Psicologia Generale Completo PDF
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Il documento PDF fornisce un'introduzione alla psicologia, coprendo la sua storia, i metodi e alcuni dei principali approcci, come lo strutturalismo, il funzionalismo e la Gestalt. Illustra concetti come la mente, il comportamento, e i processi mentali, come anche l'intuizione (insight).
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PSICOLOGIA GENERALE Introduzione alla psicologia: la storia e i metodi. (Capitolo 1) Cosa intendiamo per “psicologia”? La psicologia è lo studio della mente e del comportamento umano. Il termine deriva dal greco: “psyché”, che significa spirito o anima, e “logos”, che significa discorso o studio. L...
PSICOLOGIA GENERALE Introduzione alla psicologia: la storia e i metodi. (Capitolo 1) Cosa intendiamo per “psicologia”? La psicologia è lo studio della mente e del comportamento umano. Il termine deriva dal greco: “psyché”, che significa spirito o anima, e “logos”, che significa discorso o studio. Letteralmente, quindi, la parola psicologia significa “studio dell’anima” o “studio dello spirito”, riflettendo ciò che in passato si riteneva fosse il suo oggetto d’indagine. Oggi, tuttavia, il significato si è evoluto: la psicologia si riferisce allo studio scientifico della mente e del comportamento umano. Questa è una delle definizioni più accettate, come quella fornita dall’American Psicologica Association (APA). Cosa intendiamo per comportamento? Per comportamento intendiamo qualsiasi azione osservabile. È importante riconoscere che la psicologia studia sia il comportamento sia la mente, due concetti che oggi consideriamo spesso sovrapponibili. Tuttavia, mentre il comportamento è facilmente osservabile e misurabile, la mente include tutti quegli stati interni e quei processi che non possiamo vedere direttamente, come pensieri ed emozioni. Possiamo dedurre questi stati interiori osservando manifestazioni esterne, come un sorriso che esprime gioia o tic e sudorazione che indicano ansia. Di che cosa si occupa la Psicologia? La psicologia si occupa di descrivere, analizzare, studiare e spiegare il comportamento umano e i processi mentali; aiutare a cambiare e migliorare la vita delle persone e il modo in cui vivono LA NASCITA DELLA PSICOLOGIA La psicologia nasce ufficialmente come disciplina scientifica a Lipsia, in Germania, con la fondazione del primo laboratorio di psicologia sperimentale, chiamato “Laboratorio di psicologia fisiologica” da parte di Wilhelm Wundt nel 1879. Sebbene l’interrogarsi sull’essere umano e il suo comportamento risalga ai tempi dei filosofi greci, è con Wundt che la psicologia acquisisce una metodologia scientifica. La sua aspirazione era quella di studiare gli elementi della mente e comprendere la struttura della mente umana attraverso una disciplina descrittiva utilizzando il metodo scientifico sperimentale. Questo approccio venne denominato “Strutturalismo” da Edward Titchener. 1.1.2. Wundt e lo strutturalismo William Wundt è considerato il fondatore dello strutturalismo, un approccio che si focalizzava sullo studio degli elementi fondamentali della mente, come sensazioni, percezioni, emozioni e stati di coscienza, trattati come componenti elementari dell’esperienza umana. L’obiettivo era comprendere la struttura della mente umana attraverso un metodo descrittivo, sistematico e scientifico. Come la chimica scompone le sostanze nei loro elementi costituenti, così lo strutturalismo cercava di analizzare la coscienza umana nei suoi componenti di base. Questo approccio venne portato negli Stati Uniti da Edward Titchener, un allievo di Wundt, e continuò a svilupparsi per alcuni anni. Wundt si avvaleva di tecniche come la cronometria mentale (misura dei tempi di reazione) e l’introspezione controllata, in cui i soggetti erano addestrati a descrivere i loro stati interni osservando determinati stimoli, sottoponeva i soggetti a determinati stimoli e chiedeva loro di descrivere in modo dettagliato e verbale le sensazioni e le reazioni che ne scaturivano. L’idea era che analizzando questi resoconti introspettivi si potesse comprendere meglio come le sensazioni di base si combinano per formare percezioni e stati mentali complessi. Questo metodo, pur criticato per la sua soggettività, rappresentava un primo tentativo di studiare la mente attraverso misure scientifiche. Critiche allo strutturalismo Nonostante questo approccio innovativo, lo strutturalismo è stato ampiamente criticato sia da un punto di vista teorico che metodologico. Le critiche riguardavano l’utilizzo dell’introspezione come metodo di indagine. In effetti, l’introspezione veniva ritenuta inaffidabile perché i resoconti verbali dei soggetti non potevano essere verificati in modo oggettivo da osservatori esterni. Inoltre, era difficile stabilire se le esperienze coscienti fossero influenzate dal processo di introspezione stesso. Inoltre, l’atto di descrivere un’esperienza poteva alterare la stessa esperienza. Per esempio, un soggetto che osserva una torta potrebbe avere reazioni diverse rispetto a quando descrive ad alta voce ciò che prova guardandola. Un’altra critica importante era l’impossibilità di standardizzare i resoconti verbali, poiché erano soggetti a interpretazioni personali. Questi limiti portarono alla nascita di altri approcci, come il funzionalismo e il comportamentismo, che in seguito sostituirono lo strutturalismo come metodo dominante. Queste critiche portarono allo sviluppo di nuovi approcci psicologici che sostituirono lo strutturalismo. Tuttavia, il suo lascito non è andato perso: le descrizioni delle esperienze interne restano di grande interesse nella psicologia, in particolare tra gli psicologi cognitivisti. Questi ultimi si concentrano sui processi mentali complessi e hanno sviluppato metodi più sofisticati per indagare le esperienze coscienti, affrontando le problematiche originarie legate all’introspezione. 1.1.3. James e il funzionalismo Dopo le critiche allo strutturalismo e quasi contemporaneamente alla creazione del laboratorio europeo di Wundt, William James fondò il suo laboratorio negli Stati Uniti, fondato su un nuovo approccio: il funzionalismo. William James si pose in netto contrasto con i presupposti dello strutturalismo di Wundt, sviluppando un approccio che si basava sulle teorie evoluzionistiche di Charles Darwin. Darwin, con la sua opera “L’origine delle specie” del 1859, aveva proposto l’idea che le caratteristiche e le attività degli organismi, compresi i processi mentali, evolvono in risposta all’ambiente attraverso la selezione naturale. James applicò questa visione alla psicologia, sostenendo che l’importanza non risiedeva nella struttura della coscienza, ma nelle sue funzioni, ossia nel modo in cui la mente si adatta e risponde alle esigenze dell’ambiente. Il funzionalismo, quindi, si focalizzava sullo studio dei cambiamenti e delle funzioni della mente, intesa come un flusso dinamico e continuo di esperienze, che James definì stream of consciousness (flusso di coscienza). Questo flusso era visto come un insieme fluido e interconnesso che aiuta l’individuo ad adattarsi alle situazioni. Il funzionalismo, quindi, si concentrava di meno sull’analisi delle componenti della mente, basandosi di più sul come e perché la mente opera in determinati modi, con l’obiettivo di comprendere le funzioni pratiche del comportamento e della mente umana. Gli psicologi funzionalisti si chiedevano quale ruolo giocasse il comportamento nel consentire agli individui di adattarsi all’ambiente circostante e come i processi mentali si evolvessero per soddisfare le esigenze dell’organismo. L’approccio di James influenzò vari ambiti della psicologia. Uno dei maggiori contributi derivò da John Dewey, un pedagogista che utilizzò il funzionalismo per sviluppare la psicologia dell’educazione. Dewey propose nuovi metodi didattici volti a soddisfare meglio i bisogni educativi degli studenti, ponendo l’accento sull’apprendimento come processo dinamico e adattivo. Da queste basi funzionaliste si svilupparono discipline come la psicologia evolutiva, la psicologia applicata e la psicologia del lavoro, che miravano a comprendere i processi mentali e comportamentali non in termini di elementi fissi, ma come funzioni finalizzate a risolvere problemi concreti legati all’adattamento umano. In sintesi, lo strutturalismo di Wundt, pur essendo stato criticato, ha gettato le basi per lo sviluppo della psicologia come disciplina scientifica, aprendo la strada a metodologie più oggettive e funzionali nello studio della mente e del comportamento. 1.1.4. Wertheimer e la Gestalt Un’altra importante alternativa allo strutturalismo è rappresentata dalla psicologia della Gestalt, sviluppatasi all’inizio del Novecento in Europa, nello specifico in Germania. Le sue basi teoriche si collegano alle idee del filosofo tedesco Franz Brentano, che con la sua Psicologia Dell’atto del 1874 distingueva tra realtà fisica e realtà fenomenica. La realtà fisica è quella del mondo così com’è; la realtà fenomenica è la realtà come appare al soggetto. Le due realtà non coincidono, anche se ingenuamente si tende a credere il contrario. Più semplicemente, ciò che percepiamo (cioè il modo in cui vediamo e capiamo il mondo) è diverso dalla realtà fisica (il mondo com’è in sé). La psicologia della Gestalt si basa sull’idea che la mente umana percepisca le cose come insiemi, non come semplici somme di parti. Brentano sosteneva che i fenomeni psichici andassero considerati come unitari (l’atto) e non divisibili in elementi separati, come invece si poteva fare con gli oggetti della realtà fisica. Questa visione antielementaristica si concentrava sull’atto percettivo nel suo complesso, piuttosto che sulle singole componenti. Secondo Brentano, la nostra percezione è un’esperienza unitaria e non un insieme di pezzi separati. La psicologia della Gestalt si fonda su un principio chiave: la percezione degli oggetti e delle esperienze è organizzata in totalità coerenti, chiamate Gestalten (forme o configurazioni), che si percepiscono come unità globali e non come somme di elementi separati. Gli psicologi della Gestalt credevano che, quando guardiamo qualcosa, non vediamo solo i singoli pezzi (colori, linee o forme), ma un tutto organizzato, un insieme di tutti gli elementi. Un importante precursore della Gestalt fu von Ehrenfels, che introdusse il concetto di qualità gestaltica: alcune caratteristiche di ciò che percepiamo rimangono uguali anche al variare degli elementi che le compongono. Un esempio emblematico è la melodia musicale, che viene percepita come la stessa anche se eseguita in tonalità diverse, poiché la percezione è basata sugli schemi relazionali tra le note piuttosto che sulle singole note, non si sente solo una singola nota, ma si percepisce l’intera melodia come un’unica cosa. Il fondatore della psicologia della Gestalt è Max Wertheimer, famoso per aver introdotto il concetto di movimento stroboscopico. Questo fenomeno, che percepiamo quando guardiamo una sequenza di fotogrammi al cinema, dimostra che la percezione del movimento non dipende dall’osservazione di immagini statiche, ma è il risultato di un’organizzazione globale operata dalla mente. Al cinema, vediamo le immagini in movimento sullo schermo perché il nostro cervello unisce rapidamente i fotogrammi (immagini statiche) e ci dà l’impressione del movimento. La percezione del movimento dipendeva dalla velocità di presentazione dei fotogrammi: solo a una certa velocità il movimento veniva percepito come fluido, mentre al di sopra di quella soglia le immagini apparivano come fotogrammi statici in sequenza. La scuola della Gestalt non si limitò alla percezione visiva. Wolfgang Köhler, ad esempio, studiò l’apprendimento per insight (intuizione), osservando il comportamento degli scimpanzé. Osservando gli scimpanzé, notò che a volte, invece di imparare per tentativi ed errori, riuscivano a risolvere un problema improvvisamente, grazie a un’illuminazione o intuizione (insight). Questo tipo di apprendimento è un esempio di come la mente compia una