Capitolo 1: L'Ordinamento Giuridico e il Diritto Pubblico PDF
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Università degli Studi del Sannio
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Il capitolo 1 introduce i concetti chiave di ordinamento giuridico e diritto pubblico. Discute le diverse teorie sull'ordinamento, le norme giuridiche e la loro interpretazione. Esplora la relazione tra Stato, costituzione e sovranità, nonché i limiti del potere statale. Questo testo è un'introduzione ai principi fondamentali del diritto pubblico.
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CAPITOLO 1: L’ORDINAMENTO GIURIDICO E IL DIRITTO PUBBLICO Ogni organizzazione sociale costituisce un ordinamento giuridico. Per essere considerata tale, un’organizzazione necessita di un insieme di regole che ne disciplinano la vita e l’attività. Queste regole formano il diritto di quella specifica...
CAPITOLO 1: L’ORDINAMENTO GIURIDICO E IL DIRITTO PUBBLICO Ogni organizzazione sociale costituisce un ordinamento giuridico. Per essere considerata tale, un’organizzazione necessita di un insieme di regole che ne disciplinano la vita e l’attività. Queste regole formano il diritto di quella specifica organizzazione e, nel loro complesso, costituiscono l’ordinamento giuridico. Nei moderni ordinamenti, le regole giuridiche si distinguono non tanto per la loro provenienza, ma per il loro scopo: garantire la sopravvivenza e lo sviluppo di una determinata organizzazione sociale. A differenza delle regole religiose e morali, che mirano alla salvezza dell’anima o alla perfezione individuale, le regole giuridiche disciplinano direttamente i rapporti tra i membri del gruppo sociale, definendo i confini dei rispettivi interessi e individuando e proteggendo beni o valori comuni. Le norme giuridiche si manifestano quando si instaura un rapporto tra due o più soggetti basato su una regola comune, il diritto in senso oggettivo, imposta da altri o stabilita dalle parti, che crea vincoli reciproci. Questi vincoli determinano in capo ad alcuni soggetti situazioni giuridiche favorevoli o sfavorevoli. Ogni organizzazione, quindi, produce diritto ed è essa stessa prodotta dal diritto. Secondo la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, il diritto non è monopolio di alcuna organizzazione specifica, ma è intrinseco a qualunque organizzazione. Quando parliamo di diritto dello Stato, ci riferiamo a una comunità caratterizzata da politicità, che mira a imporre regole a tutte le altre organizzazioni giuridiche. Cos’è un ordinamento giuridico? Secondo i sostenitori delle teorie normativiste, l’ordinamento è costituito dall’insieme delle norme vigenti in un determinato spazio territoriale, isolato dalla società e da studiarsi secondo regole proprie. Invece, secondo i sostenitori delle teorie istituzionaliste, un ordinamento non è solo un insieme di prescrizioni normative, ma il complesso delle norme che scaturiscono da una specifica organizzazione sociale. Mentre per i normativisti una società organizzata ha un ordinamento, per gli istituzionalisti una società organizzata è un ordinamento. L'importanza dell'approccio normativista risiede nel fatto che su di esso si fonda l'autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni sociali, garantendo maggiore certezza alla scienza giuridica. Le norme giuridiche sono il prodotto di fatti normativi verificatisi in un determinato momento storico. L'interpretazione del diritto scritto non può richiamarsi esclusivamente all'organizzazione sociale o al contesto normativo e istituzionale. Anche in ambito costituzionale, le norme sono il risultato di fatti normativi, come dimostra la Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ma delineatasi attraverso successivi eventi politico-istituzionali fondamentali. Pertanto, l'ordinamento giuridico è l'insieme di più elementi: prescrizioni, consuetudini e fatti normativi, tutti espressione di una determinata organizzazione sociale e coordinati tra loro secondo criteri sistematici. Il concetto di ordinamento giuridico non è necessariamente ancorato a una specifica gerarchia di valori. Per secoli, ci si è interrogati se esista un diritto naturale, inderogabile e immutabile, al di sopra del diritto stabilito dalla comunità politica. Tuttavia, l'esperienza storica dimostra che l'idea di diritto naturale è variabile nel tempo e nei luoghi, sebbene si riconosca l'importanza dei diritti dell'uomo. Secondo tutte le teorie menzionate, ogni ordinamento giuridico è un sistema che presuppone sé stesso come unitario, coerente e completo. Un sistema è tale in quanto ordinato attorno a un progetto, che può essere: Posto razionalmente dall’uomo: In questo caso, si parla di sistemi ideali, frutto del pensiero umano. Inerente al sistema stesso: Qui si parla di sistemi reali, retti dalle informazioni. L’interprete del diritto deve presupporre che il diritto costituisca un sistema e contribuire a far sì che lo diventi realmente. Le varie norme e i diversi settori del diritto non sono solo parti di un tutto, ma un insieme di elementi, ciascuno con una propria funzione coordinata con quella degli altri. Per questo motivo, oltre all’interpretazione letterale, si utilizzano altri strumenti interpretativi, tra cui l’interpretazione logico-sistematica. Questa permette all’interprete di: a) Penetrare nella logica dell’ordinamento giuridico. b) Trarre la regola da applicare a casi non espressamente previsti dal testo scritto. In questo modo, l’interprete può garantire che l’ordinamento giuridico funzioni come un sistema coerente e integrato. La dottrina distingue tra disposizioni e norme, con queste ultime che sono il risultato dell’interpretazione basata su più criteri interpretativi. Da un’unica disposizione possono derivare norme diverse, alcune delle quali possono essere conformi o contrarie alla Costituzione. Affinché un ordinamento giuridico costituisca un sistema, è necessario che unità, coerenza e completezza siano assicurate da un insieme di valori e principi fondanti. Nell'ordinamento statale, questo insieme prende il nome di costituzione, che può essere: 1. Scritta o non scritta. 2. Rigida, se può essere modificata solo attraverso un procedimento di revisione aggravato. 3. Flessibile, se può essere modificata attraverso leggi ordinarie. Le prime costituzioni erano basate sui principi del liberalismo, da cui derivano. Di conseguenza, si è sviluppata un'identificazione tra costituzionalismo, inteso come tecnica di limitazione del potere, e le costituzioni stesse. Sebbene le costituzioni scritte siano prevalenti, esistono paesi, come il Regno Unito, che non dispongono di un documento costituzionale scritto, ma hanno comunque un ordinamento riconoscibile basato su elementi fondanti. L'ordinamento giuridico può essere definito come l'insieme delle norme fondamentali, scritte e non scritte, che danno forma e identità all'ordinamento stesso. Il concetto di ordinamento costituzionale, così inteso, è utile per diversi motivi: 1. La costituzione come documento scritto non esaurisce tutti gli elementi fondamentali dell’ordinamento. Esistono infatti principi e norme fondamentali che vanno oltre il testo scritto. 2. Non tutte le norme contenute nella costituzione sono essenziali per caratterizzare l’ordinamento. Alcune norme, pur essendo importanti, non sono fondamentali per l’identità dell’ordinamento stesso. 3. La costituzione può contenere norme non più effettivamente vigenti. È utile distinguere tra costituzione e ordinamento costituzionale: la prima è un documento scritto, mentre il secondo è l'insieme di norme, comprese quelle consuetudinarie, unite da un progetto comune che conferisce loro senso e capacità espansiva. Questa distinzione garantisce l’autonomia e la vitalità del testo costituzionale. Il diritto costituzionale occupa una posizione di primazia logico-sistematica rispetto alle altre branche giuridiche. La distinzione tra diritto pubblico e privato riflette ciò che è essenziale per l’ordinamento e affidato al potere pubblico. Anche quando lo Stato affida ai privati la gestione di determinati rapporti, definisce comunque il quadro entro cui tali rapporti si sviluppano, garantendo la parità tra i soggetti privati e l'armonia con l’interesse generale. Pertanto, la distinzione tra diritto pubblico e privato è principalmente didattica, utile a separare gli ambiti giuridici che riguardano le attività riservate ai soggetti privati da quelli in cui operano direttamente i soggetti pubblici, portatori di interessi generali. Gli stati sorsero in varie parti d’Europa quando alcuni ordinamenti costituzionali si organizzarono attorno a un feudatario, che per forza militare, economica o strategica acquisì posizioni di supremazia rispetto ad altri. Il processo si sviluppo in una duplice direzione: Affermando la propria autonomia nei confronti del papato; Affermando la supremazia nei confronti degli ordinamenti che esistevano al loro interno. Attraverso questo processo si unificarono i vari ordinamenti giuridici, fino a giungere allo stato moderno. Quest’ultimo si contraddistingue per due caratteri importanti: la politicità e la sovranità. a. La politicità, che sta ad indicare che l’ordinamento statale assume tra le proprie finalità la cura di tutti gli interessi generali che riguardano una determinata collettività; b. La sovranità vale a dire la supremazia rispetto a ogni altro potere costituito al suo interno. Lo stato esercita si in forma diretta che in forma indiretta il suo monopolio, legittimando anche altri soggetti all’uso della forza. Si può parlare di stato, quindi, quando una popolazione stanziata su di un territorio, sottomettendosi a un potere sovrano, dà vita a un ordinamento rivolto a soddisfare i suoi interessi generali. Perché si possa parlare di Stato, devono essere presenti tre elementi fondamentali: un popolo, un territorio e un governo. Questi elementi si collegano strettamente ai concetti di politicità e sovranità, da cui deriva anche il concetto di costituzione. È proprio nel potere sovrano che la costituzione statale trova la sua legittimazione, la quale, a sua volta, conferisce legittimità a tutti gli altri poteri pubblici. In sostanza, solo gli Stati sovrani possono dotarsi o comunque possedere una costituzione. Collegare il concetto di Stato a quello di sovranità non contraddice il principio secondo cui, nell'ordinamento italiano, così come nelle altre democrazie liberali, la sovranità appartiene al popolo. Questa affermazione solenne ci porta a evidenziare due aspetti fondamentali: 1. Il popolo è la fonte di ogni legittimazione statale. 