogna avere attenzione alle Costituzioni troppo lunghe, infatti non devono disciplinare fattispecie concrete come il codice civile, ma devono bensì stabilire le cornici di principi e valori all'interno della quale si collocheranno le altre norme. La Costituzione si distingue tra Costituzione formale e Costituzione materiale. La prima è data dall'intero sistema di norme costituzionali. È la Costituzione scritta in tutti gli articoli che la compongono, e che può essere modificata solo attraverso un procedimento di revisione costituzionale. La seconda può essere intensa in senso stretto o in senso largo. La Costituzione materiale in senso stretto è quella parte della Costituzione cui le forze politiche dominanti danno attuazione e ritengono di dover applicare in un determinato periodo storico. La Costituzione materiale in senso largo può essere definita come il substrato storico e sociale che, in qualche misura, "sta sotto" la Costituzione, la rende legittima e applicabile. 6 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti CAPITOLO II ALLE ORIGINI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA 1. Lo Statuto albertino e la sua evoluzione La prima "Costituzione" italiana risale al 1848 quando Carlo Alberto di Savoia fu costretto a promulgare una carta costituzionale nel Regno di Sardegna. Questa carta costituzionale, detta Statuto albertino, fu poi estesa al Regno d'Italia dopo il 1861, e rimase formalmente in vigore fino al 1948 (infatti non fu applicata nel periodo fascista e nel periodo transitorio tra la fine della seconda guerra mondiale e l'approvazione della Costituzione), quando fu approvata la Costituzione italiana. In questo periodo si verificarono molti cambiamenti nel paese, sociali e politici, che nel tempo produssero interpretazioni diverse di quella carta costituzionale. Da una prima fase nella quale lo Statuto delineava una classica monarchia costituzionale, si passò a una fase finale nella quale essa parve avvicinarsi ad una monarchia parlamentare. Lo Statuto albertino era la tipica carta costituzionale concessa dal Sovrano, non era quindi una carta espressione del potere costituente ma una classica Costituzione liberale o dualistica: era infatti flessibile e breve. Delineava un modello di monarchia costituzionale, incentrato sui poteri del Sovrano, sia pure limitati in parte dal Parlamento. Sulla carta, infatti il Sovrano era titolare della gran parte dei poteri, potendo intervenire praticamente su tutti gli altri organi dello Stato. In primo luogo il re nominava e revocava i ministri, ma il potere di nomina unito a quello di revoca determinava un rapporto fiduciario tra questi organi. I ministri erano responsabili verso il Re e non verso il Parlamento, come accade invece normalmente nelle forme di Governo parlamentari. In secondo luogo il Parlamento era composto da due Camere, ma il Senato del Regno non era elettivo bensì composto da membri nominati a vita dal Sovrano. In terzo luogo, anche se il potere di fare le leggi era in capo al Parlamento, il Sovrano aveva nei confronti delle leggi un potere di "sanzione", cioè di blocco della legge, la quale non poteva entrare in vigore senza la sua firma, questo perchè si riteneva che la legge non era l'espressione della volontà popolare ma un accordo contrattuale tra il Sovrano e il Parlamento. In quarto luogo il Re convocava e scioglieva il Parlamento, che appariva così un organo ausiliario del Sovrano piuttosto che l'organo rappresentativo della sovranità popolare. Dal punto di vista del sistema delle libertà la carta prevedeva poche norme, infatti le libertà del cittadino erano trattate solo in nove articoli, inoltre l'intero sistema delle libertà era disciplinato in modo molto generico. Lo Statuto ebbe una evoluzione, infatti segui un percorso favorevole al Parlamento. Lo Statuto infatti si basava sul principio di separazione tra Governo e Parlamento, dipendendo il Governo dalla fiducia del Re e non dal Parlamento. Nel tempo tuttavia il Governo comprese che, se voleva portare avanti la propria politica, doveva spiegarne le ragioni in Parlamento: quest'ultimo infatti non poteva approvare le leggi che il Governo proponeva. Si invalse così la prassi, per i Governi che venivano nominati dal Sovrano e che dunque avevano la fiducia del Re, di ottenere anche la fiducia del Parlamento: il Governo esponeva un proprio programma in Parlamento rispetto al quale riceveva la fiducia. La separazione tra Governo e Parlamento, scritta nello statuto, era venuta meno, e il rapporto di fiducia, originariamente costruito tra Re e Governo, si era trasformato in un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento. Conseguentemente altri poteri del Sovrano si affievolirono, infatti il re non aveva più la piena libertà di scegliere i ministri tra le persone di sua propria ed esclusiva fiducia, poiché doveva scegliere come ministri persone che potevano anche avere la fiducia del Parlamento. Si affievolì di conseguenza anche il potere di revoca. 7 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti Il doppio appoggio del Re e del Parlamento che il Governo aveva conquistato, ebbe poi l'effetto di rafforzare i poteri di quest'ultimo nei confronti del Sovrano. Il potere di scioglimento anticipato, che lo Statuto aveva disciplinato come un potere discrezionale del Sovrano, si trasformò in un potere governativo. Divenne di fatto il Governo a decidere se sciogliere o meno le Camere, poiché era divenuto il Governo il vero interlocutore politico del Parlamento. Così se le Camere erano contrarie ad approvare gli atti proposti dall'esecutivo, il Governo poteva minacciare lo scioglimento, o addirittura sciogliere le Camere per ottenere una Camera la cui composizione fosse più in linea con il con la propria politica. Il Governo ottenne inoltre il potere "sostanziale" di nominare i membri del Senato, anche la trasformazione di questo potere era conseguenza del mutato equilibrio nei rapporti relazionali tra Governo e Parlamento. Se il Governo doveva avere la fiducia del Parlamento, se lo poteva sciogliere, evidentemente era anche interessato a che la sua composizione fosse in linea con la politica governativa. 2. Il periodo fascista Lo Statuto albertino fu di fatto travolto dall'instaurarsi della dittatura fascista. Il regime fascista si instaurò giuridicamente con un colpo di Stato legittimato dal Sovrano. A seguito della marcia su Roma il 28 ottobre del 1922, il Re affidò infatti a Mussolini, capo del fascismo, l'incarico di primo ministro. [ Si trattava tuttavia di una probabile violazione dello Statuto, perchè in primo luogo il Re si era rifiutato di firmare il decreto di stato di assedio che il Governo legittimo gli aveva sottoposto, e in secondo luogo aveva nominato primo ministro il rappresentante di un partito, allora minoritario nel Parlamento, a seguito di un atto di forza e di una vera e propria autodesignazione.] Dopo la nomina di Mussolini a primo ministro furono smantellate le istituzioni della monarchia costituzionale. Nel 1924 furono effettuate le elezioni sulla base di una legge, la cosiddetta legge Acerbo, nei due anni che vanno del 1925 al 1926 furono distrutte le istituzioni parlamentari che faticosamente si erano create in via di prassi nel periodo liberale. Con la legge 24 dicembre 1925 n. 2263 sulle attribuzioni e prerogative del capo del Governo fu stabilito che quest'ultimo diveniva un superiore gerarchico rispetto agli altri ministri, che le Camere non potevano più porre la mozione di sfiducia per censurare l'operato del Governo, che nessun oggetto poteva essere messo all'ordine del giorno delle Camere senza il consenso del capo del Governo. Con la successiva legge n.100 del 1926, fu ampliato a dismisura il potere del Governo di emanare atti con forza di legge e regolamenti senza passare dal Parlamento. L'autorità del Governo fu poi ulteriormente incrementata con la cosiddetta costituzionalizzazione del "Gran Consiglio del fascismo". Attraverso questa legge il massimo organo del partito diventava un organo dello Stato, direttamente dipendente dal capo del Governo. A questo punto le istituzioni parlamentari erano di fatto già cancellate, così la soppressione della Camera dei Deputati e l'instaurazione in sua vece della camera dei fasci e delle corporazioni, avvenuta nel 1939. L'inizio della caduta del fascismo può collocarsi nella famosa notte del 24 luglio del 1943, quando il Gran Consiglio del fascismo votò un ordine del giorno che sostanzialmente esautorava Mussolini. Con tale ordine si dichiarò che era necessario il ripristino delle funzioni statali, e si invitò il Re a riassumere i poteri che aveva in base allo Statuto. Il giorno dopo il Re revocò Mussolini da primo ministro, ne ordinò l'arresto e nominò il Maresciallo Badoglio primo ministro. 