riorganizzazione improvvisa e rapida degli elementi di un problema per trovare una soluzione, senza passare per tentativi ed errori. Il concetto di insight è stato una delle principali innovazioni della Gestalt nel campo dell’apprendimento. In sintesi, gli psicologi della Gestalt ci mostrano come percepiamo un’immagine nel suo insieme, non come una somma di dettagli. (esempio: immagine della famosa “nuora e suocera”: possiamo vedere entrambe le figure nella stessa immagine, a seconda di come il nostro cervello organizza i dettagli visivi.) Con l’ascesa del nazismo, molti psicologi della Gestalt emigrarono negli Stati Uniti, dove influenzarono la psicologia sociale. Kurt Lewin, uno dei principali esponenti, applicò i principi gestaltici alla psicologia sociale. Lewin, sviluppò la teoria di campo dove considerava il gruppo come un insieme di forze che influenzano il comportamento delle persone, simile a come le forze magnetiche agiscono in un campo magnetico. Il comportamento non è dato dalla somma delle singole azioni individuali, ma dal contesto dinamico delle interazioni. Infine, la psicologia della Gestalt utilizzava un metodo chiamato metodo fenomenologico sperimentale, che richiedeva un controllo rigoroso del rapporto tra le caratteristiche fisiche dell’oggetto e le percezioni soggettive del soggetto. Questo metodo consisteva nel collegare i cambiamenti fisici di un oggetto (come la velocità con cui si mostrano i fotogrammi di un film) con ciò che i soggetti percepivano (come il movimento continuo o l’immagine statica). Per esempio, nello studio del movimento stroboscopico, Wertheimer dimostrò che la percezione del movimento dipendeva dalla velocità di presentazione dei fotogrammi: solo a una certa velocità il movimento veniva percepito come fluido, mentre al di sopra di quella soglia le immagini apparivano come fotogrammi statici in sequenza. In sostanza, la psicologia della Gestalt ci mostra che le persone tendono a vedere le cose come un tutto coerente, piuttosto che concentrarsi su piccoli dettagli, e che il nostro cervello è capace di trovare schemi e connessioni in ciò che percepiamo. In sintesi, la psicologia della Gestalt ha rivoluzionato lo studio della percezione, dell’apprendimento e delle interazioni sociali, mettendo in evidenza come la mente umana organizzi in modo coerente e unitario l’esperienza sensoriale. 1.1.5. Freud e la psicoanalisi La psicoanalisi, sviluppata da Sigmund Freud, è una teoria della personalità e un metodo di psicoterapia. La psicoanalisi si concentra sull’indagine di ciò che si trova al di fuori della coscienza, esplorando dinamiche interne nascoste che influenzano il comportamento e il pensiero. Infatti, essa nasce per curare i disturbi mentali indagando le dinamiche inconsce dell’individuo. Fino alla fine dell’800, tali disturbi venivano trattati da psichiatri e neurologi attraverso ospedalizzazioni a scopo rieducativo, spesso utilizzando il metodo dell’ipnosi. Freud, lavorando come neurologo e anch’egli utilizzatore dell’ipnosi, iniziò a notare che molti disturbi mentali non erano riconducibili solo a cause fisiche. A partire da questa osservazione, ipotizzò che i disturbi psichici fossero il risultato di conflitti tra desideri e impulsi inconsci, spesso in contrasto con la realtà esterna. In altre parole, ci sarebbero forze interne opposte che causano tensioni e sintomi mentali. L’esistenza di conflitti inconsci influenzano la mente e i comportamenti delle persone. Nel tempo, Freud formulò tre ipotesi per spiegare l’origine di questi conflitti inconsci. 1. La prima ipotesi riguardava il contrasto tra il principio di piacere (la necessità di soddisfare il piacere interno) e il principio di realtà (l’adattamento alle esigenze del mondo esterno) = Freud ipotizzò che gli esser umani tendano a ricercare il piacere (desideri, bisogni interni), ma devono fare i conti con la realtà esterna, che non permettere sempre di soddisfare questi desideri immediatamente. 2. Successivamente, esplorò anche il conflitto tra pulsioni, come la pulsione sessuale e quella di autoconservazione: Freud suggerì che ci fosse un contrasto tra la pulsione sessuale (legata alla ricerca del piacere e della riproduzione) e la pulsione di autoconservazione, cioè quella spinta a preservarsi e a proteggersi. 3. Conflitto tra pulsione di vita e pulsione di morte: Pulsione di vita (Eros): è legata alla conservazione e al proseguimento della vita. Comprende gli impulsi sessuali, ma anche tutto ciò che è rivolto alla costruzione, alla creatività e al legame con gli altri. Pulsione di morte (Thanatos): rappresenta l’impulso verso l’autodistruzione, l’aggressività, ritorno allo stato inorganico, ritorno alla non-esistenza. Secondo Freud, queste due pulsioni sono in continuo conflitto dentro di noi. La pulsione di vita ci spinge verso l sopravvivenza, la crescita e la socialità. La pulsione di morte spinge verso comportamenti distruttivi, sia verso sé stessi che verso gli altri. La psicoanalisi si propone di risolvere questi conflitti attraverso un’indagine dell’inconscio. Per elaborare questi conflitti, Freud elaborò un metodo terapeutico, diviso in: Analisi delle associazioni libere: si invitava il paziente a dire liberamente tutto ciò che gli passava per la mente, anche se apparentemente non aveva senso. In questo modo, si poteva accedere a pensieri nascosti o rimossi dalla coscienza; Interpretazione degli atti mancati: analizzava gli atti mancati, come dimenticanze o errori apparentemente casuali, come lapsus o dimenticanze, che secondo lui riflettevano inavvertitamente desideri o pensieri inconsci e conflitti interiori; Analisi dei sogni: Freud considerava i sogni come una via d’accesso privilegiata all’inconscio, i sogni sarebbero l’espressione di desideri e conflitti interni sotto forma di simboli. Nonostante le numerose critiche ricevute, la psicoanalisi ha avuto un impatto duraturo. Diversi studiosi, come Carl Gustav Jung e Alfred Adler, hanno creato nuove scuole di pensiero partendo dalle idee di Freud, sviluppando rispettivamente la psicologia analitica (Carl Jung) e la psicologia individuale (Alfred Adler) e ha ispirato nuove ricerche in campi come le neuroscienze, la psicologia evolutiva e la psicologia dell’infanzia. Oggi, ci sono tentativi di integrazione della psicoanalisi con nuove conoscenze moderne derivanti da neuroscienze, etologia e psicopatologia, per creare modelli psicodinamici più complessi e interdisciplinari che uniscano diverse prospettive. Nel tempo, la teoria della psicoanalisi è stata ampliata e discussa. La psicoanalisi è stata anche criticata per la sua difficoltà a essere verificata scientificamente, ma ha continuato a influenzare profondamente vari campi della psicologia e della psichiatria. 1.1.6. La teoria comportamentista La teoria comportamentista (Comportamentismo) nacque negli anni Venti del 900, come reazione ad altre teorie psicologiche che si concentravano su ciò che avviene all’interno della mente, come i pensieri, le emozioni e i processi mentali. Il comportamentismo è una teoria psicologica che si concentra esclusivamente sullo studio del comportamento osservabile. A differenza di altre teorie psicologiche che si focalizzavano sugli aspetti interni della mente o della coscienza, il comportamentismo ritiene che questi ultimi siano impossibili da osservare e misurare scientificamente. Questo approccio è stato introdotto da John B. Watson, che ha definito l’unità di analisi psicologica come il comportamento misurabile e visibile. Watson paragona la mente a una scatola nera (black box), poiché ciò che avviene al suo interno non è accessibile né verificabile. L’unico aspetto che si può studiare scientificamente è la relazione tra stimolo (mondo fisico esterno) e risposta (comportamento osservabile del soggetto). In altre parole, secondo Watson, la psicologia deve osservare solo come il comportamento (variabile dipendente) cambi in relazione agli stimoli esterni (variabile indipendente). Stimolo-Risposta (S-R) Nel modello comportamentista, il comportamento è visto come il risultato diretto dell’interazione tra uno stimolo esterno e la risposta osservabile dell’individuo. Watson credeva che tutto il comportamento umano fosse determinato dall’ambiente e che non ci fosse nulla di innato. Per sostenere questa visione, affermava che, fornendo l’ambiente giusto, si poteva modellare il comportamento di una persona indipendentemente dalle sue inclinazioni o talenti naturali. L’ambiente ha un grande potere di plasmare l’individuo. In seguito, Burrhus Frederic Skinner ha ampliato il comportamentismo introducendo i concetti di condizionamento operante e di rinforzo, finalizzati a sostenere l’apprendimento di un comportamento adeguato. Skinner ha dimostrato che il comportamento non è solo il risultato di stimoli, ma può essere modificato tramite il rinforzo positivo (una ricompensa), o rinforzo negativo (rimozioni di qualcosa di piacevole). Questa teoria del rinforzo ha avuto applicazioni pratiche in diverse aree, come il trattamento dei disturbi mentali, la riduzione dell’aggressività, la soluzione di problemi sessuali e la prevenzione dell’uso di droghe. In sintesi, il comportamentismo ha portato la psicologia a concentrarsi sugli aspetti osservabili e misurabili del comportamento, riducendo il ruolo dei processi interni e sottolineando l’importanza dell’ambiente nel modellare le persone. 1.1.7. Il neocomportamentismo Il neocomportamentismo rappresenta un’evoluzione del comportamentismo classico. I neocomportamentisti mettono in discussione l’idea rigida del comportamento basato esclusivamente sullo schema S-R (Stimolo-Risposta) e introducono l’elemento “O”, cioè l’organismo. Questo cambiamento riflette la consapevolezza che, per comprendere il comportamento, è necessario considerare anche processi interni che si svolgono all’interno dell’organismo (ciò che accade all’interno dell’organismo) e che influenzano il legame tra stimolo e risposta. Da qui nasce lo schema S-O-R, dove “O” rappresenta l’organismo e comprende i processi interni che mediano stimolo e risposta. Chuck Hull, per esempio, introdusse il concetto di “variabili intervenienti” per spiegare i motivi per cui un organismo emette una risposta in una determinata situazione. Hull sosteneva che esistessero stati interni, come la pulsione, che spingono l’organismo ad agire in risposta a un bisogno fisiologico o psicologico, come la fame o la sete. Questi stati interni agiscono come mediatori tra stimolo e risposta e aiutano a comprendere perché il comportamento varia in base alle condizioni dell’organismo. Un altro contributo significativo venne da Donald O. Hebb, il quale teorizzò l’esistenza di “assembramenti neuronali”. Secondo il suo punto di vista, gruppi di neuroni corticali lavorano insieme in modo coordinato per produrre e regolare il comportamento. Questa idea suggerisce che il comportamento non sua solo una reazione automatica agli stimoli esterni, ma che esistano strutture cerebrali in grado di integrarlo e coordinarlo centralmente. infine, Edward Tolman propose l’idea delle “mappe cognitive”, ovvero rappresentazioni mentali che un individuo sviluppa in risposta agli stimoli dell’ambiente. Tolman sosteneva che l’organismo non reagisce semplicemente agli stimoli in modo meccanico, ma costruisce una sorta di mappa mentale che gli permette di orientarsi e anticipare i risultati delle proprie azioni. Queste teorie neo comportamentiste, quindi, segnarono un’importante transizione verso un approccio più complesso allo studio del comportamento, anticipando molte delle idee che poi verranno sviluppate nel cognitivismo. Pur mantenendo il rigore scientifico nell’osservazione, i neocomportamentisti iniziarono a considerare l’importanza di fattori mentali e neurali interni all’organismo. 