Psicologia Sociale Riassunto 2 PDF

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FantasticSchrodinger1316

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Università degli Studi 'G. d'Annunzio' Chieti-Pescara

Marzia Monaco

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psicologia sociale influenza sociale comportamento umano psicologia

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Questo riassunto di Psicologia Sociale analizza come i pensieri, i sentimenti e i comportamenti sono influenzati dalla presenza di altri. Esplora le teorie sull'influenza sociale e le sue forme, confrontandole con altre discipline come la psicologia della personalità e la sociologia. L'obiettivo è comprendere le motivazioni complesse dietro i comportamenti umani.

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Aronson, Wilson, Akert. Psicologia Sociale - riassunto Psicologia Sociale Università degli Studi G. d'Annunzio Chieti - Pescara 112 pag. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli (gioiapzz@gmail...

Aronson, Wilson, Akert. Psicologia Sociale - riassunto Psicologia Sociale Università degli Studi G. d'Annunzio Chieti - Pescara 112 pag. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) CAPITOLO PRIMO – LA PSICOLOGIA SOCIALE La psicologia sociale è lo studio scientifico di come i pensieri, i sentimenti e i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla presenza reale o immaginaria degli altri, o meglio, da tutta la situazione sociale. Cosa si intende per ? Sono i tentativi diretti di persuasione, in cui una persona cerca deliberatamente di modificare il comportamento di un’altra. L’influenza sociale supera molto i tentativi fatti da un singolo individuo di modificare il comportamento altrui, inoltre assume numerose forme che sono differenti dal tentativo deliberato da parte degli altri di cambiare il nostro comportamento. E’ come se ci portassimo dentro l’approvazione o il disappunto dei nostri genitori, degli amici e degli insegnanti, e di come ci aspettiamo che altri reagiscano a noi, e a volte queste influenze entrano in conflitto l’una con l’altra. La creatività e il pensiero analitico dei filosofi sono una parte importante su cui si fonda la psicologia contemporanea, tanto che ci sono molti esempi di collaborazione sui temi di natura della coscienza o il modo in cui le persone formano le loro credenze circa il mondo sociale. Gli psicologi sociali affrontano molte delle domanda analizzate dai filosofi, ma in chiave scientifica. Per molte persone risultò difficile credere alla potenza che un culto (suicidio di massa di Jonestown) ha nell’influenzare il cuore e la mente di persone relativamente normali. Trovare qualcuno da incolpare divenne un’ossessione nazionale: molti se la presero con le vittime stesse, accusandole di idiozia o follia. Le prove mostrarono tuttavia che si trattava di persone mentalmente sane, per la maggior parte dei casi addirittura di insolita intelligenza e buona istruzione. Dare la colpa a qualcuno può aiutarci a risolvere la nostra confusione, ma non sostituisce la comprensione delle complessità delle situazioni che hanno prodotto tali eventi. Non si tratta di un’opposizione alla saggezza popolare, ma affidarsi interamente a fonti come giornalisti, critici e scrittori crea almeno un problema: molte volte esse sono in disaccordo fra loro e non esiste un modo per determinare chi sia nel giusto. Il primo obiettivo dello psicologo sociale è di formulare delle ipotesi sulla situazione specifica, poi eseguire esperimenti per testare le ipotesi sulla natura del mondo sociale. Il passaggio successivo è quello di progettare un buon esperimento abbastanza sofisticato da sbrogliare la situazione creata da questo o quel risultato. Questo arricchisce la nostra comprensione della natura umana e ci permette di fare delle previsioni accurate una volta che conosciamo gli elementi chiave che prevalgono in una situazione. Il campo della psicologia sociale racchiude in sé altre discipline: di eccezionale importanza è la psicologia della personalità, la quale presenta elementi in comune e di differenza con la prima. Quando le persone di comportano in maniera insolita, risulta naturale tentare di individuare quali aspetti della loro personalità e abbiano spinte a reagire in quel determinato modo. Gli psicologi della personalità concentrano la loro attenzione generalmente sulle differenze individuali, ovvero sugli aspetti della personalità degli individui che li differenziano gli uni dagli altri, ma gli psicologi sociali sono convinti che la spiegazione del comportamento unicamente in termini di fattori di personalità possa condurre a una grave e superficiale sottostime del ruolo svolto da una delle fonti principali del comportamento umano, ovvero l’influenza sociale. Tutti noi siamo capaci di comportarci in maniera sia timida sia gentile. Una domanda più interessante è: quali sono i diversi fattori nelle situazioni sociali che hanno un effetto profondo sul nostro o altrui comportamento? Questa è una domanda tipica della psicologia sociale. Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) La psicologia, in quanto branca della psicologia, studia gli individui, enfatizzando i processi psicologici interni. Per gli psicologi sociali, il livello di analisi è l’individuo nel contesto della situazione sociale. La sociologia affronta questioni come le classi, le strutture e le istituzioni sociali. Dal momento che la società si compone di raggruppamenti di persone, è ovvio che si presenti una sovrapposizione tra i domini della sociologia e della psicologia sociale. La differenza cruciale sta nel fatto che la sociologia, piuttosto che concentrarsi sulla psicologia dell’individuo, tende a inquadrare più generalmente la società nel suo complesso. Sebbene anche i sociologi si interessino del comportamento aggressivo, si occuperanno con maggiore probabilità più delle ragioni per cui una determinata società o gruppo produce una varietà di livelli e tipi di aggressività nei suoi membri. Lo scopo della psicologia sociale è identificare le proprietà universali della natura umana che, indipendentemente dalle classi o dalle strutture sociali, rendono ciascuno di noi sensibile all’influenza sociale. Ad esempio, si ipotizza che le leggi che regolano le relazioni tra frustrazione e aggressività siano universalmente valide per ogni persona e luogo. Si tratta di un allargamento culturale di grande importanza, in quanto affina le teorie, sia provandone l’universalità, sia favorendo la scoperta di ulteriori varianti la cui incorporazione contribuirà in ultima analisi alla formulazione di spiegazioni maggiormente accurate del comportamento sociale umano. In definitiva, la psicologia sociale è racchiusa fra le sue affini, la sociologia e la psicologia della personalità. Sociologia Psicologia sociale Psicologia della personalità Fornisce le leggi e teorie generali Studia i processi psicologici che le Studia le caratteristiche che sulla società, non sugli individui persone condividono fra loro e rendono ogni individuo unico e che le rendono sensibili diverso dagli altri all’influenza sociale Il focus è nel pesce, non nell’acqua dove nuota! Molti di noi non riescono a considerare la situazione, il contesto, che invece ha un impatto profondo su come gli esseri umani si relazionano gli uni agli altri. Lo psicologo sociale, quando cerca di convincere le persone che il loro comportamento è fortemente influenzato dell’ambiente sociale, si scontra con un grande ostacolo: la tendenza generale a interpretare il comportamento delle persone in termini di personalità. Questo ostacolo è conosciuto come errore fondamentale di attribuzione, ovvero la tendenza a spiegare il nostro comportamento e quello degli altri unicamente in termini di tratti di personalità, sottostimando in tal modo la forza dell’influenza sociale. Uno dei problemi principali collegati a ciò è la sensazione di falsa sicurezza: quando ad esempio tentiamo di spiegare perché le persone compiano azioni ripugnanti, troviamo al contempo confortante e attraente l’idea che esse abbiano agito in quel modo perché sono esseri umani. Ne deriva così la sensazione che ciò non potrebbe mai accadere a noi, aumentando la nostra vulnerabilità all’influenza sociale. Tendiamo anche a semplificare eccessivamente situazioni che sono complesse, e questo diminuisce la nostra comprensione delle cause di molta parte del comportamento umano. Ross e Samuels (1993) hanno condotto l’esperimento del Community Game/Wall Street Game per analizzare la due strategie fondamentali che le persone impiegano quando fanno un gioco: competizione o cooperazione. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Il nome del gioco veicolava le forti norme sociali concernenti il genere di comportamento più appropriato alla situazione, e le norme sociali possono pesantemente modellare il nostro comportamento. Aspetti apparentemente secondari della situazione sociale possono produrre effetti notevoli, mettendo in ombra le differenze delle singole personalità. Questo non vuol dire che le differenze di personalità non esistano o non siano importanti, tuttavia determinate situazioni sociali e ambientali sono così potenti da produrre effetti vistosi sulla quasi totalità delle persone. Comportamentismo. E’ una scuola di pensiero che ha dominato la psicologia statunitense per tutta la prima metà del 900. Cercava di dimostrare che ogni apprendimento si verifica attraverso il rinforzo, ossia si associano eventi positivi o negativi dell’ambiente a comportamenti specifici. Watson (1924) e Skinner (1938) ipotizzarono che la spiegazione dell’intero comportamento umano potesse avvenire mediante l’esame delle ricompense e delle punizioni riservate dall’ambiente al soggetto, e che non vi fosse quindi alcun bisogno di studiare i pensieri o i sentimenti. Abbiamo appreso che però non si può comprendere appieno il comportamento sociale se limitiamo le nostre osservazioni alle proprietà fisiche di una situazione. Dobbiamo invece guardarla dal punto di vista delle persone che vi si trovano, per capire come esse costruiscono il mondo che le circonda. Per intendiamo non ciò che esiste oggettivamente, ma l’interpretazione che gli esseri umani danno di ciò che esiste. Psicologia della Gestalt. Essa studia il modo soggettivo in cui un oggetto appare alla mente delle persone, piuttosto che la combinazione degli attributi fisici oggettivi. Secondo gli psicologi della Gestalt non possiamo comprendere il modo in cui viene percepito un oggetto unicamente dallo studio di questi elementi costitutivi della percezione: l’intero è diverso dalla somma delle sue parti. Dobbiamo concentrarci sulla fenomenologia del soggetto della percezione. L’approccio della Gestalt venne formulato in Germania da Kurt Koffka, Wolfgang Kobler, Mac Wertheimer e i loro studenti e colleghi. Alla fine degli anni 30, alcuni di questi psicologi emigrarono negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione nazista. Uno di questi studiosi fu Kurt Lewin, ritenuto il padre fondatore della moderna psicologia sociale e sperimentale. In qualità di giovane professore ebreo, dopo l’emigrazione in America contribuì a modellare la psicologia sociale statunitense, con un profondo interesse per l’esplorazione delle cause e dei rimedi del pregiudizio e dello stereotipo etnico. Lewin applicò i principi della Gestalt alla percezione sociale, al modo in cui le persone percepiscono gli altri e alle loro motivazioni, per poter vedere come questi elementi costruiscono l’ambiente sociale. Un modo di costruire e interpretare la realtà è quello che Ross chiama , ovvero la convinzione che tutti hanno di percepire le cose “come realmente sono”: ipotizziamo che altre persone ragionevoli come noi vedano le cose allo stesso modo. Anche quando riconosciamo che l’altra parte percepisce diversamente le questioni, ciascuno ritiene che l’altra sia influenzata, che solo noi siamo oggettivi, e