3. Il periodo transitorio Gli anni che andarono dall’otto settembre del 1943, data dell’armistizio, sino all’entrata in vigore della Costituzione, furono caratterizzati da un ordinamento giuridico definibile come “transitorio”. Tornare indietro allo Statuto avrebbe infatti significato legittimare nuovamente e pienamente le istituzioni monarchiche, mentre i partiti antifascisti erano caratterizzati, invece, da ideologie 8 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti repubblicane. I sei partiti politici antifascisti (partito liberale, partito democratico del lavoro, partito della democrazia cristiana, partito di azione, partito socialista di unità proletaria, partito comunista italiano) riuniti nei Comitati di Libertà Nazionale (CLN) posero sin da subito la questione istituzionale, cioè il passaggio da una monarchia fortemente compromessa con il regime fascista, alla forma repubblicana. Nel 1944, fu stipulato il cosiddetto “patto di Salerno”, con cui il Re si sarebbe ritirato a vita privata, nominando il figlio luogotenente del Regno, mentre finita la guerra, una Assemblea Costituente avrebbe deciso sia sulla riforma di Stato (Monarchia o Repubblica), sia sul nuovo assetto costituzionale. La prima parte del patto fu messa in atto subito dopo la liberazione di Roma. Il decreto legge 25 giugno 1944 stabiliva il deferimento della scelta istituzionale ad una Assemblea Costituente da eleggersi direttamente alla fine della guerra, mentre il Comitato di Liberazione Nazionale, il Governo in carica e il luogotenente, si impegnavano a non compiere atti che potessero pregiudicare la questione istituzionale (la cosiddetta “tregua istituzionale”). Con un successivo decreto luogotenenziale 16 marzo 1946 queste scelte furono poi modificate: si sottrasse infatti la scelta sulla forma di Stato (Monarchia o Repubblica) all’Assemblea Costituente, per attribuirla direttamente alla volontà popolare attraverso un referendum. Fu stabilito altresì che la funzione legislativa non sarebbe stata esercitata dalla stessa Assemblea Costituente, come prima determinato, ma bensì dal Governo. Il referendum istituzionale avrebbe dovuto tenersi il 2 di giugno del 1946. Nel maggio Vittorio Emanuele III, che con il patto di Salerno si era ritirato in maniera definitiva dalla vita pubblica, abdicò in favore del figlio Umberto, ponendo così in essere un atto che non poteva compiere, poiché non aveva più poteri e quindi non poteva abdicare. Violò così la tregua istituzionale, ma nonostante questo atto fosse illegittimo Governo e partiti dei Comitati di Liberazione Nazionale non si opposero, infatti il rischio di un conflitto e il rinvio del referendum istituzionale era troppo grande. Il referendum istituzionale si svolse regolarmente e la Repubblica vinse sia pure con uno scarto non enorme (12.717.923 voti contro 10.719.284). 4. L’Assemblea Costituente Il decreto luogotenenziale del marzo 1946, che attribuiva la questione istituzionale ad un referendum popolare e sottraeva alla Assemblea Costituente il potere di fare le leggi, fu da molti interpretato come un colpo di coda della monarchia. In particolare, l’attribuzione di questo potere all’Assemblea Costituente, era stato considerato da alcuni come un mezzo necessario per porre in essere immediatamente in Italia, insieme alla entrata in vigore della Costituzione, quelle riforme in senso sociale che la Costituzione stessa implicitamente prevedeva. La sottrazione di quel potere fu allora considerato come limitante, perchè avrebbe impedito di compiere quella “rivoluzione sociale” di cui si riteneva l’italia avrebbe avuto necessità. In realtà, e a posteriori, ciò ebbe effetti positivi sulla nascita della Costituzione, contribuendo a creare un clima di distacco all’interno dell’Assemblea rispetto alle vicende politiche del paese. Staccata dalla politica e dalla questione istituzionale che divideva l’Italia, l’Assemblea Costituente poteva concentrarsi su una Costituzione in grado di guardare lontano. Con la elezione dell’Assemblea Costituente, inoltre, si concludeva un periodo storico ed un modello politico e se ne prova un’altro. Il paese era fortemente diviso. La repubblica aveva vinto, ma circa 10.000.000 di elettori avevano votato per la monarchia. L’obbiettivo pregiudiziale della Costituzione era prima sociale che giuridico, perchè occorreva prioritariamente contenere le disomogeneità allo scopo di evitare conflitti sociali e derive 9 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti autoritarie. La Costituzione doveva quindi prevedere un sistema articolato di diritti ed uno Stato che fosse in grado di intervenire per equilibrare le forti disuguaglianze sociali ed economiche. Occorreva poi un sistema articolato di protezione dei diritti delle minoranze, proprio a tutela di una società divisa, ed un sistema di garanzie per evitare che una maggioranza contingente potesse prendere il sopravvento sull’altra parte. L’Assemblea Costituente, nel giugno del 1946, non disponeva di un progetto, quantomeno iniziale, di Costituzione. Per redigere un progetto iniziale di discussione fu istituita una commissione, detta Commissione dei 75, composta proporzionalmente rispetto ai gruppi parlamentari. La Commissione fu divisa in tre sottocommissioni: la prima per i diritti e i doveri dei cittadini, la seconda per l’organizzazione costituzionale dello Stato, la terza per i lineamenti economici e sociali. Ma quali erano le linee guida della Costituzione? Il punto di partenza è dato dal carattere democratico dello Stato repubblicano, con la conseguenza che la sovranità è attribuita al popolo. Anche la sovranità popolare è tuttavia limitata poiché il popolo la esercita, come recita l’art. 1 “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Dunque, come nelle costituzioni dell’età contemporanea, la sovranità non preesiste alla Costituzione, ma da essa deriva ed è limitata. La priorità del popolo rispetto allo Stato è ulteriormente declinata nella prima parte della Costituzione, che è improntata ad un modello a socialità progressiva o a piramide invertita. La Costituzione doveva trattare dei diritti della persona, che poi si allargavano all’interno delle associazioni, per poi trarre quelle particolari associazioni che hanno particolari riflessi nella vita politica (partiti e sindacati), e solo dopo trattare della forma di Governo, per poi concludersi con le garanzie della Costituzione. Per quello che concerne la secondo parte della Costituzione, relativa alla forma di Governo, non vi furono alternativa realistiche alla forma di Governo di tipo parlamentare. Le ragioni di questa scelta erano del resto numerose e incontrovertibili. In primo luogo certamente la cultura di origine liberale di una parte considerevole dei costituenti, spingevano verso un modello in parte già sperimentato nel periodo statuario e razionalizzato nella Costituzione francese della III Repubblica. Questo modello necessitava di essere modernizzato, razionalizzato, reso più efficiente e garantito, ma poteva costituire un punto di partenza comune. In secondo luogo la scelta di questa forma di Governo era ampiamente giustificata dalle caratteristiche politiche e sociali dell’Italia del dopoguerra. Per definire il “tipo” di forma di Governo parlamentare il 3 settembre del 1946 fu votato un ordine del giorno, il cosiddetto ordine del giorno Perassi. In questo ordine del giorno si partiva dal presupposto che la forma di Governo italiana sarebbe stata caratterizzata da un sistema partitico a multipartitismo estremo; che il sistema elettorale sarebbe stato certamente un sistema elettorale di tipo proporzionale; che conseguentemente le crisi di Governo sarebbero state frequenti; che occorreva quindi un modello parlamentare con strumenti di stabilizzazione del governo. Accanto alla forma di Governo si ritenne poi necessario prevedere un sistema articolato di autonomia territoriali. Le autonomie territoriali erano viste in funzione di contrappeso rispetto al governo centrale, e come strumento per avvicinare la decisione politica ai cittadini. I Comuni e le Province, come meri enti di decentramento amministrativo esistevano già. Ad essi si ritenne opportuno aggiungere un terzo livello che si collocasse tra i Comuni, le Province e lo Stato. Questo nuovo livello, le Regioni, che avrebbe dovuto essere non solo amministrativo ma anche politico (cioè con la possibilità di approvare leggi e non solo atti amministrativi), era tuttavia sconosciuto alla tradizione costituzionale italiana. 10 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti Infine, posto che la Costituzione doveva essere rigida, a garanzia dei diritti fondamentali e del sistema pluralistico che la Costituzione aveva posto in essere, occorreva un sistema di giustizia costituzionale che tal rigidità potesse controllare. La scelta di un organo deputato allo svolgimento della giustizia costituzionale, cioè al controllo delle leggi rispetto alla Costituzione, ricadde sulla Corte costituzionale. 