1.1.8. La teoria cognitivista Negli anni Sessanta, alcuni psicologi si resero conto dei limiti del comportamentismo e i progressi in vari campi come la cibernetica, l’informatica, l’etologia e la linguistica e proposeroun nuovo spproccio, chiamato teoria cognitivista. Questo nuovo approccio si fondava sull’idea che la mente umana funzioni come un elaboratore di informazioni, simile a un computer. La teoria cognitivista si affermò con il modello del TOTE (Test-Operate-Test-Exit), proposto da George A. Miller, Eugene Galanter e Karl Pribram nel 1960, che superava la tradizionale sequenza lineare di stimolo- risposta del comportamentismo. Tale modello si basava su un processo circolare di azione e feedback, che introduceva concetti cibernetici come la retroazione (feedback) e la proazione (feed-forward). Era un modello in cui il comportamento è visto come un ciclo di azione e valutazione continua, superando l’idea di una semplice reazione a stimoli. Questo cambiamento evidenziava l’importanza della mediazione dei processi mentali tra stimoli e risposte. Nel 1967, Ulrich Neisser pubblicò un volume intitolato “Psicologia cognitivista”, testo che consolidò il cognitivismo come corrente ufficiale, riconosciuta con il nome di Human Information Processing (HIP). Questa corrente privilegiava la simulazione del comportamento umano attraverso computer, cercando di replicare i processi mentali coinvolti in compiti come la comprensione del linguaggio o il riconoscimento di oggetti. La simulazione rappresentava un metodo vantaggioso poiché costringeva a formulare ipotesi precise e permetteva di manipolare i processi mentali per studiarne gli effetti. Tuttavia, Neisser notò che questo metodo rischiava di allontanarsi dalla vita reale, concentrandosi troppo su esperimento di laboratorio. Il metodo presentava anche alcune criticità: ad esempio, non era sempre chiaro se le operazioni simulate corrispondessero realmente a quelle della mente umana. Quindi, nel 1976, Neisser criticò l’approccio HIP per il suo allontanamento dai processi mentali reali e propose un nuovo orientamento più “ecologico”, che considerava l’influenza dell’ambiente sulle funzioni mentali. Questo approccio ecologico concepiva la mente come in grado di riconoscere direttamente le informazioni presenti nell’ambiente, senza necessità di elaborazioni complesse. Nel tempo, la psicologia cognitivista si è evoluta in una disciplina più ampia, chiamata scienza cognitiva, che integra psicologia sperimentale, linguistica, neuroscienze, informatica e cibernetica per capire come la mente codifica e gestisce le informazioni, concentrandosi più sulla struttura astratta delle funzioni cognitive che sulla base materiale.. All’interno di questa disciplina, si sono sviluppate due teorie principali: il modularismo e il connessionismo. Il modularismo, proposto da Jerry Fodor, concepiva la mente come composta da moduli specializzati per compiti specifici, che operano in modo autonomo e rapido, con input e output gestiti da trasduttori e sistemi centrali. Al contrario, il connessionismo si basava sull’idea che la mente sia simile a una rete neurale, dove le conoscenze sono distribuite tra le connessioni tra unità simili ai neuroni. Secondo il connessionismo, la conoscenza non risiede in specifiche rappresentazioni, ma è distribuita in tutta la rete. Questi due paradigmi, pur partendo da prospettive diverse, hanno contribuito a esplorare i modi in cui la mente umana elabora, rappresenta e utilizza le informazioni e svolge le sue funzioni, fornendo strumenti concettuali fondamentali per lo sviluppo delle scienze cognitive. 1.1.9. Interazionismo e Umanesimo L’interazionismo è un approccio psicologico che si concentra sull’interazione tra il soggetto, il mondo e gli altri individui. Questo approccio sostiene che l’identità di una persona non è fissa, ma si costruisce e cambia attraverso le relazioni e i contatti sociali. Questo approccio attraversa la storia della psicologia con diversi contributi. Tra i principali esponenti dell’interazionismo, George Herbert Mead sviluppò l’interazionismo simbolico. Egli sosteneva che il concetto di “Sé” di un individuo è composto da due parti: l’“Io”, che rappresenta l’aspetto più individuale e unico, e il “Me”, che invece riflette i ruoli e il modo in cui gli altri ci vedono, come essere figlio, studente, amico, ecc. Secondo Mead, il Sé non è qualcosa di precostituito, ma si forma attraverso le interazioni sociali e i contatti con gli altri, che agiscono come specchi, riflettendo e influenzando l’immagine di sé dell’individuo. Un’altra prospettiva interazionista è quella della scuola sistemica o prospettiva relazionale, rappresentata da Bateson e altri studiosi, che vede l’individuo come parte di un sistema di relazioni, come la famiglia. Qui, il concetto di relazione viene paragonato alla funzione matematica, sostenendo che l’individuo è definito dalle sue relazioni. Secondo questa prospettiva, per cambiare il comportamento di una persona è necessario modificare l’intero sistema di relazioni in cui l’individuo è immerso e di cui è parte, poiché queste influenzano profondamente il suo modo di essere. come ad esempio la famiglia. Più recentemente, L’interazionismo Culturale, sviluppato da autori come Bruner e Bachtin, che mette l’accento sull’importanza della cultura e della comunicazione nel plasmare la mente e l’identità, sull’importanza del dialogo e delle relazioni culturali. Questo approcci si concentra sulla natura sociale dell’individuo e sottolinea l’importanza della cultura nella costruzione del Sé. Bruner ha introdotto il concetto di “transazione”, ovvero il processo di negoziazione e condivisione di significati tra le persone. Questa idea implica che la mente si sviluppa attraverso un costante dialogo tra l’individuo e il mondo, dove l’interazione è fondamentale per comprendere e organizzare i significati, sia a livello personale sia collettivo. In sintesi, l’interazionismo considera l’identità come un processo dinamico e in continuo cambiamento, costantemente influenzato e modellato dalle relazioni sociali e culturali in cui è immerso. La teoria si concentra sulla comprensione dell’esperienza umana e sulla ricerca di significati condivisi con gli altri. 1.1.10 Teorie della mente embodied Le teorie della mente incarnata (embodied mind) sviluppate negli ultimi decenni si basano su tre idee principali: 1. La mente ha un corpo: La mente è considerata “incarnata” (embodied) perché è strettamente collegata al corpo fisico e alla sua struttura cerebrale. Ciò significa che le nostre capacità cognitive non sono indipendenti, ma dipendono dal nostro corpo e dal modo in cui esso interagisce con il mondo. 2. La mente è relazionale: Le capacità cognitive e comunicative della mente non possono essere intese come operazioni di una “macchina del pensiero” isolata. Piuttosto, come afferma Siegel, la mente è “relazionale”, ossia può essere compresa solo nel contesto dell’interazione tra persone e ambiente. La mente emerge e si sviluppa grazie alle relazioni e agli scambi sociali. 3. La mente è situata: L’attività mentale non avviene in un vuoto, ma è sempre radicata in un ambiente fisico e sociale. L’interazione con il contesto circostante è fondamentale per lo sviluppo e il funzionamento della mente. Questi tre principi mirano a superare una visione della mente come separata dal corpo e dall’ambiente, favorendo un approccio più integrato che collega mente, corpo e contesto sociale. Le ricerche degli ultimi anni hanno visto una forte collaborazione tra discipline diverse come neuroscienze, psicologia e scienze cognitive. Questo approccio interdisciplinare esplora come il corpo e il cervello lavorano insieme per creare la mente, e come la nostra interazione con l’ambiente modella i processi mentali. Per esempio, i modelli delle emozioni cercano di spiegare come le reazioni emotive siano il risultato di una combinazione di fattori cognitivi e neurofisiologici, tenendo conto delle influenze sociali e culturali sull’espressione e sulla regolazione delle emozioni. Autori come Le Doux, Damasio e Lewis hanno lavorato su questi aspetti, cercando di integrare le componenti biologiche e sociali del comportamento umano. 1.2 LA RICERCA IN PSICOLOGIA 1.2.1. Il metodo scientifico Il metodo scientifico è il processo attraverso cui gli psicologi (come altri scienziati) aumentano sistematicamente la comprensione del comportamento e di altri fenomeni. Questo metodo segue tre fasi principali: identificare una domanda, formulare una spiegazione (teoria) e fare una ricerca per verificare o confutare la spiegazione (ipotesi). 1. Identificare la domanda La prima fase consiste nell’identificare una domanda. Tutti ci siamo posti domande osservando il comportamento comune: ad esempio, perché un insegnante è facilmente irritabile, perché un amico è sempre in ritardo, o come un cane capisce i nostri comandi. Anche gli psicologi si pongono domande simili sulla natura e sulle cause del comportamento. Si parte dall’osservazione di comportamenti o fenomeni che suscitano curiosità. Psicologi e ricercatori si pongono domande su ciò che osservano, cercando di capirne la natura e le cause. Queste domande possono nascere dall’osservazione della vita quotidiana, da precedenti ricerche o da intuizioni personali. 2. Formulare spiegazioni generali (teorie) Una volta identificata la domanda, si sviluppa una teoria, che è una spiegazione generale del fenomeno osservato che aiuta a comprendere e collegare vari fatti. Le teorie offrono un quadro per comprendere e organizzare i fatti e i principi altrimenti separati. Per esempio, Latané e Darley, dopo aver osservato l’assenza di intervento dei passanti durante l’omicidio di Kitty Genovese, formularono la teoria della diffusione della responsabilità: più è grande il numero di spettatori in un’emergenza, più è percepita come suddivisa la responsabilità di intervenire, riducendo la probabilità che qualcuno agisca. 3. Formulare ipotesi verificabili Le teorie devono essere tradotte in ipotesi, che sono predizioni specifiche e verificabili. Nel caso di Latané e Darley, l’ipotesi era: più sono i testimoni di un’emergenza, minore è la probabilità che qualcuno intervenga per aiutare. Le ipotesi permettono di testare le teorie attraverso la ricerca scientifica. Le teorie e le ipotesi sono cruciali perché permettono di dare senso a osservazioni frammentarie, consentendo di organizzare le informazioni in un quadro coerente. Inoltre, offrono agli psicologi l’opportunità di trarre conclusioni su fenomeni inspiegati e di orientare la ricerca futura. Le teorie e le ipotesi forniscono una guida su come impostare e condurre le indagini. Il metodo scientifico consente agli psicologi di porsi domande appropriate e mirate e di testarle in modo rigoroso, combinando l’osservazione con teorie e ipotesi. Con domande ben definite, gli psicologi possono poi scegliere tra vari metodi di ricerca per trovare risposte valide e basate su dati concreti. Questo approccio permette di ottenere risposte affidabili e di far progredire la conoscenza scientifica nel campo della psicologia. 