le nostre percezioni della realtà dovrebbero offrire la base per l’accordo finale. E’ necessario comprendere il modo in cui si arriva a formulare le impressioni soggettive del mondo: occorre capire le leggi fondamentali e universali della natura umana che ci spiegano perché formiamo i nostri particolari costrutti del mondo sociale. Gli esseri umani sono organismi complessi: in ogni momento i nostri pensieri e comportamenti sono sottesi da una moltitudine di motivazioni sovrapposte. Gli psicologi sociali hanno scoperto che solo due di queste motivazioni godono di un’importanza fondamentale: il bisogno di essere accurati e quello di giustificare i Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) nostri pensieri e le nostre azioni per poterci sentire a posto con la coscienza. L’esperienza di vita insegna che quasi sempre queste motivazioni ci spingono nella stessa direzione, quando invece non è così possiamo ricavare preziose informazioni su come operino la nostra intelligenza e il nostro animo. Molte persone hanno bisogno di mantenere un’alta stima di sé, ossia di vederci come individui rispettabili, competenti e affidabili. La ragione può essere riconducibile nel bisogno latente di mantenere una buona immagine di noi stessi. Tra il dare una visione distorta del mondo per poterci sentire bene con noi stessi e fornire una rappresentazione accurata, spesso scegliamo la prima possibilità. La giustificazione del comportamento precedente. Ha lo scopo di farci sentire in pace con noi stessi: è molto difficile confessare le proprie mancanze, anche se il prezzo da pagare è una visione imprecisa del mondo. La conseguenza è che diminuiscono le probabilità di imparare dall’esperienza. Questo non vuol dire che le persone alterano completamente la realtà negando l’esistenza di ogni possibile informazione che sia per loro negativa. Tuttavia, anche le persone normali possono dare speso una negazione diversa della realtà in modo da uscirne sotto la miglior luce possibile. La sofferenza e l’autogiustificazione. Gli esseri umani avvertono il bisogno di giustificare il loro comportamento precedente, da cui seguono pensieri, sentimenti e comportamenti che non sempre si conciliano con le precise categorie del comportamentismo. Gli psicologi sociali hanno svolto ricerche sul fenomeno rituale delle matricole. In una serie si esperimenti controllati, veniva mantenuto costante ogni fattore della situazione, incluso il comportamento dei membri della confraternita, ad eccezione per l’intensità del rituale. Gli esperimenti dimostrarono che quanto più spiacevole era la procedura per entrare nel gruppo, tanto maggiore era l’attrazione verso la confraternita. I dati salienti da ricordare sono: a) gli esseri umani possiedono una motivazione per mantenere un’immagine positiva di sé stessi mediante la giustificazione del suo comportamento passato; b) in determinate condizioni ciò li spinge a commettere azioni che potrebbero a prima vista apparire paradossali, ovvero preferire le persone e le cose per cui hanno sofferto, piuttosto che quelle associate con il benessere e il piacere. Uno dei nostri segni distintivi è la capacità di ragionare, e la nostra specie ha sviluppato delle potenzialità logiche che sono quasi incredibili. Cognizione sociale (). L’ipotesi di partenza secondo tale prospettiva è che tutte le persone tentano di formulare una visione del mondo nel modo più accurato possibile. I ricercatori vedono gli esseri umani come investigatori dilettanti che fanno del loro meglio per capire e prevedere il mondo sociale. Non si tratta di un compito facile: spesso ci imbattiamo in problemi derivanti dal fatto di non conoscere tutti gli elementi necessari per delineare un giudizio accurato, inoltre, ogni giorno prendiamo un numero sterminato di decisioni che ci impedisce di rinvenire tutti i dati necessari per mancanza di tempo o di coraggio. Le aspettative sul mondo sociale. Un’ulteriore complicazione è data dal fatto che spesso le nostre aspettative sul mondo sociale si frappongono alla nostra percezione accurata di esso, e addirittura ne modificano la natura. Proprio questo risultato venne ottenuto da Rosenthal e Jacobson (1968) nel corso delle loro ricerche sul fenomeno della profezia che si autoadempie. Anche quando si cerca di percepire il mondo sociale in maniera più accurata possibile, esistono ancora molti modi per fare degli errori e giungere a impressioni sbagliate. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) CAPITOLO SECONDO – LA COGNIZIONE SOCIALE Gli individui sono molto abili nella cognizione sociale, cioè il modo in cui le persone pensano sé stesse e il mondo sociale, come selezionano, interpretano, ricordano e usano le informazioni sociali. Ne distinguiamo due tipi: uno è un pensiero veloce e automatico, avviene quando agiamo senza pensare se le nostre valutazioni siano corrette; a volte invece le persone fanno una pausa quando pensano a sé stesse e all’ambiente circostante quando devono prendere decisioni importanti, questo è il pensiero controllato, molto più deliberato. Grazie al pensiero automatico siamo in grado di formare rapidamente e senza sforzo impressioni sulle persone, navighiamo su nuove rotte senza eccessiva analisi conscia di ciò che facciamo. Utilizziamo un’analisi automatica dell’ambiente, basata sulle nostre precedenti esperienze e conoscenze del mondo. Sappiamo cosa dobbiamo fare perché il nostro mentale automaticamente ci diche che cosa di fa ad esempio in un fast-food o alla fermata dell’autobus. Le persone usano degli schemi, ovvero strutture mentali che organizzano la conoscenza del mondo sociale. Tali strutture influenzano profondamente le informazioni che registriamo, su cui riflettiamo, e che successivamente ricordiamo. Esse organizzano le informazioni su determinati temi o argomenti, come le persone, noi stessi, i ruoli sociali e fatti particolari. La funzione degli schemi. Se gli schemi possono portarci spesso a una percezione errata del mondo, perché dovrebbero esistere? Essi sono molto utili perché ci aiutano a organizzare le informazioni, dare senso al mondo e colmare le lacune delle nostre conoscenze. Tale è l’importanza di provare continuità, di poter collegare le esperienze nuove ai nostri schemi preesistenti, che le persone che smarriscono questa capacità ne inventano di nuovi anche in loro assenza (sindrome di Korsakov). Gli schemi sono dunque rilevanti perché riducono l’ambiguità che a volte incontriamo con informazioni suscettibili di più interpretazioni. Ovviamente, le persone non sono completamente cieche al vero aspetto delle cose. Spesso ciò che vediamo è relativamente privo di ambiguità, e non ci occorre alcuno schema per interpretarlo. E’ più probabile, quindi, che le persone impieghino gli schemi per completare le loro lacune informative quando non sono del tutto sicure di ciò che stanno osservando. Il problema è che a volte le persone si aggrappano troppo a lungo a schemi che non sono affatto rappresentazioni accurate del mondo. Schemi come guide della memoria. La memoria umana è ricostruttiva e le persone spesso riempiono gli spazi vuoti con le informazioni coerenti con i propri schemi. Non ricordiamo cosa accadde precisamente in un determinato contesto come fa una cinepresa, ma solo alcune delle informazioni presenti, in particolare quella che il nostro schema ci induce a notare e a considerare con maggiore attenzione. Il modo stesso di operare degli schemi pone un notevole ostacolo al cambiamento degli atteggiamenti pregiudiziali. Accessibilità e. Lo schema che guida le nostre impressioni è influenzato dall’accessibilità. Ne esistono due tipi: a) gli schemi accessibili in base all’esperienza passata, questo significa che sono costantemente attivi; b) gli schemi temporaneamente accessibili in memoria per diverse ragioni, ciò significa che un tratto o uno schema particolare può essere innescato in memoria da qualcosa che le persone hanno pensato o fatto poco prima di un evento. L’effetto è il processo mediante cui esperienza recenti aumentano l’accessibilità di uno schema, tratto o concetto. E’ illustrato specialmente nell’esperimento di Higgins, Rholes e Jones (1977): i Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) partecipanti allo studio devono prima memorizzare delle parole e nella seconda parte fare un’analisi del testo su un personaggio di nome Donald e quindi darne delle impressioni. Molte delle azioni di Donald erano ambigue, e il modo in cui i partecipanti ne interpretavano il comportamento dipendeva dal fatto che fossero tratti positivi o negativi a entrare nel priming e divenire accessibili. Se precedentemente le parole memorizzate erano avventuroso, fiducioso in sé stesso, determinato, le impressioni su Donald sarebbero state positive. Invece con i termini scavezzacollo, superbo, testardo le impressioni sul personaggio risultavano negative. In altre condizioni i partecipanti memorizzarono altre parole, come preciso o privo di rispetto, che non influenzarono le impressioni su Donald perché non erano applicabili al suo comportamento. Pertanto bisogna che i pensieri siano tanto accessibili quanto applicabili perché possano agire da priming ed esercitare un’influenza sulle nostre impressioni del mondo sociale. Il priming è un ottimo esempio di pensiero automatico in quanto avviene rapidamente, senza intenzionalità e in maniera inconscia: le persone, quando giudicano gli altri, di solito non sono consapevoli del fatto che stanno applicando concetti o schemi a cui è capitato di pensare poco prima. Il priming può verificarsi anche facendo scorrere delle parole velocemente senza poter essere riconosciute coscientemente. Lo studio di Bargh e Pietromonaco (1982) ci riporta allo spettro dell’influsso subliminale, se sia cioè possibile influenzare le credenze e gli atteggiamenti delle persone con messaggi che non percepiscono coscientemente. La profezia che si autoadempie. Gli individui vedono inavvertitamente avverarsi i loro schemi dal modo in cui trattano gli altri. Questo processo, definito la profezia che si autoadempie, opera in questo modo: a) le persone hanno delle aspettative rispetto a un altro individuo; b) ciò influenza il modo di agire nei suoi confronti; c) queste attese influenzano la risposta dell’individuo che adotta comportamenti coerenti con le attese originali, facendo in modo che queste diventino vere. Le profezie che si autoadempiono possono avere delle serie conseguenze: l’esperimento condotto in una scuola elementare da Rosenthal e Jacobson (1968) è uno degli studi più classici della psicologia sociale. Essi somministrano un test d’intelligenza a tutti gli allievi, riferendo ai maestri che ciò avrebbe portato alla scelta di autentiche promesse per il futuro. Invece le furono scelte a caso, implicando che gli alunni scelti non erano né più bravi, né con maggiori possibilità di eccellere rispetto ai compagni. L’unico fattore di discriminazione era dunque la percezione degli insegnanti. Al fine dell’anno scolastico la profezia si era effettivamente avverata: gli studenti che erano stati etichettati come promesse avevano mostrato dei punteggi significativamente maggiori rispetto agli altri in seguito alla somministrazione di un reale test d’intelligenza. Ricerche successive dimostrarono che i professori avevano inconsciamente riservato alle promesse un trattamento diverso: creavano un clima emotivo migliore, incoraggiandoli individualmente, assegnavano materiale più difficile da studiare, il feedback di risposta al loro lavoro era più frequente, e diedero loro più opportunità di rispondere in classe. I limiti delle profezie che si autoadempiono. Le profezie che si autoadempiono si verificano spesso, ma hanno anche mostrato alcune condizioni nelle quali la vera natura delle persone vince sulle situazioni sociali. Quando siamo motivati a formarci un’impressione accurata e a prestare attenzione, siamo molto abili a mettere da parte le nostre aspettative e