5. Il congelamento della Costituzione e il suo successivo disgelo La Costituzione entrò in vigore il 1° gennaio del 1948. La prima legislatura dell’Italia repubblicana, infatti, non fu tesa all’attuazione della Costituzione, ma al contrario fu caratterizzata da quello che Calamandrei chiamò “l’ostruzionismo della maggioranza”, cioè dalla volontà della maggioranza governativa di non rendere concretamente applicabili alcune delle norme costituzionali. Molti degli istituti “nuovi” della Costituzione, segnatamente quelli di garanzia, necessitavano infatti di leggi ordinarie per poter essere completati e resi operativi. La Corte costituzionale (istituita poi nel 1956) necessitava di leggi per essere attuata, così come il referendum popolare (istituito poi nel 1970), così come il Consiglio superiore della magistratura (istituito poi nel 1958), così come il sistema regionale (istituito poi nel 1970). Queste leggi furono approvate in anni molto posteriori alla entrata in vigore della Costituzione. Infine è vero che la Costituzione era entrata in vigore, ma nessuno aveva abrogato la legislazione fascista ancora vigente. La Corte di Cassazione elaborò una distinzione tra le norme della Costituzione distinguendo tra norme precettive (immediatamente applicabili) e norme programmatiche, considerate non applicabili ma solo programmi che il legislatore avrebbe dovuto attuare. Poiché la gran parte delle norme sui diritti fondamentali era considerata programmatica, di fatto alla parte più innovativa e garantistica della Costituzione veniva sottratto il valore giuridico. Il c.d. “disgelo della Costituzione” iniziò nel 1955, quando fu eletto Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che indicò l’attuazione della Costituzione come obbiettivo principale da perseguirsi. Nel 1956 fu resa operativa la Corte Costituzionale, la quale, sconfessò radicalmente l’indirizzo giurisprudenziale tenuto sino ad allora dalla Corte di cassazione, riconoscendo che tutte le norme costituzionali possono determinare l’illegittimità costituzionale delle norme legislative contrastanti. 11 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti CAPITOLO III COSTITUZIONE E PROCEDIMENTO DI REVISONE 1. Caratteri essenziali della Costituzione italiana: una sintesi La Costituzione italiana presenta tutti i caratteri classici delle Costituzioni contemporanee. È in primo luogo una Costituzione definibile come fonte superiore in quanto espressione del potere costituente. È una Costituzione rigida, poiché è previsto un procedimento aggravato per la sua modificazione, disciplinato nell’art. 138. È una Costituzione lunga, perchè non vi sono trattati solamente i diritti classici di libertà e l’organizzazione della forma di Governo, ma, oltre a contenere un ampliamento dei diritti di libertà e i nuovi diritti c.d. “sociali”, vi si rinvengono norme di natura non solamente verticale (che disciplinano il rapporto tra lo Stato e il cittadino), ma anche di natura orizzontale, che disciplinano cioè il rapporto tra i cittadini. È infine una Costituzione sociale perchè molte norme contenute all’interno della Costituzione determinano un programma di mutamento della società, prevedono anche interventi dello Stato allo scopo di attuare questo programma. 2. I caratteri essenziali delle norme contenute nella Costituzione Ancorché le norme costituzionali siano qualificabili come norme giuridiche, esse non hanno tutte la stesse caratteristiche tipologiche, non svolgono tutte le stesse funzioni, e dunque non hanno tutte la medesima efficacia. Queste diverse funzioni si riflettono sulla struttura delle norme e quindi sulla loro efficacia. Le norme contenute nella Costituzione possono essere distinte preliminarmente in norme ad efficacia diretta e norme ad efficacia indiretta. Le norme ad efficacia diretta sono quelle disposizioni costituzionali la cui la cui struttura è sufficientemente completa da poter essere applicata senza la necessità dell’interposizione del legislatore. Esse possono essere utilizzate (e applicate) direttamente dai giudici, dalla Pubblica Amministrazione, dai privati. La diretta applicabilità delle norme costituzionali costituisce una caratteristica tipica delle Costituzioni contemporanee. Si considerino ad esempio l’artt. 30 1°comma e 36, il cui scopo è di porre un precetto sufficientemente determinato, che non necessita di specificazioni ulteriori, e che quindi è direttamente applicabile. È opportuno riflettere sul fatto che queste norme, c.d. direttamente applicabili della Costituzione, svolgono una doppia funzione. Esse operano come una norma di una fonte ordinaria, quando debbono essere applicate in un caso concreto, ma costituiscono anche parametri di legittimità costituzionale, nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, quando vi sia una legge che preveda norme incompatibili con la disposizione costituzionale. In relazione a questo ultimo profilo, si dice allora che esse svolgono anche una funzione invalidante, poiché la legge che prevede norme contrarie alla Costituzione è illegittima. Le norme ad efficacia indiretta sono invece quelle norme costituzionali che che necessitano di essere attuate attraverso una ulteriore attività normativa. Esse costituiscono una ampia categoria, e infatti possono distinguersi in norme ad efficacia differita, norme di principio, norme programmatiche. - Norme ad efficacia differita sono costituite da quelle disposizioni costituzionali che rinviano, per la loro attuazione, ad un’altra fonte. Un esempio è dato dall’art. 75 che disciplina l’istituto del referendum, dove all’ultimo comma tale articolo prevede “la legge determina le modalità di attuazione del referendum”. Analogamente la Costituzione prevede che le norme per la costituzione ed il funzionamento della della Corte costituzionale siano previste con la legge ordinaria (art. 136 2° comma). - Le norme di principio invece pongono regole molto generali che possono applicarsi ad un numero indefinito di casi. La funzione principale delle norme di principio è quella di “guidare” il 12 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti legislatore ad applicare il principio, per trasformare regole molto generali in una o più fattispecie normative astratte. Sono norme di principio gli artt. 13, 14 e 24. Le norme di principio svolgono quindi essenzialmente una funzione invalidante nei confronti di una legge che contenesse disposizioni contrarie al principio. - Le norme programmatiche, infine, sono norme ancora più generali delle norme di principio. Mentre il principio individua ed enuclea un valore già esistente, il programma prevede un fine, peraltro molto generale, da raggiungere. Ad esempio il 1° comma dell’art. 4, oppure l’art. 3 2° comma. Queste norme hanno in primo luogo un efficacia invalidante, poiché possono costituire un parametro per un giudizio di legittimità costituzionale una legge quando questa contenta previsioni che siano evidentemente contrarie contro il programma enunciato. Le norme programmatiche svolgono inoltre anche una funzione che potrebbe essere definita come di “stimolo e moderazione politica”, poiché servono a collocare il dibattito tra maggioranza e opposizione all’interno di obiettivi già determinati da una maggioranza costituzionale. 3. Il procedimento di revisione costituzionale La rigidità della Costituzione trova il suo punto di riferimento formale nell’art. 138, che stabilisce il procedimento per modificare la Costituzione. Tale procedimento è principalmente finalizzato ad evitare che la riforma della Costituzione possa avvenire per volontà della sola maggioranza di Governo: posto che la Costituzione contiene principi condivisi da maggioranza e minoranza, e dunque costituisce garanzia per entrambi, non può essere modificata da una sola parte. L’art. 138 stabilisce quindi un procedimento aggravato (rispetto al procedimento ordinario per l’approvazione delle leggi) per modificare la Costituzione, con la previsione di tempi più lunghi, maggioranze più elevate, eventuale intervento diretto del popolo. La norma infatti recita: “ Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.” Per l’approvazione delle leggi di revisione occorrono dunque: a) due deliberazioni ad intervallo non minore di 3 mesi da parte di ciascuna Camera. L’intervallo di almeno tre mesi tra una deliberazione e l’altra costituisce il c.d. periodo di riflessione, periodo che allunga il procedimento, aggravandolo. Nella seconda deliberazione occorre almeno la maggioranza assoluta (la metà più uno dei componenti della Camera, mentre la maggioranza semplice con la quale si approvano le leggi ordinarie è costituita dalla metà più uno dei presenti). Se tale maggioranza non viene raggiunta, il procedimento decade. b) Se nella seconda votazione la legge viene approvata a maggioranza dei due terzi dei sui componenti il procedimento è concluso. La legge viene promulgata e pubblicata nelle forme ordinarie e quindi entra in vigore. c) Se viceversa nella seconda votazione si raggiunge la maggioranza assoluta ma non la maggioranza dei due terzi, la legge viene pubblicata perchè può essere richiesto, entro tre mesi, un referendum da parte di un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La pubblicazione delle legge costituisce una pubblicazione atipica, poiché mentre ordinariamente l’istituto della pubblicazione segue la fase della promulgazione da parte del Presidente della Repubblica e segna il momento della entrata in vigore della legge, in questo caso non vi è promulgazione, perchè la pubblicazione è effettuata solo al fine della proposizione del referendum. 13 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti Il referendum è proposto allo scopo di approvare la legge di revisione costituzionale, e infatti se la maggioranza dei voti validi non si esprime favorevolmente, la legge non viene promulgata. Il referendum approvativo costituisce la garanzia più importante della rigidità costituzionale. La possibilità di richiedere il referendum costituisce un potere che la Costituzione attribuisce alle minoranze (1/5 dei membri di una Camere, 500.000 elettori). Il voto popolare nel referendum costituzionale costituisce una evidente evocazione del potere costituente, è il popolo infatti che “approva” il progetto di riforma della Costituzione attraverso il suo voto diretto, espresso con lo strumento referendario. Non si darà luogo al referendum nel caso in cui la legge sia stata approvata nella seconda votazione a maggioranza dei due terzi. 