2. Il popolo è titolare dei poteri sovrani. L’esercizio del potere statale incontra dei limiti: Limiti di fatto, derivanti dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e dai processi di globalizzazione, che rendono difficile il controllo degli stati sia sulla circolazione delle informazioni, sia sulla circolazione di beni, capitali e persone; Limiti giuridici, derivanti dall’evoluzione dell’ordinamento internazionale caratterizzato dall’affermarsi di numerose organizzazioni internazionali per la protezione dei diritti umani. Un apparente paradosso rispetto al classico schema della sovranità è rappresentato dallo Stato federale, il cui primo esempio storico è offerto dagli Stati Uniti. Lo Stato federale si distingue nettamente dalla confederazione di Stati: quest'ultima non dà origine a una nuova entità statale, ma costituisce un'unione tra Stati indipendenti e sovrani, che cooperano attraverso strutture comuni. Un dibattito aperto riguarda l'Unione Europea, che si trova in una posizione intermedia tra il modello della confederazione e un possibile sviluppo verso una struttura federale. Le funzioni della comunità statale stanno alle diverse dottrine dello stato, le quali si riflettono sulle forme di stato succedutesi in epoca moderna. Nel costituzionalismo di matrice liberale, agli individui sono riconosciuti tre diritti fondamentali: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà. Per proteggere efficacemente questi diritti, gli individui hanno anche il diritto di difendersi. Tuttavia, al fine di garantire una difesa più efficiente e organizzata, essi trasferiscono questi diritti a un'autorità sovrana attraverso un contratto sociale. In questo contesto, le dottrine contrattualistiche affermano che la funzione dello Stato è quella di riconoscere tali diritti e garantirne l'inviolabilità. La filosofia di Hegel vede lo Stato non semplicemente come uno strumento per la tutela dei diritti, ma come una realtà spirituale. Questa visione si inserisce nelle dottrine statolatre, in cui lo Stato viene concepito come la somma delle volontà individuali, distinto e separato dal contratto sociale. Per il cittadino, quindi, non si tratta di difendersi dallo Stato, ma di identificarsi con esso. Per Marx, invece, è la società civile a rappresentare il principale motore della civilizzazione. Lo Stato, nella visione marxista, non riconosce valore all’individuo al di fuori dei rapporti sociali e, in particolare, al di fuori della sua posizione di classe. La storia dell’umanità, infatti, non sarebbe altro che la storia della lotta tra le classi sociali. In questa prospettiva, lo Stato è visto come uno strumento, una macchina attraverso cui una classe esercita il proprio dominio sull’altra. Queste diverse concezioni politico-filosofiche hanno influenzato i costituenti italiani del 1948. In questo contesto, la Repubblica italiana è chiamata a promuovere l’uguaglianza, eliminando gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Le forme di governo rappresentano il modo in cui si distribuisce il potere politico tra i vari organi dello stato, ossia come vengono assunte le varie forme le varie decisioni politiche. Le forme di stato rappresentano il modo in cui si vengono ad instaurare i rapporti tra il potere politico e i cittadini. Si possono individuare diverse forme di stato: Stato Assoluto. Dopo la dissoluzione dell'ordinamento feudale, si affermò lo Stato Assoluto, caratterizzato dai seguenti elementi: Legittimazione del sovrano direttamente da Dio: Il potere del sovrano veniva considerato divino e incontestabile. Accentramento del potere: Tutto il potere pubblico era concentrato nelle mani del sovrano, senza distinzione tra le diverse funzioni (legislativa, esecutiva, giudiziaria). Divisione in classi sociali: La società era rigidamente divisa in classi, con il riconoscimento dell’aristocrazia come classe dominante. Stato Liberale. Lo Stato Liberale è il risultato della lotta tra la borghesia e l’alto clero. Le sue caratteristiche principali sono: Base sociale ristretta: I diritti erano riservati a una parte limitata della popolazione, principalmente la borghesia, facendo dello Stato un'entità "monoclasse". Diritti di libertà e proprietà: Veniva riconosciuto a tutti i cittadini il diritto alla libertà e alla proprietà, rendendo lo Stato un "Stato di diritto", garantito da norme generali e astratte. Stato Liberal-Democratico. Lo Stato Liberal-Democratico rappresenta un’evoluzione ulteriore, con le seguenti caratteristiche: a) Riconoscimento dei diritti politici a tutti i cittadini maggiorenni: Non vi era più distinzione tra le classi sociali, favorendo l’organizzazione pubblica in partiti politici per tutelare le categorie più deboli. b) Stato pluriclasse: Lo Stato non poteva più ignorare i bisogni delle classi popolari. Questo concetto si rafforzò con la crisi economica del 1929 e la caduta di Wall Street, che portarono a un maggiore intervento dello Stato nell'economia e al riconoscimento giuridico dei diritti civili, politici e sociali. Stato Sociale. L'evoluzione dello Stato Liberal-Democratico portò alla nascita dello Stato Sociale, soprattutto in Europa, caratterizzato da: Intervento dello Stato nell'economia: In risposta alla crisi economica, lo Stato assunse un ruolo più attivo nella tutela economica e sociale dei cittadini. Costituzioni rigide: Per garantire la tutela dei diritti, vennero adottate costituzioni rigide, rendendo lo Stato un "Stato Costituzionale", in cui il legislatore è subordinato a una legge superiore, la Costituzione stessa. Giudice delle leggi: È prevista l'esistenza di un giudice costituzionale, incaricato di valutare la conformità delle leggi alla Costituzione. La Repubblica italiana, costruita sulla base della costituzione del 1948, può definirsi uno Stato sociale che si ispira al costituzionalismo liberaldemocratico, con tutte le caratteristiche dello stato costituzionale. Dopo la caduta dei regimi autoritari, la maggior parte degli Stati occidentali si è contraddistinta per l'adozione di valori, principi e tecniche comuni, tra cui: Diritti dell'uomo: I diritti umani hanno un primato assoluto su ogni altro valore e sono considerati fondamentali per la legittimità di uno Stato. Cittadinanza e condizione umana: Il riconoscimento dei diritti si basa sulla cittadinanza e sulla condizione stessa di essere umano, garantendo diritti universali a tutti gli individui. Principio di eguaglianza: È garantito il rispetto del principio di uguaglianza, assicurando che tutti i cittadini siano trattati in modo equo di fronte alla legge. Sovranità popolare: La sovranità risiede nel popolo, non più nella nazione o in un’autorità centralizzata. Le decisioni politiche vengono adottate seguendo il principio di maggioranza. Separazione dei poteri: È perseguita la separazione dei poteri, non solo tra le diverse branche del governo (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma anche tra la sfera politica e quella religiosa. Il Novecento ha visto l'affermazione di diversi regimi autoritari e totalitari. Stato Fascista: Tra le due guerre mondiali, in Italia si affermò lo Stato Fascista, ispirato alle concezioni statolatre della destra hegeliana. Questo regime attribuiva un ruolo centrale e totalizzante allo Stato, ponendolo al di sopra dell'individuo. Stato Socialista: In Russia, con la Rivoluzione Sovietica, si instaurò lo Stato Socialista, fondato sulle teorie marxista-leniniste della lotta di classe. Questo modello promuoveva un'economia pianificata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Stato Confessionale: Estraneo alla tradizione liberal-democratica è lo Stato confessionale, in cui non è accettata la separazione tra sfera politica e religiosa. Un esempio emblematico è lo Stato islamico, dove viene applicata la Sharia, il corpo di norme tratto dal Corano e dagli insegnamenti di Maometto. CAPITOLO 3: L’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE Il diritto internazionale è il sistema giuridico che regola la comunità degli Stati. A differenza degli ordinamenti giuridici nazionali, si distingue per alcune caratteristiche fondamentali, legate alla sua base sociale composta da entità collettive (Stati) e non da persone fisiche. Queste differenze principali sono: Assenza di un'autorità sovraordinata: Nel diritto internazionale, non esiste un ente che si ponga in una posizione sovraordinata rispetto agli Stati, come avviene invece all'interno dei singoli ordinamenti statali. Mancanza di un organo legislativo centrale: Non esiste un organo legislativo con il potere di produrre norme vincolanti per la generalità degli Stati. Le norme del diritto internazionale non sono imposte da un’autorità superiore, ma emergono attraverso processi diversi. Fonti delle norme internazionali: Le norme di diritto internazionale derivano principalmente da fonti di fatto e si formano in maniera consuetudinaria o spontanea, obbligando tutti i soggetti dell'ordinamento internazionale. Diversamente, i trattati e gli accordi tra Stati generano norme di diritto internazionale particolare, che vincolano solo gli Stati che li sottoscrivono. Assenza di un meccanismo istituzionalizzato di risoluzione delle controversie: Non esiste un sistema formale e istituzionalizzato per risolvere le controversie che sorgono tra gli Stati, come avviene nei sistemi giuridici nazionali. Autotutela degli interessi: La protezione degli interessi dei singoli Stati è stata, per lungo tempo, affidata all’autotutela, cioè alla capacità degli Stati stessi di far valere i propri diritti senza ricorrere a un'autorità superiore. Nel diritto internazionale esistono due principali concezioni riguardanti il rapporto tra l'ordinamento giuridico statale e quello internazionale: la concezione dualista e la concezione monista. Concezione Monista: Questa visione tende a ridurre i due ordinamenti a un'unità, stabilendo quale dei due debba essere considerato derivato rispetto all'altro. L'ordinamento ritenuto originario ha la prevalenza sull'altro e, quindi, l'ultima parola nei rapporti tra i due. Concezione Dualista: Secondo questa concezione, l'ordinamento statale e quello internazionale sono indipendenti e separati, ciascuno con la propria autonomia nelle valutazioni e decisioni. La questione centrale che emerge è come gli obblighi di diritto internazionale, che possono essere di origine consuetudinaria o pattizia, vengano recepiti all'interno dell'ordinamento statale. Gli obblighi di origine pattizia derivano dai trattati o da accordi di natura diversa, meno solenni, che vengono chiamati "accordi semplificati". I trattati richiedono la firma e successivamente la ratifica. In diritto internazionale, la ratifica è l'istituto giuridico mediante il quale un soggetto statale fa propri gli effetti di un accordo internazionale concluso dal proprio rappresentante con terze parti. Solitamente, il ministro degli Affari Esteri, o un plenipotenziario da lui designato, firma il trattato insieme ai rappresentanti delle altre parti contraenti. Successivamente, ogni Stato parte provvede alla ratifica, seguita dallo scambio degli strumenti di ratifica o, in caso di trattati multilaterali, dal loro deposito presso una delle parti contraenti. Nell'ordinamento italiano, la ratifica è un atto del Presidente della Repubblica. Tuttavia, in alcuni casi specifici, è necessaria l'autorizzazione del Parlamento tramite una legge di autorizzazione. Questo avviene nei seguenti casi: a) Trattati di natura politica. b) Trattati che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari. c) Variazioni del territorio nazionale. d) Trattati che comportano oneri a carico del bilancio statale o che comportano modifiche legislative. Esistono anche trattati che non richiedono la ratifica, specialmente quelli di natura politica, conclusi dal governo in forma semplificata. In questi casi, la sottoscrizione di tali accordi esclude l'intervento del Parlamento e del Presidente della Repubblica. Lo stato opera su due piani distinti e separati: come soggetto di diritto internazionale, una volta ratificato un trattato, si obbliga nei confronti degli altri stati contraenti a introdurre una certa normativa interna, adattando così il proprio ordinamento. L’adattamento dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale può avvenire in tre modi: o Il primo metodo è un ricorso a procedimenti ordinari dove vengono adottate norme il cui contenuto, interamente elaborato dal legislatore statale e serve ad ottemperare gli obblighi internazionali. Questi possono consistere sia nell’introduzione di nuove norme o nell’abrogazione di norme preesistente. o Un secondo metodo è il ricorso ad un procedimento speciale e viene approvata una legge che dispone l’adattamento dell’ordinamento interno ai vincoli internazionali attraverso l’ordine di esecuzione. Ricorrendo a questo procedimento si attua un rinvio fisso perché si riferisce solo a quel trattato. o Un terzo modo consiste in un procedimento peculiare in quale non è necessità si alcun apposito atto normativo per adattare l’ordinamento interno alle norme internazionali, in quanto l’adattamento avviene in forma automatica. Così fa la nostra costituzione, disponendo che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Il diritto internazionale ha conosciuto sviluppi importanti sia sotto il profilo sostanziale sia sotto il profilo processuale. È ciò con particolare riferimento al grande campo della tutela dei diritti umani, fondate sull’idea che ciascun essere umano in quanto tale sia titolare di un patrimonio di diritti che gli stati hanno il dovere giuridico di proteggere. Sotto il primo profilo, quello sostanziale, un crescente numero di strumenti internazionale si sono indirizzati alla tutela di posizioni soggettive di singoli individui, di gruppi di individuali, di intere