cogliere com’è veramente la persona che abbiamo di fronte. Ma gli schemi non sono gli unici che influenzano i giudizi e le decisioni: la mente è connessa al corpo e quando pensiamo a qualcosa o qualcuno, facciamo riferimento a come reagisce il nostro corpo. Se siamo stanchi è più probabile che interpreteremo la realtà in modo più negativo rispetto a quando ci sentiamo Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) pieni di energie. La pulizia è spesso associata alla moralità, la sporcizia all’immoralità, e queste metafore priming sulla relazione fra mente e corpo influenzano ciò che facciamo e pensiamo. Un’altra forma di pensiero automatico avviene quando compiamo scelte in cui di norma non facciamo una ricerca esaustiva di ogni possibilità. Al contrario, utilizziamo delle strategie e delle scorciatoie mentali che facilitano la decisione, permettendoci di non trasformare ogni decisione in un esteso progetto di ricerca, ma non è detto che queste scorciatoie ci portino sempre alla scelta migliore. Quando si tratta di generi particolari di giudizi e di decisioni, non possediamo sempre uno schema preconfezionato per l’uso, oppure ne abbiamo troppi che andrebbero bene e non sappiamo con certezza quale applicare. In simili situazioni le persone spesso impiegano la scorciatoia dell’euristica del giudizio. Il termine euristica (dal greco ) si riferisce alle regole che gli individui seguono per formulare giudizi in maniera rapida ed efficiente. Premettendo che non danno la garanzia di compiere inferenze precise sul mondo, infatti spesso sono inadeguate per il compito da affrontare o vengono impiegate male, le persone le impiegano perché nella maggior parte dei casi esse sono altamente funzionali. Euristica della disponibilità. Si riferisce ai giudizi fondati sulla facilità con cui riconduciamo esempi alla mente. Un problema è che qualche volta ciò che viene ricordato con più facilità non è caratteristico del quadro generale e ci conduce a conclusioni errate. La disponibilità è risultata fuorviante quando si è chiesto alla gente quale tipologia di morte fosse più diffuse negli Stati Uniti. Probabilmente si riconducono alla mente con più facilità esempi di morti per squali o per incendi, in quanto simili eventi sono riportati con più frequenza dai mass media o dai film, diventando facilmente disponibili al ricordo. Per quanto riguarda l’utilizzo dell’euristica per dare giudizi su noi stessi, non sempre possediamo degli schemi stabili sui nostri tratti e ci capita quindi di formulare giudizi su noi stessi che si basano sulla facilità con cui ricordiamo esempi del nostro comportamento. Euristica della rappresentatività. Un’altra scorciatoia mentale viene impiegata quando le persone cercano di categorizzare qualcosa di nuovo, ovvero classifichiamo le cose in base alla loro somiglianza con il caso tipico. Tuttavia, abbiamo a disposizione un altro genere di informazioni: l’informazione media di base, ovvero l’informazione sulla frequenza relativa di membri di categorie differenti. Kahneman e Tversky (1973) scoprirono che la media di base viene sottoutilizzata e viene riservata maggiore attenzione al grado di rappresentatività delle informazioni riguardo alla persona particolare della categoria generale. Sebbene non si tratti di una strategia fuorviante, qualora le informazioni sulla persona siano veramente attendibili, essa ci può creare dei problemi quando tali informazioni risultano incoerenti. Con questo non si vuole dire che le persone ignorino completamente le informazioni medie di base, ma che dedicano spesso attenzione eccessiva alle caratteristiche individuali di ciò che osservano, a scapito delle medie di base. L’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento. E’ una scorciatoia mentale con cui le persone utilizzano un numero o un valore come punto di partenza e quindi precisano la loro risposta rispetto ad esso. Come tutte le altre scorciatoie mentali, l’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento può funzionare in numerose circostanze, ma anche questa può crearci dei problemi. In particolare, qualche volta le persone ricorrono a valori completamente arbitrari come punti di partenza e ad essi si attengono rigidamente. Diverse ricerche fanno pensare proprio che le persone di attengano Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) strettamente ai numeri inziali perfino quando essi sono del tutto arbitrari e non hanno alcuna pertinenza con il giudizio che si sta formulando. Il processo di ancoraggio e accomodamento avviene quando formuliamo giudizi sul mondo, ovvero ancoriamo le nostre impressioni alle nostre esperienze e osservazioni personali, anche quando siamo consapevoli che esse sono inconsuete. Anche se sappiamo che le nostre esperienze sono inconsuete o atipiche, è difficile evitare di generalizzare partendo da esse. Quando si generalizza partendo da un campione di informazioni per arrivare alla sua totalità, viene messo in atto un procedimento chiamato campionamento tendenzioso: le nostre stesse esperienze fungono da ancoraggio per le nostre generalizzazioni, e spesso il nostro accomodamento, partendo da esse, rimane inadeguato perfino quando sappiamo che le nostre esperienze sono atipiche o incorrette. Un altro esempio di pensiero inconscio avviene quando siamo di fronte a degli obiettivi fra loro in competizione e non sappiamo quale perseguire. Spesso è la nostra mente inconscia che sceglie l’obiettivo per noi, basando la decisione in parte su quale obiettivo sia stato recentemente attivato o oggetto di priming. Questa ipotesi è stata testata dagli psicologi sociali sottoponendo a priming gli obiettivi delle persone in maniera latente e vedendo se influenzavano il comportamento. All’inizio venne chiesto ai partecipanti di costruire frasi a partire da parole come , , , , , dopodiché veniva chiesto di distribuire delle monete tra loro e il soggetto successivo, senza sapere a chi sarebbero stati destinati i soldi. In breve, le persone vogliono il denaro, ma ciò entra in conflitto con l’idea di essere buoni verso gli altri. Quale obiettivo prevale? Dipende in parte da quale obiettivo è stato recentemente oggetto di priming. Per alcuni di loro le parole fornite avevano a che fare con Dio (spirito), designate per creare il priming di. Simili studi hanno dimostrato che si possono attivare gli obiettivi e che si possono influenzare le persone senza che se ne rendano conto: i partecipanti non si accorsero infatti che le parole ricevute nel primo compito avevano a che fare con la decisione su come dividere il denaro nel secondo compito. Determinanti culturali negli schemi. Sebbene tutti usino gli schemi per comprendere il mondo, il loro contenuto viene influenzato dalla cultura in cui viviamo. Come esempio del rapporto che intercorre fra la cultura, gli schemi e la memoria, Bartlett riferì il cado si un colono scozzese e di un pastore bantu dello Swaziland, posti di fronte al compito di ricordarsi i termini di una complessa vendita di bestiame svoltasi l’anno precedente. Lo scozzese dovette ricorrere ai suoi registri, mentre il bantu recitò a memoria ogni particolare della transazione. Bartlett dimostrò che i ricordi dei bantu non erano più vividi delle altre culture, ma che ognuno possiede una memoria eccezionale relativamente alle aree che sono per noi importanti, e di cui possediamo schemi ben sviluppati. Gli schemi sono un modo molto importante in cui le culture esercitano la loro influenza, formando strutture mentali che influenzano la nostra maniera di comprendere e interpretare il mondo. Pensiero olistico vs pensiero analitico. Tutti gli essere umani hanno accesso agli stessi “attrezzi”, ma la cultura in cui crescono può influenzare quali fra questi vengano usati di più. Allo stesso modo la cultura può influenzare i generi di pensiero che le persone usano automaticamente per comprendere il mondo, ma non tutti: i tipi di pensiero automatico, quali il pensiero inconscio e l’uso di schemi, sembrano essere impiegati da tutti. Nisbett e colleghi hanno trovato che le persone cresciute in una cultura occidentale tendono ad avere uno stile di pensiero analitico, in cui le persone si concentrano sulle proprietà degli oggetti senza considerare il contesto attorno. Le persone cresciute in una cultura dell’Estremo Oriente (Cina, Giappone, Corea) tendono Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) ad avere invece uno stile di pensiero olistico, in cui le persone si concentrano sul contesto generale, in particolare sui modi in cui gli oggetti sono collegati fra loro. Queste differenze negli stili di pensiero influenzano anche il modo in cui percepiamo le emozioni nelle altre persone. Da dove derivano queste differenza fra l’approccio analitico e olistico? Nisbett suggerisce che siano radicate nelle differenze tradizioni filosofiche di Occidente e Oriente. Il pensiero orientale si è modellato sulle idee di confucianesimo, taoismo e buddhismo, le quali sottolineano la connessione e la relatività di tutte le cose. Il pensiero occidentale trova invece la sua radice nella tradizione filosofica di Platone e Aristotele, concentrata sulle leggi che governano gli oggetti indipendentemente dal loro contesto. Alcune ricerche recenti tuttavia fanno pensare che i diversi stili di pensiero possano anche derivare dalle reali differenze negli ambienti elle due diverse culture. L’ipotesi della ricerca era che le scene della città giapponesi sarebbero state più , ovvero avrebbero contenuto più oggetti in competizione per attirare l’attenzione delle persone, rispetto alle scene delle città statunitensi. L’idea è che le immagini giapponesi avrebbero messo in priming il pensiero olistico, mentre quelle americane il pensiero analitico. Questo dato fa pensare che le persona di ogni cultura siano capaci di pensare in maniera analitica o olistica, ma che l’ambiente in cui vivono, o l’ambiente che è stato reso oggetto di priming, stimoli l’attivazione di uno dei due stili. Il pensiero controllato, una delle caratteristiche distintive dell’essere umano, si definisce come quel pensiero conscio, intenzionale, volontario e con sforzi. E’ estremamente importante, specialmente quando cerchiamo di correggere o di aggiustare gli errori del pensiero automatico. Le persone possono di noma attivare o disattivare questo tipo di pensiero e sono pienamente consapevoli di ciò che stanno pensando. Inoltre, il pensiero controllato richiede sforzi, nel senso che necessita di energia mentale, e si può attivare rispetto a una cosa per volta. Gli psicologi sociali hanno scoperto che questo tipo di pensiero è molto più potente e diffuso di quanto si pensava in precedenza. Qui si apre un dibattito sull’importanza di entrambe i pensieri. Uno dei punti centrali di questo dibattito riguarda il libero arbitrio. Daniel Wegner ha dimostrato che può esserci un’illusione di libero arbitro. Ad esempio, il pensiero conscio è la conseguenza di un processo inconscio, ossia il desiderio del gelato è sollecitato dalla vista di una pubblicità, e non la causa della nostra decisione di andare ad aprire il freezer. Il desiderio inconscio innesca l’azione senza alcun intervento del pensiero conscio. Le persone talvolta credono di esercitare più controllo sugli eventi di quanto non accada nella realtà, ma può anche accadere il contrario: le persone possono esercitare in realtà più controllo di quanto non si accorgano di fare (ex. tecnica della ). Anche la facilità con cui ricostruiamo il passato è fondamentale per i nostri giudizi su di noi e sugli altri. Le persone spesso si impegnano nel pensiero controfattuale, ovvero il ragionare su cosa sarebbe potuto succedere se le cose fossero andate diversamente. La facilità con cui le persone riescono ad annullare mentalmente il passato, pensando a esiti alternativi, può produrre un impatto notevole tanto sul mondo in cui queste spiegano il passato, quanto sulle emozioni ad esso collegate. Sebbene l’esito sia il medesimo in entrambe le ipotesi, il secondo appare più tragico in quanto più facile da mediante il pensiero controfattuale. Si riscontra che quindi che i pensieri controfattuali influenzano enormemente le nostre reazioni emotive agli eventi: più è facile mentalmente un esito, più è forte la reazione emotiva ad esso. Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Uno scopo del pensiero controllato è frenare quello automatico. Il pensiero controllato prende il sopravvento quando si verificano eventi insoliti: che successo hanno le persone nel correggere i propri errori? Un possibile approccio è costringere le persone a considerare con maggiore modestia le loro capacità di ragionamento. Spesso poniamo eccessiva fiducia nei nostri giudizi. Il tentativo di migliorare le nostre inferenze si scontra con quello che è stato chiamato ostacolo della fiducia eccessiva. Sono in molti a pensare di saper ragionare bene e quindi di non dovervi porre alcun rimedio. Secondo questo approccio, si può tentare di contrastare questo eccesso di fiducia inducendo le persone a prendere in esame la possibilità di essersi sbagliate. Un’altra possibilità è insegnare direttamente alle persone alcuni dei principi statistici e metodologici fondamentali relativi al ragionamento corretto, nella speranza che poi li applichino alla loro vita quotidiana. Nisbett ha dimostrato che i processi di ragionamento delle persone possono essere migliorati mediante corsi universitari di statistica, corsi postlaurea di metodologia della ricerca e perfino singole lezioni. I ricercatori avanzarono l’ipotesi che gli studenti di psicologia medicina avrebbero risolto meglio i problemi di statistica rispetto a quelli di legge e di chimica, in quanto i loro corsi postlaurea comprendevano maggiori esercitazioni di statistica rispetto agli altri due. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) CAPITOLO TERZO – LA PERCEZIONE SOCIALE: COME ARRIVIAMO A COMPRENDERE GLI ALTRI La percezione sociale è lo studio del modo in cui creiamo impressioni e formuliamo giudizi riguardo agli altri. Le conoscenze che abbiamo delle persone incontrate per la prima volta sono limitate a ciò che possiamo vedere e sentire: è proprio su queste informazioni che creiamo le nostre prime impressioni. I giudizi di altri sono influenzati da tratti fisici quali la bellezza o la forma del viso. Anche se queste impressioni sono sbagliate, evidenze mostrano come possiamo formulare giudizi accurati sugli altri basandoci semplicemente sul loro aspetto. Inoltre indizi rivelatori che manifestiamo con il viso e le nostre espressioni non verbali forniscono agli altri informazioni su i noi: la comunicazione non verbale si riferisce al modo in cui le persone comunicano, intenzionalmente o no, senza parole. Le espressioni del volto, il tono di voce, i gesti, le posizioni e i movimenti del corpo, l’uso del tatto e lo sguardo sono i canali più utilizzati nella comunicazione non verbale. Gli indizi non verbali svolgono anche molte funzioni comunicative e ci aiutano ad esprimere le nostre emozioni, atteggiamenti, personalità. Le espressioni del volto sono considerate l’aspetto più importante della comunicazione non verbale. La ricerca svolta da Darwin sulle espressioni del volto risulta in particolare nell’ipotesi dell’universalità delle emozioni primarie tramesse mediante il volto: tutti gli esseri umani d’ogni parte del mondo esprimono (o codificano) queste emozioni allo stesso modo, e tutti gli esseri umani possono interpretarle (o decodificarle) con pari precisione. Data l’impostazione evoluzionistica di Darwin, egli riteneva che le forma non verbali della comunicazione fossero proprie della specie e non della cultura. Nella sua teoria le espressioni del volto erano ciò che restava di reazioni fisiologiche dotate di una loro utilità. Una ricerca di Susskind e colleghi (2008) sostiene l’ipotesi di Darwin, attraverso lo studio delle espressioni facciali di disgusto e paura: hanno trovato, in primo luogo, che i movimenti muscolari di ciascuna emozione sono esattamente l’opposto dell’altra. Inoltre, se il volto mostra paura, la percezione aumenta, se invece manifesta disgusto la diminuisce. Secondo Darwin simili espressioni facciali hanno un significato evolutivo: la capacità di comunicare quegli stati emotivi (disgusto per un cibo, persona o una situazione) assumeva valore di sopravvivenza per la specie in evoluzione. La tesi darwiniana dell’universalità delle espressioni facciali rimane tuttora valida. Le principali forme di espressione delle emozioni sono sei: rabbia, felicità, sorpresa, paura, disgusto e tristezza. Queste sei emozioni principali sono anche le prime ad apparire nello sviluppo umano. Già i bambini di età compresa fra i sei e i dodici mesi sanno esprimerle con le medesime espressioni che usano gli adulti. Alcune ricerche studiano emozioni come disprezzo, ansia, vergogna, orgoglio e imbarazzo: studi sull’espressione facciale del disprezzo fanno pensare che essa sia riconosciuta in varie culture al pari delle sei emozioni fondamentali. Analogamente, alcune ricerche indicano che l’orgoglio esiste nelle culture. Si tratta di un’esibizione emotiva particolarmente interessante, in quanto implica tanto un’espressione facciale quanto una postura del corpo e alcuni indizi gestuali. Tracy e Matsumoto (2008) hanno studiato l’orgoglio e il suo contrario, ovvero la vergogna, codificando le espressioni spontanee di atleti che avevano vinto o perso negli incontri di judo alle Olimpiadi e alle Paraolimpiadi del 2004. L’espressione di orgoglio era associata in misura significativa alla vittoria; la vergogna, espressa dalle spalle abbassate e dal petto rientrato, era significativamente associata alla sconfitta in tutti gli atleti. Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Il compito di decodificare correttamente le espressioni facciali è complesso per due motivi fondamentali: primo, gli individui spesso manifestano delle emozioni miste. Le persone spesso mostrano ciò che si chiama : una parte del volto esprime un’emozione, mentre l’altra ne esprime una diversa. Una seconda ragione dell’imprecisione della decodifica delle espressioni facciali riguarda la cultura. Per decenni Paul Ekman e i suoi collaboratori hanno studiato le influenze della cultura sull’espressione facciale delle emozioni, arrivando alla conclusione che esistono alcune regole di esibizione proprie di ciascuna cultura, le quali controllano quali tipi di espressione emotiva vadano mostrati. Le norme culturali americane, ad esempio, scoraggiano gli uomini a manifestare dolore o a piangere, mentre lo permettono alle donne. Altri indizi particolarmente potenti nella comunicazione non verbale sono manifestati dal contatto visivo e dallo sguardo: diventiamo sospettosi quando una persona non ci guarda negli occhi mentre sta parlando. Un’altra forma di comunicazione non verbale è il modo in cui le persone impiegano lo spazio personale: se parliamo con qualcuno che ci sta quasi attaccato, avvertiamo una deviazione della suddivisione dello spazio che modificherà notevolmente le nostre impressioni al suo riguardo. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono una cultura a basso contatto, mentre altre culture, come quella sudamericana o mediorientale, sono ad alto contatto. Un altro mezzo comunicativo sono i gesti delle mani e delle braccia. Simili gesti che dispongono di definizioni chiare e facilmente comprensibili si chiamano emblemi. E’ da notare che gli emblemi non sono universali: ogni cultura ne crea di propri, che necessariamente non vengono compresi dagli appartenenti ad altre culture. NB – Quando le persone non sono certe della natura del mondo sociale, utilizzano gli schemi, ovvero una scorciatoia mentale: quando possediamo un numero limitato di informazioni, il nostro schema provvede a riempire gli spazi vuoti. Se sappiamo che una persona è gentile, per determinare gli altri suoi tratti ricorriamo ad un fondamentale tipo di schema chiamato teoria implicita di personalità, la quale è composta dalle nostre idee su quali tipi di personalità si accordano fra loro. Quando formiamo un’impressione veloce sulle persone, spesso usiamo due schemi generali: il primo riguarda il giudizio di , il secondo riguarda la. Secondo questa prospettiva, la percezione di calorosità e di competenza forniscono importanti informazioni per la sopravvivenza, ovvero di chi possiamo fidarci e di chi no. Il lato interessante delle teoria implicite di personalità è che si sviluppano lungo un arco di tempo e in base alle nostre esperienze: poiché alcune credenze culturali si trasmettono in una determinata società, è naturale che la maggioranza dei suoi membri si troverà a condividere alcune teorie implicite di personalità. Le variazioni culturali all’interno di queste sono state dimostrate da uno studio condotto da Hoffman, Lau e Johnson (1986). Essi hanno osservato che culture diverse hanno idee diverse sui tipi di personalità – vale a dire, i generi di persone per cui si dispone di etichette verbali che risultano semplici e di uso comune. Nella cultura occidentale si conviene ad esempio sull’esistenza di una personalità artistica. Analogamente, i cinesi avranno delle categorie di personalità che non hanno corrispondenti nella nostra cultura: una persona shin gù, ad esempio, indica che ha senso pratico, ha il culto della famiglia, è bene inserito nella società ma è al contempo alquanto riservato. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) L’ipotesi degli studiosi era che queste teorie culturali della personalità influenzassero il modo in cui le persone creano le loro impressioni degli altri. Per verificarla scrissero delle storie sia in inglese che in cinese di persone che si comportavano come un tipo artistico o come uno shin gù. Il fine dell’esperimento era accertare se i soggetti ricorrevano alle loro teorie culturali per comprendere le storie che leggevano. Secondo i risultati i madrelingua inglesi formavano delle impressioni più coerenti con il tipo artistico piuttosto che con lo shin gù. Un modello di risultati opposto venne mostrato dai bilingui che lessero le descrizioni in cinese: la loro impressione del personaggio shin gù era più coerente con lo schema rispetto al tipo artistico. Decodificare i comportamenti non verbali e collegarli alle teorie implicite di personalità è un processo automatico, spesso non siamo consapevoli di utilizzare queste informazioni. Il comportamento non verbale, tuttavia, e le teoria implicite di personalità non sono indicatori fedeli dei reali pensieri o emozioni degli altri. Anche se il comportamento non verbale sembra interpretabile con facilità, esso non cancella l’ambiguità sostanziale sul vero significato del comportamento altrui: bisogna andare oltre le informazioni che ci sono date e inferire la vera natura delle persone. La teoria dell’attribuzione si concentra proprio su questo, studiando le modalità con cui inferiamo la cause del comportamento degli altri. La teoria dell’attribuzione di Heider raffigura le persone come degli scienziati , che cercano di comprendere il comportamento degli altri assemblando varie informazioni finché non arrivano a una spiegazione ragionevole. Uno dei contributi fondamentali è questa dicotomia: quando cerchiamo di decidere perché le persone di comportano in un certo modo, possiamo compiere un’attribuzione interna (disposizionale) o un’attribuzione esterna (situazionale). La nostra impressione cambia considerevolmente a seconda del tipo di attribuzione che compiamo: se essa è interna ne dedurremo un’impressione negativa, mentre se è esterna non sapremo molto al suo riguardo. Il maggior contributo di Kelley alla teoria dell’attribuzione è l’idea che quando formiamo l’impressione su un’altra persona osserviamo e pensiamo a più di un’informazione. Il modello della covariazione è valido per più esempi di comportamento che si verificano nel tempo e in situazioni diverse: i dati che utilizziamo