4. Limiti logici della revisione costituzionale L’art. 138 garantisce la rigidità della Costituzione. Ma cosa della Costituzione può essere modificato attraverso il procedimento di revisione costituzionale? Il punto di partenza del ragionamento è dato dalla natura del procedimento di cui all’art. 138 della Costituzione: il procedimento di revisione è un procedimento costituito e non invece costituente. Non è un procedimento costituente perchè presuppone l’esistenza della Costituzione. Se tuttavia il potere di revisione della Costituzione è un potere costituito, attraverso l’esercizio di questo potere si può modificare la Costituzione, ma non sostituirla integralmente con una nuova costituzione, poiché per avere una nuova Costituzione occorrerebbe esercitare il potere costituente. All’esito del processo di revisione dovrà dunque ancora esistere la precedente Costituzione, sia pure modificata attraverso la legge di revisione. Il problema si sposta allora nel determinare quando è che la modifica della Costituzione porta ad una “nuova” Costituzione, e quando invece la modifica della Costituzione produce un cambiamento ma all’interno della stessa costituzione. In altre parole quale è il contenuto essenziale di una Costituzione, tanto che modificato quello la Costituzione è considerabile come nuova, e quale è invece quella, o quelle parti della Costituzione, la cui modifica non determina un nuova Costituzione. 5. Contenuto essenziale della Costituzione ovvero i limiti impliciti alla revisione Si può fare una distinzione per distinguere i principi fondamentali della Costituzione dalla attuazione di questi principi. I primi costituiscono quella parte della Costituzione che non è suscettibile di revisione, in quanto contenuto essenziale e caratterizzante della Costituzione stessa, mentre i secondi non ne costituiscono il contenuto essenziale e quindi possono essere oggetto di revisione. Anche la prima parte della Costituzione, riferita ai diritti fondamentali può essere oggetto di revisione, purché vengano salvaguardati i principi fondamentali ivi espressi. Da decisioni costituzionali deriva la conferma che il limite alla revisione della Costituzione, o altrimenti detto il contenuto essenziale non modificabile della Costituzione, non lo si trova in parti della Costituzione che non sarebbero mai rivedibili a differenza di altre, o in specifiche norme costituzionali che non sarebbero mai toccabili dalla revisione, ma al contrario nei principi fondamentali che la Costituzione esprime. Dalla esistenza di principi fondamentali non modificabili attraverso il procedimento di revisione consegue che, se un legge di revisione della Costituzione modificasse tale principi, essa sarebbe a sua volta incostituzionale, e quindi soggetta al giudizio di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale. Un problema specifico riguarda poi la questione se, attraverso una legge di revisione, approvata con il procedimento di cui all’art.138, possa modificarsi l’art. 138 stesso. Questo procedimento è stato dai più ritenuto legittimo in considerazione del fatto che la rigidità della Costituzione sarebbe comunque rispettato. 14 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti 6. L’art. 139 della Costituzione tra limite esplicito e limite implicito L’ultimo articolo della Costituzione, il 139, indica poi un ulteriore limite alla revisione della Costituzione, che è definito normalmente come un limite esplicito. Secondo l’art. 139 della Costituzione, infatti, “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” e la ragione di questa limitazione espressa è evidente: la forma di Stato repubblicana è contrapposta alla forma di Stato monarchica, in conseguenza dell’esito del referendum del 1946, che aveva scelto la Repubblica invece della monarchia. La Repubblica, come forma di Stato, si basa infatti a sua volta su una sere di principi che non possono essere modificati in quanto ad essa connaturati (es. principio democratico rappresentativo, diritto ad associarsi in partiti, diritti di espressione del pensiero..). L’eliminazione di questi principi costituirebbero alla fine una modifica della forma repubblicana, cosicché può correttamente sostenersi che l’art. 139 della Costituzione contiene anche dei limiti impliciti alla revisione, limiti che si sostanziano nella non modificabilità di quegli istituti che sono connaturati ad una forma di Stato di tipo democratico rappresentativo. 7. Le altre leggi costituzionali La Costituzione non stabilisce che soltanto le leggi di revisione siano approvate con il procedimento di cui all’art. 138, ma che con quel procedimento siano approvate anche le “altre leggi costituzionali”. L’art. 138 differenzia dunque, concettualmente, le leggi di revisione dalle leggi costituzionali che di revisione non sono, fermo restando che per entrambe le categorie di leggi il procedimento previsto per la loro approvazione è quello aggravato, disciplinato dallo stesso art. 138. Quale è dunque la differenza tra le leggi che modificano la Costituzione e le altre leggi costituzionali? Le leggi di revisione sono quelle leggi che modificano la Costituzione, mentre le altre leggi costituzionali non modificano la Costituzione, ma in qualche misura la completano, sia pure, si potrebbe dire “dal di fuori”, senza cioè entrare a far parte del testo della Costituzione formale. Vi sono molti casi infatti nei quali la Costituzione prevede che una determinata materia sia disciplinata attraverso un legge costituzionale (riserve costituzionale). Ad esempio l’art. 137 della Costituzione, a proposito della Corte costituzionale, stabilisce che sia una legge costituzionale a stabilire le condizioni, le forme, i termini di proponibilità ed i giudici di legittimità costituzionale e le garanzie di indipendenza di giudici della Corte. Si tratta di una legge che integra la Costituzione, poiché senza di essa la Corte costituzionale non potrebbe operare. Vi sono in verità anche dei casi nei quali, pur in presenza di una riserva costituzionale che rinvia la materia ad una legge costituzionale, l’effetto finale di quella legge non è quella di integrare la Costituzione, ma sostanzialmente di modificarla, come per esempio l’art. 132 1° comma della Costituzione. 8. La adattabilità delle Costituzioni rigide: le consuetudini costituzionali, le convenzioni della costituzione e la prassi. La dottrina ha sempre distinto tra consuetudini costituzionali e convenzioni costituzionali. La consuetudine costituzionale è caratterizzata da comportamenti, ritenuti nel tempo, posti in essere da organi costituzionali, che quegli stessi organi costituzionali consideravano come vincolanti. La convenzione della Costituzione, invece, può essere definita come un comportamento ripetuto nel tempo, posto in essere da organi costituzionali, applicativo di norme giuridiche, che diviene vincolante sin tanto che permangono i presupposti di fatti che hanno dato luogo a quei comportamenti. La distinzione sta in questo: la consuetudine costituzionale sorge dal comportamento di un 15 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti organo costituzionale, mentre la convenzione nascerebbe comunque da un accordo, sia pure implicito, tra più organi costituzionali. Inoltre la consuetudine creerebbe una norma da un mero comportamento, mentre nel caso della convenzione il comportamento, creativo della norma, conseguirebbe dalla applicazione di una norma costituzionale già esistente. Dalle convenzioni della Costituzione si suole distinguere la c.d. prassi. La differenza è anche in questo caso assai sottile: mentre le convenzioni della Costituzione costituiscono comportamenti ripetuti nel tempo che creano norme, la prassi costituisce l’applicazione concreta e ripetuta nel tempo di una norma costituzionale. La prassi cioè, a differenza delle consuetudini e delle convenzioni, non crea norme, perchè si sostanzia in un comportamento interpretativo di norme esistenti. Le convenzioni della Costituzione, ed anche le prassi, svolgono la importante funzione di rendere una Costituzione rigida adattabile al modificarsi della Costituzione materiale. 