1.1.2. Ricerca in psicologia La ricerca in psicologia è un elemento centrale del metodo scientifico in psicologia. Fornisce la chiave per verificare lo stato di accuratezza di un’ipotesi e delle teorie. La ricerca è una procedura sistematica per scoprire nuove conoscenze e migliorare la comprensione di fenomeni comportamentali. Per prima cosa, le ipotesi devono essere riformulate in mare tale da permettere di essere verificabili. Questa procedura è nota come l’operazionalizzazione delle ipotesi, ovvero il processo di trasformazione di un’ipotesi in procedure specifiche, verificabili che possono essere misurate e osservate. Questo processo dipende dalla creatività del ricercatore e dai mezzi a disposizione. Ad esempio, la “paura” può essere misurata come incremento del battito cardiaco o attraverso risposte verbali degli intervistati. Essa si basa su diversi metodi, tra cui l’operazionalizzazione delle ipotesi, le rassegne della letteratura, l’osservazione naturalistica, i sondaggi, gli studi di casi e la ricerca per correlazione. Rassegne della letteratura Una tecnica comune è esaminare dati preesistenti, come articoli di giornale, dati di censimento o curriculum scolastici. Questa procedura è economica per testare un’ipotesi, poiché utilizza informazioni già raccolte da qualcun altro, ma può presentare chiaramente degli svantaggi, tra cui problemi legati alla completezza e alla qualità dei dati disponibili. I dati potrebbero non essere organizzati in maniera tale da permettere al ricercatore di testare pienamente un’ipotesi. Come conseguenza, l’ipotesi potrebbe essere incompleta, o potrebbe essere stata raccolta casualmente. La maggioranza dei tentativi nella rassegna della letteratura è intralciata dal fatto che spesso non esistono documenti con le informazioni necessarie. In questi casi, i ricercatori si rivolgono frequentemente a un altro metodo di ricerca: l’osservazione naturalistica. Osservazione Nell’osservazione, il ricercatore osserva alcuni specifici comportamenti che si presentano naturalmente, senza intervenire e senza operare cambiamenti alla situazione, senza apportare modifiche alla situazione che sta osservando. L’osservazione prevede il monitoraggio di comportamenti in contesti naturali, senza interferire con la situazione. Ad esempio, un ricercatore può osservare le dinamiche di aiuto in quartieri ad alta criminalità. L’osservazione fornisce un quadro realistico, ma presenta limiti nel controllo delle variabili e nella rappresentatività del comportamento osservato. Sebbene tramite l’osservazione otteniamo un esempio di ciò che la gente fa nel suo “ambiente naturale”, c’è anche un inconveniente: incapacità di controllare tutti i fattori di interesse. Poiché l’osservazione impedisce di intervenire nei cambiamenti di una situazione, il ricercatore deve aspettare fin quando non ci sarà la condizione adatta a farlo. Per di più, se le persone sapessero di essere osservate, altererebbero le loro reazioni, producendo dei comportamenti che non sarebbero più veramente rappresentativi del soggetto in questione. Ricerca con sondaggio Non esiste un modo più diretto e lineare per scoprire ciò che la gente pensa, sente e fa se non chiederglielo direttamente. I sondaggi sono la soluzione più adatta: raccolgono dati su comportamenti, opinioni e atteggiamenti di un campione rappresentativo di persone. Si sceglie un campione di persone a cui viene fatta una serie di domande su comportamento, pensieri o attitudini. Un campione ben scelto può permettere di ottenere risultati predittivi accurati, ma i sondaggi possono essere influenzati dalla formulazione delle domande o dalla riluttanza degli intervistati a rivelare informazioni sensibili. Studio di casi A differenza dei sondaggi, in cui si studiano molte persone, lo studio di casi è un esame intenso e approfondito di un solo individuo o di un piccolo gruppo. Gli studi dei casi esaminano in profondità singoli individui o piccoli gruppi. Lo si fa attraverso una verifica psicologica, ovvero una procedura in cui per intuire qualcosa della personalità di un individuo, si utilizza un set di domande attentamente progettate. Questo metodo è utile per approfondire casi particolari e trarre implicazioni generali, come fece Freud per elaborare le sue teorie. Tuttavia, lo studio di casi fornisce conoscenze limitate alla specificità del caso esaminato. Ricerca per correlazione La ricerca per correlazione è un metodo usato in psicologia per indagare la relazione tra due variabili, al fine di determinare se esiste un’associazione o una connessione tra di esse. A differenza degli esperimenti, la ricerca correlazionale non prevede la manipolazione di variabili, ma si limita a misurare e osservare le variabili esistenti per vedere come si comportano l’una in relazione all’altra. L’obiettivo è vedere se, cambiando una variabile, anche l’altra cambia in modo prevedibile. Come funziona la correlazione? In questo metodo, i ricercatori calcolano la forza e la direzione della relazione tra due variabili. Il risultato di questa relazione viene espresso attraverso un coefficiente di correlazione, indicato con la lettera r, che può avere valori compresi tra -1.0 e +1.0. Ecco le principali caratteristiche del coefficiente: 1. Correlazione positiva: un coefficiente r positivo indica che all’aumentare di una variabile, anche l’altra aumenta. Ad esempio, se maggiore è il numero di ore di studio, maggiore sarà il punteggio a un esame, allora c’è una correlazione positiva tra “ore di studio” e “punteggio all’esame”. 2. Correlazione negativa: un coefficiente r negativo indica che all’aumentare di una variabile, l’altra diminuisce. Ad esempio, se più tempo si dedica allo studio, meno tempo si ha per le attività di svago, allora c’è una correlazione negativa tra “ore di studio” e “tempo libero”. 3. Correlazione nulla: quando r è vicino a zero, quando non c’è un legame tra le due variabili; significa che non esiste una relazione significativa tra le due variabili. Ad esempio, il numero di ore di studio potrebbe non essere correlato all’altezza dello studente. Importante: correlazione non implica causalità, causa-effetto Un punto critico da comprendere è che la correlazione non dimostra la causalità, le correlazioni non ci possono fornire informazioni riguardo la relazione causa-effetto, ma ci forniscono solo la misura della forza di una relazione tra le due variabili. Anche se due variabili sono correlate, non possiamo affermare con certezza che una causi l’altra. Ciò è dovuto alla possibilità dell’esistenza di variabili di confondimento o di terzi fattori che influenzano entrambe le variabili in esame. Esempio di correlazione e non causalità Immagina che si scopra una correlazione positiva tra guardare programmi TV violenti e l’aggressività nei bambini. Non possiamo dire con certezza che guardare programmi violenti causi l’aumento dell’aggressività. Potrebbe essere, ad esempio, che i bambini più aggressivi scelgano di guardare quei programmi, o che un terzo fattore, come il contesto familiare, influisca sia sulla scelta dei programmi che sul livello di aggressività. Vantaggi e limiti della ricerca per correlazione Vantaggi: Permette di raccogliere dati su variabili che non possono essere manipolate direttamente per ragioni etiche o pratiche (ad esempio, l’età o l’intelligenza). Può essere un buon punto di partenza per identificare relazioni da studiare ulteriormente in esperimenti. Limiti: Non stabilisce relazioni causa-effetto. Le variabili di confondimento possono influenzare la relazione osservata. In sintesi, la ricerca per correlazione è utile per identificare e misurare la forza di una relazione tra due variabili, ma bisogna prestare attenzione a non trarre conclusioni causali dalle correlazioni. LA STORIA DI HANS: IL CAVALLO INTELLIGENTE In Germania c’era un professore di scuola superiore, un po’ eccentrico, il quale si chiama WIHELM VON OSTEN, egli era convinto che i cavalli avessero tutte le competenze cognitive per imparare le lingue, la geografia, la storia etc., ed era talmente convinto di questa cosa che ad un certo punto prese un cavallo, che chiamò HANS, e cominciò ad insegnargli tali materie. Siccome sappiamo che i cavalli non sono in grado di parlare, per vedere se il cavallo rispondesse bene, gli insegnò a rispondere sì e no con il capo, per la matematica doveva battere lo zoccolo in base al risultato che voleva dare. Dopo 3-4 anni riuscì ad insegnare al cavallo diverse cose, e lo mise diverse volte alla prova davanti ad un pubblico. Ad un certo punto dopo numerosi episodi in cui faceva credere che il suo cavallo fosse dotato di straordinarie capacità, uno psicologo, OSKAR PFUNGST, ipotizzò che il cavallo non rispondeva alle domande perché’ sapeva la risposta, ma che rispondesse a dei segnali visivi, quindi fece degli esperimenti per verificare la sua ipotesi. Lo psicologo, come prima cosa, gli mise dei paraocchi, il cavallo non rispondeva alle domande e questa era una prova. Un altro esperimento fu quello di fare delle domande al cavallo senza che il pubblico conoscesse le risposte, oppure senza che quest’ultimo fosse presente ed anche in questi casi non rispondeva correttamente. Il risultato a cui lo psicologo Pfungst arrivò era che il cavallo rispondeva a dei segnali visivi e questo fu una scoperta che fece capire molte cose. ESISTE IL FATTO = osservazione oggettiva basata su un’osservazione diretta (in questo caso che il cavallo risponde in maniera corretta) POI ESISTE LA TEORIA =idea (modello concettuale) proposta per spiegare i fatti osservati e va verificata (in questo caso il cavallo è capace di rispondere alle domande) LE IPOTESI = verificarsi o configurarsi di un fatto (in questo caso che il cavallo rispondesse a dei segni visivi). IL VALORE DELLO SCETTICISMO Dalla storia di Hans possiamo trarre degli insegnamenti. Il primo è lo scetticismo. Cos’è lo scetticismo? Esempio: Se io sono convinta che il cavallo è capace di imparare, chiaramente continuerò ad andare avanti nella mia ipotesi e cercherò di dimostrare che sia vera, mentre lo scettiscismo che deve avere uno scienziato, in questo caso uno psicologo, è quello di verificare che invece la mia ipotesi sia falsa. Chi ha un atteggiamento scettico cerca di dimostrare la falsità di una teoria. Ciò costituisce il fondamento logico alla base della verifica scientifica. Una teoria scientifica è più credibile se resiste a ripetuti e seri tentativi di dimostrarla falsa. Lo scetticismo indusse Pfungst a sottoporre a verificare le pretese abilità di Hans, anziché accettarle per vere. L’importanza dell’osservazione attenta e in condizioni controllate Il secondo insegnamento di questa storia è l’importanza delle osservazioni in condizioni controllate, Pfungst identificò le condizioni in cui il cavallo era in grado, oppure no, di rispondere correttamente alle domande; ossia un conto è osservare il cavallo quando è messo davanti ad un pubblico e il pubblico risponde, e un conto è dare una serie di condizioni in cui quella situazione non esiste più, come mettere dei paletti (es: quando ha messo dei paraocchi; oppure quando il cavallo doveva rispondere senza la presenza del pubblico, perché’ ad esempio per la matematica, il cavallo riceveva il segnale nel momento in cui il pubblico guardava gli zoccoli, quando poi riguardava il cavallo capiva che doveva smettere di batteri gli zoccoli). Per sottoporre a verifica un’ipotesi, gli scienziati controllano le condizioni in cui conducono le loro osservazioni, così da poter escludere spiegazioni alternative. Quindi l’attenta osservazione in condizioni controllate è un carattere istintivo del metodo scientifico. Il problema degli effetti delle aspettative Ultimo insegnamento di questa storia è l’aspettativa dell’osservatore. La ricerca scientifica è condotta da persone che nutrono sempre aspettative dei risultati. In psicologia i soggettipersone o animali-possono percepire le attese dello sperimentatore e comportarsi in modo da soddisfarle. Nella storia di Hans gli indizi prodotti dagli osservatori indussero il cavallo a produrre risposte cha da molti furono interpretate erroneamente come risultato di vaste conoscenze. L’aspettativa aveva influenzato la ricerca del professore, perché’ vedeva solo ciò che voleva vedere (gli effetti delle aspettative possono essere definiti effetti di errore quando si pensa ad uno studio da condurre). LE STRATEGIE DI RICERCA. Le strategie di ricerca variano rispetto a tre dimensioni: 1. Disegni di ricerca: sperimentali (entro o soggetti/tra i soggetti), correlazionali, descrittivi Studi sperimentali: studia le relazioni causa-effetto, lo scopo è quello di capire quanto una variabile indipendente influenza una variabile dipendente. Variabile: qualsiasi cosa in grado di variare (temperatura, età, comportamento, ecc.) - Variabile indipendente: È la variabile manipolata dallo sperimentatore interessato a studiare gli effetti di questa manipolazione sulla VD (variabile dipendente). (VI=variabile che lo sperimentatore manipola nell’esempio) - Variabile dipendente: È la risposta che viene misurata in un esperimento. Di solito si assume (vedremo che bisogna fare altre operazioni per esserne sicuri) che le variazioni di questa variabile siano dovute alla manipolazione della VI (variabile indipendente). (VD=variabile in cui lo sperimentatore vuole far vedere l’effetto di quella ind.) ES: se io volessi