collettività. Sotto il secondo profilo, quello processuale, si sono previste procedure destinate ad assicurare il rispetto dei diritti umani e a punire le violazioni del diritto umanitario. Queste esperienze hanno condotto all’istituzione della Corte penale internazionale, prevista dal trattato firmato nel 1998. La corte è un tribunale permanente, che esercita giurisdizione sulle persone fisiche che si sono macchiate dei più gravi crimini di guerra di portata internazionale. Un altro importante esempio, sia sotto il profilo sostanziale che processuale, è costituito dalla Cedu. Firmata a Roma nel 1950 dai paesi aderenti al consiglio d’Europa è oggi il caso più cospicuo di accesso diretto dei singoli a istanze internazionali, attraverso i ricorsi alla corte Europea dei diritti dell’uomo. CAPITOLO 4: L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA. L'Unione Europea nacque il 1° novembre 1993, a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Maastricht. L'UE è una costituzione assai singolare, sia per il modo in cui è sorta, sia per essere al tempo stesso un'unione di stati e di popoli. Questo processo ebbe inizio con la Dichiarazione di Schuman nel 1950 e con la firma del Trattato di Parigi nel 1951, che istituì la Comunità Economica Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA). La nascita della CECA fu seguita dall'istituzione, tra gli stessi paesi fondatori, dell'EURATOM e della Comunità Economica Europea (CEE), avvenuta nel 1957 con i Trattati di Roma. Il Trattato CEE aveva come obiettivi: - L'istituzione di un mercato comune attraverso l'unione doganale; - L'attuazione di una politica comune per agricoltura e trasporti; - L'istituzione di un Fondo Sociale Europeo. Per conseguire questi obiettivi, il trattato prevedeva che le istituzioni della comunità fossero dotate anche di un potere normativo di tipo legislativo. Nel 1986 venne firmato l'Atto Unico Europeo, che fissò l'obiettivo della realizzazione del mercato interno, eliminando gli ostacoli alla libera circolazione delle merci e rafforzando il ruolo del Parlamento Europeo e del Consiglio. Nel 1992 fu firmato il Trattato di Maastricht, o Trattato sull'Unione Europea (TUE). Questo trattato dette vita a una struttura organizzata a tre pilastri, che rappresentavano rispettivamente: 1. Comunità preesistenti (CEE, CECA, EURATOM), disciplinate dai rispettivi trattati; 2. Politica estera e di sicurezza comune; 3. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Questa struttura venne superata con il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore nel 2009, che ha profondamente innovato l'ordinamento dell'Unione Europea. L'Unione si fonda ora su due distinti trattati: il Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea e la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Uomo. Le istituzione dell’unione europea sono: Il Consiglio Europeo. Il Consiglio Europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione Europea. Partecipa anche l'Alto Rappresentante dell'Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza. Il Consiglio si riunisce almeno due volte ogni sei mesi a Bruxelles. Il Presidente del Consiglio Europeo viene eletto dallo stesso Consiglio a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta. Il Presidente rappresenta l'Unione Europea all'estero per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatta salva la competenza dell'Alto Rappresentante. Il Consiglio Europeo è l'organo di indirizzo politico dell'Unione Europea. Non esercita funzioni legislative e non va confuso con il Consiglio dell'Unione Europea. Le decisioni del Consiglio Europeo vengono prese per consenso, ossia senza votazione formale; in questo modo viene adottato il documento ufficiale con le conclusioni di ogni riunione. Il consiglio. Il Consiglio dell'Unione Europea è composto da un rappresentante per ogni Stato membro a livello ministeriale, autorizzato a impegnare il proprio governo. Si riunisce in varie formazioni a seconda delle materie trattate. Due di queste formazioni sono direttamente previste dal Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE): il Consiglio Affari Generali e il Consiglio Affari Esteri. Il Consiglio Affari Esteri è presieduto dall'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza. La presidenza delle altre formazioni del Consiglio è affidata a turno ai rappresentanti di ciascuno Stato membro per un periodo di sei mesi, secondo un sistema di rotazione paritaria. Questo significa che ogni paese presiede un consiglio per un semestre ogni 13-14 anni. Il Consiglio esercita diverse funzioni fondamentali: a. Esercita, insieme al Parlamento Europeo, la funzione di bilancio e la funzione legislativa; b. Definisce e coordina le politiche dell'Unione; c. Garantisce il coordinamento e la sorveglianza delle politiche economiche; d. Prende decisioni relative alla politica estera e di sicurezza comune. La regola decisionale ordinaria è la maggioranza qualificata, che si ottiene con il 55% degli Stati membri, rappresentanti almeno il 65% della popolazione dell'Unione. Tuttavia, non è permesso che soli tre Stati blocchino le decisioni, anche se la loro popolazione supera il 35%. Quando il Consiglio discute e vota progetti di atti legislativi, le sue sedute sono pubbliche. Per questo motivo, ogni sessione è divisa in due parti: una pubblica e una non pubblica. Le riunioni del Consiglio sono preparate da un comitato costituito dai rappresentanti permanenti degli Stati membri, il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper), che è suddiviso a sua volta in due formazioni e svolge un ruolo di notevole rilevanza. Il parlamento europeo Il Parlamento Europeo è composto da 705 membri. La rappresentanza dei cittadini dei singoli Stati membri è garantita in modo digressivamente proporzionale rispetto alla popolazione di ciascun paese. I membri del Parlamento Europeo sono eletti per cinque anni dai cittadini dell'Unione Europea, utilizzando sistemi elettorali proporzionali, sulla base di principi comuni adottati dal Consiglio. Il Parlamento Europeo è organizzato secondo il modello delle moderne assemblee rappresentative. I suoi membri si suddividono in gruppi politici, composti da almeno 23 parlamentari eletti in almeno un quarto degli Stati membri. I parlamentari lavorano suddivisi in almeno venti commissioni permanenti, ciascuna delle quali si occupa di specifiche aree tematiche. Il Parlamento Europeo ha un proprio regolamento interno e non ha una sede unica, operando tra Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. Esso esercita diverse funzioni fondamentali: a. Esercita, insieme al Consiglio, la funzione legislativa. Pur non avendo l'iniziativa legislativa, può chiedere alla Commissione di presentare proposte di atti legislativi. b. Esercita, con il Consiglio, la funzione di bilancio, approvando il bilancio dell'Unione attraverso una procedura legislativa speciale. c. Esercita la funzione di indirizzo e controllo politico, oltre a funzioni consultive. Il Parlamento Europeo elegge il Mediatore Europeo, un organo che svolge la funzione di difensore civico e al quale chiunque può rivolgersi in caso di cattiva amministrazione. La commissione europea La Commissione Europea è composta da un membro per ciascuno Stato membro, incluso il Presidente e l'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza. Il Consiglio Europeo, tenendo conto dei risultati delle elezioni del Parlamento Europeo, sceglie a maggioranza qualificata il Presidente della Commissione, che viene poi eletto dal Parlamento a maggioranza dei suoi membri. La Commissione è collettivamente responsabile di fronte al Parlamento, il quale può approvare una mozione di censura con la maggioranza dei due terzi dei voti, purché rappresentino la maggioranza dei membri. In tal caso, l'intera Commissione si dimette. La Commissione esercita le sue funzioni in linea con gli orientamenti del Presidente, che decide l'organizzazione interna, assegna le deleghe e nomina i Vicepresidenti tra i Commissari. La Commissione è l'organo che promuove l'interesse generale dell'Unione Europea e adotta le iniziative appropriate a tale scopo. Agisce in piena indipendenza, con un esplicito divieto per i suoi membri di sollecitare o accettare istruzioni da parte di qualsiasi governo. Le competenze della Commissione includono: a) L'iniziativa legislativa e il possesso di poteri normativi delegati e di esecuzione; b) La presentazione del progetto di bilancio annuale dell'Unione e l'esecuzione del bilancio; c) La vigilanza sull'applicazione del diritto dell'Unione: se uno Stato non adempie ai suoi obblighi, la Commissione può avviare la procedura d'infrazione; Possiede anche il potere di rivolgere avvertimenti agli Stati membri per il coordinamento delle politiche economiche e la sorveglianza della situazione di bilancio. Corte di giustizia La Corte di Giustizia è composta da un giudice per ciascuno Stato membro, oltre a undici avvocati generali che esaminano le cause e presentano alla Corte le loro conclusioni. La Corte dispone di un proprio statuto e regolamento, e ha sede a Lussemburgo. Il suo compito principale è garantire il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati dell'Unione Europea. Di particolare rilievo è la competenza in via pregiudiziale: la Corte di Giustizia si pronuncia in via pregiudiziale, cioè prima che le norme dell'Unione vengano applicate in un processo nazionale, al fine di garantire un'interpretazione uniforme del diritto dell'UE. Accanto alla Corte di Giustizia opera un Tribunale, che si occupa principalmente delle cause intentate da persone fisiche o giuridiche. Il ruolo del Tribunale è più circoscritto, essendo stato istituito per alleviare il carico di lavoro della Corte di Giustizia su questioni di minore complessità. La banca centrale europea Possiede una propria personalità giuridica e gode di un elevato grado di indipendenza rispetto alle altre istituzioni. Svolge un ruolo cruciale in materia di politica monetaria, con il potere esclusivo di autorizzare l'emissione di banconote in euro all'interno dell'Unione. Inoltre, è responsabile del controllo dell'inflazione. La corte dei conti È composta da membri, uno per ciascuno Stato, nominati per un mandato di sei anni dal Consiglio. La sua funzione principale è garantire il controllo dei conti attraverso l'esame delle entrate e delle spese dell'Unione, con l'obiettivo di accertare la sana gestione finanziaria, l'economicità e l'efficienza. Sono previsti inoltre due organi consultivi che assistono il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione: - Il Comitato economico e sociale; - Il Comitato delle regioni. L'ordinamento dell'Unione Europea si basa principalmente sui trattati, che rappresentano le fonti originarie del diritto dell'Unione. A questi si aggiunge il corpus normativo adottato dalle istituzioni dell'Unione, che costituisce le fonti derivate, le quali devono essere compatibili sia formalmente che sostanzialmente. I principi fondamentali dell'Unione includono: a. Il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello stato di diritto e dei diritti umani, inclusi quelli delle minoranze; b. La promozione della pace e del benessere tra i popoli; uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, con circolazione delle persone e controllo delle frontiere esterne garantiti; c. Il rispetto dell'uguaglianza tra gli Stati membri e delle loro identità nazionali; d. I principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità; e. Il riconoscimento dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione; f. L'uguaglianza dei cittadini e la comune cittadinanza dell'Unione; g. Il buon funzionamento dell'Unione e delle sue istituzioni. L'Unione si propone di garantire che tutti gli Stati membri rispettino questi valori comuni. La cittadinanza dell'Unione, che si aggiunge a quella nazionale senza sostituirla, è riconosciuta di diritto a tutti i cittadini di uno Stato membro. Essa conferisce il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, seppur con alcune limitazioni, e include il diritto di voto attivo e passivo nelle elezioni comunali ed europee nello Stato di residenza. Inoltre, l'articolo 11 del TUE prevede che i cittadini dell'Unione, provenienti da almeno un quarto degli Stati membri, possano esercitare il diritto di iniziativa, richiedendo alla Commissione di presentare una proposta legislativa su una determinata materia, analogamente al Parlamento. Al pari dei trattati, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si colloca tra le fonti originarie del diritto dell'Unione. Questa Carta, composta da 54 articoli, offre un ampio catalogo di diritti e si distingue per l'innovativa scelta di superare la tradizionale separazione tra diritti civili e politici, da una parte, e diritti economici e sociali, dall'altra. Tutti i diritti, eccetto quelli strettamente legati alla cittadinanza europea, sono riconosciuti a ogni persona senza alcuna distinzione. Secondo il principio di attribuzione, l'Unione Europea esercita soltanto le competenze che le sono state conferite dagli Stati membri tramite i trattati; tutte le altre competenze restano agli Stati. Le competenze attribuite, secondo l’art. 