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democrazia politica comparata studi politici scienze politiche

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This document discusses democracy, exploring various definitions and theories, from a normative perspective to a more procedural one. It also touches on the essential elements of a functioning democratic system including participation, political competition, and the role of the government in responding to societal needs.

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Che cos'è la democrazia? Partiamo da una definizione normativa di democrazia. Essa è prima di tutto un metodo. Secondo Norberto Bobbio, la democrazia è caratterizzata da un insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere decisioni collettive, un numero molto alto, e con quali proce...

Che cos'è la democrazia? Partiamo da una definizione normativa di democrazia. Essa è prima di tutto un metodo. Secondo Norberto Bobbio, la democrazia è caratterizzata da un insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere decisioni collettive, un numero molto alto, e con quali procedure, secondo la regola della maggioranza, infine colore cui spetta eleggere i decisori pubblici devono essere messi di fronte ad alternative reali. In una democrazia ideale, che rispetti il significato del termine \, tutti coloro i quali sono sottoposti a decisioni collettive dovrebbero avere una eguale ed effettiva opportunità di partecipare al processo politico. Esso è perfettamente democratico se soddisfa i seguenti criteri: tutti gli adulti inclusi nel *demos*; parità di possibilità di tutti i cittadini di esprimere le loro preferenze; disporre di un voto di eguale peso nella fase decisionale; possibilità di ritiro voto. Questo modello è lontano dal modo in cui può realmente prendere forma il governo del popolo. Un processo decisionale perfettamente democratico presuppone una partecipazione costante degli individui e una \, ovvero una consapevolezza di tutti i problemi oggetto di decisioni collettive. Da qui la certezza che l'attività di governo possa e debba essere svolta da un numero relativamente ristretto di persone, specializzate e dedicate a tempo pieno a quella funzione. La democrazia non può che essere rappresentativa, che non esclude la partecipazione dei cittadini ma che riserva il potere di governo ad una élite. Nella definizione classica di democrazia emerge che la rappresentanza politica possa emergere dal basso, come espressione di una volontà popolare trasmessa a delegati chiamati a riunirsi per trovare soluzioni ai fini del bene comune. Questa definizione presuppone l'esistenza di una volontà popolare chiara e distinta. Schumpeter elabora una diversa visione di democrazia, minima e competitiva per cui: il popolo ha l'opportunità di accettare o rifiutare gli uomini che dovranno governarlo, i quali concorrono alla leadership secondo *libera concorrenza.* La libera competizione tra partiti e leader non è solo una garanzia formale di democraticità, ma il meccanismo attraverso cui il governo viene reso rappresentativo. Si può parlare quindi di democrazia come regime politico caratterizzato dalla continua capacità di risposta del governo alle preferenze dei suoi cittadini, considerati politicamente eguali. La definizione minima e procedurale proposta da Schumpeter non è sufficiente. La democrazia intesa in senso sostanziale dovrebbe garantire la giustizia sociale, la piena occupazione, l'onestà delle classi dirigenti e così via. Questo modo di pensare ha il difetto di presupporre l'esistenza di un'unica e ovvia visione di giustizia, sottovalutando che essa è inevitabilmente oggetto di conflitti tra opinione e interessi diversi. Le cosiddette teorie sostanziali, come ci dimostra Dahl, porterebbero a legittimare l'instaurazione di regimi autocratici governati da una minoranza che pretende di rappresentare la volontà generale. Le democrazie garantiscono quindi il pluralismo politico e la legittimazione dei governanti attraverso elezioni competitive a suffragio universale (definizione procedurale minima). Il processo democratico è effettivo e reversibile se vengono garantite alcune libertà civili fondamentali e fissati limiti all'esercizio del potere di governo (definizione estesa che include i capisaldi del costituzionalismo liberale). Questo modello di