16 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti CAPITOLO IV VERSO LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE 1. La Costituzione del 1948: un bilancio storico La Costituzione aveva il fine principale di garantire la democrazia e la coesione sociale in un momento storico nel quale questi valori fondamentali erano tutt’altro che sicuri e garantiti. I modello che si cercava di raggiungere era infatti quello di una democrazia non maggioritaria ma pluralista, all’interno della quale il potere di decidere fosse sempre bilanciato da un controbattere di controllo e di garanzia. Può certamente dirsi che la Costituzione italiana ha raggiunto gli obbiettivi che ad essa erano stati assegnati, e principalmente quella di traghettare il paese verso una democrazia compiuta, da una fase nella quale questo passaggio era tutt’altro che scontato. Ha anche raggiunto l’obbiettivo di garantire un sistema di libertà che è ormai penetrato nel paese. Gli anni anni migliori della Costituzione sono stati quelli che vanno dalla metà degli anni ’50 sino agli anni ’70, quando essa è stata capace di assorbire possibili derive antidemocratiche, rafforzare i diritti di libertà, garantire una crescita economica estendendo allo stesso tempo le garanzie dei diritti alle classi più deboli. Il funzionamento della forma di governo ha mostrato alcune crepe a partire dalla metà degli anni ’70. Le debolezze dei Governi e le continue crisi non garantivano una continuità dell’indirizzo politico; la mancanza di stabilità e forza dei Governi produceva l’utilizzazione di strumenti normativi eccezionali, quali il decreto legge, che divenivano mezzi ordinari di normazione; l’ambiguità del modello del decentramento regionale, con le regioni che erano certamente qualcosa più di enti di decentramento amministrativo, ma qualcosa di molto meno di enti in grado di sviluppare una propria politica, sembrava necessitare di una rivisitazione. A cavallo tra il 1999 e il 2001 andò invece in porto la riforma del sistema regionale che prevedeva un notevole - finanche eccessivo - rafforzamento delle competenze delle Regioni. La riforma ha prodotto un elevatissimo livello di contenzioso tra lo Stato e le Regioni sul riparto delle competenze. 2. Ragioni a favore e a sfavore del cambiamento In primo luogo con la modifica costituzionale si abbandona la propria storia, un lungo processo di identificazione di un corpo sociale nel quale la Costituzione ha recitato un ruolo importante. In secondo luogo, quando si cambia una Costituzione, tutte le implicazioni del cambiamento non sono affatto evidenti nel momento in cui il processo di cambiamento avviene. Si tratta di un processo che prende molto tempo e i cui esiti non sono prevedibili con il semplice cambiamento della norma. Infine il processo di cambiamento di una Costituzione è estremamente delicato, poiché gli istituti sono legati tra loro, cosicché, quando si modifica una parte, bisogna avere contezza degli effetti che questi cambiamenti generano sulle altre. Detto questo, tuttavia, non è neppure vero che la Costituzione non debba essere mai modificata o “aggiornata”. Vi sono momenti storici nei quali le crisi sociali, le crisi economiche, le crisi dei partiti, producano inevitabilmente una crisi delle istituzioni rappresentative e per conseguenza delle norme costituzionali che le fondano. Quando questo accade il rischio di un distacco tra la Costituzione e la società è molto elevato, e quello che era stata la vera forza della Costituzione - la capacità di tenere uniti in presenza di valori condivisi - rischia di venire meno. La modifica della Costituzione risponde allora ad una esigenza sociale di cambiamento che consente di ritrovare la coesione e i riferimenti perduti. 17 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti Nel caso italiano, per la verità, non è troppo difficile individuare le carenze storiche del sistema. In linea molto generale e semplificative, può dirsi che gli strumenti per rafforzare, stabilizzare, e rendere coerente l’indirizzo politico del sistema, non sono particolarmente considerati nel testo costituzionale. In primo luogo è ben noto che già nella Costituzione del 1948 il Governo nasceva debole. La Costituzione non aveva posto né meccanismi di stabilizzazione del Governo, né di rafforzamento del Presidente del Consiglio, né di rinforzo del Governo in Parlamento, tutti principi per la verità compatibili con la forma di governo parlamentare. In secondo luogo, anche il modello del bicameralismo paritario non conosce guai nei sistemi costituzionali. Infatti dove vi è un sistema bicamerale si tende a differenziare la seconda Camera per composizione e competenze, mentre nel nostro ordinamento la seconda Camera, svolge principalmente la funzione di Camera di riflessione. In terzo luogo anche il sistema regionale era nato molto incerto nella Costituzione. Dopo molti anni di inalazione le regioni furono rese operative nel 1970 nel quadro di un sistema di competenze assai confuso; solo tra il ’99 e il 2001 sono state oggetto di una riforma costituzionale che voleva aumentarne il ruolo e le competenze. 3. Le linee fondo della riforma approvata dal Senato L’obbiettivo della riforma è quello di una semplificazione dei processi decisionali e di qualche rafforzante del potere decisionale del Governo. Il progetto si basa su quattro direttrici di fondo: a) il rafforzamento di alcuni poteri del Governo in Parlamento, al fine di favorire la stabilità dell’azione di Governo; b) una semplificazione del modello delle autonomie, ed anche nella sostanza, un suo ridimensionamento; c) il passaggio da un sistema bicamerale perfetto ad un sistema bicamerale differenziato, all’interno del quale il Senato svolge funzioni diverse rispetto alla Camera e quindi ha anche composizione diversa; d) il rafforzamento, in funzione di bilanciamento, di alcuni organi di garanzia per compensare i maggiori poteri del Governo e la perdita della seconda Camera come Camera di riflessione. 18 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti PARTE II FONTI DEL DIRITTO CAPITOLO I NORME GIURIDICHE E FONTI DEL DIRITTO 1. Ordinamento ed ordinamenti giuridici La Costituzione pone norme che disciplinano i poteri dello Stato e i diritti fondamentali dei cittadini, costituendo le basi dell'ordinamento giuridico dello Stato. È ora necessario precisare il concetto di ordinamento giuridico, di Stato e di norma giuridica. Un ordinamento giuridico è costituito da un gruppo sociale organizzato, ordinato secondo determinate regole. Non ogni gruppo sociale costituisce tuttavia un ordinamento, poiché un ordinamento giuridico è dotato dei seguenti necessari requisiti: a) la stabilità del gruppo sociale, intesa come dimensione temporale durevole di quel gruppo; b) l'organizzazione, intesa come distribuzione di funzioni, competenze, diritti e doveri, in sostanza esistenza di regole che disciplinano la vita del gruppo sociale e che sono considerate come vincolanti. La stabilità nel tempo serve a distinguere l'esistenza di un gruppo sociale da altri elementi episodici di aggregazione umana. L’elemento della stabilità, infatti, può realizzarsi solo quando in un gruppo sociale si radichino interessi generali che, in quanto appartenenti all'intero gruppo, siano durevoli nel tempo. Il radicamento di interessi generali produce dunque la stabilità, che a sua volta costituisce il presupposto per la produzione di regole. Quando infatti un gruppo sociale diviene stabile, occorrono strumenti organizzativi per proteggere giuridicamente gli interessi facenti capo al gruppo. Le regole stabiliscono gli obbiettivi, le procedure per il soddisfacimento degli interessi, i compiti degli associati, ecc., determinando quindi una organizzazione giuridica. In definitiva ogni gruppo sociale stabile può dettare regole che sono giuridicamente vincolanti per coloro i quali fanno parte di quel gruppo sociale, e dunque può costituire un ordinamento giuridico. Gli ordinamenti giuridici, allora, possono essere tanti quanti sono i gruppi organizzati che presentano i requisiti sopra indicati: secondo questa concezione, lo Stato costituisce l'ordinamento giuridico di livello più alto, più stabile, e le cui regole sono dotate di maggiore forza. La differenza tra ordinamento statale e altri ordinamenti è dunque prevalentemente qualitativa ma non ontologica. Lo Stato è infatti legittimato a produrre regole in quanto ordinamento giuridico, nato come gruppo sociale stabile, e non in virtù di una sovranità originaria che lo differenzia dagli altri ordinamenti giuridici. La ricostruzione teorica qui riportata, denominata "teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici", si basa sul principio della socialità del diritto, e cioè sull'idea che l'esistenza del diritto come sistema di regole è connaturale alla stessa esistenza di una società. 2. Le norme giuridiche La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici trova peraltro una ulteriore conferma allorquando si vada ad analizzare i caratteri delle norme giuridiche. Dalla analisi delle caratteristiche delle norme, emerge infatti che esse non necessariamente debbono essere poste dallo Stato, ma possono essere poste in essere anche da altri ordinamenti. 