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), si dividono in: 1. Competenze esclusive: settori in cui solo l’Unione può legiferare; 2. Competenze concorrenti: settori in cui sia l'Unione che gli Stati membri possono legiferare, ma gli Stati possono farlo solo se l’Unione non ha esercitato la sua competenza o ha deciso di cessare di farlo; 3. Competenze complementari: settori in cui l’Unione può solo sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri. L’Unione esercita le competenze a lei attribuite applicando i principi di sussidiarietà e proporzionalità. Il principio di sussidiarietà prevede che, nei settori che non rientrano nella competenza esclusiva dell’Unione, quest'ultima intervenga solo se gli obiettivi non possono essere raggiunti in modo adeguato dagli Stati membri. Questo principio ha una doppia valenza: da un lato, l'Unione può intervenire solo se uno Stato non è in grado di conseguire un obiettivo; dall'altro, se l'Unione non può conseguire l'obiettivo in modo più efficace di uno Stato membro, deve astenersi dall'intervenire, lasciando tale compito allo Stato stesso. Nei settori che non rientrano nella competenza esclusiva dell'Unione, i trattati prevedono la possibilità di instaurare una cooperazione rafforzata tra un gruppo di Stati membri, a condizione che siano coinvolti almeno nove Stati. Questa cooperazione può essere avviata solo se autorizzata dal Consiglio con una decisione a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento Europeo. Nell'ambito di una cooperazione rafforzata è stata istituita la Procura europea, incaricata di perseguire, davanti agli organi giurisdizionali degli Stati membri, gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione. Un'iniziativa simile è la cooperazione strutturata permanente nel settore della difesa, istituita nel 2017, che mira a rafforzare la collaborazione tra gli Stati membri in materia di difesa. L'articolo 46 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) prevede due procedure per la revisione dei trattati: una ordinaria e una semplificata. La procedura ordinaria consente a ogni Stato membro, al Parlamento Europeo o alla Commissione di avviare una proposta di revisione, che deve essere presentata al Consiglio. Il Consiglio, a sua volta, trasmette la proposta al Consiglio Europeo, che esamina l'iniziativa e decide come procedere con la revisione dei trattati. Per esercitare le competenze attribuite all'Unione, le istituzioni utilizzano gli strumenti previsti dal Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), in particolare nel Capo 2, che disciplina gli atti giuridici dell'Unione. Questi atti, nel loro insieme, costituiscono il diritto derivato dell'Unione. Gli atti giuridici elencati dal TFUE includono: Regolamenti: veri e propri atti normativi di portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in tutti gli Stati membri. Possono rivolgersi a persone fisiche, giuridiche, soggetti pubblici o privati. Le autorità nazionali devono applicarli direttamente, anche sostituendo eventuali norme interne incompatibili. Direttive: atti che vincolano uno o più Stati membri, o, nella maggior parte dei casi, tutti gli Stati membri, imponendo loro di raggiungere un determinato risultato, lasciando però libertà su come conseguire tale risultato attraverso gli strumenti giuridici interni più adeguati. Le direttive sono direttamente efficaci, il che significa che i singoli individui possono invocarle davanti ai giudici nazionali, e lo Stato non può eludere i loro effetti attraverso l'inadempimento. Decisioni: possono avere come destinatari sia persone fisiche e giuridiche, sia Stati membri. Le decisioni possono avere portata generale o riguardare casi specifici, rivolgendosi a destinatari particolarmente individuati. Raccomandazioni e pareri: hanno valenza di indirizzo politico e non creano obblighi o doveri per i destinatari. Gli atti giuridici dell'Unione si distinguono ulteriormente in diverse categorie: a) Atti legislativi: comprendono tutti gli atti adottati attraverso la procedura legislativa, come regolamenti, direttive, decisioni, e così via. b) Atti delegati: sono adottati dalla Commissione sulla base di una delega conferita da un atto legislativo. Questi atti servono per integrare o modificare elementi non essenziali dell'atto legislativo originario. La delega deve chiarire obiettivi, contenuto, portata e durata, garantendo che la Commissione agisca entro limiti ben definiti. c) Atti di esecuzione: sono previsti da atti legislativi quando si ritiene necessaria una gestione uniforme delle condizioni di attuazione. In questi casi, è la Commissione, e non gli Stati membri, a dover adottare le misure necessarie, sotto il controllo degli Stati membri stessi. Ai fini della formazione degli atti legislativi, il Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) prevede due procedure principali: la procedura legislativa ordinaria, che si basa sulla competenza paritaria tra Consiglio e Parlamento Europeo, e la procedura legislativa speciale, che assegna una prevalenza a seconda dei casi al Parlamento o al Consiglio. Procedura legislativa ordinaria: Proposta della Commissione: La Commissione Europea presenta una proposta di atto legislativo al Parlamento Europeo e al Consiglio. Prima lettura del Parlamento Europeo: Il Parlamento esamina la proposta e, se approva il testo, lo trasmette al Consiglio per la sua approvazione. Prima lettura del Consiglio: Il Consiglio esamina il testo ricevuto dal Parlamento. Se lo approva senza modifiche, l'atto viene adottato. Se invece il Consiglio apporta emendamenti, il testo modificato viene rinviato al Parlamento per una seconda lettura. Seconda lettura del Parlamento Europeo: Il Parlamento ha tre mesi per esaminare il testo emendato dal Consiglio. Se il Parlamento approva il testo o non si pronuncia entro il termine, l'atto viene adottato nella versione del Consiglio. Se invece il Parlamento adotta emendamenti al testo con la maggioranza dei suoi membri, il testo modificato viene ritrasmesso al Consiglio, e la Commissione esprime la sua posizione sugli emendamenti. Seconda lettura del Consiglio: Il Consiglio ha tre mesi per esaminare gli emendamenti del Parlamento. Se il Consiglio approva gli emendamenti con maggioranza qualificata, l'atto viene adottato. Se non approva gli emendamenti, viene convocato un comitato di conciliazione. Comitato di conciliazione: Questo comitato, composto da membri del Consiglio e del Parlamento Europeo, con la partecipazione della Commissione come mediatore, ha sei settimane per raggiungere un accordo su un progetto comune. Se non si raggiunge un accordo entro questo termine, l'atto non viene adottato. Terza lettura: Se il comitato di conciliazione approva un progetto comune, il testo deve essere sottoposto a una terza lettura sia da parte del Parlamento Europeo sia da parte del Consiglio, che hanno altre sei settimane per pronunciarsi. In questa fase, non sono possibili ulteriori modifiche; l'accordo deve essere approvato così com'è per l'adozione dell'atto legislativo. Procedure legislative speciali Le procedure legislative speciali sono disciplinate dai trattati e variano a seconda del caso specifico. Nella maggior parte dei casi, prevedono che l'atto legislativo sia adottato dal Consiglio previa consultazione o previa approvazione del Parlamento Europeo. Inoltre, il Trattato sull'Unione Europea (TUE) consente al Consiglio Europeo di modificare alcune modalità decisionali. In particolare, può decidere che, nei casi in cui i trattati richiedono l'unanimità del Consiglio, quest'ultimo possa invece deliberare a maggioranza qualificata. Il Consiglio Europeo può anche stabilire che, invece di seguire una procedura legislativa speciale, si adotti la procedura legislativa ordinaria. Gli atti legislativi devono essere adeguatamente motivati, per garantire trasparenza e comprensibilità delle decisioni adottate. Una volta approvati, sono firmati dal Presidente del Parlamento Europeo e dal Presidente del Consiglio, e successivamente pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea, rendendoli ufficialmente vincolanti e applicabili. L'ordinamento dell'Unione Europea include anche fonti non scritte, rappresentate dai principi generali dell'ordinamento, che sono stati sviluppati attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Questi principi svolgono un ruolo fondamentale nel garantire la coerenza e l'equità del diritto dell'Unione. Inoltre, l'Unione Europea ha la facoltà di concludere accordi internazionali con paesi terzi o con organizzazioni internazionali. Tali accordi, una volta conclusi, vincolano sia l'Unione che gli Stati membri, integrandosi nell'ordinamento giuridico dell'Unione e contribuendo a definire il quadro normativo in cui essa opera. CAPITOLO 5: LE FONTI DEL DIRITTO Ogni ordinamento giuridico stabilisce le regole attraverso cui specifiche norme vengono riconosciute come appartenenti all'ordinamento stesso. Si definiscono "fonti del diritto" i fatti o gli atti che l'ordinamento giuridico abilita a produrre norme giuridiche. Due caratteristiche fondamentali delle norme giuridiche sono la generalità e l'astrattezza. La teoria delle fonti del diritto si occupa sia delle regole che identificano quali sono le fonti normative, sia delle regole che stabiliscono come vengono prodotte le norme giuridiche. Le fonti di produzione sono quei fatti o atti ai quali l'ordinamento attribuisce la capacità di generare norme giuridiche riconosciute come proprie. Le fonti sulla produzione sono invece le norme che disciplinano i modi di produzione del diritto oggettivo, specificando i soggetti titolari di potere normativo, i procedimenti di formazione delle norme, e gli atti giuridici che ne derivano. Affinché le norme giuridiche siano valide, devono essere emanate attraverso atti normativi deliberati in conformità alle norme di produzione. Quando l'ordinamento riconosce al corpo sociale la capacità di produrre norme in modo autonomo, si parla di fonti fatto. In questo caso, i comportamenti umani, considerati come fatti oggettivi, sono rilevanti. Al contrario, quando la norma è prodotta da un soggetto istituzionale, si parla di fonti atto. Qui, è la manifestazione di volontà di soggetti abilitati dall'ordinamento a produrre diritto che assume importanza. Le fonti sulla produzione hanno anche il compito di determinare i modi attraverso cui le norme prodotte vengono portate a conoscenza dei destinatari, e in questo contesto si parla di fonti di cognizione. La Costituzione rappresenta la fonte suprema del diritto, poiché regola i processi fondamentali di produzione delle norme giuridiche. In particolare, la Costituzione disciplina: - i processi di formazione delle norme di rango costituzionale; - i processi di formazione delle norme di rango primario. Per quanto riguarda gli atti di rango primario, il sistema delle fonti del diritto si configura come un sistema chiuso. Ciò significa che non possono esistere atti di rango primario al di fuori di quelli espressamente previsti dalla Costituzione. Tuttavia, questo non implica che la Costituzione esaurisca la disciplina dei procedimenti necessari per la formazione di tali atti; essa si limita