sono il modo in cui il comportamento di una persona covaria a seconda della situazione temporale e spaziale, e dei diversi attori e bersagli del comportamento. Esistono tre tipi fondamentali di informazioni: consenso, specificità e coerenza. Prendiamo un esempio per illustrarli: durante il nostro lavoro part-time in un negozio osserviamo il proprietario che sgrida una nostra collega, Hannah, quindi ci poniamo la domanda attributiva se la ragione riguardi il proprietario o la situazione che lo circonda. L’informazione di consenso si riferisce al modo in cui altre persone si comportano nei confronti del medesimo stimolo (anche gli altri si comportano nello stesso modo con Hannah?). L’informazione di specificità si rivolge al modo in cui l’attore, cioè la persona di cui dobbiamo spiegare il comportamento, risponda ad altri stimoli (il capo sgrida altri colleghi?). L’informazione di coerenza, infine, riguarda la frequenza con cui il comportamento osservato fra l’attore e lo stimolo si verifica nel tempo e nelle varie circostanza (il capo sgrida Hannah tutte le volte che la vede?). La teoria di Kelley ritiene che un’attribuzione diventi possibile quando queste tre fonti di informazioni si combinano in uno o due pattern caratteristici. Le persone compiono con maggiore probabilità un’attribuzione interna quando il consenso e la specificità dell’atto sono bassi, al contrario della coerenza. L’attribuzione esterna invece, viene compiuta con maggiori probabilità in presenza di un elevato grado di consenso, specificità e coerenza. Se infine la coerenza è Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) bassa, non possiamo fare una chiara attribuzione interna o esterna, e pertanto ricorriamo a un genere particolare di attribuzione esterna o situazionale, mediante cui ipotizziamo che si stia verificando qualcosa di insolito o di particolare in quelle circostanze. Perché il capo ha sgridato Hannah? Le persone compiono … basso nel consenso: il … basso nella specificità: … alto nella coerenza: il più probabilmente capo è l’unica persona il capo sgrida sempre capo sgrida Hannah ogni un’attribuzione interna che lavora nel negozio a tutti i commessi volta che la vede (qualcosa da addebitare sgridare Hannah al capo) se giudicano il comportamento come… Le persone compiono … alto nel consenso: … alto nella specificità: il … alto nella coerenza: il con più probabilità tutti i commessi capo non sgrida gli altri capo sgrida Hanna ogni un’attribuzione esterna sgridano Hannah commessi volta che la vede (qualcosa da addebitare ad Hannah) se giudicano il comportamento come… Le persone compiono … basso o alto nel … basso o alto nella … basso nella coerenza: più probabilmente consenso specificità è la prima volta che il un’attribuzione legata a capo sgrida Hannah qualche aspetto delle circostanze particolari in cui il capo ha sgridato Hannah se giudicano il comportamento come… Diversi studi hanno confermato che le persone spesso formulano le attribuzioni secondo i modelli di Kelley, seppure con due eccezioni. Primo, le ricerche hanno mostrato che i soggetti non utilizzano le informazioni di consenso nella misura prevista dalla teoria di Kelley, e si affidano maggiormente a quelle di coerenza e specificità. Secondo, le persone non sempre dispongono di informazioni rilevanti sulle tre dimensioni identificate da Kelley. In queste situazioni gli individui mettono in atto il processo di attribuzione usando le informazioni disponibili e facendo inferenze sui dati mancanti. La teoria o schema fondamentale più diffuso sul comportamento umano è che sono le caratteristiche personali degli individui a indurli a comportarsi in un determinato modo e non la situazione in cui si trovano. Secondo questa prospettiva, è più probabile che pensiamo come psicologi della personalità che valutano il comportamento come originato dalle disposizioni e dai tratti interni, piuttosto che come psicologi sociali che si concentrano sull’impatto delle situazioni sociali sul comportamento. Questa tendenza a sovrastimare fattori disposizionali e interni si chiama o anche di corrispondenza. Il ruolo della salienza percettiva. Perché le persone commettono l’errore fondamentale di attribuzione? Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Una ragione è che quando cerchiamo di spiegare il comportamento di qualcuno, la nostra attenzione si concentra di norma sulla persona piuttosto che la situazione circostante. Le cause situazionali del comportamento di una persona restano praticamente invisibili: se non sappiamo cosa sia capitato prima a quell’individuo durante la giornata, non possiamo utilizzare le informazioni situazionali per capire le ragioni del suo comportamento. Perfino quando siamo al corrente della situazione, non sappiamo come una persona possa interpretarla. Se pure la situazione può apparirci irraggiungibile, la nostra salienza percettiva si appunta in particolare sull’individuo, che è ciò che osserviamo con la viste e l’udito, ed è ciò che a noi sembra la causa più ragionevole e logica del comportamento osservato. L’importanza della salienza percettiva è stata dimostrata dalla ricerca di Taylor e Fiske (1975), in cui due studenti complici dei ricercatori conversano seduti uno di fronte all’altro. Vengono quindi aggiunti sei partecipanti: due posti al fianco tra i due parlanti, di cui potevano vedere il profilo, e due dietro ciascun attore, in modo che potessero vedere solo il volto di chi avevano davanti. La ricerca modificava pertanto chi si trovava ad avere la salienza percettiva, ovvero chi i soggetti potevano vedere meglio. I ricercatori scoprirono che i partecipanti individuarono nella persona che vedevano meglio quella che aveva avuto maggiore importanza nella conversazione, sebbene tutti avessero osservato la medesima discussione. La salienza percettiva, ovvero il punto visivo di osservazione, ci aiuta a spiegare perché l’errore fondamentale di attribuzione sia così diffuso. I due stadi del processo di attribuzione. Le persone attraversano due stadi nel processo di attribuzione. Cominciano con un’attribuzione interna, ipotizzando che il comportamento di una persona sia dovuto a qualche caratteristica personale. Quindi cercano di aggiustare quest’attribuzione considerando la situazione in cui la persona si trova. Questo secondo stadio, tuttavia, spesso non presenta un sufficiente accomodamento. Inoltre, quando siamo distratti, spesso saltiamo il secondo stadio, facendo un’attribuzione interna estrema. Il passo iniziale, infatti, si verifica in maniera rapida e spontanea, mentre il secondo richiede maggiore sforzo e attenzione consapevole. La psicologia sociale studia come il contesto influenza l’individuo, e possiamo quindi concepire la cultura come una variabile situazionale di grado superiore che abbraccia tutto. Ad esempio gli Stati Uniti e alcune culture occidentali enfatizzano l’autonomia individuale, al contrario culture dell’Estremo Oriente enfatizzano l’autonomia del gruppo: l’individuo deriva il senso di sé dal gruppo sociale a cui appartiene. Pensiero olistico vs analitico. Alcune ricerche mostrano che questi differenti valori culturali influenzano il tipo di informazioni a cui le persone prestano attenzione. Infatti, uno stile di pensiero analitico implica la concentrazione sulle proprietà individuali degli oggetti o delle persone e la minore o per nulla attenzione al contesto o alla situazione che circonda l’oggetto. Al contrario, il pensiero olistico si concentra sull’, cioè l’oggetto o la persona e il contesto che lo circonda, così come sulle relazioni che intercorrono fra gli individui. Queste differenza influenzano il modo in cui le persone decodificano le espressioni facciali delle emozioni. Masuda e colleghi (2008) hanno chiesto in una ricerca a dei soggetti proveniente da Stati Uniti e Giappone di valutare dei fumetti che ritraevano delle persone all’interno di gruppi. Il loro compito era di interpretare su una scala da 1 a 10 l’emozione della persona al centro del gruppo. Le espressioni facciali dei membri del gruppo avevano scarso effetto sulle valutazioni della figura al centro compiute dagli statunitensi. Se la figura sorrideva, veniva considerata felice: non contava che cosa stesse Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) esprimendo il resto del gruppo. Invece le espressioni facciali dei membri del gruppo avevano invece un effetto significativo sulle valutazioni della figura al centro compiute dai giapponesi. Il significato dell’espressione facciale del protagonista cambiava a seconda del suo , di ciò che gli altri personaggi accanto stavano provando. Ricorrendo a una metafore, si può dire che gli americani si basano più sullo zoom, gli orientali più sul panorama. Evidenze delle neuroscienze sociali. I risultati sui movimenti oculari ottenuti da Masuda e colleghi, fanno pensare che a livello fisiologico succeda qualcosa nella persone che stanno attivando un pensiero analitico o olistico. Hedden e colleghi (2008) hanno impiegato la fMRI per vedere se l’esperienza culturale influenzi l’elaborazione percettiva del cervello. I partecipanti, provenienti dell’Estremo Oriente e dagli Stati Uniti, si sottoponevano alla risonanza magnetica mentre elaboravano giudizi su alcune linee poste dentro a una scatola. Ad alcuni partecipanti venne chiesto di ignorare la scatola () e ad altri di prestarvi attenzione (). I soggetti mostravano maggiore attività cerebrale quando dovevano seguire le istruzioni contrarie al loro stile culturale di pensiero: in un centro senso deve svolgere un maggior sforzo cognitivo quando viene loro chiesto di percepire degli oggetti in un modo che non è culturalmente tipico. Mentre la fMRI indica quali regioni del cervello sono attive, gli ERP forniscono un’analisi più raffinata rispetto all’inizio e alla fine dell’attivazione neurale. Un’interessante novità era che i soggetti erano tutti statunitensi che erano cresciuti nella cultura americana ma provenienti da due diversi background etnici: americani di origine europea e americani di origine orientale. Il pattern degli ERP mostrò che i soggetti di origine europea dedicavano più attenzione ai bersagli, mentre quelli di origine orientale soprattutto al contesto intorno ad essi. Le differenze culturali nell’errore fondamentale di attribuzione. Le persone che appartengono a culture individualiste preferiscono le attribuzioni disposizionali, mentre gli individui delle culture collettiviste quelle situazionali. Miller (1984) chiese alle persone provenienti da due culture (indù e nordamericani) di pensare ad alcuni esempi di comportamento dei loro amici e di spiegarne la causa. I soggetti statunitensi preferivano le spiegazioni disposizionali, al contrario i soggetti indù preferivano quelle situazionali. Miller prese alcuni comportamenti proposti dai soggetti indù e chiese agli americani di spiegarli: emerse di nuovo la differenza di attribuzioni interne ed esterne. Sarebbe un errore però pensare che i membri delle culture collettiviste non compiano attribuzioni disposizionali. Studi recenti indicano che la tendenza a pensare in maniera disposizionale rispetto agli altri – il bias di corrispondenza – esiste in molte culture. Tuttavia i membri delle culture collettiviste sono più consapevoli di quanto la situazione influenzi il comportamento e hanno maggiori probabilità di prendere in considerazione tali effetti. Quando l’autostima è minacciata, si compiono delle autoattribuzioni: queste attribuzioni si riferiscono alla nostra tendenza a prenderci il merito dei nostri successi mediante delle attribuzioni interne e a dare la colpa agli altri e alle situazioni per i fallimenti. Alcune ricerche hanno analizzato le spiegazioni date dagli atleti e dagli allenatori per le loro vittorie o sconfitte. Quando spiegavano una vittoria, atleti e allenatori mettevano in evidenza soprattutto gli aspetti delle loro squadre o giocatori, le sconfitte venivano invece attribuite soprattutto a