democrazia si distingue dalle democrazie elettorali, intese come quei regimi che soddisfano solo la prima definizione, e dai regimi non democratici. (vedi tabella pag. 35) Per stabilire il grado di democraticità di un regime, gli scienziati politici utilizzano un elenco di requisiti, che Dahl chiama garanzie istituzionali, che le democrazie dovrebbero assicurare: governanti eletti attraverso votazioni libere, corrette e ricorrenti; diritto di voto riconosciuto a tutti, o quasi tutti, gli adulti cittadini; libertà di espressione, di associazione; accesso a fonti alternative di informazione. Non sempre è possibile verificare la sussistenza di alcuni di questi requisiti, come per esempio le corrette elezioni; perciò, certe volte ci si deve affidare al giudizio di esperti e osservatori, a indicatori indiretti. Una delle indagini più nota viene condotta a partire dal 1972 da Freedom House. Essa viene svolta da gruppi di analisti ed esperti dei vari paesi che sono chiamati a rispondere a 10 domande relative alla garanzia/limitazione dei diritti politici (correttezza del processo elettorale, effettiva garanzia del pluralismo partitico) e a 15 domande relative alla garanzia/limitazione delle libertà civili. Le risposte a ciascuna domanda sono espresse in punteggi che vanno da 0 (massima limitazione) a 4 (massima garanzia). I punteggi del primo e del secondo gruppo vengono poi aggregati e ricodificati, invertendo la direzione, per ricavarne due distinti punteggi complessivi per paese che questa volta vanno da 1 (massima garanzia) a 7 (massima limitazione). Dopodiché viene fatta la media tra questi due ottenendo un punteggio finale che porta alla classificazione tra paesi liberi (da 1 a 2,5), parzialmente liberi (da 3 a 5), non liberi (da 5,5 a 7). Tra i paesi liberi rientrano tutte le democrazie liberali garanti dei diritti politici e delle libertà civili; tra i paesi parzialmente liberi vi rientrano le democrazie elettorali garanti solo dei diritti politici; gli altri paesi rientrano nei regimi non democratici. Un'altra indagine sull'argomento viene condotta da Polity. L'analisi assegna due punteggi differenti a ciascun paese: uno riguardante le caratteristiche tipiche delle democrazie; l'altro riguardante la presenza di caratteristiche tipiche delle autocrazie. Entrambi i punteggi vanno da 0 a 10. Procedendo con la sottrazione del secondo valore al primo si ottiene una scala da -10 a +10, dove i valori positivi indicano la prevalenza di caratteristiche democratiche e viceversa per i valori negativi. Diversi ricercatori considerano democratici solo i paesi con punteggio superiore a 4. Le due indagini messe a confronto evidenziano differenze dovute alla definizione concettuale di democrazia alla quale si riferiscono, ai diversi indicatori da cui derivano i punteggi finali, alla soggettività di alcune rilevazioni. Da queste analisi possiamo dedurre che fino al 2015 circa il 40% della popolazione mondiale viveva in democrazie liberali, il 35% in regimi autoritari, il restante 25% in democrazie elettorali o in regimi in transizione. Nei paesi liberi era concentrato circa il 65% del prodotto lordo mondiale, a fronte del 20% dei paesi con regimi autoritari. Le democrazie prevalgono e rimangono stabili in Europa, Nordamerica e Oceania, sono più fragili in America Latina, mentre in Africa e Asia prevalgono gli autoritarismi e le democrazie elettorali. I paesi che risultano democratici sono 77, ma 25 hanno meno di 1 milione di abitanti. Tuttavia, solo attraverso indagini di questo tipo è possibile sintetizzare e gestire una grande quantità di informazioni, riferite ad un notevole numero di casi e a un lungo periodo di tempo. Gli scienziati politici usano dati e tecniche statistiche per studiare le tendenze che si sono sviluppate nel corso del tempo a transitare da un tipo di regime all'altro, scoprendo così i fattori che favoriscono o scoraggiano l'approdo alla democrazia. Le indagini hanno rilevato un fenomeno di ondate di democratizzazione e reflussi tra il 1800 ed il 1900. Anche le più recenti e accurate analisi hanno confermato un aumento costante della quota dei paesi democratici dall'inizio del 1800 al 1920, come prima ondata, a cui è seguito un forte calo intorno agli anni '30 (primo reflusso). Una seconda ondata di democrazie si è avuta dopo la Seconda guerra mondiale, regredite in regimi autoritari