19 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti La norma giuridica costituisce la tipizzazione astratta di un comportamento concreto, ed è caratterizzata dalla esteriorità la generalità e l'astrattezza, la coercibilità e la previsione di una sanzione. Se analizziamo singolarmente questi caratteri possiamo facilmente vedere come essi sono tipici non soltanto delle regole poste dallo Stato, ma anche di regole poste da ordinamenti. a) L'esteriorità Esteriorità significa che la norma è prodotta da un soggetto esterno a colui il quale deve rispettarla, e da questo elemento deriva la distinzione tra regole giuridiche e regole morali. Le regole morali, infatti, si distinguono da quelle giuridiche per essere autonome (cioè non imposte da altri), nonché per la loro assolutezza ed universalità, mentre, come si è detto, la regola giuridica è esterna al soggetto e contrapposta alla sua volontà. Peri il diritto, infatti, ciò che conta è la conformità dell'azione all'astratta previsione normativa, mentre sono irrilevanti le ragioni per le quali il soggetto intende conformarsi alla previsione in questione. b) Generalità ed astrattezza Normalmente per generalità si intende la capacita della norma di regolare fatti o comportamenti senza riferimento a situazioni o soggetti determinati, mentre per astrattezza si intende la ripetibilità della regola per un tempo indeterminato. Questi caratteri svolgono una funzione di garanzia nei confronti dei destinatari della norma. Il pensiero di Rousseau tende a collegare la generalità alla tutela dell’uguaglianza, mentre per Montesquieu la generalità e la astrattezza della norma servono a garantire la libertà del singolo e la limitazione del potere. Se la norma è generale ed astratta, infatti, ciò limita la possibilità di “ingiustizie" e discriminazioni da parte dell'autorità nei confronti di singoli cittadini. Se la norma non è indirizzata ad una persona singola, ma ad una generalità di persone ed inoltre è astrattamente ripetibile, ciascuno è garantito di un trattamento eguale. Generalità ed astrattezza costituiscono tuttora una categoria fondamentale per distinguere ciò che è normativo da ciò che non è. Mentre infatti la attività del disporre comporta il prevedere fattispecie generali ed astratte, l’attività del provvedere implica attuare quella fattispecie generali ed astratte. La sentenza del giudice, nella misura in cui applica ad una fattispecie concreta la fattispecie astratta prevista dalla norma, compie una operazione di sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta. c) Coercibilità e sanzione Secondo la teoria tradizionale le norme giuridiche sono poi dotate del carattere della coattività, nel senso che sono suscettibili di attuazione forzata e sono garantite nella ipotesi di trasgressione, da una sanzione. Il fatto che non vi sia una sanzione non implica tuttavia che questa tipologia di norme non sia cogente e che non debba essere rispettata. Il mancato rispetto della norma, anziché l’irrogazione di una sanzione, provocherà tuttavia l’effetto negativo implicito nella norma stessa. 3. Dalla disposizione alla norma: l'attività di interpretazione Si è sino ad ora parlato, in senso generale di norme, ma la definizione giuridica corretta dell'enunciato che presenta le caratteristiche descritti nel paragrafo precedente è quella di disposizione. La disposizione, infatti, contiene l’enunciato astratto, mentre la norma è costituita dalla disposizione nel momento in cui ad essa, attraverso l’attività di interpretazione, viene attribuito un preciso significato in funzione della sua applicazione ed una fattispecie concreta. L'interpretazione può essere dunque definita come quella attività intellettuale attraverso la quale, partendo dagli enunciati contenuti in una disposizione, si giunge poi alla determinazione del loro significato concreto, cioè alla norma. Nello svolgimento di questa attività l’interprete “aggiunge” sempre qualcosa alla disposizione sia per renderla coerente con altre disposizioni, sia per adeguarla alla fattispecie concreta, posto 20 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti che quasi sempre quest’ultima non coincide con la fattispecie astratta delineata nella disposizione. Poiché questa attività viene principalmente svolta da organi che non hanno prodotto le norme (la interpretazione è normalmente effettuata dai giudici), e come si diceva essa è esperita a valle del momento produttivo della disposizione, la ampiezza concessa dall'ordinamento alla interpretazione produce riflessi anche nei rapporti tra i poteri, e quindi anche sull'assetto complessivo della forma di Governo. In genere, infatti, può rilevarsi che tanto più lo Stato è chiuso ed autoritario, tanto meno l’ordinamento concede la possibilità di interpretare in maniera evolutiva le disposizioni prodotte dallo Stato medesimo. All’opposto si affermò nei primi del novecento in Germania, la scuola del c.d. "diritto libero" i cui fautori auspicavano l'attribuzione ai giudici di vari poteri creativi sino al punto di variare o correggere le norme secondo le esigenze del caso. Con questi esempi si mostra come attraverso il tema dell'interpretazione l'ordinamento ricerchi un difficile equilibrio tra la funzioni della produzione normativa e la funzione applicativa della norma. 3.1 interpretazione giudiziale e interpretazione autentica Chi sono i soggetti deputati all’interpretazione? Nel nostro ordinamento l’interpretazione è prevalentemente giudiziale, cioè esperita dai giudici durante l’applicazione di una norma ad una fattispecie concreta, o autentica, cioè esperita dallo stesso organo che ha approvato la disposizione normativa. Vi è poi la c.d. interpretazione dottrinale, cioè l'interpretazione effettuata dagli studiosi della materia, che tuttavia ha un rilievo giuridico-pratico nella misura in cui sia recepita dalla giurisprudenza, o nella misura in cui sia in grado di sollecitare la giurisprudenza ad assumere determinate interpretazioni. Prima di parlare della interpretazione giudiziale occorre chiarire in quale sistema di produzione del diritto il nostro ordinamento si collochi. I modelli storici di produzione del diritto, infatti, sono essenzialmente due: il sistema della formulazione giudiziaria, tipico degli ordinamenti anglosassoni, e il sistema a formulazione legislativa, tipico degli ordinamenti di derivazione romanistica come il nostro. Nel primo sistema gli interventi dello Stato nella produzione di norme sono alquanto limitati. Le "regole" provengono dalla soluzione giudiziale di casi concreti, poiché il giudice, nel risolvere una controversia, crea un "precedente". Progressivamente il numero dei precedenti aumenta tanto che si crea un sistema nel quale il diritto deriva principalmente dalla stratificazione delle decisioni dei giudici che risolvono casi. Nel secondo sistema invece il diritto non origina dalla soluzione del caso concreto, ma da manifestazioni di volontà attraverso le quali vengono delineate ex ante le c.d. fattispecie astratte, all'interno delle quali dovranno essere collocati i casi della vita (le fattispecie concrete). Spetterà dunque al giudice applicare la disposizione alla fattispecie concreta, attraverso una attività di interpretazione che è sempre necessaria per adattare la previsione normativa al caso concreto. Nello svolgere questa attività i giudici sono sempre liberi di interpretare la legge, non essendo vincolati ai precedenti, sia pure con il limite (non giuridico) del rispetto della giurisprudenza della Corte di Cassazione, e in particolare della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La interpretazione giudiziale è per sua stessa natura una interpretazione dinamica, perché collegata alla applicazione di una norma astratta ad uno e poi a molti casi della vita che non sono mai eguali a sé stessi. L’interpretazione autentica è invece l’interpretazione del legislatore. È il legislatore stesso che attribuisce alla norma, normalmente a posteriori e attraverso l'approvazione di un'altra norma, un determinato significato. Questo tipo di interpretazione tende a cristallizzare il significato della disposizione al momento della emanazione della norma di interpretazione autentica, poiché il giudice difficilmente potrà discostarsi da una norma che ne interpreta una precedente 21 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti 3.2 La volontà del legislatore: interpretazione analogica, interpretazione adeguatrice Le regole sulla interpretazione nel nostro ordinamento, sono dettate dagli artt. 12 - 14 delle Disposizioni sulla legge in generale" del codice civile, altrimenti dette “Preleggi”. L’art. 12, intitolato “l’interpretazione della legge”, recita al 1° comma: “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole seconda la connessone di esse, e dalla intenzione del legislatore”. La disposizione individua dunque in primo momento nell’attività interpretativa: la valutazione della intenzione del legislatore e la valutazione dello scopo delle disposizioni (la c.d. ratio legis). Si tratta della interpretazione c.d. soggettiva, perchè si fa riferimento alla volontà del legislatore per interpretare le norme che egli stesso ha posto (la intenzione del legislatore); si tratta della interpretazione c.d. oggettiva perché si fa riferimento al significato proprio delle parole, indipendentemente, in questo caso, dalla volontà del legislatore (non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse). Nel primo caso (interpretazione soggettiva), si guarda ad un legislatore concreto ed anche storicamente identificato (quel legislatore che ha prodotto la norma in quel determinato momento storico). Costituiscono infatti strumenti per la interpretazione soggettiva di un atto normativo i lavori preparatori, il dibattito parlamentare, e in generale tutto quanto è idoneo a ricostruire la volontà del soggetto che ha approvato il testo normativo in quel determinato momento. Nel secondo caso (interpretazione oggettiva), si fa invece riferimento ad una sorta di legislatore astratto, come