verificare l’effetto della motivazione sul rendimento scolastico, io farei un esperimento con una serie di procedure, per verificare se la motivazione (var. ind.) ha un effetto sul rendimento scolastico (var. dip.). Esperimento: procedura con cui un ricercatore varia (cioè manipola) una o più variabili indipendenti, per vedere l’effetto conseguente sulle variabili dipendenti. ES: prendo un gruppo di soggetti, gli chiedo di essere presenti in laboratorio, faccio attraverso tutta una serie di procedure in modo che un gruppo sia più motivato dell’altro (questo è uno dei modi che si utilizzano per manipolare la var. Ind.) E poi faccio svolgere un compito per vedere chi ha maggior rendimento. Questo è un esempio di un esperimento che si può fare nel caso di uno studio sperimentale, per verificare la causa- effetto. Nell’esperimento del cavallo Hans la var. Ind. è l’ambiente, il pubblico e la var. Dip. è la risposta del cavallo in quanto il cavallo rispondeva in base al pubblico Soggetti (o partecipanti): chi prende parte allo studio (esseri umani o animali). All’interno degli studi sperimentali c’è una divisione tra esperimento entro i soggetti e tra i soggetti. ▪ Entro i soggetti = stessi soggetti/gruppi in diverse condizioni sperimentali; l’esperimento sul cavallo Hans era un esperimento entro i soggetti. ▪ Tra i soggetti = soggetti/gruppi differenti in diverse condizioni sperimentali un esempio di studio tra i soggetti, è uno di quelli più famosi è lo studio sulla depressione di Mascio (1979). Di Mascio, in questo esperimento, prese dei soggetti che soffrivano di depressione grave e inserì questi soggetti in 3 diversi sottogruppi. I quali ricevevano diversi tipi di trattamento per 16 settimane: trattamento di semplice psicoterapia venivano somministrati psicofarmaci per la depressione e sottoposti anche alla psicoterapia. Per scoprire l’effetto dei diversi trattamenti egli somministrò dei questionari ai soggetti prima del trattamento, sull‘ansia, sulla depressione etc., e poi dopo il trattamento. Egli vide che effettivamente i soggetti che avevano ricevuto entrambi i trattamenti avevano un esito migliore, avevano sintomi minori. In tale esperimento la variabile indipendente è il gruppo, e la variabile dipendente è la depressione. C’è un’assegnazione casuale dei soggetti ai gruppi, perché’ i soggetti non possono decidere in quale gruppo stare, siccome ognuno sceglierebbe in base alle proprie preferenze e in base al “quanto” sia depresso (al grado di depressione che il soggetto ritiene di avere), e questa scelta influenzerebbe l’esito dell’esperimento. Dunque, in questo modo la variabile personale non intacca l’esito dello studio. ▪ Studi correlazionali - No causa-effetto - Si osserva/misura la relazione tra le due variabili. - Non c’è la manipolazione della variabile indipendente. È sempre possibile condurre uno studio sperimentale? cioè dove lo sperimentatore manipola ciò che vuole studiare? 1 Esempio: siamo interessati a indagare la relazione tra lo stile educativo dei genitori (es. disciplina) e lo sviluppo psicologico dei figli. - Teoria: un atteggiamento punitivo dei genitori è dannoso perché promuove nei bambini l’aggressività. Come dovremmo fare per sottoporre a verifica sperimentale questa teoria? Non sempre in psicologia è possibile condurre studi sperimentali per rispondere alle nostre domande. - Ritorniamo all’esperimento: Qui lo sperimentatore non può imporre ai genitori di educare in un determinato modo, quindi non può manipolare la variabile della disciplina, perché’ innanzitutto non è etico, non è legale, inoltre è dispendioso per soldi, tempo ecc… si possono invece raccogliere dati ed osservazioni sulle cose che ci circondano, e cercare di spiegarle. 2 Esempio: lo studio di Diana Baumrind Io posso prendere un gruppo di genitori e osservo il loro comportamento e per esempio vedo che ci sono comportamenti simili tra un gruppo di genitori, intanto misuro lo sviluppo del bambino, però non è uno studio sperimentale, bensì uno studio correlazionale, cioè io metto a correlare 2 variabili, vedo quanto le 2 variabili “stile educativo dei genitori” e “sviluppo psicologico del figlio” sono correlate (ad esempio quanto più è autorevole lo stile educativo dei genitori , quanto più lo sviluppo del bambino è sano ), nello studio correlazionale non mi c’è una garanzia di causa-effetto, non sto dicendo che lo stile educativo causa lo sviluppo del bambino. Non c’è una manipolazione della variabile. Perché’ uno studio correlazione non permette di stabilire una relazione di causa- effetto? 1. io non posso in alcun modo controllare l’effetto delle altre variabili; 2. prendendo sempre ad esame l’esempio dello stile educativo dei genitori, ad esempio, non è possibile stabilire una relazione causa-effetto perché’ lo sviluppo del bambino non si basa solo sullo stile di vita dei genitori, ma magari il comportamento dei genitori dipende anche dal temperamento del bambino (es. Iperattivo). Nello studio correlazionale ci sono due variabili correlate quindi al variare di una varia l’atra, ma non c’è una variabile indipendente. Ci può essere anche una terza variabile che influenza entrambe le variabili. Ad esempio, lo status socio-economico della famiglia che a volte influenza il tipo di educazione del bambino che un genitore da. Sono pochissimi gli studi sperimentali rispetto a quelli correlazionali. ▪ Gli studi descrittivi - descrivono i comportamenti degli individui senza studiare le relazioni tra le variabili. In che modo gli studi descrittivi si distinguono, per metodi e scopi, dagli studi sperimentali e da quelli di correlazione? Questi studi ci permettono di osservare un fenomeno e in genere vengono condotti quando si vuole esplorare un fenomeno nuovo, uno specifico aspetto del comportamento oppure le abitudini di un particolare gruppo umano o di una specie animale. Es: studio di Jane Goodall sugli scimpanzè in africa 2) Ambiente della ricerca (setting): laboratorio, ricerca sul campo, questionari ecc. ▪ Studi di laboratorio: il vantaggio è quello di ottenere protocolli attendibili, il limite consiste nella sua modesta validità ecologica; ▪ Studi sul campo: rispetto allo studio nel laboratorio ho meno possibilità di controllare le variabili, ad es. ci sono variabili che possono influenzare e cambiare la ricerca, però si sviluppano in un contesto naturale quindi più vicino al reale. ▪ Questionario: strumento standardizzato di raccolta di informazioni destinato a campioni più o meno estesi. È formato da una batteria di domande chiuse (a risposta multipla) o aperte o scalate (quando il soggetto deve indicare la risposta su una scala graduata) ▪ Intervista: conversazione in cui il ricercatore pone domande all’intervistato per ottenere informazioni in un dato ambito. ▪ Colloquio clinico: simile all’intervista, prevede un compito (una domanda). Il ricercatore non si limita a registrare come viene risolto, ma chiede all’intervistato quali sono i processi mentali che lo conducono a fare un certo percorso anziché un altro. È stato impiegato ampiamente da Piaget con i bambini 3) Gli strumenti di ricerca: autodescrizione (self-report), osservazione, ecc. - Sono quelle “cose” che utilizza lo sperimentatore per misurare le variabili. Attraverso gli strumenti di misura posso misurare le variabili e i costrutti. Tali strumenti si dividono in strumenti self report, procedure di osservazione. ▪ Strumenti self- report: è il soggetto stesso che informa lo sperimentatore sulle sue variabili, sul suo comportamento, si dividono in: -Limiti delle tecniche self-report: le tecniche self report sono molto utili in fase esplorativa, ma presentano notevoli limiti in termini di attendibilità e validità - I soggetti possono: · fraintendere le domande · rispondere a caso · essere influenzati dalla desiderabilità sociale · fornire risposte ingannevoli o, comunque, alterate. Tuttavia, il questionario rimane l’unico strumento che ci permette di raccogliere dati attendibili su un campione molto ampio di soggetti. contro: i soggetti possono fraintendere le domande, oppure rispondere a caso, oppure essere influenzati dalla desiderabilità sociale (ad es. Io voglio mostrare di essere migliore di ciò che sono) pro: tuttavia bisogna dire che raggiunge un maggior numero di dati ed è dunque il più utilizzato tra gli strumenti. ▪ Procedure di osservazione - L’osservazione del comportamento concerne azioni manifeste e risposte registrabili. Per evitare un’esplorazione casuale, occorre seguire un piano predefinito di osservazione in base a una griglia di osservazione codificata in riferimento a vari parametri. Si è soliti distinguere due tipi di osservazione: 1. osservazione naturalistica: si svolge in ambienti naturali e spesso richiede lunghi periodi di indagine per ottenere una quantità sufficiente di protocolli. È un metodo elettivo svolto con specifiche tipologie di soggetti e consente di individuare regolarità e modelli di comportamento. (posso osservare un animale nel loro habitat) 2. osservazione in laboratorio: ha luogo in un ambiente protetto e controllato sia nei parametri fisici, sia nei comportamenti che il ricercatore intende osservare. Il vantaggio è di poter ottenere protocolli attendibili, il limite è la modesta validità ecologica. (ad esempio, due ratti vengo messi in un labirinto 1.2.3. La ricerca sperimentale La ricerca sperimentale è il metodo usato dagli psicologi per dimostrare le relazioni di causa-effetto tra due o più variabili. In un esperimento, i ricercatori manipolano deliberamente una variabile per vedere come questo influisce sull’altra. Le fasi di un esperimento sono: Manipolazione sperimentale: si modifica una variabile specifica (chiamata variabile indipendente) per osservare come cambia un’altra variabile (variabile dipendente). Ad esempio, in uno studio sul comportamento di aiuto, un ricercatore potrebbe manipolare il numero di persone presenti per vedere come questo influisce sulla probabilità che qualcuno aiuti una vittima. Ipotesi: gli esperimenti iniziano con un’ipotesi da testare. Ad esempio, Latané e Darley ipotizzavano che, in una situazione di emergenza, più persone ci sono, meno è probabile che qualcuno intervenga per aiutare. Gruppi di confronto: per dimostrare una relazione di causa-effetto, gli psicologi usano gruppi di confronto. Un gruppo sperimentale è sottoposto alla manipolazione (es. un gruppo con molte persone), mentre un gruppo di controllo non lo è (es. un gruppo con poche persone). Questo confronto aiuta a vedere se il cambiamento è dovuto alla manipolazione o ad altre variabili. In sostanza, la ricerca sperimentale permette di creare situazioni controllate e di osservare come i cambiamenti in una variabile influenzano altre variabili, aiutando a stabilire relazioni di causa-effetto. Gruppo sperimentale e gruppo di controllo Nella ricerca sperimentale, il concetto di gruppo sperimentale e gruppo di controllo è fondamentale per verificare gli effetti di una manipolazione. Ecco come funzionano: Gruppo sperimentale: è il gruppo di persone o soggetti a cui viene applicata la manipolazione o trattamento che si vuole studiare. Ad esempio, se si sta studiando l’effetto di un farmaco, questo gruppo riceverà il farmaco. Gruppo di controllo: è il gruppo che non riceve il trattamento o riceve un trattamento diverso, che serve da confronto. Nel caso dell’esperimento sul farmaco, il gruppo di controllo potrebbe ricevere un effetto placebo o nessun farmaco. Il gruppo di controllo è importante perché permette di isolare l’effetto della manipolazione sperimentale escludendo altre variabili. Senza un gruppo di controllo, non si può essere certi che i cambiamenti osservati siano dovuti al trattamento e non ad altre cause casuali. Ad esempio, nel caso del farmaco contro il raffreddore, se le persone del gruppo sperimentale guariscono dopo 10 giorni, potrebbe essere stato semplicemente il corso naturale della malattia a farle migliorare. Ma se il gruppo di controllo, che non ha preso il farmaco, non guarisce nello stesso periodo, allora è più probabile che il miglioramento sia stato causato dal