negli anni '50 e '60 (secondo reflusso). La terza ondata, infine, è iniziata a metà degli anni '70 senza che si siano verificati reflussi. Sono due le ipotesi, secondo la teoria della modernizzazione di Weber, per cui alcuni paesi sono arrivati più facilmente alla democrazia. Prima di tutto essa è frutto dello sviluppo economico, che rende le società più ricche e complesse. Ciò è avvenuto con la rivoluzione industriale che favorì l'emergere di una classe borghese di imprenditori e professionisti indipendenti dall'aristocrazia ereditaria, e poi di una classe media sempre più interessata a svolgere liberamente le proprie attività. L'organizzazione del lavoro all'interno delle industrie si faceva sempre più complessa richiedendo crescenti livelli di istruzione. A sua volta l'istruzione faceva crescere la domanda di autonomia individuale delle persone e la loro capacità di rivendicare diritti. Secondo l'analisi di Przeworski, che conferma l'ipotesi di Weber, le democrazie dimostrano maggiore possibilità di sopravvivenza: nei paesi con livelli di reddito pro capite ed istruzione più elevati; dove la distribuzione della ricchezza è meno diseguale; dove c'è una forza politica preponderante e si verificano alternanze di governi ogni 5 anni; dove è stata adottata la forma di governo parlamentare e non presidenziale. La seconda ipotesi di Weber riguarda fattori culturali e religiosi. Secondo il sociologo, l'autonomia individuale e la ricerca dell'autorealizzazione proprie della cultura moderna, alla base tanto dello sviluppo capitalistico quanto della democrazia, furono favorite dallo scisma protestante e dalla diffusione dell'etica calvinista. Huntington, più di recente, ha evidenziato come il passaggio alla democrazia sia influenzato da specifiche predisposizioni di ciascuna civiltà, modi di pensare, tradizioni religiose. Contrariamente a quanto ipotizzato dai due, le analisi condotte da Przeworski non confermano che il protestantesimo abbia avuto un effetto positivo sulla democratizzazione. Le sue analisi portano a dire soltanto che la democrazia si è instaurata con maggiore frequenza nei paesi con una più alta percentuale di cattolici. La teoria della modernizzazione culturale proposta da Inglehart cambia in un certo senso le due prospettive. Secondo quest'ultimo bisogna guardare più che alla religione, alla diffusione in ciascun paese di valori che esaltano la libertà individuale. La democratizzazione sarebbe quindi facilitata dalla diffusione di valori autoespressivi ed emancipativi che portano ad affermare l'eguaglianza tra i generi. Ciascuna delle tre ondate di democratizzazione è frutto di una concatenazione di fattori economici, sociali e politici che può essere ricostruita solo attraverso l'analisi storica. Ci giunge in aiuto l'analisi condotta da Moore che ebbe a oggetto 6 paesi: Inghilterra, Francia, Usa, Cina, Giappone, India. Moore identificò i fattori che portarono i primi tre paesi, al contrario degli altri, alla democrazia sin dalla prima ondata. Fu possibile poiché in quei 3 paesi monarchia e aristocrazia terriera si indebolirono: la seconda ebbe una svolta in senso mercantile dell'attività agricola rendendosi indipendente dalla monarchia. In Giappone si è invece concretizzato un patto tra proprietari terrieri e capitalisti contro operai e contadini, cosicché una rivoluzione conservatrice dall'alto ha portato al fascismo. In Cina al contrario una rivoluzione dal basso ha portato al comunismo. La seconda ondata fu favorita principalmente dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale delle potenze dell'asse e dei loro alleati. Huntington ha messo in evidenza 5 elementi alla base della terza ondata: 1. La forte e costante crescita economica degli anni '50 e '60 2. 3. 