cause esterne, fuori dal controllo del team Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Quali sono le ragioni della autoattribuzioni? Le persone tentano il più possibile di mantenere la loro autostima, anche a costo di distorcere la realtà modificando una cognizione. E’ qui che scorgiamo una specifica strategia attribuzionale che può essere impiegata per mantenere o accrescere l’autostima, ovvero situare la dove ci risulta più comodo. Un’altra ragione riguarda il modo in cui ci presentiamo agli altri (Goffman). Il nostro desiderio è che gli altri pensino bene di noi: a questo scopo un’ottima strategia di autopresentazione è dire agli altri che la nostra cattiva performance è stata dovuta a qualche causa esterna. Una terza ragione si riallaccia all’analisi del genere di informazioni che sono disponibili alle persone. Le persone modificano inoltre le attribuzioni per ovviare ad altri generi di minacce verso la loro autostima. La vita offre momenti difficili da comprendere, autentiche tragedie come gli stupri, le malattie terminali o gli incidenti mortali. Esse ci ricordano che possono capitare a chiunque, e quindi anche a noi. E di tutti i tipi di conoscenza di sé che possediamo, la più difficile da accettare è proprio il sapere che anche noi siamo mortali e possiamo subire questi eventi. Prendiamo quindi delle precauzioni, come le attribuzioni difensive, volte a preservarci da sensazioni di vulnerabilità e moralità. Una forma di attribuzione difensiva è l’ottimismo irrealistico riguardo al futuro. Weinstein (1980) scoprì che le persone nutrivano eccessivo ottimismo: tutti praticamente ritenevano che le cose positive sarebbero capitate a loro con più probabilità rispetto ai propri colleghi, al contrario di quelle negative. L’ottimismo eccessivo è un modo che le persone hanno per proteggersi dalla spiacevole sensazione di essere mortali. Un modo per affrontare queste spiacevoli ricordi della nostra condizione umana è spiegarli in maniera tale da far sembrare che non possano mai capitare a noi, ritenendo che simili eventi tocchino solo a persone malvagie. L’ipotesi che le persone ricevano quanto meritano è stata chiamata da Lerner (1980) la credenza in un mondo giusto. La credenza in un mondo giusto produce delle conseguenze a volte tragiche: se ad esempio una studentessa viene stuprata da un suo collega, è probabile che i suoi amici si chiederanno se non abbia fatto qualcosa per incoraggiarlo. Si tende così a credere che le vittime di stupri ne siano responsabili e che le mogli maltrattate siano la causa del comportamento criminale dei loro mariti. Sotto questa influenza attribuzionale, chi percepisce la situazione non avverte il bisogno di ammettere che la vita è retta dal caso e che anche una persona innocente come lui o lei può essere assalita da qualche criminale non appena svolta l’angolo. Furnham (1993) ipotizza che in una società dove la maggioranza delle persone tende a credere in un mondo giusto, le disuguaglianza economiche e sociali sono considerate. In queste società le persone credono che i poveri e gli svantaggiati abbiano di meno perché si meritano di meno. L’attribuzione del mondo giusto può essere così usata per giustificare l’ingiustizia: in culture con estremi di ricchezza e povertà, le attribuzioni del mondo giusto sono più comuni rispetto alle culture dove la ricchezza è distribuita più uniformemente. Sul bias self-serving (a proprio favore) hanno trovato anche una forte componente culturale. Mezulis e colleghi (2004) hanno trovato che il bias self-serving è più forte negli Stati Uniti e in alcuni paesi occidentali, mente alcune culture asiatiche come il Giappone, le Isole del Pacifico e l’India avevano un livello decisamente basso o addirittura assente. Molte culture asiatiche tradizionali danno un alto valore alla modestia e all’armonia con gli altri. Ad esempio ci si aspetta che gli studenti cinesi attribuiscano il proprio successo ad altre persone, come gli insegnanti o i genitori, o ad altri aspetti della situazione. La loro tradizione culturale non li incoraggia ad attribuire il successo a sé stessi, al proprio talento o intelligenza, come avviene negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali. Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Alcuni ricercatori hanno scoperto che ciò si può applicare anche alla televisione e alle cronache sportive. Essi hanno codificato le spiegazioni mediatiche date in Giappone e negli Stati uniti alle medaglie d’oro ottenute alle Olimpiadi del 2000 e 2002. I media statunitensi descrivevano la prestazione dei vincitori americani in termini di unicità di abilità, mentre i media giapponesi descrivevano la prestazione dei loro vincitori in termini più ampi, includendo l’abilità dell’individuo, ma anche i suoi precedenti successi o sconfitte, e il ruolo svolto da allenatori, i compagni di squadra e i familiari. Quanto alla sconfitta, invece, le persone delle culture individualiste tendono verso il bias self-serving e quindi guardano fuori da sé, cioè verso la situazione, per spiegare il fallimento. Nelle culture collettiviste è il contrario: le persone attribuiscono il fallimento a cause interne. Quando uno critica sé stesso gli altri offrono comprensione e compassione, il che rafforza l’interdipendenza dei membri del gruppo. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) CAPITOLO QUATTRO – LA CONOSCENZA DI SE’: COME ARRIVIAMO A COMPRENDERE NOI STESSI In molte culture occidentali le persone hanno una visione di sé indipendente che esalta l’individualismo che permette di differenziarsi dagli altri e di valorizzare la propria unicità. Molti asiatici e altre culture non occidentali, invece, possiedono una visione di sé interdipendente, in cui viene valorizzata l’associazione tra le persone. Ciò che in una cultura viene giudicato come un comportamento positivo e normale può essere visto in un modo molto diverso da un’altra, a cause delle differenza fondamentali nella costruzione del concetto del sé. Ciò non implica che ogni membro della cultura occidentale abbia una visione di sé come individuo indipendente e che ogni membro della cultura asiatica abbia una visione interdipendente del sé. Tuttavia, la differenza del senso di sé tra cultura orientale e cultura occidentale ha una sua realtà, oltre che delle conseguenze sulla comunicazione fra culture. Inoltre, tali differenze sono cruciali a tal punto che è difficile per le persone con un sé indipendente valorizzare che cosa voglia dire avere un sé interdipendente e viceversa. Anche se può sembrare uno stereotipo, uomini e donne hanno un diverso concetto di sé: le donne sono più interdipendenti relazionali, ovvero si focalizzano maggiormente sulle relazioni intime, mentre gli uomini hanno una maggiore interdipendenza collettiva, cioè si concentrano sulla loro appartenenza a grandi gruppi (essere americani, essere tutti fratelli etc.). Parlando del concetto di sé come fonte delle nostre informazione si introduce il concetto di introspezione, che consiste nel ed esaminare le , quelle che solo noi abbiamo circa i nostri pensieri, sentimenti e motivazioni. Tuttavia le persone non si affidano a questa fonte di informazione tanto frequentemente quanto potremmo pensare, e spesso anche in presenza di introspezione le ragioni dei sentimenti e dei comportamenti possono rimanere celate dalla nostra consapevolezza. E’ risaputo che gli adolescenti riflettono meno su sé stessi di quanto fanno gli adulti, anche se gli studi dimostrano che la quantità di tempo che si passa a riflettere su di sé è aumentata. A volte, comunque, ci imbattiamo in qualcosa nell’ambiente che fa scattare la consapevolezza di sé, ad esempio quando vediamo noi stessi in un video o ci fissiamo nello specchio. Secondo la teoria della consapevolezza di sé, quando ci focalizziamo su noi stessi valutiamo e confrontiamo il nostro comportamento e le regole morali. Se possiamo cambiare il nostro comportamento per adattarlo ai nostri principi interni, lo facciamo; se invece sentiamo di non poterlo fare, allora essere consapevoli di noi stessi sarà molto sgradevole, e saremo messi di fronte a uno spiacevole feedback su noi stessi. Questa insoddisfazione può essere dolorosa e divenire il motivo per cui fuggiamo da un autoesame: certe attività come l’abuso di alcol, i disturbi alimentari, il masochismo sessuale e il suicidio hanno come tratto comune il fatto di essere dei modi per distogliere l’attenzione da sé stessi. Molte forme di espressione religiosa e di spiritualità sono anche mezzi efficaci per evitare l’attenzione su di sé. Se abbiamo appena raggiunto uno scopo nella vita o sperimentato un importante successo, allora focalizzarsi su sé stessi può essere piacevole perché mette in luce la rispondenza tra il nostro comportamento e i nostri ideali. Diverse ricerche hanno trovato che quando le persone sono coscienti di sé, è più probabile che seguano le loro regole morali: la consapevolezza di sé, pertanto, è particolarmente negativa quando ricorda alle persone i loro insuccessi. Quando invece avvertiamo una tentazione, una dose di consapevolezza di sé è utile in quanto ci rende consapevoli della nostra morale e dei nostri ideali. Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Le culture dell’Estremo Oriente tendono a definirsi rispetto alle loro relazioni con gli altri, di conseguenza differiscono nel grado di autoconsapevolezza. Cohen e colleghi hanno scoperto che le persone dell’Estremo Oriente hanno maggiori probabilità di possedere una prospettiva esterna del sé e di vedere sé stessi tramite gli degli atri. Ne segue che la consapevolezza di sé che viene indotta mettendo le persone davanti allo specchio si adatta meglio agli occidentali che agli orientali: essendo questi ultimi già consapevoli di sé, dovrebbero essere influenzati di meno da indizi come lo specchio. Vi è un altro tipo di coscienza di sé che è più difficile da ottenere: si tratta della coscienza del perché ci sentiamo come ci sentiamo. Molti dei nostri processi mentali di base avvengono al di fuori della coscienza: siamo coscienti dei risultati finali dei nostri processi mentali, ad esempio quando siamo innamorati, spesso però non abbiamo coscienza dei processi cognitivi che hanno portato a quel risultato. Nisbett e Wilson hanno studiato il fenomeno che consiste nel dire più di quanto sappiamo: in uno studio dei ricercatori chiesero a degli universitari di tenere un diario dei loro stati d’animo. I partecipanti affermarono che il loro umore era collegato a diverse cose, ad esempio alla qualità del sonno, ma un’analisi dei dati mostrò che in molti casi si erano sbagliati. I soggetti avevano quindi fatto affidamento in parte sulle loro teorie causali. Le persone possiedono molte teorie su che cosa influenzi il loro comportamento e i sentimenti, e spesso le usano per spiegarsi perché si sentono in un certo modo. Molte di queste teorie ci vengono dalla cultura in cui cresciamo: il problema è che i nostri schemi e le nostre teorie non sempre sono corretti, e possono portarci a formulare giudizi errati sulle cause delle nostre azioni. Le ricerche confermano il processo di cambiamento di atteggiamento generato dalle ragioni, medianti cui i soggetti cambiano atteggiamenti come risultato della riflessione sulle ragioni di tali atteggiamenti. Questo succede perché le persone ricordano ragioni che non riflettono veramente come si sentono e perché parlano a sé stesse credendo che quello che sia il modo in cui si sentono. Gli effetti dell’analisi delle ragioni tendono a svanire nel tempo e ritornano gli originali atteggiamenti , quindi se le persone compiono decisioni importanti dopo aver fatto un’analisi dettagliata delle ragioni, potrebbero prendere decisioni che in seguito possono rimpiangere. Ciò avviene perché gli individui tendono a concentrarsi sulle cose che sono semplici da dire a parole a ignorare le sensazioni difficili da spiegare: sono però proprio queste ultime che contano a lungo termine. Wilson e colleghi sostengono che non ci si debba fidare troppo degli atteggiamenti mostrati immediatamente dopo l’analisi delle ragioni, perché le persone che prendono decisioni basate su questi atteggiamenti arrivano solitamente a pentirsi della scelta fatta. Un’altra fonte di conoscenza di sé è l’osservazione dei nostri stessi comportamenti. La teoria dell’autopercezione di Bem (1972) afferma che quando i nostri comportamenti e sentimenti sono ambigui o incerti, li inferiamo osservando il nostro comportamento e la situazione in cui ci troviamo: prima inferiamo i nostri sentimenti dal comportamento solo se essi risultano deboli e poco chiari, in seconda battuta le persone pensano alle ragioni dei loro comportamenti per vedere se essi riflettono veramente come si sentono. Abbiamo parlato della teoria dell’attribuzione, ovvero il modo in cui le persone inferiscono i sentimenti e gli atteggiamenti di qualcun altro dall’osservazione del comportamento. In accordo con la teoria dell’autopercezione di Bem, gli individui utilizzano gli stessi principi attribuzionali per inferire i loro stessi atteggiamenti e sentimenti. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Immaginiamo di essere un maestro elementare che vuole sviluppare nei suoi studenti l’amore per la lettura, un buon metodo può essere ricompensare gli studenti che leggono. Un professore del West Georgia College ha creato un programma chiamato Earning by Learning che offre ai bambini due dollari per ogni libro letto. Il pericolo insito in questo tipo di programmi educativi può essere l’abbassamento del loro interesse intrinseco per la lettura: è vero che i bambini possono leggere di più al fine di ottenere maggiori ricompense, ma sono i cambiamenti che avvengono dentro le persone a essere trascurati. Chi ad esempio ha sempre tratto godimento dal leggere deriva fondamentalmente il suo interesse da una motivazione intrinseca: le ragioni sono relative alla persona stessa, non dal fatto di avere una ricompensa o della sollecitazioni. Quando i bambini vengono ricompensati per leggere questa attività, finora derivante da una motivazione intrinseca, deriva ora da una motivazione estrinseca: la ricreazione si trasforma in lavoro. La conseguenza negativa è che sostituire la prima con la seconda mediante l’uso di ricompense induce gli individui a perdere l’interesse per l’attività che inizialmente era fonte di piacere. Questo risultato si chiama effetto di sovragiustificazione, cioè le persone sovragiustificano il loro comportamento concentrandosi sulle cause esterne, come le ricompense, e sottostimano il loro interesse intrinseco per il comportamento. I risultati degli studi sulla sovragiustificazione inducono forse allo scoraggiamento, visto l’ampio uso di ricompense e incentivi praticati da genitori, educatori e datori di lavoro. Spesso infatti le persone si ritrovano ad essere pagate per fare qualcosa che prima facevano per semplice divertimento, come nel passaggio da sport dilettantistico e professionistico. Come si può evitare l’effetto di sovragiustificazione? In primo luogo le ricerche dimostrano che le ricompense diminuiscono l’interesse solo se questo era inizialmente alto; in secondo luogo, è il tipo di ricompensa a fare la differenza. Le persone ricevono ricompense contingenti al compito solo per aver eseguito un compito, indipendentemente dalla qualità della loro prestazione. Usare le ricompense contingenti alla prestazione è più utile, in quanto dipendono dalla bravura con cui le persone svolgono un compito. Quest’ultima tipologia di ricompensa ha meno probabilità di diminuire l’interesse, anzi, può addirittura aumentarlo, in quanto comunica il messaggio che si è bravi a svolgere un compito. Va tuttavia a sua volta usato con cautela: sebbene le persone gradiscano un feedback positivo, non apprezzano la tensione e l’apprensione derivanti dalla valutazione. La soluzione consiste nel trasmettere feedback positivo senza costringere le persone a provare nervosismo e apprensione per il fatto di essere giudicate. Schachter (1964) ha proposto una teoria delle emozioni secondo cui noi inferiamo quali siano le nostre emozioni nello stesso modo in cui inferiamo quale genere di persona siamo o quale interesse proviamo verso qualcosa. L’unica differenza è nel genere di comportamento che osserviamo: secondo lo studioso osserviamo i nostri comportamenti interni, in particolare il grado di eccitazione fisiologica che avvertiamo. La tesi di Schachter è chiamata teoria bifattoriale delle emozioni, in quanto la comprensione dei nostri stati emotivi richiede due stadi: nel primo dobbiamo provare eccitazione fisiologica, nel secondo dobbiamo cercare una spiegazione adeguata, un’etichetta con cui contrassegnarla, usando le informazioni presenti nella situazione per arrivare a un’attribuzione delle ragioni della nostra eccitazione. Un’implicazione della teoria di Schachter è che le emozioni delle persone sono in parte arbitrarie, poiché dipendono da quella che sembra la spiegazione più plausibile della propria eccitazione. In primo luogo, gli studiosi dimostrarono che potevano impedire alle persone di provare rabbia fornendo loro una spiegazione non emotiva della loro eccitazione. Inoltre i ricercatori dimostrarono di poter indurre i soggetti a provare un’emozione completamente diversa modificando la spiegazione più plausibile della loro eccitazione. L’esperimento di Schachter e Singer è uno dei più famosi della psicologia sociale, in quanto dimostra che le emozioni possono essere il risultato di un processo di percezione di sé mediante cui le persone ricercano la Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) spiegazione più plausibile per l’eccitazione che avvertono. Spesso non si tratta di quella giusta, ed è così che le persone finiscono per avvertire un’emozione sbagliata. Numerose situazioni presentano più cause possibili della nostra eccitazione, rendendo difficile identificare quale responsabilità sia da attribuire in percentuale a ciascuna di esse. Numerosi studi hanno dimostrato il verificarsi dell’attribuzione errata di eccitazione, mediante cui le persone compiono inferenza sbagliate circa la cause delle sensazioni che provano. A questo scopo Dutton e Aron in un esperimento, fecero avvicinare dei soggetti a una donna, loro complice, in due condizioni radicalmente differenti: in una i soggetti si trovavano ad attraversare un ponte traballante, e quindi a incontrare, nel vivo delle loro eccitazione per il pericolo corso, la giovane donna. Nella seconda avevano tempo, dopo l’attraversamento del ponte, di sostare in una panchina del parco e riprendersi dallo spavento. La teoria bifattoriale enunciata da Schachter ci fa presagire che nella prima condizione parte dell’eccitazione provata sul ponte verrà erroneamente attribuita all’attrazione per la donna. Infatti gran parte dei soggetti che vennero contattati sul punto richiamarono la donna, azione che venne imitata solo da un numero relativamente basso di uomini nell’altra condizione. Esiste un altro genere di conoscenza di sé: il modo in cui spieghiamo a noi stessi le nostre doti e abilità. Alcune persone ritengono che le loro abilità siano immutabili, o ci sono oppure no. La psicologa Carol Dweck (2006) ha dato il nome di (approccio di staticità) all’idea che possediamo una quantità determinata di abilità che non può modificarsi. Altre persone hanno invece un (approccio di crescita), ovvero l’idea che le nostre abilità siano delle qualità malleabili che possiamo coltivare e accrescere. Alcune ricerche dimostrano quanto sia cruciale per il successo delle persone il tipo di mindset che possiedono: le persone con il fixed mindest, dopo un insuccesso, sono più predisposte a rinunciare e hanno meno probabilità di continuare a lavorare e ad affinare le proprie doti. Le persone con il growth mindset vedono invece gli insuccessi come un’opportunità di miglioramento attraverso il duro lavoro. I mindset possono modificarsi: le persone che credono in quello fisso possono imparare a usare quello della crescita. Il concetto di sé non si sviluppa in un contesto solitario, ma è modellato dalle persone che ci circondano. Gordon Gallup (1977) ha confrontato il comportamento degli scimpanzé cresciuti in normali gruppi familiari con quelli cresciuti da soli in completo isolamento sociale. Gli scimpanzé con esperienza sociali superavano il , a differenza di quelli isolati socialmente, che non riconoscevano neppure sé stessi allo specchio, facendo pensare che non avessero sviluppato alcun senso del sé. Un altro modo per giungere a conoscere noi stessi è il confronto con gli altri. La teoria del confronto sociale proposta da Festinger (1954) verte su due questioni: a) quando mettiamo in atto il sociale e b)con chi scegliamo di farlo. La risposta alla prima domanda è che facciamo il confronto sociale quando non disponiamo di alcun criterio oggettivo con cui poterci misurare e avvertiamo incertezza su noi stessi in una determinata area. Per quanto riguarda la seconda domanda, la risposta dipende dal nostro obiettivo. Inizialmente ci confrontiamo con chiunque e questo confronto avviene velocemente e in maniera automatica. Dopo un rapido giudizio, decidiamo quindi sull’appropriatezza di questo confronto, sapendo che non tutti i confronti hanno la medesima qualità informativa. Se richiediamo una valutazione precisa delle nostre capacità e opinioni, ci confrontiamo con persone a noi simili. Se invece vogliamo determinare quale sia il criterio di eccellenza verso cui puntare, ricorriamo al Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) confronto sociale verso l’alto, ovvero con persone più dotate di noi. Un problema che si può verificare è che ciò potrebbe essere deprimente e farci sentire inferiori. Se infine il nostro obiettivo è sostenere la nostra immagine mediante una prestazione relativa a un tratto per noi molto importante, impieghiamo il confronto sociale verso il basso. E’ una strategia di protezione e innalzamento del sé. Quando si tratta delle nostre opinione sul mondo sociale, adottiamo spesso quelle dei nostri amici. E’ facile notare come le persone che si frequentano tendono a vedere il mondo nello stesso modo: un’ovvia spiegazione di questo fatto è che le persone dalle opinioni molto simili si attraggono reciprocamente e hanno maggiori probabilità di formar legami sociali rispetto a quelle con opinioni differenti. Un’altra spiegazione è che in alcune condizioni le persone adottano le opinioni delle persone che frequentano. A ciò Cooley (1902) diede il nome di : vediamo noi stessi e il mondo sociale mediante gli occhi degli altri e spesso adottiamo quelle opinioni. Non sorprende dunque che gli amici si influenzino a vicenda, mentre è più sorprendente che questa sintonizzazione sociale possa verificarsi anche quando incontriamo qualcuno per la prima volta e con il quale vogliamo andare d’accordo. La sintonizzazione sociale può avvenire anche inconsciamente: tendiamo automaticamente ad adottare le opinioni delle persone che ci piacciono, mentre respingiamo quelle delle persone che non ci piacciono. Un’altra importante funzione del sé è quella esecutiva, che dirige le scelte su cosa fare nel presente e fa progetti per il futuro. Una forma di controllo di sé che non funziona molto bene e che spesso produce effetti negativi è la soppressione del pensiero: spesso più cerchiamo di non pensare a qualcosa, più questi pensieri continuano a tornarci in mente. Secondo il modella della risorsa regolativa del sé, bisogna assicurarsi di disporre di molte energie quando cerchiamo di controllare le nostre azioni. Secondo questo approccio, il controllo di sé richiede energie, e spenderle per un compito limita la quantità che può essere spesa per affrontarne un altro. In una ricerca i soggetti a cui era stato detto si sopprimere un pensiero avevano prestazioni peggiori quando cercavano di regolare le proprie emozioni in un secondo compito, rispetto alle persone che non dovevano prima sopprimere un pensiero. Sebbene i compiti fossero del tutto diversi, i ricercatori ipotizzarono che il primo esaurisse le risorse che le persone usavano per controllare il proprio comportamento, rendendo difficile un atto successivo di autocontrollo. Ma cos’è l’ che spendiamo quando mettiamo in atto l’autocontrollo? Secondo recenti ricerche, dovrebbe essere il livello di glucosio nel sangue ad essere il carburante che fornisce energia al cervello, e quando le persone si sforzano di controllare le loro azioni, ne bruciano molto. Uno studio ha riscontrato che le persone che bevevano una limonata zuccherata erano più capaci di esercitare autocontrollo rispetto a quelle che avevano bevuto una limonata con dolcificante. Le ricerche mostrano che tra i metodi per aumentare il proprio controllo esiste la pratica: più proviamo ad esercitare il nostro autocontrollo, più successo avremo in futuro. Un altro approccio da mettere in atto quando siamo logorati dal tentativo di autocontrollo e siamo messi di fronte a un’altra tentazione è quello di prendersi un momento di pause e riguadagnare energie. Infine, un’altra strategia è quella di stabilire le nostre intenzioni in anticipo prevedendo una situazione nella quale avremmo bisogno di mettere in atto il nostro autocontrollo. Un aspetto fondamentale della nostra esistenza sociale è la presentazione del sé, mediante cui ci presentiamo per quello che siamo o per quello che vogliamo gli altri credano che siamo (Goffman 1959). Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) Vi sono situazioni in cui vogliamo che le persone si formino una determinata impressione di noi. E’ allora che procediamo alla gestione delle impressioni, ovvero l’orchestrazione più o meno consapevole di una presentazione accuratamente consegnata del sé, destinata a creare una data impressione che è in accordo con i nostri scopi o obiettivi in un’interazione sociale. Esistono diverse strategie nella gestione delle impressioni: una di queste è l’ingraziamento, ovvero quando lusinghiamo i in generale ci rendiamo graditi a un altro, di solito una persona di status superiore. E’ una tecnica di grande forza, in quanto piace a tutti avere qualcuno che si mostre gentile con noi, ma può produrre risultati opposti se il suo destinatario capisce che cosa stiamo facendo. Un’altra strategia di presentazione di sé è l’uso di strategie di. In questo caso le persone creano degli ostacoli e delle scuse verso sé stesse per giustificare le ragioni del loro fallimento. Ancora prima di dedicarci a un compito, ci assicuriamo quindi di avere una scusa pronta a spiegazione della nostra prestazione potenzialmente insufficiente. Nella forma più estrema le persone si creano ostacoli che riducono le possibilità di successo, in modo da poter dare la colpa ad essi, piuttosto che alle proprie capacità. Nella forma meno estrema, le persone congegnano delle scuse preconfezionate in caso di fallimento. Un possibile problema è che possiamo giungere a credere alle scuse che creiamo e quindi ci dedichiamo al compito con meno sforzo. Differenze culturali nella gestione delle impressioni. Ricordiamo che gli asiatici tendono ad avere una visione di sé stessi più interdipendente rispetto agli occidentali, una conseguenza è che il , evitare l’imbarazzo pubblico, ha un ruolo fondamentale in queste culture, a tal punto che per soddisfare questo criterio ci si può recare in un’. In queste agenzie, o benriya, è addirittura possibile reclutare delle persone pronte a fingere di essere amici intimi. Gli occidentali non sono da meno, fanno di tutto pur di influenzare ciò che gli altri pensano di loro. Un esempio viene da una campagna svoltasi nel 1991 in Louisiana per la carica di governatore. Il candidato repubblicano David Duke era praticamente da sempre un razzista antisemita, assertore della superiorità dei bianchi, ma la sua presentazione di sé subì un radicale cambiamento: affermò di non essere più un sostenitore dell’ideologia nazista e del Ku Klux Klan, di cui era a capo negli anni Settanta. La sua strategia però venne ben capita dalla maggior parte degli elettori come un camuffamento delle sue origini razziste e la vittoria andò al candidato democratico. Quando ci sentiamo bene con noi stessi abbiamo quella che chiamiamo alta autostima, ovvero la valutazione che le persone hanno di sé stesse e del proprio valore. Cerchiamo in tutti i modi di evitare di avere una bassa autostima, ovvero la sensazione di non essere all’altezza e di non saper controllare la nostra vita. In più, l’autostima alta ci protegge contro i pensieri di morte. Questa è la base della , secondo la quale l’autostima serve come cuscinetto per proteggere le persone da pensieri terrificanti di morte. Al fine di proteggerci, adottiamo delle visione del mondo culturalmente date che ci fanno sentire protagonisti di un mondo propositivo e denso di significato. Un altro vantaggio è che in questo modo si è motivati a perseverare quando la vita diventa dura da affrontare. Gli studi dimostrano che le persone ottimiste affrontano meglio le sconfitte e si pongono obiettivi più alti di chi ha una bassa stima di sé. A volte capita che quando si abbia un’autostima eccessiva e non sana, si soffra di narcisismo, ovvero la combinazione di uno sproporzionato amore di sé e la mancata empatia nei confronti degli altri. Secondo Twenge e colleghi (2008) il narcisismo è in forte aumento negli ultimi anni fra gli studenti universitari. Nell’arco di tempo che va dal 1982 al 2008 vi sono evidenza che dimostrano che il narcisismo è maggiormente presente nella cultura americana rispetto ad altre culture. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) CAPITOLO QUINTO – IL BISOGNO DI GIUSTIFICARE LE NOSTRE AZIONI Gli psicologi sociali hanno scoperto che una delle più potenti cause che determinano il comportamento umano deriva dal bisogno di preservare un’immagine stabile e positiva di noi stessi. La maggior parte di noi crede di essere sopra la media, moralmente superiori e competenti; ma cosa succede quando ci confrontiamo con delle informazioni che ci fanno apparire come persone irragionevoli, immorali e stupide? Alla sensazione di malessere provocata da informazioni che risultano discrepanti con il concetto di sé stessi si è dato il nome di dissonanza cognitiva. Per Festinger (1957) la dissonanza è come un’incoerenza esistente fra due cognizioni (pensieri o opinioni). La dissonanza è molto forte quando compiamo un’azione o apprendiamo qualcosa che minaccia l’immagine che abbiamo di noi stessi; ne segue un’incoerenza tra ciò che pensiamo di essere e il modo in cui ci comportiamo La dissonanza cognitiva spinge l’individuo a cercare di attenuare il malessere che essa stessa ha creato attraverso tre metodi fondamentali: 1- cambiare il comportamento fino a farlo accordare con la cognizione dissonante, 2- cercare di giustificare il proprio comportamento modificando una delle cognizioni, 3-cercare di giustificare il comportamento mediante l’aggiunta di nuove cognizioni. Un valido esempio viene da uno dei più assurdi comportamenti quotidiani, fumare. Tale dissonanza potrebbe essere risolta nella maniera più diretta smettendo di fumare. Molti ci sono riusciti, ma altri falliscono e cercano quindi di ridurre la dissonanza trovando alcune giustificazioni per il loro comportamento. Alcuni cercheranno di modificare la loro cognizione, convincendosi che non ci sono ancora prove sufficienti che colleghino il fumo al cancro. Altri cercheranno di aggiungere nuove cognizioni, quali la credenza che il filtro riesca a bloccare la maggior parte delle sostanza nocive. Infine altri si convincono che fumare sia rilassante e riduca la tensione nervosa. Gli esempi appena fatti di negazione, distorsione e giustificazione si basano su casi reali: pur di sfuggire alla dissonanza le persone si dedicano a processi di razionalizzazione assolutamente fuori dall’ordinario. Immaginiamo di aver sostenuto un colloquio per un posto di lavoro. Ci aspettiamo di essere delusi nel caso non riuscissimo ad ottenerlo, e con nostra sorpresa, non lo otteniamo. Per quanto tempo ci sentiremo delusi? Dipende dal successo con cui riduciamo la dissonanza causata dal non aver ottenuto il posto. Spesso le persone non sanno anticipare con quale successo ridurranno la loro dissonanza. Quando le persone pensano a come reagiranno a degli eventi futuri negativi, mostrano un bias d’impatto, mediante cui sovrastimano l’intensità e la durata delle loro reazioni emotive negative. Dal momento che in passato gli individui hanno già saputo ridurre la dissonanza, perché non sono consapevoli che lo faranno anche in futuro? Perché il processo di riduzione della dissonanza è in larga parte inconscio. Le persone con alta stima di sé sperimentano una maggiore dissonanza quando si comportano in maniera contraria all’alta opinione che hanno di sé e si sforzano molto per ridurla rispetto a quelle che hanno un livello medio di autostima. Quando gli individui con bassa autostime commettono un’azione immorale, non si sentono molto dissonanti perché il pensiero è consonante con il pensiero. In un esperimento, dei ricercatori ipotizzarono che gli individui ai quali veniva dato un supporto alla loro autostima avrebbero barato con meno probabilità, nel caso ne avessero avuto l’occasione, rispetto a quelli con autostima bassa (Aronson e Mettee, 1968). Dopo aver svolto un test di personalità, a un terzo di un campione di studenti venne dato un feedback positivo, dicendo loro che il test li descriveva come persone mature e interessanti; a un altro terzo venne Marzia Monaco, Corso di Sociologia e Criminologia 2020 Document shared on www.docsity.com Downloaded by: gioia-pezzuoli ([email protected]) dato un feedback negativo, ovvero che erano persone noiose e superficiali; al rimanente terzo non venne data alcuna informazione. La seconda parte dell’esperimento consisteva nel giocare a carte contro alcuni compagni. Nel corso della partita, venne data la possibilità di barare e vincere una consistente somma di denaro. I risultati confermarono la tesi della teoria della dissonanza: gli studenti che avevano avuto il feedback positivo approfittarono pochissimo dell’opportunità di barare, mentre quelli che avevano avuto il feedback negativo ne approfittavano di più; il gruppo di controllo stava nel mezzo. Il bisogno di preservare la stima di sé produce un pensiero che non sempre è razionale, ma piuttosto razionalizzante; le persone sono così prese a convincere sé stesse di avere sempre ragione che finiscono per comportarsi in maniera irrazionale e inadeguata. Al fine di dimostrare l’irrazionalità del comportamento di riduzione della dissonanza, Jones e Köhler (1959), svolsero un esperimento in una città del sud degli Stati Uniti, poco prima che scomparisse la segregazione razziale. Selezionarono degli individui che avevano una posizione netta sulle questione, sia a favore che contro la segregazione. A questi diedero una serie di argomenti a favore di entrambe le posizione, alcuni plausibili, altri insulsi. Quali argomenti avrebbero ricordato meglio? Se i soggetti avessero seguito un comportamento razionale, avrebbero ricordato meglio gli argomenti plausibili e meno quelli sciocchi, a scapito della loro posizione. La teoria della dissonanza prevede che un argomento insulso a sostegno della propria posizione generi dissonanza, in quanto provoca dubbi sulla giustezza di quella posizione o sull’intelligenza delle persone che concordano con essa. La dissonanza viene prodotta anche dall’argomento plausibile a favore dell’altro schieramento, evocando la possibilità che gli altri possano avere ragione. Poiché simili atteggiamenti creano dissonanza cerchiamo di non pensarci, andando a creare i risultati ottenuti dagli studiosi: i soggetti tendevano a ricordare gli argomenti plausibili in accordo con la loro posiz

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