farmaco. In questo modo, comparare i due gruppi consente di trarre conclusioni più solide e dimostrare una relazione causa- effetto. Variabile dipendente e variabile indipendente In un esperimento, i concetti di variabile indipendente e di variabile dipendente sono centrali per stabilire una relazione di causa-effetto. Variabile indipendente: variabile che viene manipolata dallo sperimentatore. È indipendente dalle azioni partecipanti all’esperimento, poiché viene decisa e controllata dallo sperimentatore stesso. (Esempio Latané e Darley: la variabile indipendente era il numero di testimoni presenti durante una situazione di emergenza). Variabile dipendente: variabile che viene misurata nello studio e che si presume possa cambiare in base alle manipolazioni della variabile indipendente. La variabile dipendente dipende dalle azioni dei partecipanti. (Esempio Latané e Darley: la variabile dipendente era il tempo impiegato per aiutare o il comportamento dei partecipanti in situazione di emergenza). Esempio di riferimento: nell’esperimento di Latané e Darley, i ricercatori volevano verificare l’ipotesi che un maggior numero di testimoni in una situazione di emergenza riducesse la probabilità e la velocità di conferire aiuto in quella specifica situazione di emergenza. Per farlo, hanno manipolato il numero di persone presenti (variabile indipendente) e hanno osservato come questo influenzasse il comportamento di aiuto dei partecipanti in situazione di emergenza e il tempo impiegato per aiutare (variabili dipendenti). Questo approccio permette di stabilire una relazione di causa-effetto. Se la variabile indipendente (numero di testimoni) viene modificata e la variabile dipendente (tempo per aiutare/comportamento dei partecipanti), cambia di conseguenza, allora si può concludere che c’è una relazione causale tra le due variabili. Assegnazione randomizzata dei partecipanti Per garantire la validità di un esperimento e dei suoi risultati, i ricercatori hanno bisogno di effettuare une procedura fondamentale: l’assegnazione randomizzata dei partecipanti. Il motivo principale è quello di assicurare che eventuali differenze osservate nei risultati (v. dipendente) siano effettivamente dovute alla manipolazione della variabile indipendente e non a caratteristiche individuali dei partecipanti. Come funziona? I partecipanti vengono assegnati ai vari gruppi solo sulla base della casualità, riducendo così il rischio che le differenze nei risultati siano dovute a caratteristiche individuali dei partecipanti, invece che alla manipolazione sperimentale. La randomizzazione può essere fatta in diversi modi. Un esempio semplice è il lancio di una moneta: lo sperimentatore potrebbe lanciare una moneta per ogni partecipante e assegnare un partecipante a un gruppo quando viene testa e all’altro quando viene croce. Tuttavia, nella pratica viene solitamente utilizzato un software che genera numeri casuali per assegnare i partecipanti ai gruppi sperimentali. La chiave è che la casualità deve essere l’unico criterio per decidere l’assegnazione dei partecipanti. Quando un ricercatore utilizza l’assegnamento randomizzato ci sono le probabilità che ognuno dei gruppi abbia approssimativamente la stessa proporzione di persone intelligenti, collaboranti, estroverse, maschi e femmine e così via. Perché è importante l’assegnazione randomizzata? 1. Evitare bias (distorsioni): se i gruppi sperimentali fossero assegnati in modo non casuale (es. un gruppo composto solo da maschi e l’altro solo da femmine), i risultati potrebbero riflettere differenze legate al genere e non la manipolazione sperimentale. Con l’assegnazione casuale, si cerca di ottenere gruppi omogenei in termini di caratteristiche individuali. 2. Distribuire le caratteristiche dei partecipanti: ogni persona ha caratteristiche uniche come il livello di intelligenza, estroversione, genere, cultura, ecc. In una lista potenzialmente infinita di caratteristiche, sarebbe impossibile creare gruppi perfettamente omogenei per ogni singolo tratto. L’assegnazione casuale permette di distribuire queste caratteristiche in modo uniforme tra i vari gruppi, riducendo al minimo le differenze sistematiche tra di essi. 3. Aumentare la validità interna: l’assegnazione casuale minimizza l’influenza di variabili esterne non controllate, permettendo di attribuire con maggiore certezza l’effetto osservato alla manipolazione sperimentale. Se l’assegnazione fosse fatta in modo non casuale, ci sarebbe sempre il dubbio che qualche caratteristica non considerata abbia influenzato i risultati. In sintesi, perché uno studio possa essere considerato valido e un “vero esperimento” devono esserci: Variabile indipendente, manipolata dallo sperimentatore; Variabile dipendente, misurata per vedere come cambia in relazione alla variabile indipendente; Una procedura di assegnazione randomizzata dei partecipanti ai gruppi sperimentai, per garantire che ogni gruppo sia simile in termini di caratteristiche individuali e per evitare differenze sistematiche; Un’ipotesi chiara che preveda un effetto specifico della variabile indipendente sulla variabile dipendente. L’assegnazione casuale è fondamentale per eliminare influenze esterne e rendere l’esperimento affidabile, consentendo di stabilire relazione di causa-effetto. 1.2.5. La psicologia e le psicologie: aree di intervento La psicologia è una disciplina ampia, che studia il comportamento e i processi mentali delle persone e ha portato allo sviluppo di diverse aree di studio specialistiche caratterizzate da approcci e metodi distinti. Ogni area si focalizza su specifici aspetti e domande fondamentali: 1. Fondamenti biologici del comportamento: La neuroscienza comportamentale è la branca della psicologia che studioa il cervello e il sistema nervoso e esplora come il cervello, il sistema nervoso e i processi biologici influenzano il comportamento umano. Per esempio, gli scienziati possono studiare la relazione tra particolari aree del cervello e disturbi come il Parkinson o analizzare il legame tra emozioni e sensazioni fisiche. 2. Processi di percezione e pensiero: La psicologia generale si occupa di come le persone percepiscono, imparano e interagiscono con l’ambiente. Un ramo specifico è la psicologia cognitiva, che si concentra su processi mentali complessi come pensiero, memoria, problem solving e linguaggio. 3. Cambiamenti nel ciclo di vita: La psicologia dello sviluppo studia l’evoluzione delle persone dalla nascita alla vecchiaia, esaminando le tappe fondamentali come l’acquisizione del linguaggio o i cambiamenti fisici e cognitivi. La psicologia della personalità analizza invece le caratteristiche stabili e le differenze tra gli individui. 4. Salute mentale e fisica: La psicologia della salute esplora il legame tra fattori psicologici, come lo stress, e la salute fisica, cercando di promuovere comportamenti salutari. La psicologia clinica si concentra sulla diagnosi e trattamento di disturbi psicologici, dalle difficoltà emotive più comuni a problematiche più serie come depressioni persistenti. 5. Influenze sociali sul comportamento: La psicologia sociale studia l’influenza delle relazioni sociali sui pensieri, sentimenti e comportamenti delle persone, affrontando temi come l’aggressività, la persuasione e il conformismo. La psicologia interculturale analizza le differenze e somiglianze tra culture e gruppi etnici, esaminando per esempio l’educazione dei bambini o l’interpretazione dei successi scolastici. In questo modo, la psicologia abbraccia una vasta gamma di tematiche, ognuna con metodi e approcci distinti, per rispondere a domande specifiche sul comportamento umano e sui processi mentali. 1.2.6. Espansione delle frontiere in psicologia La psicologia è una disciplina in continua evoluzione, e recentemente tre nuove aree di studio hanno suscitato grande interesse e dibattito: la psicologia evoluzionistica, la genetica comportamentale e la neuropsicologia clinica. 1. Psicologia evoluzionistica: Questa disciplina si concentra sull’influenza dell’eredità genetica sul comportamento umano. Basandosi sulla teoria di Darwin della selezione naturale, la psicologia evoluzionistica sostiene che le caratteristiche genetiche, non solo determinano tratti fisici come il colore dei capelli o della pelle, ma anche alcuni tratti comportamentali e di personalità, come la timidezza o la gelosia. Secondo questa prospettiva, molti comportamenti umani sarebbero stati selezionati nel corso dell’evoluzione perché favorivano la sopravvivenza e la riproduzione. Tuttavia, questa visione ha generato discussioni, poiché implica che molti comportamenti siano geneticamente programmati e quindi automatici. 2. Genetica comportamentale: Questo campo studia come i geni e i cromosomi influenzano i comportamenti ereditari, indagando il rapporto tra genetica e ambiente. La genetica comportamentale cerca di capire in che modo alcuni tratti siano ereditati e quanto l’ambiente in cui viviamo possa influire sulla loro manifestazione. L’interesse è rivolto soprattutto ai meccanismi biologici che spiegano la trasmissione di determinati tratti e caratteristiche. 3. Neuropsicologia clinica: Questa area combina la neuroscienza con la psicologia clinica, focalizzandosi sull’origine biologica dei disturbi psicologici. Grazie ai progressi nella comprensione della struttura e della chimica del cervello, la neuropsicologia clinica sostiene lo sviluppo di nuovi trattamenti per i disturbi mentali, esaminando anche l’uso di farmaci per il controllo dei comportamenti patologici. Queste tre nuove aree offrono prospettive innovative per comprendere il comportamento umano, ma allo stesso tempo sollevano questioni complesse sulle implicazioni della genetica e della biologia nel determinare chi siamo. 3.1 Sensazione e percezione. (Capitolo 3) Quando parliamo di esperienza sensoriale, ci accorgiamo che la tradizionale classificazione dei cinque sensi (vista, udito, gusto, odorato e tatto) è solo una semplificazione. La complessità delle nostre capacità sensoriali è infatti molto più ampia. Ad esempio, il tatto non si riduce al semplice contatto con superfici, ma comprende anche la percezione del dolore, della pressione, della temperatura e delle vibrazioni. La vista si divide in due sistemi distinti, uno per la visione diurna e uno per quella notturna, e l’orecchio non è solo responsabile dell’udito, ma contribuisce anche al mantenimento dell’equilibrio. Il nostro apparato sensoriale è una rete complessa e diversificata, e qualsiasi sua alterazione può modificare profondamente il modo in cui percepiamo e reagiamo al mondo. 