4. Le politiche degli altri principali attori internazionali cambiarono in senso favorevole alla democratizzazione 5. L'affermazione dei mezzi di comunicazione di massa Per classificare i regimi non democratici possiamo usare diversi modi. Se facciamo riferimento alla composizione della coalizione dominante avremo quattro tipi di autocrazie: - Nelle monarchie assolute la trasmissione del potere avviene per via ereditaria. Il fulcro della coalizione dominante è composto da una famiglia reale. Weber le definisce regimi patrimoniali. Si tratta della forma di governo più diffusa nell'800 e oggi presente quasi solo in Medio Oriente (Emirati Arabi, Arabia Saudita, Brunei). - organizzati che conquistano il potere ed escludono il pluralismo mettendo fuori legge i partiti avversari. Sono sostenuti da una giustificazione ideologica e anche da un certo consenso popolare. Sono entrati in scena solo all'inizio del '900, con le rivoluzioni comuniste e l'avvento al potere dei partiti fascisti, questa forma è oggi confinata a pochi paesi (Cina, Vietnam, Cuba). - I regimi militari, instaurati normalmente attraverso un colpo di stato e con una giustificazione di tipo tecnocratico, ebbero un picco a metà degli anni '70, soprattutto in America Latina, per poi declinare a partire dalla metà degli anni '90, finendo per riguardare quasi solo paesi africani (Congo, Thailandia, Pakistan). - multipartitismo limitato o pseudodemocrazie, cioè regimi che prevedono lo svolgimento di elezioni a cui sono ammessi più partiti che però non sono affatto libere, pacifiche, corrette e realmente competitive. Il partito di governo è quindi in condizione di eliminare gli avversari e manipolare i risultati. Tutti questi tipi possono assumere la torsione di dittatura personale, quando la coalizione dominante ruota intorno a un singolo leader. *Un fenomeno autoritario oggi* ricorrente *consiste nell'affermazione di capi di governo dai tratti autoritari all'interno di democrazie elettorali tendenti a degenerare in pseudodemocrazie.* Un secondo modo per classificare le autocrazie consiste nel considerare l'intensità con la quale il regime esclude il pluralismo e reprime il dissenso. Abbiamo così i regimi totalitari come forme estreme di regimi a partito unico, orientati da un'ideologia che mira a trasformare radicalmente la società; i regimi sultanistici come forme estreme di dittature personali. Dahl ha proposto un'ulteriore tipologia considerando la tendenza dei regimi politici a garantire libera competizione politica e partecipazione al voto a tutta o quasi la popolazione. Abbiamo così oligarchie chiuse in cui si negano entrambe le garanzie; oligarchie competitive dove è negata solo la seconda garanzia; egemonie includenti in cui si granisce una certa partecipazione ma con limiti alla competizione; poliarchie, democrazie di massa. L'approdo alla democrazia si è verificato più stabile i paesi come la Gran Bretagna o la Svezia, i quali avevano già sperimentato a lungo forme di democrazia all'interno delle istituzioni parlamentari. Al contrario, la democrazia si è rivelata meno stabile in paesi che erano arrivati in un solo colpo a liberalizzare la competizione politica ed estendere il suffragio, come nel caso della Francia. La strada più sicura per approdare ad una stabile democrazia di massa partendo da egemonie chiuse è quella di passare attraverso l'oligarchia competitiva. Partendo da un regime militare è più facile giungere alla democrazia passando da una dittatura personale. All'interno degli stessi regimi democratici troviamo molte differenze: la prima importante distinzione è quella relativa al disegno costituzionale, ovvero la forma di stato. Per forma di stato si intende il modo in cui le costituzioni delineano i rapporti tra le istituzioni politiche nazionali e quelle subnazionali. Così possiamo distinguere gli stati federali dagli stati unitari. Nei primi esiste un livello di governo più vasto, dotato di sufficienti poteri garantiti dalla costituzione e da una legittimazione popolare diretta. L'autonomia delle singole unità subnazionali, chiamate a partecipare in vari modi anche alla formazione delle leggi, è garantita dal fatto che la costituzione è difficile da emendare, e dalla presenza di una Corte come giudice imparziale nei casi di conflitto tra le istituzioni. Si parla di federalismo competitivo nel caso di divisione dei poteri verticale, il governo nazionale si occupa interamente di alcune materie ed i governi subnazionali sono responsabili di altre; si parla di federalismo cooperativo nel caso di divisione dei poteri orizzontale, le istituzioni nazionali legiferano in quasi tutte le materie mentre spetta ai governi subnazionali la gestione delle politiche pubbliche. Il federalismo può nascere per associazione di entità o per devoluzione: il primo è simmetrico, per cui le unità si associano su un piano di parità mantenendo gli stessi poteri e lo stesso livello di autonomia; il secondo è spesso asimmetrico, in quanto