sarebbe colui il quale pone le norme nel momento in cui queste debbono essere interpretate. Queste due attività, interpretazione soggettiva ed interpretazione oggettiva, debbono essere svolte congiuntamente dall'interprete. Il 2° comma dell'art. 12 individua poi due ulteriori modi di interpretazione che hanno lo scopo di colmare le c.d. lacune normative, quando cioè l'ordinamento non preveda una regola espressa per una determinata fattispecie. L'art. 12 recita infatti: "se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento dello Stato". Si tratta nel primo caso della c.d. analogia legis e nel secondo caso della c.d. analogia iuris. Quando in relazione ad una fattispecie concreta non vi è una norma che disciplina espressamente e direttamente quella determinata fattispecie, deve farsi ricorso alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (analogia legis). Quando ancora non sia possibile applicare alla fattispecie norme che regolano casi analoghi, si deve fare riferimento ai principi generali dell'ordinamento dello Stato (analogia iuris). Il riferimento ai principi generali dell’ordinamento, se consente con difficoltà la copertura di vuoti normativi, è tuttavia rilevante per interpretare le norme legislative esistenti secondo i principi costituzionali, attraverso una ulteriore forma di interpretazione, avvalorata dalla Corte costituzionale, che viene definita interpretazione adeguatrice. Questo tipo di interpretazione si basa sull’assunto che legge e Costituzione non devono essere interpretate separatamente, ma al contrario che la legge deve essere interpretata a luce della Costituzione. Tra due interpretazioni di una norma legislativa, una conforme ai principi costituzionali e l'altra non conforme, il giudice deve scegliere la prima, e non invece sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge davanti alla Corte costituzionale perché non conforme a Costituzione. 3.3 Leggi penali, speciali ed eccezionali 22 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti Le modalità di interpretazione delle norme penali (cioè le norme che prevedono reati e le pene conseguenti), sono determinate attraverso previsioni poste dalle preleggi, dalla Costituzione, e dal codice penale. L'art. 14 delle "Disposizioni sulla legge in generale" recita infatti: "Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati'. La norma introduce il c.d. principio di stretta interpretazione per le leggi penali, che comporta che in questa materia sia fatto divieto di interpretazione analogica. L'art. 25 della Costituzione (che ritroveremo trattando il problema della irretroattività della legge penale), d'altra parte, stabilisce il principio della riserva di legge in materia penale: "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". Solo la legge è abilitata a determinare fattispecie di reato, e non invece fonti aventi grado inferiore alla legge. Infine l'art. 1 del codice penale prevede che "nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto dalla legge come reato né con pene che non siano da essa stabilite’". Anche questa norma esprime il principio di stretta legalità al quale è sottoposto il diritto penale, poiché il fatto deve essere espressamente previsto dalla legge come reato. Il principio di stretta interpretazione in materia penale deriva dal combinato disposto di queste disposizioni. Poiché nella materia penale vige la regola che la legge deve espressamente indicare la fattispecie che costituisce il reato, nonché la determinazione della pena, è implicito che in questa materia non possa invece applicarsi il procedimento analogico. La interpretazione analogica infatti postula proprio l'assenza di una disposizione che regola una fattispecie, e la possibilità di applicare, per colmare il vuoto, una disposizione che regola un caso simile. Il principio della riserva di legge in materia penale ed il correlato principio c.d. di stretta interpretazione, costituiscono strumenti di garanzia in una materia particolarmente delicata, perché incidente sulla libertà del cittadino. Queste previsioni sono finalizzate da una parte a garantire che sia il Parlamento a stabilire reati e pene, e dall'altra parte a limitare il potere discrezionale del giudice di estendere - come avviene con l'analogia - una previsione normativa ad altre fattispecie. Se non vi è una espressa previsione normativa che regola una determinata condotta, ciò significa che quella condotta è lecita e non può applicarsi ad essa una norma penale che si riferisce ad una condotta simile. Oltre che per le leggi penali la interpretazione analogica è esclusa, dall'art. 14 delle "disposizioni sulla legge in generale", anche per quelle leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi. Da questa norma si sono tratte implicitamente due categorie di leggi, per le quali è escluso il metodo analogico: le leggi speciali, che farebbero eccezioni a regole generali, e le leggi eccezionali che farebbero eccezione ad altre leggi. Si può dire però che per legge speciale o eccezionale - dando ad esse il medesimo significato - si intende una legge che deroga, in modo significativo, a leggi i cui principi sono generalmente considerati come generali (ad esempio, la legge che ha sospeso in seguito al terremoto dell'Abruzzo il pagamento delle tasse per i cittadini terremotati, costituisce un caso classico di legge speciale o eccezionale, poiché essa deroga alla norma che impone a tutti i cittadini di pagare le tasse). 4. Fonti del diritto: distinzioni preliminari Si definiscono quindi fonti normative tutti quegli atti o fatti mediante i quali vengono poste norme giuridiche. Per esemplificare, una legge approvata dal Parlamento contiene norme giuridiche, ma è un atto diverso e distinto dalle norme che contiene. La legge è a sua volta una fonte del diritto. Del pari un regolamento del Governo contiene norme giuridiche, e, pur avendo una forma ed una forza diversa rispetto alla legge, è anche esso una fonte del diritto. Le fonti del diritto si distinguono, preliminarmente, in fonti atto e fonti fatto. Le fonti atto sono quelle fonti che provengono da un atto, cioè da una manifestazione di volontà 23 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti espressa, come la legge che esprime la volontà del Parlamento. Le fonti fatto provengono da un fatto, cioè da un comportamento materiale, e sono definite consuetudini. La consuetudine è tradizionalmente caratterizzata da un comportamento ripetuto nel tempo (elemento oggettivo), al quale si aggiunge la convinzione della sua forza vincolante (elemento soggettivo, altrimenti detta opinio iuris). Le “Disposizioni preliminari al codice civile”, delineando la gerarchia delle fonti, pongono infatti la consuetudine all'ultimo posto nel sistema delle fonti. Inoltre, tracce della consuetudine si trovano nel codice civile, dove è previsto che in materia contrattuale gli usi possono anche integrare il contenuto del contratto. Le fonti poi si distinguono ulteriormente in fonti di produzione, fonti sulla produzione, e fonti di cognizione. Sono fonti di produzione tutte le fonti che contengono diritto oggettivo, cioè norme giuridiche destinate ad essere applicate nei confronti dei terzi. Esse, come si dirà, sono assai numerose e sono certamente cresciute di numero nello Stato contemporaneo pluralista. Sono invece fonti sulla produzione quelle fonti che contengono norme per produrre altre norme. Esse dunque non costituiscono diritto oggettivo in quanto non sono destinate a regolare o disciplinare il comportamento di terzi, ma servono solamente a porre le regole per produrre fonti di produzione. Anche le fonti sulla produzione sono numerose. Molte norme della Costituzione costituiscono fonti sulla produzione: si pensi agli artt. 70 e ss. che disciplinano il procedimento legislativo, o altre norme costituzionali che disciplinano il procedimento per produrre altre fonti, quali gli artt. 76 (decreto legislativo), 77 (decreto legge), ecc. Peraltro le fonti sulla produzione non sono solamente fonti costituzionali, ma possono essere sia fonti legislative ordinarie (ad esempio la legge n. 400 del 1988 e successive modifiche che prevede il procedimento per la approvazione dei regolamenti governativi), sia fonti diverse da quelle legislative (molte norme dei regolamenti parlamentari sono fonti sulla produzione perché prevedono modalità per approvare leggi o altri atti normativi). Le fonti di cognizione costituiscono gli strumenti nei quali reperire le fonti del diritto: la Gazzetta ufficiale dello Stato Italiano, dove sono pubblicati tutti gli atti normativi dello Stato, piuttosto che i Bollettini Ufficiali della Regione, dove sono pubblicati gli atti normativi regionali costituiscono fonti di cognizione. Per quanto ovvio le fonti di cognizione in sé non contengono norme, ma costituiscono lo strumento operativo per individuare e conoscere le fonti. 