3.1.1 Sentire il mondo intorno a noi Per comprendere come percepiamo il mondo, è utile distinguere tra sensazione e percezione. La sensazione si riferisce all’attivazione degli organi sensoriali quando vengono stimolati da una sorgente di energia fisica. È l’impressione soggettiva, immediata e semplice che corrisponde a una data intensità dello stimolo fisico. La percezione, invece, è il processo attraverso il quale il nostro cervello organizza, interpreta e integra gli stimoli ricevuti. In altre parole, la sensazione è ciò che i nostri sensi rilevano, mentre la percezione è il significato che attribuiamo a tali rilevazioni. Stimoli e Soglie: uno stimolo è qualsiasi fonte di energia fisica capace di suscitare una risposta nei nostri organi di senso. Gli stimoli variano per qualità e intensità e l’effetto di quest’ultima sulle nostre sensazioni è studiato da una branca della psicologia chiamata psicofisica. La psicofisica esplora la relazione tra le caratteristiche fisiche degli stimoli e l’esperienza soggettiva che ne deriva. Essa ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della psicologia, poiché molti dei primi psicologi si dedicarono a queste tematiche. Soglie Assolute La soglia assoluta è definita come la minima intensità di uno stimolo necessaria affinché esso venga percepito dai nostri organi di senso. La soglia assoluta segna quindi il confine tra stimoli percepibili (valori sovraliminari) e quelli che, pur esistendo, non riusciamo a percepire (valori infraliminari). Questo valore varia in base al tipo di stimolo e alla sensibilità del sistema sensoriale. Gli organi di senso trasformano stimoli fisici in segnali bioelettrici inviati al cervello, ma questo processo di percezione si attiva solo se l’intensità dello stimolo supera un determinato valore minimo. Per esempio, il nostro sistema tattile è così sensibile da percepire un’ala d’ape che sfiora la guancia da un centimetro di altezza, mentre il nostro udito può percepire il ticchettio di un orologio distante sei metri in un ambiente silenzioso. La soglia assoluta è considerata il valore minimo di stimolo percepibile nella metà delle volte (50%) in cui esso viene presentato. Esistono due tipi di soglie assolute: 1. Soglia assoluta iniziale: il limite inferiore di discriminazione fra stimoli che producono una sensazione e quelli che non la producono; è la quantità minima di energia capace di produrre una sensazione, al di sotto della quale non percepiamo nulla; 2. Soglia assoluta terminale: il limite superiore, al di sopra del quale la percezione diventa dolorosa o scompare. Il sistema sensoriale umano è progettato per rispondere a stimoli fisici specifici come la luce visibile e le onde sonore, ma non è sensibile ad altre forme di energia come le radiazioni ultraviolette. Sebbene questa selettività rappresenti un limite, è anche un vantaggio evolutivo, in quanto ci protegge da un sovraccarico di informazioni sensoriali. Un esempio di sovraccarico sarebbe sentire le molecole dell’aria muoversi contro il nostro timpano, se il nostro udito fosse leggermente più sensibile. Tuttavia, la percezione degli stimoli non avviene sempre in condizioni ideali. Il “rumore” è un fattore che interferisce con la percezione, e può includere stimoli di fondo che non sono esclusivamente uditivi. In un ambiente affollato, per esempio, il rumore delle persone e il fumo interferiscono sia con l’udito che con la vista, riducendo la capacità di percepire stimoli specifici. Per determinare la soglia assoluta, gli psicofisici usano metodi come il metodo dei limiti. In questo approccio, uno sperimentatore presenta al soggetto una serie di stimoli, alcuni ascendenti (da intensità minime a maggiori) e altri discendenti (da intensità maggiori a minime). La soglia viene fissata come l’intensità alla quale lo stimolo viene percepito nel 50% delle presentazioni. In conclusione, la soglia assoluta è un parametro fondamentale per comprendere i limiti e le capacità del nostro sistema sensoriale, in quanto definisce la minima intensità di uno stimolo necessaria per innescare una sensazione percettiva. Soglie Differenziali Il nostro sistema sensoriale è progettato non solo per percepire stimoli singoli, ma anche per rilevare le differenze di intensità tra stimoli diversi. La soglia differenziale è definita come la minima quantità di cambiamento nell’intensità di uno stimolo standard (Ss) necessaria affinché una persona possa percepire una differenza rispetto a uno stimolo di confronto (Sc). Questa misura è conosciuta anche come Just Noticeable Difference (JND). Definizione e Importanza della Soglia Differenziale La soglia differenziale gioca un ruolo fondamentale nella nostra capacità di distinguere variazioni nel mondo che ci circonda. Ad esempio, quando alziamo il volume della musica, la soglia differenziale determina quanto deve aumentare il volume affinché notiamo effettivamente il cambiamento. La differenza tra le intensità dei due stimoli viene rappresentata come ΔI (differenza di intensità), dove ΔI = Sc - Ss. Una volta superata la soglia assoluta, il nostro sistema sensoriale è in grado di rilevare le differenze di intensità tra due stimoli. La soglia differenziale (o differenza appena percepibile, JND) è la minima variazione di intensità necessaria per percepire una differenza tra due stimoli. Ernst Heinrich Weber, studiando la sensibilità tattile, si rese conto che la soglia differenziale (ΔR) dello stimolo è una proporzione costante (K) dell’intensità dello stimolo iniziale (R): K= ΔR/R Questa proporzione è stata chiamata Legge di Weber e la costante K è stata definita come la costante di Weber. Il concetto di soglia differenziale è spesso associato al principio di Weber, che afferma che la JND è proporzionale all’intensità dello stimolo iniziale. Questo implica che per stimoli di maggiore intensità, è necessario un cambiamento più grande per percepire una differenza. La Legge di Fechner Nel 1860 Fechner estese gli studi di Weber e si propose di verificare in che modo la sensazione S potesse variare al variare continuo dell’intensità della stimolazione R. Egli giunse così alla nota legge di Fechner: S=c log R+C Dove S è la grandezza della sensazione, c’è la costante di Weber, R è la grandezza dello stimolo, C è una costante di integrazione. L’intensità della sensazione è direttamente proporzionale al logaritmo dell’intensità dello stimolo. All’aumento in progressione geometrica dello stimolo corrisponde un aumento in progressione aritmetica della sensazione. L’insieme di queste scoperte costruì la psicofisica classica. Successivamente Stanley Stevens diede origine nel 1957 a una nuova psicofisica, da lui chiamata psicofisica soggettiva. Riprendendo la legge di Weber, Gustav Fechner propose che la sensazione (S) è proporzionale al logaritmo dell’intensità dello stimolo (I). Facendo ricorso al metodo da lui definito stima di grandezza, Stevens verificò che i soggetti sono capaci di valutare direttamente l’intensità di una sensazione associandola semplicemente a un numero. Esperimento: si presenta al soggetto uno stimolo sonoro e gli si dice che esso ha un valore pari a 10; successivamente si presenta uno stimolo sonoro di diversa intensità e si richiede al soggetto di associarlo a un numero che ne quantifichi la diversità: se egli ritiene che sia di intensità doppia, assegnerà il valore 20, se giudica che si la metà, attribuirà il valore di 5 ecc. Con questa procedura Stevens scoprì che la funzione che descrive in modo più efficace la relazione fa il giudizio sensoriale del soggetto (Ψ) e l’intensità dello stimolo (I) è una funzione di potenza: Ψ=KIn Secondo cui la grandezza soggettiva della sensazione (Ψ) è proporzionale all’intensità dello stimolo (I) elevata a una certa potenza (n). Fechner osservò che incrementi uguali di stimoli sembrano più piccoli in contesti di grandi intensità: una candela accesa in una stanza buia genera una maggiore percezione rispetto all’accensione di una seconda o terza candela. La Nuova Psicofisica e i Fattori Soggettivi Negli anni ’60, venne sviluppata una nuova prospettiva psicofisica, considerando il ruolo delle variabili soggettive. La psicofisica classica assumeva che i soggetti agissero come rilevatori passivi, ma in realtà essi valutano e stimano gli stimoli in base a fattori ambientali e personali. 1. Stima di grandezza: Il metodo introdotto da Stanley S. Stevens permette ai soggetti di valutare direttamente l’intensità di una sensazione. I risultati mostrarono che la grandezza soggettiva della sensazione è proporzionale all’intensità dello stimolo elevata a una potenza. 2. Adattamento sensoriale: Esposizioni prolungate a stimoli costanti portano a una riduzione della sensibilità, come se il nostro cervello “abbassasse il volume” dello stimolo. Questo accade perché le cellule recettive sono più sensibili ai cambiamenti che alla stimolazione continua. 3. Teoria della detezione del segnale: Proposta da Green e Swets, questa teoria prende in considerazione la decisione del soggetto nel determinare la presenza o l’assenza di uno stimolo, influenzata da fattori come la sensibilità e i criteri decisionali. Contesto Sensoriale I nostri giudizi sugli stimoli sono influenzati dal contesto sensoriale in cui ci troviamo. Un esperimento paradigmatico dimostra che sollevare una busta piccola con 15 monetine ci fa percepire un peso maggiore rispetto a una busta più grande con lo stesso numero di monetine. Questo avviene perché il nostro cervello fa affidamento non solo sugli stimoli diretti, ma anche sulle informazioni contestuali. In conclusione, la psicofisica ci insegna che la percezione non è una semplice registrazione meccanica di stimoli, ma un complesso processo di integrazione e interpretazione in cui entrano in gioco fattori oggettivi e soggettivi. 3.1.2. La vista La vista ha inizio con la luce, una forma di onda di radiazione elettromagnetica che stimola l’occhio e che viene misurata in lunghezze d’onda. L’intervallo di lunghezze d’onda percepibili dall’uomo, chiamato spettro visivo, è relativamente ristretto, mentre altre specie possono avere sensibilità diverse. Ad esempio, alcuni rettili e pesci percepiscono lunghezze d’onda maggiori, mentre certi insetti rilevano lunghezze d’onda più corte. Le onde di luce provenienti da oggetti esterni al corpo, come un albero, vengono captate dall’occhio (organo capace di rispondere allo spettro visivo), il quale funge da meccanismo di raccolta della luce ed è paragonabile ad una macchina fotografica priva di pellicola. Tuttavia, la vista è un processo molto più complesso: la luce attraversa la cornea, il cristallino e arriva alla retina, dove i recettori neurali (coni e bastoncelli) trasformano l’energia luminosa in segnali elettrici. Questi segnali vengono inviati al cervello, dove avviene l’elaborazione visiva. Questo processo non si limita a registrare l’immagine come la macchina fotografica, ma la interpreta, combinando informazioni visive con esperienze passate e ricordi. In sintesi, mentre l’occhio ha similitudini meccaniche con una macchina fotografica, la vista è un processo complesso e sofisticato, simile a quello di un computer, che ci consente di percepire dettagli, colori e movimenti nella realtà che ci circonda. La struttura dell’occhio Il percorso del raggio di luce inizia quando la luce viene riflessa da un oggetto, come un albero. Essa viaggia attraverso diverse strutture dell’occhio, partendo dalla cornea, una finestra protettiva e trasparente. La cornea permette di mettere a fuoco la luce grazie alla sua forma curva. Dopo la cornea, la luce passa attraverso la pupilla, un’apertura centrale dell’iride. La dimensione della pupilla varia in base all’illuminazione: in ambienti scuri, la pupilla si espande per far entrare più luce, mentre in condizioni di forte luminosità si restringe per migliorare la nitidezza della visione. Successivamente, la luce entra nel cristallino, situato direttamente dietro la pupilla. Il cristallino mette a fuoco la luce modificando il proprio spessore attraverso un processo chiamato accomodazione: si appiattisce per oggetti distanti e si arrotonda per quelli vicini. Infine, l’immagine raggiunge la retina, dove l’energia elettromagnetica della luce viene convertita in segnali nervosi, il codice neurale utilizzato dal cervello. È importante notare che l’immagine viene rovesciata durante il suo passaggio attraverso il cristallino e viene proiettata capovolta sulla retina. Questi segnali vengono poi elaborati dal cervello, permettendoci di vedere. All’interno della retina ci sono due tipi di cellule sensibili alla luce, chiamate fotorecettori: bastoncelli e coni. Bastoncelli: Sono sottili e cilindrici, altamente sensibili alla luce. Hanno un ruolo fondamentale nella vista periferica e nella visione notturna. Ci sono tra i 100 e i 125 milioni di bastoncelli nella retina, e la loro densità aumenta man mano che ci si allontana dalla fovea, la parte centrale dell’occhio. Coni: Queste cellule sono responsabili della messa a fuoco dei dettagli e della percezione dei colori, specialmente in condizioni di forte luminosità. La maggior parte dei coni (tra 5 e 7 milioni) si trova nella fovea, dove la visione è più nitida. Quando vogliamo mettere a fuoco un oggetto, cerchiamo di centrarlo sulla fovea, la parte centrale dell’occhio. La densità dei coni diminuisce rapidamente al di fuori di quest’area, mentre i bastoncelli aumentano. Inoltre, entrambi i tipi di fotorecettori sono coinvolti nell’adattamento alla luce e al buio. I coni si adattano rapidamente alla luce, raggiungendo il massimo in circa un minuto, mentre i bastoncelli impiegano dai 20 ai 30 minuti per adattarsi completamente al buio. Il colore Nonostante la nostra sensibilità alle lunghezze d’onda della luce sia limitata rispetto all’intero spettro elettromagnetico, siamo capaci di riconoscere oltre 7 milioni di colori. Tuttavia, alcune persone, come i daltonici, presentano limitazioni nella percezione dei colori, fornendo indizi importanti sul funzionamento della visione del colore. Il daltonismo più comune causa la percezione di rosso e verde come giallo. Altre forme, come il daltonismo blu-giallo, impediscono la distinzione tra questi due colori. La comprensione del daltonismo richiede l’analisi dei meccanismi della visione del colore, che coinvolgono due teorie principali: 1. Teoria Tricromatica di Young-Helmholtz: Propone che ci siano tre tipi di coni nella retina, ognuno sensibile a lunghezze d’onda specifiche: uno per il blu-viola, uno per il verde e uno per il giallo-rosso. La percezione del colore deriva dall’intensità con cui ciascun tipo di cono viene attivato. Ad esempio, un cielo blu attiva principalmente i coni sensibili al blu-viola. 