non tutte le regioni ottengono uguale competenza. La seconda differenza nel disegno costituzionale delle democrazie riguarda la forma di governo, per cui si intende il modo con cui le costituzioni delineano i rapporti tra l'esecutivo ed il legislativo. Esistono due modi alternativi per classificare questi regimi. Il primo modo consiste nell'evidenziare le caratteristiche di ogni singolo tipo, prendendo come riferimento dei casi. Per il *presidenzialismo puro* abbiamo: - - I mandati di esecutivo e assemblea sono fissi ed indipendenti (non dipendono dalla fiducia reciproca) - - Per Giovanni Sartori i sistemi *parlamentari* sono quelli in cui i governi si insediano, sono sostenuti ed eventualmente sfiduciati dal voto parlamentare. Duverger ha invece evidenziato le caratteristiche del modello *semipresidenziale:* - - - Esistenza di un premier e del Consiglio dei ministri soggetto alla fiducia parlamentare che svolge funzioni esecutive Usando questo metodo si rischia che alcuni paesi non rientrano perfettamente in nessuna categoria. Il secondo metodo consiste nel creare una vera e propria tipologia. Lijphart utilizza tre criteri rispetto ai quali sistemi parlamentari puri e sistemi presidenziali puri sono completamente diversi: a. b. c. Regimi presidenziali: Il capo del governo ha un'investitura popolare, distinta da quella dei componenti del parlamento. I mandati di presidente e parlamento sono fissi ovvero non soggetti a elezioni anticipate. Non esiste rapporto di fiducia tra esecutivo e legislativo, il secondo mantiene però una certa autonomia dal primo nello svolgimento delle sue funzioni legislativa e di controllo, e può sfiduciare il governo solo in caso di impeachment. Il presidente, quindi, non ha poteri di iniziativa legislativa, ma solo poteri ostativi, può ostacolare ed opporsi alle decisioni del parlamento. Questo gli è possibile attraverso il cd. veto: veto totale su tutta la legge; veto parziale ad un solo passaggio della legge (dichiarato incostituzionale negli USA); infine con il pocket veto il presidente aspetta la fine della legislatura senza prendere decisioni. Inoltre il presidente ha il potere di decretazione, forma di iniziativa legislativa che ha bisogno di conferma. Anche quando il suo partito ha la maggioranza nel congresso, il presidente è costretto a negoziare giorno per giorno il consenso dei parlamentari per vedere approvate leggi coerenti con il suo programma. Il conflitto fra le due istituzioni può portare a una vera e propria paralisi del processo decisionale. Regimi parlamentari: Esecutivo e legislativo hanno uno stesso mandato poiché l'uno dipende dall'altro per via del voto di fiducia. Il parlamento è in ultima istanza sovrano, può sfiduciare e sostituire il premier quando vuole, ma è molto più improbabile che i parlamentari votino contro le proposte di legge del governo. Il premier deve tenere conto delle richieste di correnti e partiti alleati nella scelta dei ministri, ma se è il leader di un partito che controlla da solo la maggioranza parlamentare, riesce solitamente ad ottenere l'approvazione di leggi coerenti con il suo programma, se necessario anche ponendo la questione di fiducia. Sia i sistemi presidenziali che parlamentari presentano al loro interno varie differenze riguardo ala divisione dei ruoli di capo del governo e capo dello stato. Nelle democrazie presidenziali i due ruoli sono svolti dalla stessa persona, tranne nei presidenzialismi dell'Asia orientale, dove il presidente delega il coordinamento dell'esecutivo a un primo ministro suo fiduciario. Nelle democrazie parlamentari le due figure sono normalmente distinte. Fino a quando i monarchi hanno mantenuto l'effettiva titolarità del potere di governo, hanno delegato le funzioni esecutive ad un primo ministro loro fiduciario. Poi il primo ministro è diventato espressione della maggioranza parlamentare ed il monarca è stato progressivamente confinato nel ruolo di simbolo e garante dell'unità nazionale. In molti paesi europei e in Giappone questo ruolo continua ad essere svolto da un membro della famiglia reale e a essere trasmesso per via ereditaria. Nei paesi che hanno scelto la forma repubblicana questo ruolo è assegnato con legittimazione parlamentare (Italia, Spagna, Germania) o popolare (Irlanda, Islanda) al presidente della Repubblica.

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