5. Il pluralismo delle fonti nello Stato contemporaneo Tuttavia, onde non confondere concetti diversi, è opportuno distinguere preliminarmente tra "quantità" della produzione normativa e "quantità" delle fonti. Quando si parla di quantità di norme il problema è capire quando e perché un determinato comportamento deve essere regolato da norme giuridiche e non lasciato nel giuridicamente indifferente o nella libera de- terminazione dell'autonomia privata. Quando si parla di quantità di fonti si fa invece riferimento ad un momento successivo al primo, e cioè alla ragione per la quale le norme debbono essere collocate in fonti diverse e perché queste fonti sono molte. In definitiva tanto più lo Stato si caratterizza come Stato sociale, tanto maggiormente ciò che fa parte dell'indifferente giuridico o dell'autonomia privata tende ad essere normato. Inoltre, tanto più l'organizzazione sociale ed economica di uno Stato è complessa ed articolata, tanto maggiori sarà la quantità delle norme che tendono a perequare, disciplinare situazioni diverse, regolare i mercati. Da questo fenomeno della iperproduzione normativa, caratteristica della gran parte degli Stati contemporanei, deve poi distinguersi, come si diceva, il fenomeno ulteriore del pluralismo delle fonti. Non solo le norme sono tante, ma sono moltissime anche le fonti, sia di produzione che sulla produzione. 24 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti La ragione, anche in questo caso, è da rinvenirsi nella forma di Stato e nelle caratteristiche delle Costituzioni contemporanee. La numerosità delle fonti è infatti conseguenza del pluralismo sociale ed istituzionale, caratteristico delle Costituzioni contemporanee, all'interno delle quali la esistenza di tonti diverse serve sia ad equilibrare e bilanciare l’organizzazione della forma di Governo, sia a tutelare specifici interessi. Il Parlamento, ad esempio, approva leggi ordinarie, leggi di revisione della Costituzione, ma anche leggi costituzionali che sono previste dalla stessa Costituzione; approva inoltre regolamenti parlamentari che garantiscono la sua autonomia. II Governo a sua volta produce moltissime fonti, come altre fonti sono prodotte dal sistema di decentramento autonomistico (Regioni, Provincie, Comuni). Le ed. Autorità indipendenti o regolatrici dei mercati producono fonti che si applicano nei mercati regolati, e così via. Nel nostro ordinamento non esiste una identificazione completa delle fonti. Alcune sono previste in Costituzione, altre in leggi ordinarie, ma non vi i è un testo dove si trovi una elencazione completa delle fonti. Esse pertanto devono essere ricavate interpretativamente dai vari testi normativi che le contengono. Una indicazione delle fonti del diritto - con mero valore storico - la si rintraccia infatti solamente nell'art. 1 delle "Disposizioni sulla legge in generale” che contiene alcune norme sulle fonti del diritto e sulla applicazione della legge. L’art. 1 recita che sono fonti del diritto le leggi, i regolamenti, le norme corporative, gli usi, ma è evidente come questa norma abbia oggi poca utilità. Essendo stata approvata prima del testo costituzionale non è indicata tra le fonti la Costituzione né le altre fonti di livello costituzionale e neppure gli atti con forza di legge (decreti legge e decreti legislativi). 6. come l’ordinamento ricompone ad unità un sistema pluralistico di fonti: il principio di gerarchia Se un sistema di fonti articolato è garanzia del pluralismo sociale ed istituzionale d'altra parte un sistema troppo articolato può incidere sulla certezza del diritto nella misura in cui l'ordinamento non sia dotato di regole che servano ad evitare conflitti tra norme. In sostanza un ordinamento giuridico non può contenere al suo interno norme tra loro contraddittorie senza prevedere come risolvere tali contraddittorietà, pena la stessa stabilità dell'ordina mento, la violazione del principio di certezza del diritto, la violazione del principio dell'affidamento del cittadino.Il primo principio per risolvere contrasti tra fonti diverse è un principio immanente alla struttura stessa degli ordinamenti giuridici (è dunque un principio logico prima che derivante da specifiche norme). Il principio è che nessuna fonte può istituire altre fonti aventi forza superiore o pari alla fonte di origine, intendendosi poi per forza la capacità di modificare altre fonti e di resistere alla modifica. Ogni fonte può infatti prevedere altre fonti - può essere cioè anche fonte sulla produzione oltre che di produzione - ma la fonte "seconda non può avere la forza di modificare la prima. Proseguendo, la fonte "seconda" può istituire altre fonti che però non avendo la forza di modificare la fonte che la ha istituita saranno "terze" e così via. Da questi principi, che come si diceva derivano da un ragionamento logico, si ricavano due conseguenze giuridiche, la prima delle quali è che la forza di una fonte deriva dalla sua forma. La forma di una fonte è a sua volta conseguenza del procedimento seguito per la sua approvazione: ad esempio la forza di una legge è conseguenza dell'approvazione di quell'atto da parte del Parlamento con il procedimento di cui agli artt. 70 e ss. della Costituzione, la forza di un decreto legge deriva dall’approvazione di quell'atto con le regole di cui all'art. 77 della Costituzione. La seconda conseguenza si sostanzia nella esistenza di un principio la c. d. di gerarchia delle fonti: le fonti sono collocate in una scala gerarchica al cui vertice si trova la Costituzione - fonte delle fonti - e quindi al di sopra della stessa scala, e poi al primo posto la legge e le fonti che hanno la forza della legge, al secondo posto le fonti che possono essere istituite dalla legge, cioè i regolamenti, al terzo posto le fonti istituite dai regolamenti, ed infine al quarto grado le fonti fatto. 25 Scaricato da Alberto Lorenzin ([email protected]) lOMoARcPSD|4121920 https://uni-mi.academia.edu/GregorioFalletti Dal principio di gerarchia consegue ancora che la fonte di grado inferiore, non potendo modificare quella superiore, deve porre norme che non siano in contrasto con le prime. Se infatti la fonte inferiore ponesse norme contrastanti con quella superiore essa sarebbe non validamente posta e quindi illegittima. Vedremo poi che se è la legge a porre norme contrastanti con le norme superiori, cioè con la Costituzione, esiste un giudizio particolare, detto di legittimità costituzionale, davanti ad un organo ad hoc quale la Corte costituzionale, finalizzato ad invalidare la legge illegittima. Se invece è una norma di secondo grado a porre norme contrastanti con la legge, i giudici della giurisdizione amministrativa (Tribunali amministrativi Regionali e Consiglio di Stato in grado di appello) sono legittimati a dichiarare la illegittimità della norma. La dichiarazione di illegittimità della norma, conseguenza della sua invalidità, comporta la perdita di efficacia della norma dichiarata invalida con effetto retroattivo (ex tunc). Anche questo effetto risponde ad una esigenza logica: poiché la norma non poteva essere posta essa era invalida nel momento in cui è entrata in vigore. La retroattività della dichiarazione di illegittimità ha quindi la funzione di eliminare gli effetti che la norma invalida ha prodotto dal momento della sua entrata in vigore sino al momento della dichiarazione di illegittimità. Il principio di gerarchia svolge la funzione di ricondurre ad unità, almeno da un punto di vista teorico-formale, l'ordinamento giuridico, orientandolo verso la Costituzione, che costituisce la norma base, e che quindi, attraverso il meccanismo gerarchico gradualistico, condiziona a cascata tutto il sistema delle fonti. Il principio di gerarchia quindi costituisce anche una applicazione del principio di legalità e di costituzionalità, poiché esso conduce necessariamente al rispetto della legge e della Costituzione. 7. Il principio di competenza Accanto al criterio della gerarchia si afferma allora un altro criterio per ricomporre il sistema delle fonti in unità, il criterio della competenza, che risponde alla esigenza di garantire spazi normativi indipendenti a soggetti costituzionalmente autonomi. Il principio di competenza significa che allorquando la Costituzione attribuisce la normazione di una materia ad una determinata fonte, solo quella fonte è competente a disciplinare la materia. Perché sia applicabile il principio di competenza occorre dunque una norma che attribuisca una sfera di competenza ad un soggetto, il quale diviene quindi titolare di un ambito di competenza riservato, all'interno del quale può emanare quella fonte che la Costituzione ha previsto. Un caso chiaro di applicazione del principio di competenza lo ritroviamo nel sistema regionale. Se le Regioni sono enti dotati di autonomia politica e non solo amministrativa, se cioè nell'ambito delle loro competenze costituzionalmente attribuite esse possono porre in essere fonti primarie, le fonti da esse prodotte non potrebbero essere sottoposte al principio gerarchico poiché questo significherebbe negarne l’autonomia. Un altro esempio "classico" dell'applicazione del principio di competenza riguarda la fonte regolamento parlamentare. Il principio di competenza, a differenza del principio gerarchico che agisce verticalmente, agisce orizzontalmente, poiché il rapporto tra la fonte e che disciplina la materia riservata e le altre fonti si pone non in termini di forza ma in termini di reciproca esclusione. Ne consegue che se una fonte andasse a disciplinare una materia riservata ad altra fonte essa sarebbe invalida perché emanata in assenza di competenza. 8. Sintesi di alcune categ