2. Teoria dei Processi Opponenti di Hering: Suggerisce che le cellule ricettive lavorano in coppie opposte (giallo-blu, rosso-verde, bianco-nero). Se un colore stimola una cellula, l’opposta viene inibita. Questa teoria spiega fenomeni come l’immagine residua, in cui dopo aver fissato un oggetto colorato, quando si guarda una superficie bianca, i colori appaiono alterati. Ad esempio, se si fissa un colore giallo, le cellule gialle si affaticano, e quando si guarda il bianco, l’affaticamento porta a una predominanza della percezione del blu. Entrambe le teorie operano in aree diverse del sistema visivo: i processi tricromatici avvengono nella retina, mentre i meccanismi dei processi opponenti si svolgono sia nella retina che nei passaggi successivi dell’elaborazione neurale. Questi meccanismi ci consentono di percepire i colori in modo complesso e sfaccettato. Inviare il messaggio dall’occhio al cervello Quando la luce colpisce i fotorecettori dell’occhio, ossia bastoncelli e coni, inizia una reazione fotochimica che converte l’energia luminosa in impulsi neurali. I bastoncelli contengono rodopsina e i coni iodopsina, sostanze fotosensibili che cambiano la loro composizione chimica in presenza di luce, attivando così una risposta neurale. Questi segnali vengono poi trasmessi a cellule bipolari e cellule gangliari presenti nella retina. Le cellule gangliari elaborano ulteriormente l’informazione visiva e inviano gli impulsi al cervello attraverso il nervo ottico, un fascio di assoni che parte dal retro dell’occhio. È importante notare che il nervo ottico passa attraverso un’area priva di fotorecettori, creando un punto cieco nel campo visivo. Tuttavia, questa assenza non compromette la vista poiché il cervello compensa automaticamente il punto cieco. Il nervo ottico è parte del sistema nervoso centrale e presenta una caratteristica particolare: i segnali provenienti dalla metà sinistra delle retine vengono inviati all’emisfero sinistro del cervello, mentre quelli della metà destra vanno all’emisfero destro. Questa condivisione dei segnali avviene al chiasma ottico, dove i nervi ottici si incrociano. Qui, metà dei neuroni di ciascun nervo si uniscono ai neuroni della corrispondente metà retina dell’altro occhio, formando un fascio di nervi che trasmette le informazioni alla corteccia visiva. 1. Inizio del Processo: Quando la luce colpisce l’occhio, attiva i bastoncelli e i coni, che sono i fotorecettori. I bastoncelli contengono rodopsina e i coni iodopsina. Queste sostanze cambiano con la luce e generano impulsi neurali. 2. Trasmissione dei Segnali: I segnali generati dai bastoncelli e dai coni vengono trasmessi a cellule bipolari e cellule gangliari nella retina. Le cellule gangliari elaborano ulteriormente queste informazioni e inviano gli impulsi al cervello attraverso il nervo ottico. 3. Punto Cieco: Il nervo ottico passa attraverso una parte dell’occhio senza fotorecettori, creando un punto cieco. Tuttavia, il cervello compensa questo punto cieco, quindi non influisce sulla nostra visione. 4. Trasmissione al Cervello: Il nervo ottico è parte del sistema nervoso centrale. I segnali dalla parte sinistra delle retine vanno all’emisfero sinistro del cervello, e quelli dalla parte destra vanno all’emisfero destro. Questo incrocio dei segnali avviene al chiasma ottico, dove i nervi ottici si incrociano e si connettono con l’altro occhio. In sintesi, quando la luce entra nell’occhio, i fotorecettori la trasformano in segnali che vengono inviati al cervello, dove vengono elaborati per permetterci di vedere. Elaborazione del Messaggio Visivo Quando il messaggio visivo raggiunge il cervello, è già passato attraverso diversi livelli di elaborazione, a partire dalle cellule gangliari della retina. Ogni cellula gangliare riceve informazioni da un gruppo di bastoncelli e coni in una specifica area dell’occhio, confrontando la quantità di luce al centro di questa area con quella presente nelle zone circostanti. Alcune cellule gangliari rispondono alla luce al centro, mentre altre sono attivate dall’oscurità centrale e dalla luce intorno. Questo processo massimizza la rilevazione dei cambiamenti di luce e buio, creando un’immagine neurale che rappresenta una versione migliorata dello stimolo visivo esterno. L’elaborazione finale delle immagini avviene nella corteccia visiva, dove avviene un procedimento complesso di codifica e organizzazione. I neurofisiologi David Hubel e Torsten Wiesel, premi Nobel per le loro scoperte, hanno dimostrato che i neuroni nella corteccia visiva sono altamente specializzati e vengono attivati da stimoli visivi specifici, un processo noto come estrazione delle caratteristiche. Alcuni neuroni rispondono solo a linee di determinato spessore o orientamento, mentre altri si attivano solo in risposta a stimoli di movimento. Studi recenti hanno approfondito la comprensione dei sistemi complessi attraverso cui le informazioni visive dai singoli neuroni vengono combinate ed elaborate. Gli impulsi nervosi sono processati simultaneamente in diverse aree cerebrali, ciascuna specializzata in specifici aspetti visivi come forme, colori, movimento, posizione e profondità. Inoltre, distinte aree del cervello sono coinvolte nella percezione di diversi tipi di stimoli, come volti, animali e oggetti inanimati. La via ventrale e la via dorsale: riconoscere gli oggetti e agire con gli oggetti Il cervello umano ha due vie principali per elaborare le informazioni visive, utilizzando circa 30 aree corticali visive organizzate in due vie distinte: la via dorsale e la via ventrale. La via dorsale connette l’area visiva primaria del lobo occipitale con aree del lobo parietale, ed è implicata nell’analisi della posizione degli oggetti nello spazio (dove è un oggetto). Più semplicemente, analizza dove si trovano gli oggetti nello spazio, connette l’aria visiva del cervello con il lobo parietale. Se danneggiata, può causare atassia ottica, la persona sa dove si trovano gli oggetti ma non riesce a prenderli correttamente. I pazienti riconoscono correttamente le caratteristiche degli oggetti, ma non riescono a interagire con essi utilizzando solo informazioni visive. Al contrario, la via ventrale collega l’area visiva primaria con il lobo temporale, ed è dedicata alla percezione degli attributi degli oggetti, come forma, dimensione e orientamento (cosa è un oggetto). Più semplicemente, riconosce cosa sono gli oggetti (forma, dimensione, colore); coonnette l’aria visiva con il lobo temporale. Se danneggiata, provoca agnosia visiva, rendendo difficile riconoscere gli oggetti o i volti, anche se la persona può ancora interagire con essi senza rendersene conto. Ad esempio, una persona con agnosia visiva può non descrivere correttamente un oggetto, ma saprà adattare automaticamente la presa in base alle sue dimensioni. Come Funzionano Insieme Entrambe le vie lavorano in modo complementare: mentre la via ventrale aiuta a riconoscere gli oggetti in modo consapevole, la via dorsale guida le azioni in modo inconscio. Quando guardi un oggetto, la via ventrale ti dice che cos’è, mentre la via dorsale ti aiuta a capire come afferrarlo o interagirci. Esempi di Funzionamento Una persona con agnosia visiva può vedere un oggetto, ma non sapere che è una mela. Tuttavia, se le chiedi di afferrarla, potrà farlo senza problemi. Una persona con atassia ottica può riconoscere una mela, ma quando cerca di prenderla, non riesce a farlo correttamente. In sintesi, il cervello usa due sistemi per gestire la visione: uno per identificare gli oggetti e l’altro per capire come interagire con essi. Questi sistemi lavorano insieme, ma se uno di essi è danneggiato, può portare a problemi nel riconoscimento o nell’azione. Teorie di Elaborazione Ungerleider e Mishkin (1982) hanno suggerito che le due vie lavorano in modo indipendente ma complementare, contribuendo alla consapevolezza visiva e al controllo delle azioni. Milner e Goodale (1995) hanno proposto che entrambe le vie elaborano le stesse caratteristiche visive, ma con funzioni diverse: la via ventrale guida l’esperienza consapevole, mentre la via dorsale guida le azioni con gli oggetti in modo inconscio. Integrazione delle Vie Visive L’output della via ventrale viene inviato alla memoria a lungo termine per il riconoscimento consapevole e richiede una rappresentazione stabile dell’oggetto, mentre l’output della via dorsale è legato a un sistema di guida on-line per il movimento, immagazzinato nella memoria di lavoro. Questa distinzione è importante, poiché le azioni possono variare a seconda della situazione, richiedendo una costante valutazione delle dimensioni, della distanza e degli ostacoli. Modello di Controllo dell’Azione La vista è vista come un sistema di controllo delle performance e delle azioni. Neuroni visuo-motori codificano le caratteristiche tridimensionali degli oggetti e gli schemi motori funzionali per interagire con essi in modo appropriato. Gli oggetti vengono quindi rappresentati come schemi motori intenzionali, dove il loro significato è definito in relazione all’azione che l’agente può compiere con essi. Ciò implica che un oggetto non è solo identificato per le sue caratteristiche fisiche, ma anche come strumento per il conseguimento di uno scopo. 3.1.3. L’udito L’udito e il senso di equilibrio sono essenziali per muoversi e mantenere la postura. L'udito è il processo attraverso il quale il suono viene percepito e interpretato dal sistema uditivo. La struttura dell'orecchio comprende l'orecchio esterno, medio e interno. L’orecchio esterno agisce come un megafono, raccogliendo i suoni e facendoli entrare nel condotto uditivo fino al timpano. Quando il suono colpisce il timpano, questo vibra. Le vibrazioni vengono quindi amplificate da tre piccole ossa nell’orecchio medio, chiamate martello, incudine e staffa, prima di passare all’orecchio interno attraverso una membrana chiamata finestra ovale. Dunque, l'orecchio esterno rileva il suono, che attraversa il condotto uditivo fino al timpano e all'orecchio medio, dove le vibrazioni vengono trasmesse alla finestra ovale dell'orecchio interno. Nell’orecchio interno si trova la coclea, una struttura a forma di spirale piena di liquido. La coclea nell'orecchio interno converte le vibrazioni sonore in segnali nervosi inviati al cervello attraverso le cellule ciliate. Quando il suono arriva nella coclea, il fluido vibra e muove la membrana basilare, che contiene cellule ciliate. Queste cellule inviano segnali nervosi al cervello, permettendo di interpretare il suono. Il suono si caratterizza per la frequenza (il numero di vibrazioni al secondo) e l’ampiezza (l’intensità del suono), che determinano il tono e il volume. Possiamo percepire suoni con frequenze che vanno da 20 a 20.000 vibrazioni al secondo. L’ampiezza determina se un suono è forte o debole, e i suoni molto forti possono danneggiare l’udito. Due teorie spiegano come il cervello riconosca le diverse frequenze sonore: la teoria dell’onda viaggian