a stabilirne le regole essenziali. Inoltre, il carattere "chiuso" del sistema implica che nessun atto normativo può acquisire una forza maggiore di quella che la Costituzione gli attribuisce. Gli atti di fonte primaria sono dotati di "forza di legge", cioè la capacità di produrre norme giuridiche con determinata efficacia, in base ai requisiti formali stabiliti dalla Costituzione. La "forza di legge" di un atto normativo si articola in due aspetti: Profilo attivo: la capacità dell'atto di abrogare o modificare atti normativi dello stesso rango. Profilo passivo: la capacità dell'atto di resistere all'abrogazione o modifica da parte di atti normativi di rango inferiore. Il concetto di "forza di legge" presuppone che il sistema delle fonti del diritto sia organizzato in una scala gerarchica, dove l'atto situato in una posizione superiore prevale su quello di rango inferiore. Al contrario, per gli atti di rango secondario, subordinati a quelli primari, il sistema delle fonti del diritto è considerato aperto. La determinazione degli atti di fonte secondaria è lasciata alla discrezionalità dei soggetti titolari del potere normativo primario, nel rispetto dei limiti costituzionali. Oltre alla gerarchia e alla competenza, tali atti sono soggetti al principio di legalità, secondo cui l’esercizio del potere normativo secondario deve essere fondato su una norma di legge preesistente. Ogni ordinamento è un sistema che presuppone se stesso come unitario, coerente e completo. Le fonti del diritto sono ordinate secondo criteri stabiliti dalla Costituzione e dalle preleggi del Codice Civile. Questi criteri sono: 1. Criterio cronologico; 2. Criterio della gerarchia; 3. Criterio della competenza. Il criterio cronologico disciplina la successione degli atti normativi nel tempo: in caso di conflitto tra norme prodotte da fonti di pari rango gerarchico, si applica la norma emanata successivamente. In base a questo criterio, la norma precedente è abrogata da quella successiva. Un trattamento diverso è riservato alle leggi speciali. In questo caso, prevale e si applica la norma speciale, anche se emanata in un momento anteriore rispetto alla norma generale; la norma speciale può essere abrogata solo da una norma speciale successiva. Gli atti normativi diventano efficaci e obbligatori per tutti quando entrano in vigore, momento a partire dal quale possono essere applicati concretamente. Una volta in vigore, le norme valgono solo per il futuro e non hanno effetto retroattivo, salvo diversa disposizione di una legge successiva che deroghi a questo principio. Gli atti normativi cessano di essere efficaci quando sono abrogati da atti successivi di pari rango. L’abrogazione presuppone un conflitto tra due norme entrambe valide ma emanate in tempi diversi; essa non elimina la norma precedente, ma ne circoscrive l’efficacia, limitandola ai fatti e ai rapporti sorti tra la data della sua entrata in vigore e quella della sua abrogazione. Quest’ultima può essere di tre tipi: espressa, tacita o incompatibilità, per nuova disciplina dell’intera materia. Distinta dall'abrogazione è la deroga, che si verifica quando una norma introduce un'eccezione a una regola generale, limitandone l'applicazione nel tempo, nello spazio o nei confronti di specifici destinatari. In questi casi, la disciplina generale rimane pienamente efficace per tutte le altre situazioni non coperte dalla deroga. Quando il conflitto tra norme, invece, coinvolge fonti non di pari rango, non si può ricorrere al criterio cronologico, ma si applica il criterio della gerarchia. In questo caso, prevale la norma posta dalla fonte superiore o sovraordinata. Il criterio gerarchico si differenzia da quello cronologico non solo per il presupposto, ma anche per l'effetto conseguente alla risoluzione del conflitto normativo: la norma inferiore non viene considerata abrogata, ma invalida, in quanto non rispetta l'ordine gerarchico delle fonti. L'invalidità comporta l'eliminazione della norma dall'ordinamento giuridico tramite annullamento, e diversamente dall'abrogazione, fa sì che la norma perda efficacia sia per il futuro che per il passato. Il criterio cronologico non può essere utilizzato neppure quando le fonti sono ordinate dalla Costituzione secondo il criterio della competenza. Quest'ultimo si riferisce all'ambito territoriale in cui l'atto normativo è destinato a operare o alla materia specifica che disciplina. In caso di conflitto tra norme, deve prevalere la norma emanata dalla fonte competente a disciplinare una determinata fattispecie, escludendo l'applicazione di altre fonti normative. L'applicazione del diritto richiede un'attività interpretativa, che può assumere diverse forme: 1. Interpretazione letterale o testuale: Si basa sul significato delle parole utilizzate nella norma. 2. Interpretazione teologica: Prende in considerazione il contesto nel quale la norma è stata emanata. 3. Interpretazione logico-sistematica: Fa riferimento al sistema giuridico di cui la norma fa parte. L'articolo 12 delle preleggi introduce anche l'interpretazione analogica come strumento per colmare eventuali lacune normative. Si distinguono due tipi di analogia: Analogia legis: La lacuna normativa viene colmata facendo riferimento a casi simili o materie analoghe già disciplinate dalla legge. Analogia iuris: In mancanza di una norma specifica, si ricorre ai principi generali dell'ordinamento giuridico, dedotti interpretativamente dal complesso delle norme vigenti. L'uso dell'analogia incontra importanti limiti nel diritto penale, dove non può essere applicata per ampliare l'ambito di punibilità. Per quanto riguarda le disposizioni costituzionali che tutelano i diritti fondamentali, si applica il criterio di stretta interpretazione: in caso di dubbio, l'interprete deve evitare di attribuire alle disposizioni costituzionali un significato che possa risultare lesivo o restrittivo dei diritti garantiti. Va distinta da queste forme di interpretazione l'interpretazione autentica, che è quella effettuata dal legislatore stesso tramite una legge apposita, con l'obiettivo di chiarire il significato di una norma precedente di dubbia interpretazione. Le leggi di interpretazione autentica sono retroattive per natura, poiché stabiliscono il significato di disposizioni già in vigore. Dal momento dell'entrata in vigore di una legge di interpretazione autentica, l'interprete è tenuto ad applicare la norma secondo il significato stabilito dalla legge stessa. La Costituzione rappresenta l'atto supremo dell'ordinamento giuridico, in quanto emanata dal potere costituente. Tutti gli altri atti normativi, essendo prodotti da poteri costituiti, sono subordinati ad essa. La caratteristica fondamentale della Costituzione è la sua rigidità, che significa che può essere modificata solo attraverso un processo di revisione costituzionale. L'articolo 138 della Costituzione prevede, tra le fonti di diritto di rango costituzionale: Le leggi di revisione costituzionale, che modificano la Costituzione attraverso la sostituzione, aggiunta o soppressione di parti del suo testo. Le leggi costituzionali: queste possono essere sia quelle richiamate espressamente da specifiche disposizioni costituzionali per integrare la disciplina di determinate materie, sia quelle che, per l'importanza della materia trattata, il Parlamento decide di deliberare come leggi costituzionali. Il processo di formazione delle leggi di rango costituzionale è più complesso rispetto a quello delle leggi ordinarie. Esso prevede un procedimento aggravato che include due letture da parte di ciascuna Camera: 1. Prima lettura: Si svolge secondo le regole previste per qualsiasi procedimento legislativo. 2. Seconda lettura: Deve avvenire a distanza di almeno tre mesi dalla prima. Durante la seconda lettura delle leggi di revisione costituzionale, possono verificarsi due scenari: a) Prima ipotesi: Se il progetto di legge costituzionale viene approvato con la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, esso viene pubblicato a scopo informativo sulla Gazzetta Ufficiale. Da quel momento, decorrono tre mesi entro i quali un quinto dei membri di una Camera, cinque Consigli regionali, o 500.000 elettori possono richiedere che la legge costituzionale venga sottoposta a referendum popolare. Se viene richiesto il referendum, la legge costituzionale può essere promulgata solo se ottiene l'approvazione della maggioranza dei voti validi nella consultazione popolare. b) Seconda ipotesi: Se il progetto di legge costituzionale è stato approvato con una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non è possibile richiedere un referendum, e la legge viene direttamente promulgata e pubblicata. Il referendum costituzionale svolge una funzione di garanzia, poiché tutela le minoranze, consentendo loro di chiedere all'intero corpo elettorale di esprimersi su una legge costituzionale approvata dalla maggioranza parlamentare. Vi sono, tuttavia, limiti alla revisione costituzionale, che sono strettamente legati al concetto di rigidità costituzionale e che distinguono tra una semplice modificazione della Costituzione e un suo mutamento radicale. L'unico limite espresso è previsto dall'articolo 139 della Costituzione, che stabilisce che la forma repubblicana dello Stato non può essere oggetto di revisione costituzionale. Esistono inoltre limiti impliciti, che non sono esplicitamente indicati, ma derivano dalle scelte fondamentali sancite nella Costituzione repubblicana. Questi limiti coincidono con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale, che conferiscono identità all'intero sistema. Se questi principi venissero compromessi nel loro contenuto essenziale, non si tratterebbe di una semplice revisione, ma di un vero e proprio mutamento della Costituzione. Le autorità italiane applicano il diritto dell'Unione Europea sia direttamente, come nel caso dei regolamenti, sia attraverso l'adeguamento dell'ordinamento interno, come avviene con le direttive. Questo processo garantisce il rispetto del principio di primato del diritto dell'Unione. A differenza di molti altri Stati membri, in Italia si è sviluppata un'interpretazione giurisprudenziale secondo la quale l'articolo 11 della Costituzione fornisce un solido fondamento per stipulare trattati che comportano limitazioni di sovranità. Secondo la Corte Costituzionale, i limiti a tale possibilità sono rappresentati esclusivamente dai principi supremi dell'ordinamento costituzionale e dai diritti inviolabili della persona. Il problema dei rapporti tra le fonti del diritto europeo e quelle interne è stato risolto attraverso un lungo e graduale processo evolutivo della giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha spesso dialogato, non senza contrasti, con la Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Inizialmente, la Corte Costituzionale riteneva che i rapporti tra norme europee e norme interne dovessero essere interpretati secondo il criterio cronologico, cioè in base alla data di emanazione delle norme. Tuttavia, in seguito, la Corte ha modificato il suo approccio: in caso di conflitto tra un regolamento comunitario e una legge nazionale, ha adottato un criterio gerarchico, affermando la necessità di sollevare questioni di costituzionalità. La Corte ha quindi riservato a sé il compito di dichiarare l'illegittimità delle norme interne incompatibili con il diritto comunitario preesistente, per violazione indiretta dell'articolo 11 della Costituzione. La Corte Costituzionale italiana ha riconosciuto che il diritto dell'Unione Europea (UE) ha la priorità rispetto al diritto nazionale. Questo significa che, in caso di conflitto tra una legge italiana e una normativa dell'UE, il giudice italiano deve applicare la normativa dell'UE. La Corte Costituzionale sottolinea che sia l'ordinamento italiano che quello dell'UE sono autonomi e distinti, anche se coordinati. Ciò significa che, pur essendo due sistemi giuridici separati, devono funzionare in armonia. Tuttavia, quando c'è una normativa europea su una certa materia, la normativa italiana in contrasto con essa non viene applicata. La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, diversamente dalla Corte Costituzionale italiana, adotta una visione monista, secondo cui il diritto dell'UE e quello nazionale fanno parte di un unico sistema giuridico. Secondo questa visione, non basta che il giudice italiano ignori una legge nazionale in contrasto con il diritto dell'UE; lo Stato italiano ha l'obbligo di eliminare o modificare tale legge in modo che non contrasti più con il diritto dell'UE. Regolamenti e Direttive: Le normative europee si dividono principalmente in regolamenti e direttive. I regolamenti sono immediatamente applicabili in tutti gli Stati membri e prevalgono su qualsiasi legge nazionale in contrasto. Le direttive, invece, solitamente richiedono una legge nazionale per essere attuate. Tuttavia, in certi casi, la Corte di Giustizia ha riconosciuto che alcune direttive possono avere efficacia diretta, cioè possono essere applicate direttamente dai giudici nazionali anche senza una legge nazionale che le recepisca, se sono sufficientemente chiare e precise. Queste direttive vengono chiamate "autodirettive". La legge ordinaria dello Stato è una fonte di diritto a competenza generale, cioè può disciplinare qualsiasi materia, salvo quelle che la Costituzione regola direttamente o attribuisce ad altre fonti normative. Le materie riservate alla legge statale riguardano interessi e valori di rilevanza generale, che devono essere garantiti uniformemente su tutto il territorio nazionale. La legge statale è l'atto attraverso cui vengono prodotte le norme primarie, il cui potere è attribuito alle Camere dalla Costituzione. L'articolo 117 della Costituzione stabilisce che la legislazione statale deve rispettare, oltre alla Costituzione stessa, anche i vincoli derivanti dall'ordinamento dell'Unione Europea. La Costituzione riserva alla legge ordinaria il potere di regolare determinate materie attraverso il meccanismo della "riserva di legge". Questa riserva si manifesta in due aspetti principali: Aspetto positivo: La legge ha l'obbligo di intervenire nelle materie riservate, il che significa che tali materie devono essere disciplinate esclusivamente dalla legge e non da altri atti normativi. Aspetto negativo: Solo la legge può intervenire nelle materie riservate, il che esclude la possibilità che altri atti normativi (come regolamenti o decreti) possano disciplinare quelle stesse materie. Le riserve di legge hanno lo scopo di garantire il principio democratico, assicurando che le decisioni fondamentali siano prese dal Parlamento, che è eletto democraticamente. Inoltre, proteggono i diritti fondamentali e assicurano il rispetto del principio di eguaglianza, garantendo che le stesse regole valgano per tutti i cittadini. Le riserve di legge si dividono in due categorie principali: Riserve assolute: In questo caso, l'intera disciplina di una materia è riservata esclusivamente alla legge. Ciò significa che solo la legge può regolare quella materia, con la sola eccezione di eventuali regolamenti di stretta esecuzione, che hanno il compito di attuare concretamente quanto già stabilito dalla legge senza aggiungere o modificare nulla di sostanziale. Riserve relative: In questa situazione, la legge deve occuparsi di disciplinare gli aspetti essenziali o i principi fondamentali della materia. Questo intervento della legge serve a delimitare e orientare l'azione dell'esecutivo, che poi può adottare regolamenti per disciplinare in dettaglio gli aspetti operativi o specifici, rispettando i principi e i limiti stabiliti dalla legge. Entrambe queste riserve di legge, sia assolute che relative, possono essere definite riserve rinforzate quando la Costituzione prevede che l'intervento legislativo debba seguire determinate procedure particolari, come ad esempio una maggioranza qualificata o una specifica sequenza di passaggi normativi. Tuttavia, è importante notare che non sempre la forma della legge (cioè il suo aspetto formale come atto giuridico) corrisponde al suo contenuto tipico (cioè la materia che dovrebbe regolare). Questo significa che, in alcuni casi, una legge potrebbe non rispettare pienamente i requisiti formali o sostanziali che le sono richiesti dalla Costituzione. La Costituzione italiana, in deroga al principio di separazione dei poteri, conferisce al Governo la potestà normativa di rango primario. Tuttavia, questa potestà non è né autonoma né ordinaria, poiché la Costituzione richiede sempre l'intervento del Parlamento come garanzia. Infatti, il Governo non può adottare decreti legislativi senza una previa legge di delegazione, mentre i decreti legge, adottati solo in casi straordinari di necessità e urgenza, hanno efficacia provvisoria e devono essere convertiti in legge dalle Camere entro 60 giorni. La delegazione legislativa è un procedimento duale di produzione normativa, che coinvolge sia il Parlamento che il Governo. La legge di delegazione attribuisce al Governo il potere di adottare atti aventi forza di legge e deve rispettare alcune condizioni specifiche: Individuare l'oggetto o gli oggetti della delega, che devono essere chiaramente distinti. Stabilire i principi generali e i criteri direttivi che il Governo deve seguire nell'adozione dei decreti legislativi. Indicare il termine entro il quale la delega può essere esercitata. Esistono anche limiti alle materie che possono essere oggetto di delegazione legislativa. Il decreto legislativo è l'atto che il Governo adotta in attuazione della legge di delegazione. La procedura prevede che, prima di esercitare la delega, il Governo debba ottenere il parere delle competenti commissioni permanenti delle Camere o di apposite commissioni bicamerali. Nella maggior parte dei casi, le leggi di delegazione conferiscono al Governo il potere di adottare atti con forza di legge, ma questi atti non possono essere utilizzati per derogare a qualsiasi disposizione della Costituzione. Il rispetto dei limiti costituzionali rimane una condizione imprescindibile per l'esercizio della delega legislativa. l Governo, in presenza di specifici presupposti, può adottare decreti legge. Secondo l'articolo 77 della Costituzione, il decreto legge può essere adottato solo in casi di straordinaria necessità e urgenza. Una volta adottato, il decreto legge deve essere immediatamente presentato alle Camere per la conversione in legge, e le Camere, anche se sciolte, devono riunirsi entro cinque giorni dall'adozione del decreto. Il decreto legge ha efficacia provvisoria e una durata limitata a 60 giorni. Se entro questo termine non viene convertito in legge dal Parlamento, il decreto perde immediatamente efficacia sin dal principio, come se non fosse mai stato emanato.Nel preambolo del decreto legge devono essere specificate le circostanze straordinarie che ne hanno giustificato l'adozione. Una volta adottato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, il decreto diventa oggetto di un disegno di legge di conversione, che viene presentato alla Camera o al Senato. La legge di conversione è l'atto con cui il Parlamento si riappropria della funzione legislativa, esercitata in via eccezionale dal Governo. Gli emendamenti approvati dalle Camere durante il processo di conversione hanno efficacia solo per il futuro, ossia dal giorno successivo alla pubblicazione della legge di conversione, salvo che questa non disponga diversamente. Nel caso in cui il decreto legge decada perché non convertito in legge, il Parlamento ha la facoltà di adottare una legge che regoli i rapporti e le situazioni giuridiche create durante il periodo di provvisoria vigenza del decreto. Questa misura serve a evitare che si creino situazioni di ingiustizia o disparità di trattamento dovute alla mancata conversione del decreto legge. La reiterazione dei decreti legge si verifica quando, a seguito della decadenza di un decreto legge non convertito in legge entro i 60 giorni previsti, il Governo ripropone le stesse disposizioni normative in un nuovo decreto legge. Questa pratica consiste quindi nel trasferire le norme di un decreto non convertito in un altro decreto, emanato immediatamente dopo la decadenza del precedente. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha ritenuto la reiterazione dei decreti legge contraria al sistema costituzionale, affermando che essa viola il principio di temporaneità e di straordinarietà che deve caratterizzare l'adozione di tali atti. La reiterazione, infatti, aggira il limite temporale imposto dalla Costituzione, permettendo di mantenere in vigore disposizioni che non hanno ottenuto la necessaria approvazione parlamentare entro i termini stabiliti. Pertanto, la Corte ha sancito che il Governo non può reiterare decreti legge che non siano stati convertiti, ribadendo la centralità del Parlamento nel processo legislativo. L'articolo 75 della Costituzione prevede il referendum popolare per l'abrogazione totale o parziale di leggi ordinarie e di atti aventi forza di legge. Questo strumento consente ai cittadini di esprimersi direttamente sulla cancellazione di norme giuridiche. Accanto a queste, esistono fonti legislative specializzate che, pur non costituendo una categoria scientifica autonoma, si distinguono per il loro ambito di applicazione esclusivo, per i particolari procedimenti di formazione e per la loro forza attiva e passiva specifica. Le fonti legislative specializzate regolano, infatti, materie particolari e richiedono percorsi di approvazione diversi rispetto a quelli delle leggi ordinarie. Tra le principali fonti legislative specializzate rientrano: Le leggi di esecuzione dei Patti Lateranensi, che regolano i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Le leggi che disciplinano i rapporti tra lo Stato e le altre confessioni religiose, spesso adottate in seguito a intese con le rispettive comunità religiose. Le leggi di amnistia e indulto, che prevedono la remissione di pene o la cancellazione di reati. Le leggi di attuazione del principio dell'equilibrio di bilancio, in linea con i vincoli costituzionali e internazionali di finanza pubblica. Le leggi che attribuiscono ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni a statuto ordinario, ampliando le loro competenze. Le leggi che staccano una provincia o un comune da una regione per aggregarli a un'altra, modificando così i confini territoriali. I decreti legislativi di attuazione degli statuti delle regioni a statuto speciale, che regolano l'esercizio delle competenze attribuite a queste regioni. Queste fonti, pur essendo diversificate, condividono la caratteristica di disciplinare materie specifiche con un grado di specializzazione e di formalità che le distingue dalle leggi ordinarie. I regolamenti parlamentari sono atti fonte di rango primario, poiché attuano direttamente la Costituzione, che assegna alle Camere una riserva di regolamento. Questi regolamenti sono fonti del diritto in quanto disciplinano non solo l'organizzazione e il funzionamento interno della Camera dei deputati e del Senato, ma anche le loro relazioni con altri organi e soggetti. Oltre ai regolamenti principali, le Camere possono adottare regolamenti speciali che disciplinano l'organizzazione e il funzionamento dei loro organi interni. Sebbene i regolamenti parlamentari abbiano rango primario, la Corte Costituzionale ha escluso che possano essere sottoposti al controllo di costituzionalità. Questa esclusione si basa sul fatto che tali regolamenti non sono menzionati nell'articolo 134 della Costituzione e sono considerati espressione dell'autonomia costituzionale garantita alle Camere. La potestà regolamentare è riconosciuta anche ad altri organi costituzionali, sulla base di previsioni legislative. Ad esempio, la Corte Costituzionale, in virtù della sua posizione di supremo organo di garanzia dell'ordinamento, può adottare regolamenti per disciplinare il proprio funzionamento. Anche la Presidenza della Repubblica è autorizzata a emanare regolamenti interni per gestire l'organizzazione e il funzionamento del proprio apparato amministrativo. Diverso è il caso dei regolamenti emanati da istituzioni interne al Governo. Questi atti, essendo emessi dall'organo che si trova al vertice dell'amministrazione centrale dello Stato, hanno natura di regolamenti secondari. Tuttavia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri gode di una generale autonomia organizzativa, contabile e di bilancio, che richiama l'autonomia riconosciuta alle Camere, alla Corte Costituzionale e alla Presidenza della Repubblica. I regolamenti sono fonti del diritto di rango secondario, subordinate a quelle di rango primario. A differenza delle fonti primarie, che costituiscono un sistema chiuso, le fonti secondarie, come i regolamenti, non sono rigidamente delimitate. Tuttavia, affinché la potestà regolamentare possa essere legittimamente esercitata, deve essere fondata su una norma di legge che attribuisca il relativo potere, in ossequio al principio di legalità. Regolamenti del Governo: Sono disciplinati dall'articolo 17 della legge n. 400/1988, che legittima il Governo ad adottare regolamenti senza la necessità di una specifica norma attributiva per ciascuno di essi. Questi regolamenti vengono deliberati dal Consiglio dei Ministri, previo parere del Consiglio di Stato, che deve pronunciarsi entro 90 giorni, e sono emanati con decreto del Presidente della Repubblica. Esistono diversi tipi di regolamenti governativi: Regolamenti di esecuzione: Implementano specifiche disposizioni legislative, fornendo dettagli applicativi. Regolamenti di attuazione e integrazione: Integrano e specificano le leggi esistenti, senza alterarne i contenuti sostanziali. Regolamenti indipendenti: Disciplinano materie non coperte da normative legislative, purché non si tratti di materie riservate alla legge. Questi regolamenti colmano vuoti normativi in ambiti non riservati esclusivamente alla legge. Regolamenti di organizzazione: Regolano l'organizzazione e il funzionamento delle strutture interne del Governo e delle amministrazioni pubbliche. Tra i regolamenti governativi, un ruolo particolare è svolto dai regolamenti di delegificazione (o delegati), che disciplinano materie non coperte da riserva assoluta di legge, già regolate da normative legislative. Questi regolamenti sostituiscono la normativa legislativa, con l'obiettivo di ridurre l'ambito delle materie regolate dalla legge e di snellire il processo legislativo. I regolamenti ministeriali e interministeriali sono specifici atti normativi secondari che disciplinano materie di competenza di uno o più ministeri. Essi giocano un ruolo fondamentale nell'attuazione e nella specificazione di norme legislative, ma hanno un rango subordinato rispetto ai regolamenti del governo. Regolamenti Ministeriali. I regolamenti ministeriali vengono adottati da un singolo ministro e riguardano materie che rientrano nelle specifiche competenze di quel ministero. Questi regolamenti sono fondamentali per la gestione operativa e amministrativa di settori particolari, consentendo al ministro di emanare disposizioni più dettagliate e tecniche rispetto a quelle previste dalla legge o dai regolamenti governativi. I regolamenti ministeriali devono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei Ministri prima della loro adozione, assicurando che siano in linea con le politiche generali del governo e che non confliggano con altri atti normativi di rango superiore. Regolamenti Interministeriali. I regolamenti interministeriali, invece, vengono adottati congiuntamente da più ministri quando una materia rientra nelle competenze di più ministeri. Anche questi regolamenti devono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei Ministri prima della loro adozione, per garantire coerenza nell'azione governativa. Sia i regolamenti ministeriali che quelli interministeriali vengono adottati mediante decreto ministeriale o interministeriale, rispettivamente. Questi decreti devono rispettare i limiti imposti dai regolamenti del governo, essendo subordinati a essi nella gerarchia delle fonti del diritto. Le fonti del diritto regionale rappresentano gli atti normativi che regolano l'ordinamento giuridico all'interno delle regioni italiane, garantendo una certa autonomia legislativa. Queste fonti derivano direttamente dalla Costituzione italiana, che attribuisce alle regioni il potere di emanare norme giuridiche proprie. Le principali fonti del diritto regionale sono: Statuto Regionale. È l'atto fondamentale di una regione, equivalente a una "costituzione" regionale. Esso stabilisce l'organizzazione interna, il funzionamento e le competenze degli organi regionali, definendo i principi fondamentali dell'autonomia regionale. Lo statuto è adottato dal consiglio regionale attraverso una legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi membri. L'adozione dello statuto segue un procedimento particolare, che richiede due deliberazioni separate da un intervallo minimo di due mesi. Una volta approvato, lo statuto è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed entra in vigore. In caso di richiesta da parte di un cinquantesimo degli elettori regionali o di un quinto dei membri del consiglio regionale, lo statuto può essere sottoposto a referendum. Lo statuto ha una forza normativa primaria all'interno della regione, ma deve rispettare i principi costituzionali e le leggi fondamentali della Repubblica. Leggi Regionali. Sono gli strumenti principali attraverso i quali le regioni esercitano la loro potestà legislativa. Queste leggi possono disciplinare materie di competenza esclusiva regionale, concorrente con lo Stato, o residuale. La Costituzione, nell'articolo 117, elenca le materie in cui le regioni possono legiferare, come la sanità, l'urbanistica, e il commercio. Nelle materie di competenza concorrente, le leggi regionali devono rispettare i principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali. Le leggi regionali devono inoltre conformarsi ai vincoli costituzionali, comunitari e agli obblighi internazionali. Esse hanno una forza normativa primaria, ma restano subordinate ai principi e alle norme stabilite a livello nazionale. Regolamenti Regionali. I regolamenti regionali sono atti normativi secondari, utilizzati per dare attuazione alle leggi regionali o per disciplinare aspetti specifici delle materie di competenza regionale. Essi vengono adottati dalla giunta regionale o da altri organi previsti dallo statuto regionale. I regolamenti regionali hanno una forza normativa subordinata rispetto alle leggi regionali e alle fonti di diritto di rango superiore, come la Costituzione, le leggi statali e le norme dell'Unione Europea. Statuti speciali. Le regioni a statuto speciale godono di particolari forme e condizioni di autonomia, stabilite dagli statuti approvati tramite legge costituzionale. Il procedimento di revisione di questi statuti è disciplinato dall’art. 138 della Costituzione, con due importanti differenze rispetto alla procedura ordinaria. La prima differenza riguarda il coinvolgimento dell'assemblea regionale: quando la revisione dello statuto è proposta dal governo o dal parlamento, il progetto di legge costituzionale deve essere comunicato all’assemblea regionale, la quale dispone di due mesi per esprimere un proprio parere. La seconda differenza è l'assenza del referendum nazionale, che non è previsto per la revisione degli statuti speciali. Questa procedura semplificata si applica principalmente alle norme di carattere finanziario. Inoltre, gli statuti speciali non regolano più direttamente la forma di governo regionale. Quest'ultima è ora disciplinata da una nuova fonte normativa regionale, la legge statutaria, che gli statuti stessi sottopongono a un procedimento di approvazione particolarmente rigoroso. Le fonti normative degli enti locali includono gli statuti e i regolamenti. Lo statuto è il documento che stabilisce le norme fondamentali per l’organizzazione dell’ente locale. Viene adottato dal consiglio comunale con una maggioranza qualificata di due terzi dei suoi membri. Se questa maggioranza non viene raggiunta, il progetto di statuto è sottoposto nuovamente a votazione entro 30 giorni e si considera approvato se ottiene, per due volte consecutive, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri. Regolamenti. Ogni ente locale possiede una potestà regolamentare, che è esercitata dal consiglio dell’ente stesso, ad eccezione dei regolamenti comunali relativi all’ordinamento dei servizi e degli uffici, che sono di competenza della giunta. Lo statuto dell’ente è subordinato alla legge statale, pertanto, in questi casi, non costituisce una fonte primaria. Le fonti di espressione dell'autonomia collettiva, rappresentano l'autonomia dei privati e sono direttamente previste dalla Costituzione. Per essere considerate tali, devono: - contenere norme generali e astratte, anche se riferite a una specifica categoria sociale; - devono poter produrre effetti erga omnes, essere sostenute da apparati dello Stato; - ricevere un trattamento proprio delle fonti del diritto. Un esempio sarebbero i contratti collettivi di lavoro previsti dall'art. 39, stipulati da sindacati registrati e dotati di personalità giuridica, con lo scopo di regolare i rapporti di lavoro. Tuttavia, questo articolo non è mai stato attuato per varie ragioni. Di conseguenza, il vuoto è stato colmato dai contratti collettivi di diritto comune, stipulati secondo il Codice civile, che vincolano solo i membri delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali firmatarie, senza estendersi a tutta la categoria lavorativa. Gli artt. 2077 e 2113 rendono invalide tutte le clausole contrattuali peggiorative rispetto al contratto collettivo. L'art. 36 della Costituzione garantisce il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata, stabilendo anche il minimo contrattuale dovuto. Tuttavia, questi contratti non possono essere considerati vere e proprie fonti del diritto. Potrebbero esserlo, invece, i contratti collettivi che regolano il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, stabilendo le norme per la formazione del soggetto contraente pubblico. Questi contratti, vincolanti per tutti i dipendenti pubblici, vengono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, configurandosi così come una fonte del diritto negoziata. Fonti esterne. Nel sistema giuridico italiano, anche le fonti normative di ordinamenti esteri possono essere considerate fonti del diritto, se il nostro ordinamento vi fa rinvio. Questo rinvio può essere di due tipi: 1. Rinvio mobile o alla fonte: il rinvio riguarda tutte le norme che la fonte esterna può produrre nel tempo. 2. Rinvio fisso o alla disposizione: il rinvio riguarda una specifica norma storicamente determinata. Esiste anche l’adattamento automatico delle norme internazionali generalmente riconosciute, previsto dall'art. 10 della Costituzione. Questo articolo stabilisce che le consuetudini internazionali diventino parte del nostro ordinamento giuridico. Il rinvio fisso si realizza attraverso ordini di esecuzione, di solito dati con legge, che recepiscono norme contenute in trattati e accordi internazionali. Le norme interne che riconoscono le fonti esterne sono fonti di produzione, come le fonti esterne riconosciute che sono fonti di produzione. Tuttavia, le fonti esterne, non essendo deliberate dagli organi dello stato, sono considerate fonti di fatto e non di atto, e tendono ad avere un valore inferiore rispetto alle fonti interne. Questo approccio sembra contrastare con il principio costituzionale di apertura verso altri ordinamenti. Ci sono però dei limiti: i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona possono impedire l'applicazione di norme esterne che violino tali principi. Ad esempio, la Corte Costituzionale ha affermato che l’immunità giurisdizionale degli stati stranieri non può compromettere il diritto di accesso alla giustizia per ottenere risarcimenti in casi di guerre e crimini contro l'umanità. Le norme interne di diritto internazionale privato collegano il nostro ordinamento con altri e permettono il riconoscimento delle fonti esterne capaci di produrre diritto oggettivo per disciplinare specifiche situazioni. Tuttavia, le norme straniere richiamate possono essere applicate solo se non esistono norme italiane di applicazione necessaria o se non sono contrarie all'ordine pubblico. In aggiunta, le norme dell’Unione Europea hanno una funzione simile a quella del diritto internazionale privato, regolando i rapporti tra gli ordinamenti degli Stati membri e creando una sorta di diritto internazionale privato europeo. La fonte di fatto per eccellenza è la consuetudine (o uso). Questa si basa su due elementi: 1. Elemento materiale: un comportamento ripetuto nel tempo (diuturnitas). 2. Elemento soggettivo: la convinzione del corpo sociale che tale comportamento sia giuridicamente dovuto (opinio iuris ac necessitatis). Se manca questa convinzione, si parla semplicemente di prassi. Le norme consuetudinarie sono subordinate alle fonti di atto. Per essere valide, le consuetudini devono essere: Secundum legem: conformi alle norme di legge o regolamenti. Praeter legem: operanti in materie non regolate dalle leggi, cioè al di fuori di qualsiasi norma. Mai contra legem: non possono essere contrarie alla legge. In materia costituzionale, le consuetudini integrano le norme scritte e sono chiamate consuetudini costituzionali. Esse hanno rango costituzionale e prevalgono su tutte le fonti subordinate. Tra le fonti di fatto si includono anche: - Le convenzioni costituzionali: un concetto preso dal diritto anglosassone e adattato al nostro ordinamento. - Le norme di correttezza costituzionale: le regole di "galateo" che regolano i rapporti tra gli organi costituzionali. Le fonti di cognizione sono documenti o atti che non hanno forza normativa, ma servono a rendere conoscibile il diritto oggettivo. Non sono quindi vere e proprie fonti di diritto. È importante distinguere tra: Fonti di cognizione con valore legale: come la Gazzetta Ufficiale, che pubblica ufficialmente gli atti normativi. Fonti di cognizione con valore meramente conoscitivo: come la banca dati Normattiva, che offre gratuitamente l’insieme delle norme statali vigenti. In base agli articoli 73 e 10 delle preleggi, tutti gli atti normativi devono essere pubblicati secondo le modalità previste dalla legge: Atti normativi statali: pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Atti normativi regionali: pubblicati sul Bollettino Ufficiale di ciascuna regione. Atti normativi locali: pubblicati sull’albo pretorio dell’ente locale. La disciplina sulla promulgazione, emanazione e pubblicazione degli atti normativi è regolata dal d.p.r. 1092/1985. Il Ministro della Giustizia è responsabile della pubblicazione degli atti normativi, dei trattati, degli accordi internazionali e delle sentenze della Corte Costituzionale nella raccolta ufficiale. La Gazzetta Ufficiale pubblica anche: - Leggi e regolamenti delle regioni e delle province autonome. - Regolamenti e direttive dell’Unione Europea. - Testi integrali di sentenze, ordinanze della Corte Costituzionale e atti di promovimento del giudizio. Gli atti normativi sono denominati come segue: - Leggi: approvate dalle camere e promulgate dal Presidente della Repubblica. - Atti del governo: emanati con decreto del Presidente della Repubblica e denominati in base alla loro natura (decreto-legge, decreto legislativo, regolamenti, ecc.). I regolamenti non deliberati dal Consiglio dei Ministri sono denominati decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, decreto ministeriale o decreto interministeriale. Gli atti normativi sono citati indicando il giorno, il mese, l’anno di emanazione e il numero. Sono numerati annualmente e progressivamente a partire dalla data di pubblicazione. Gli atti legislativi e regolamentari entrano in vigore dopo 15 giorni (vacatio legis). Testi unici. I testi unici, o codici, possono essere fonti di cognizione o di produzione e servono a raccogliere e coordinare atti normativi preesistenti su una stessa materia, facilitando la loro consultazione e garantendo coerenza normativa. Si distinguono in: - Testi unici compilativi: atti amministrativi che semplificano la conoscenza del diritto su una materia specifica, deliberati dal governo con autorizzazione del Parlamento. - Testi unici normativi: non solo raccolgono le norme vigenti, ma innovano il diritto abrogando gli atti preesistenti. Deliberati dal governo sotto forma di decreti legislativi o legge delegazione, questi testi unici sostituiscono le norme contenute nelle fonti originarie. In caso di conflitto tra la norma del testo unico e quella della fonte originaria, bisogna fare riferimento al testo unico. CAPITOLO 6: I DIRITTI FONDAMENTALI La formazione dello Stato moderno è stata accompagnata dall'emergere e dalla codificazione dei diritti fondamentali. Un momento cruciale in questo processo è stata la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, con cui i francesi proclamarono i diritti naturali e inalienabili dell'uomo. Questa dichiarazione, profondamente influenzata dal pensiero giusnaturalistico, affermava l'autonomia dell'individuo di fronte all'autorità dello Stato e fu successivamente inserita nei preamboli di tutte le costituzioni francesi. I diritti civili, o diritti di prima generazione, rappresentano la prima affermazione di queste libertà fondamentali. Questi diritti, noti anche come "libertà negative" o "libertà dallo Stato", garantiscono all'individuo una sfera personale indipendente dall'intervento statale. Tra questi diritti rientrano la libertà personale, la libertà di domicilio, il diritto di proprietà, la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa. Con l'evoluzione sociale e grazie all'impegno del proletariato urbano, i diritti civili si rafforzarono e vennero affiancati dai diritti politici, o diritti di seconda generazione. Questi diritti, detti anche "libertà nello Stato" o "libertà positive", includono il diritto di voto e il diritto di associazione in partiti e sindacati. L'emergere di questi diritti segnò il passaggio dallo Stato liberale allo Stato liberaldemocratico, caratterizzato da una maggiore inclusività politica e sociale. Dopo la Grande Depressione del 1929, si avvertì la necessità di un intervento statale più deciso per riequilibrare le disuguaglianze sociali e garantire i diritti sociali, o diritti di terza generazione. Questi diritti, detti anche "libertà attraverso lo Stato", comprendono il diritto all'istruzione, alla salute, al lavoro, all'assistenza e alla previdenza. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il progresso culturale, economico e tecnologico ha portato alla nascita di nuove esigenze di tutela, dando origine ai cosiddetti "nuovi diritti" o diritti di quarta generazione. Questi diritti riguardano soprattutto la dignità umana in relazione a problematiche moderne come la tutela dell'ambiente, l'informazione, le nuove tecnologie e la bioetica. I diritti fondamentali, quindi, comprendono tutti i diritti civili, politici, sociali e quelli di nuova generazione, e costituiscono il fondamento delle costituzioni moderne. Con il termine "diritti umani", invece, ci si riferisce ai diritti riconosciuti dall'ordinamento internazionale, validi per tutte le persone e i popoli. Successivamente, diventa essenziale garantire i diritti fondamentali attraverso le cosiddette "istituzioni per la garanzia della libertà", ovvero le diverse autorità istituite specificamente per la tutela dei diritti dei cittadini. Sono considerati soggetti di diritto coloro che possiedono la capacità giuridica, ossia l'attitudine ad essere titolari di situazioni giuridiche. Il nostro ordinamento riconosce come soggetti di diritto sia le persone fisiche (individui) sia le persone giuridiche (insiemi di persone fisiche o di beni, come le associazioni o le società). Secondo gli articoli 1 e 2 del Codice civile, la capacità giuridica si acquisisce alla nascita, mentre la capacità d'agire, ovvero la possibilità di esercitare effettivamente i propri diritti e assumere obblighi, si ottiene generalmente con la maggiore età. Tuttavia, il Codice prevede che la capacità d'agire possa essere limitata o persa in determinate circostanze, come nel caso di interdizione. Le situazioni giuridiche si dividono in favorevoli e sfavorevoli: a. Situazioni giuridiche favorevoli: Potere giuridico: È una condizione potenziale che consente di ottenere determinati effetti giuridici, come ad esempio il diritto di accedere a cariche elettive in condizioni di uguaglianza (art. 51). Diritto soggettivo: È la situazione in cui un soggetto gode di una tutela diretta e immediata da parte dell'ordinamento giuridico. Questo diritto include non solo specifiche facoltà, ma anche la pretesa di influenzare il comportamento altrui. I diritti soggettivi si suddividono in: o Diritti assoluti: Obbligano tutti i soggetti dell'ordinamento a non interferire con il loro godimento (es. i diritti fondamentali). o Diritti relativi: Dipendono da un comportamento richiesto a un determinato soggetto, come quelli derivanti da un contratto, che si estinguono una volta ottenuta la prestazione. Interesse legittimo: È una situazione di vantaggio in cui il titolare gode di poteri strumentali per proteggere un proprio interesse, ma la sua tutela dipende dalla coincidenza con un interesse pubblico. Ad esempio, l'interesse di un candidato affinché dalla graduatoria di un concorso siano esclusi coloro che non hanno i requisiti necessari è tutelato non solo in quanto interesse individuale, ma in quanto conforme all'interesse pubblico. b. Situazioni giuridiche sfavorevoli: Obblighi: Comportamenti che un soggetto deve osservare per rispettare un diritto altrui. Doveri: Comportamenti dovuti indipendentemente dall'esistenza di un diritto corrispondente, legati a uno specifico interesse; si definiscono costituzionali quando sono previsti dalla Costituzione. Onere: È una condizione che un soggetto deve soddisfare per perseguire un proprio interesse, come ad esempio l'onere della prova in un processo. Soggezioni: La condizione di chi è sottoposto a un potere giuridico, come l'imputato in un processo. Per comprendere chi siano i titolari dei diritti all'interno di un sistema giuridico, è importante distinguere tra cittadini e stranieri.. In Italia, la cittadinanza è regolata dalla legge 91/1992, che stabilisce chi può essere considerato cittadino italiano attraverso vari criteri: 1. Ius Sanguinis (diritto di sangue): È cittadino italiano chi nasce da madre o padre italiani. Questo principio mira a preservare la coesione etnico-culturale del paese. 2. Ius Soli (diritto di suolo): È cittadino italiano chi nasce sul territorio italiano da genitori ignoti o apolidi. Questo principio, più comune in paesi come gli Stati Uniti, mira ad includere gli immigrati nel corpo sociale. 3. Cittadinanza per Adozione o Matrimonio: Un individuo adottato da un cittadino italiano, o sposato con un cittadino italiano da almeno due anni, può acquisire la cittadinanza per estensione o trasmissione. 4. Naturalizzazione: Uno straniero può ottenere la cittadinanza se risiede in Italia da almeno 10 anni, o per periodi più brevi se è cittadino dell'Unione Europea, apolide o discendente di un cittadino italiano. La concessione avviene tramite decreto presidenziale, dopo un giuramento di fedeltà alla Repubblica e rispetto della Costituzione. 5. Cittadinanza per Merito: Può essere concessa a stranieri che hanno reso servizi eminenti all'Italia. La legge prevede anche la possibilità della doppia cittadinanza e forme di riacquisto della cittadinanza per chi l'ha perduta. È inoltre prevista la revoca della cittadinanza acquisita in caso di condanna per reati con finalità di terrorismo o eversione. Lo straniero è colui che non possiede la cittadinanza italiana e non è apolide. Gli extracomunitari sono stranieri che non sono cittadini né italiani né di un paese dell'Unione Europea. La condizione giuridica dello straniero in Italia è regolata dalla legge in conformità con norme e trattati internazionali. Il Testo Unico sull'Immigrazione (D.Lgs. 286/1998), modificato dalla legge Bossi-Fini del 2002, stabilisce che: 1. Diritti degli Stranieri: Agli stranieri presenti sul territorio italiano sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona, ma l'immigrazione clandestina è considerata reato. 2. Diritti degli Stranieri Regolari: Gli stranieri regolarmente soggiornanti godono dei diritti civili riconosciuti ai cittadini italiani e possono partecipare alla vita pubblica locale. 3. Parità di Trattamento: I lavoratori stranieri regolari hanno diritto a parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai