Patologia Generale 2024 PDF
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2024
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These notes from a 2024 course on general pathology cover the important concepts of disease mechanisms and edema. They explain the roles of etiology, pathogenesis, and clinical consequences in understanding disease. The notes are a study aid, not a replacement for the textbook.
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Appunti di Patologia Generale 2024-25 IMPORTANTE: sono solo un AIUTO nella preparazione dell’esame; non sono assolutamente da considerare una sostituzione del libro di testo. È fondamentale studiare anche le diapositive fornite a lezione. 1 ...
Appunti di Patologia Generale 2024-25 IMPORTANTE: sono solo un AIUTO nella preparazione dell’esame; non sono assolutamente da considerare una sostituzione del libro di testo. È fondamentale studiare anche le diapositive fornite a lezione. 1 PATOLOGIA GENERALE Biologia: scienza della vita Fisiologia: studio delle funzioni vitali PATOLOGIA GENERALE: studio delle “disfunzioni”, cioè delle malattie. La patologia generale descrive meccanismi di base che intervengono nella generazione dello stato di malattia. Lo studio della patologia generale si articola in tre fasi: EZIOLOGIA: identificazione dell’agente patogeno PATOGENESI: studio dei meccanismi con cui l’agente patogeno genera la malattia. CONSEGUENZE CLINICHE: descrizione delle alterazioni morfo-funzionali causate dalla malattia e delle conseguenze che questa ha sulla salute del paziente. Sono state descritte oltre 8000 malattie umane. Classificate su base eziologica, queste possono essere così raggruppate: Di origine ambientale: causate da un agente nocivo presente nell’ambiente in cui si vive; Di origine genetica: dovute ad alterazioni al DNA che possono essere ereditarie, congenite (cioè presenti alla nascita ma non ereditate: per es. originate durante lo sviluppo embrionale), oppure acquisite nel corso della vita Multifattoriali: con entrambe le componenti ambientale e genetica. Questo è il gruppo più numeroso di malattie Sebbene i possibili agenti eziologici che intervengono nel causare queste malattie siano molto numerosi, è stato osservato che essi agiscono attraverso meccanismi di base comuni: - Alterazioni cellulari - Reazioni infiammatorie (reazione di difesa*) - Risposta immunitaria (reazione di difesa*) - Alterazioni circolatorie - Trasformazione neoplastica * Le reazioni difensive del nostro organismo a volte si innescano in maniera eccessiva o contro bersagli innocui e spesso possono essere di per sé causa di malattia. LA PATOLOGIA GENERALE SI OCCUPA DI DESCRIVERE QUESTI MECCANISMI DI BASE Per brevità in questo corso non saranno trattate le alterazioni cellulari. Il primo argomento sarà la reazione infiammatoria, preceduta da un richiamo sulla fisiologia del microcircolo e sulle sue alterazioni. 2 IL MICROCIRCOLO e L’EDEMA Questa premessa è importante perché la risposta infiammatoria (nelle sue prime fasi) è un fenomeno che coinvolge la microcircolazione. Il microcircolo è il compartimento costituito da arteriole, venule e capillari, dove avvengono gli scambi tra sangue e tessuti. La parete di questi vasi è sottile; i capillari e le venule hanno una parete costituita solo da endotelio che poggia sulla lamina basale circondata da pericliti (cellule con funzione trofica). L’acqua e le sostanze nutritive (piccole molecole) fuoriescono dal circolo attraverso le giunzioni tra le cellule endoteliali e raggiungono l’interstizio (compartimento all’esterno del letto vascolare). Le proteine possono raggiungere l’interstizio attraverso un traffico di vescicole detto transcitosi. Nel cervello le giunzioni tra le cellule endoteliali sono così strette da non consentire nemmeno il passaggio delle piccole molecole (barriera ematoencefalica, con funzione protettiva). Al contrario, le cellule endoteliali dei capillari del fegato (detti sinusoidi), hanno giunzioni lasse e consentono anche il passaggio di proteine. La dinamica dello scambio di fluidi tra sangue e tessuti è descritta dalla LEGGE DI STARLING: “la quantità di fluido che fuoriesce dal sangue verso l’interstizio all’estremità arteriolare è uguale a quella che rientra in circolo all’estremità venulare”. Ciò dipende dal bilancio di due forze: pressione idrostatica e pressione osmotica che agiscono sia all’interno che all’esterno dei vasi. La pressione idrostatica è la forza esercitata dal sangue sulle pareti del vaso, mentre la pressione osmotica è la forza esercitata dalle proteine che richiamano acqua perché non diffondono liberamente (cioè non passano la barriera endoteliale). Nel sangue la presenza di 6g/dL di proteine fa sì che nel vaso si instauri una pressione osmotica maggiore di quella dell’interstizio, dove le proteine sono presenti in minor quantità. All’estremità arteriolare la P. idrostatica è di 35mmHg (valore medio) e tende a far fuoriuscire il liquido verso l’interstizio (pressione di filtrazione); ad essa si oppone la pressione osmotica di 28mmHg esercitata dalle proteine del sangue (pressione di assorbimento). Nell’interstizio a livello dell’estremità arteriolare la pressione idrostatica è quasi assente, mentre quella osmotica è di circa 3 mmHg. Nell’interstizio la pressione idrostatica aiuta il riassorbimento di fluido, mentre quella osmotica contribuisce alla filtrazione del fluido verso l’esterno del vaso. Sommando tra di loro le forze con uguale direzione, all’estremità arteriolare si ha una prevalenza di pressione di filtrazione e il fluido quindi tende ad uscire verso l’interstizio: (35+3) rispetto a (28+0) = +10. All’estremità venulare la P. idrostatica del sangue è di 15mmHg (è stata consumata per attrito sulle pareti), mentre la pressione osmotica ha gli stessi valori di prima (sia dentro sia fuori, 3 perché l’endotelio è impermeabile alle proteine): (15+3) - (28+0) = -10. All’estremità venulare prevale la pressione di assorbimento Questo bilancio di forze consente al sangue di irrorare i nostri tessuti, apportando nutrienti e allontanando i cataboliti. In realtà circa il 90% del fluido rientra in circolo, mentre il restante 10% è allontanato dai vasi linfatici. I vasi linfatici originano a fondo cieco nell’interstizio, hanno una parete molto sottile e giunzioni lasse. Le cellule endoteliali dei piccoli vasi linfatici hanno filamenti di ancoraggio (fibrille) che le fissano all’interstizio, alla matrice extracellulare. Quando l’interstizio si riempie di fluido, le fibrille si stirano allentando le giunzioni delle cellule endoteliali. Ciò facilita il drenaggio del fluido in eccesso, che va a formare la linfa. All’interno dei vasi linfatici ci sono anche pieghe (valvole a nido di rondine) che aiutano la progressione della linfa, impedendo il reflusso. La linfa confluisce nel dotto linfatico destro (che si getta nella succlavia di destra) o nel dotto toracico (che sbocca nella succlavia di sinistra) per ritornare nel torrente circolatorio. Il movimento muscolare aiuta il corretto allontanamento del fluido, perché continuamente comprime e distende i vasi linfatici favorendo la loro azione di “pompa drenante”. Quando le forze coinvolte in questo equilibrio si alterano, si può avere un aumento di fluido che ristagna nell’interstizio e un conseguente aumento del volume del tessuto: questa condizione viene definita edema. EDEMA Aumento di liquido nello spazio interstiziale, che causa gonfiore del tessuto. L’acqua in un individuo adulto costituisce circa il 60% della massa corporea; cioè su 70 kg di peso corporeo circa 40 sono dati dall’acqua. Di questi circa 40 litri, 25 sono contenuti nelle cellule e 15 nel liquido interstiziale. Nel sangue, circa 3 l. sono contenuti nel plasma e 2 nei globuli rossi. L’acqua circola sempre associata ai soluti; nello spazio extracellulare l’acqua è legata al Na, mentre in quello intracellulare al K; nella circolazione la quantità d’acqua è dipendente anche dal contenuto di proteine. Negli interstizi è catturata dai glicosamminoglicani e dai proteoglicani; quando si accumula, la capacità di legame dei GAG viene saturata e si osserva edema poiché l’acqua libera gonfia il tessuto. Il ristagno risulta più visibile nei tessuti delicati e sottili piuttosto che in quelli compatti. Sotto cute il ristagno di acqua viene reso evidente quando dopo aver esercitato una pressione si osserva la persistenza di una impronta (fovea). Il fluido che si accumula in ambiente extra cellulare e che è all’origine dell’edema può essere di due tipi: -TRASUDATO, costituito da acqua, piccole molecole, poche proteine, cioè con la normale composizione tipica del liquido interstiziale ma con un volume aumentato; -ESSUDATO contiene anche proteine e cellule. Questo vuol dire che l’endotelio ha perso la sua integrità, non è più impermeabile. L’essudato è caratteristico dell’edema di origine infiammatoria. In alcune condizioni cliniche può non essere immediatamente chiara la natura del fluido accumulato; in questo caso si parla di VERSAMENTO. L’edema si può manifestare sia in forma localizzata che generalizzata. Il fluido extracellulare si può accumulare anche nelle cavità naturali: si parla di IDROTORACE nella pleura, IDROCEFALO nel cervello, ASCITE nella cavità addominale, IDROPERICARDIO intorno al cuore, IDRARTO in uno spazio articolare. L’edema sistemico (generalizzato) è anche definito ANASARCA. 4 EDEMA con TRASUDATO (o trasudatizio) Edema localizzato È in genere dovuto ad una ostruzione o ad una riduzione del drenaggio linfatico o ematico. Nel caso di RIDOTTO DRENAGGIO LINFATICO, le cause possono essere: Ostruzione del circolo linfatico: comune nelle malattie tumorali perché alcuni tumori diffondono attraverso il sistema linfatico e ostruiscono i linfonodi ostacolando il drenaggio della linfa; Linfomi, ovvero tumori che crescono nelle stazioni linfatiche; Asportazioni dei linfonodi durante interventi chirurgici per la rimozione di masse tumorali; Filariasi (piccoli parassiti che penetrano nei vasi linfatici causandone la fibrosi e conseguente ostruzione; es. la Wuchereria bancrofti, un nematode che causa un importante edema agli arti inferiori definito elefantiasi); A volte non c’è una vera e propria ostruzione, ma ridotto drenaggio linfatico dovuto alla mancanza di movimento muscolare (es. edema agli arti inferiori che si manifesta nei paraplegici). Nel caso di BLOCCO VENOSO invece, le cause possono essere: Ostruzione o schiacciamento: provocano un aumento della pressione idrostatica venosa a causa del ristagno di sangue (lo schiacciamento comprime i vasi venosi più facilmente di quelli arteriosi, impedendo un efficiente deflusso di sangue); può succedere per esempio nel caso ci sia una ingessatura troppo stretta; Varici, dilatazioni della parete della vena; il deflusso di sangue è rallentato Trombosi venosa, la formazione di una massa di sangue coagulato (spesso all’interno di una dilatazione varicosa) definita trombo, che ostacola il ritorno venoso. In tutti i casi citati c’è un aumento localizzato della pressione idrostatica nel versante venoso che ostacola il ritorno in circolo del fluido interstiziale. Se la causa dell’edema persiste l’accumulo di fluido pian piano aumenta, finché ad un certo punto l’innalzamento della pressione idrostatica nell’interstizio si opporrà alla ulteriore fuoriuscita di liquido. L’edema localizzato non è pericoloso di per sé; può essere rischioso invece il fenomeno che lo ha causato. A volte in presenza di edema localizzato l’irrorazione dei tessuti diventa poco efficiente. Le piccole molecole (nutrienti) del fluido interstiziale raggiungono le cellule per diffusione; se l’interstizio si ispessisce, viene aumentata la distanza tra le cellule e i capillari. Poiché le molecole che diffondono per diffusione riescono a coprire solo brevi distanze, la conseguenza è una carente irrorazione dei tessuti. Se una varice venosa causa edema localizzato per esempio ad un arto inferiore, la cute dell’arto a causa della carente irrorazione può diventare atrofica e andare incontro a lesioni che non si rimarginano facilmente degenerando in ulcere (ferite cutanee che non guariscono perché il tessuto non è ben irrorato). 5 Edema trasudatizio sistemico (o generalizzato) Più grave di quello localizzato, comincia a manifestarsi a livello viscerale e poi aumenta e diventa evidente anche a livello cutaneo. Quando la condizione diviene visibile significa che si sono accumulati negli interstizi circa 2-3 litri di fluido. Non è possibile che questo grande volume di fluido derivi solo dalla circolazione (volume medio del sangue = 5 litri circa). Interviene un altro meccanismo. Nelle prime fasi dopo il ristagno di fluido interstiziale la volemia comincia a ridursi. Questo fa diminuire progressivamente la pressione del sangue. La pressione idrostatica del sangue (a livello arteriolare) è la forza principale che garantisce l’irrorazione dei tessuti. Il valore della pressione del sangue è monitorato da diversi sistemi di controllo. Le cellule specializzate nella rilevazione dei cambiamenti di pressione vengono chiamate barocettori. Nella generazione dell’edema sistemico sono coinvolti i barocettori dell’apparato iuxtaglomerulare, cellule localizzate a ridosso della parete della arteriola afferente al glomerulo renale. Quando queste cellule percepiscono un calo della pressione del sangue che raggiunge il glomerulo si attivano e secernono l’enzima renina. La renina ha azione proteolitica sull’angiotensinogeno (proteina plasmatica prodotta dal fegato), che viene trasformato in angiotensina I; l’enzima ACE (angiotensin converting enzyme) prodotto dall’endotelio del polmone, converte poi l’angiotensina I in angiotensina II. L’Angiotensina II induce la costrizione delle arterie e stimola la produzione di aldosterone prodotto dalle ghiandole surrenali. L’aldosterone concentra l’urina richiamando l’acqua e il sodio dalla pre-urina. Viene anche indotta la secrezione di ADH, ormone antidiuretico. Nel complesso questi effetti correggono il calo della pressione del sangue. Questa è dunque una reazione di difesa. Se è presente una condizione che genera edema sistemico, questa risposta difensiva si innesca e diventa il meccanismo attraverso cui si genera l’accumulo sistemico di fluido interstiziale. CAUSE DELL’EDEMA SISTEMICO Possono essere o un aumento della pressione idrostatica o una riduzione della pressione osmotica del sangue RIDUZIONE DELLA PRESSIONE OSMOTICA DEL SANGUE Il valore normale di concentrazione delle proteine plasmatiche è il 6% (6 g/100ml) di cui il 60% circa dati dall’albumina (valori normali nel plasma: 3.5-5g/100mL, peso molecolare non elevato: 69000 Dalton). È soprattutto l’albumina che determina i valori della pressione osmotica del sangue. Quando la quantità di albumina raggiunge i 2-3g/100mL il plasma non ha più una pressione osmotica sufficiente a richiamare l’acqua e quindi comincia a manifestarsi edema generalizzato. La diminuzione di albumina può avvenire in seguito a: mancata produzione di albumina come conseguenza di una insufficienza epatica; stato di estrema denutrizione (Kwashiorkor); patologia renale (di varia eziologia) caratterizzata da glomerulonefrite: stato infiammatorio che danneggia l’integrità del glomerulo e lascia passare nella pre-urina proteine plasmatiche. 6 AUMENTO DELLA PRESSIONE IDROSTATICA Può essere causa di edema solo quando si manifesta nel versante venoso; in questo caso l’aumento di pressione si trasmette a ritroso (rete capillare) e l’equilibrio dello scambio viene compromesso causando ristagno di fluido nell’interstizio. L’aumento della pressione arteriosa non causa edema sistemico perché a livello delle arteriole ci sono sfinteri muscolari che regolano la pressione del sangue che entra nella rete capillare. Spesso è una conseguenza di problemi cardiaci: insufficienza cardiaca (es. dopo un infarto il cuore perde la sua forza contrattile quindi non si svuota completamente) o vizi valvolari. I vizi valvolari possono essere congeniti o acquisiti (per es. dovuti ad una infezione da Streptococcus pyogenes) e si dividono in stenosi (= rigidità valvolare, le valvole non si aprono completamente) e in insufficienze (le valvole non si chiudono del tutto). Tutte queste condizioni rendono meno efficiente il deflusso di sangue, facendone aumentare la pressione idrostatica. Se questi problemi si manifestano nel lato destro del cuore, la pressione del sangue aumenta in tutta la circolazione venosa periferica, favorendo il ristagno di fluido interstiziale. Contemporaneamente, dal ventricolo sinistro viene immessa nella circolazione arteriosa una ridotta quantità di sangue. La conseguente minore perfusione renale attiva il sistema renina- angiotensina-aldosterone che fa aumentare il riassorbimento di acqua dalla pre-urina. L’aumento della volemia aumenta ancora di più la pressione idrostatica nella circolazione venosa: si innesca così un circolo vizioso che inevitabilmente porta all’edema generalizzato. Se il problema cardiaco di manifesta nel lato sinistro del cuore, il sangue ristagna nella circolazione polmonare (vedi oltre, edema polmonare). 7 CASI PARTICOLARI DI EDEMA ASCITE nella FIBROSI EPATICA (CIRROSI) Gli epatociti sono cellule voluminose e cubiche che si organizzano a formare delle lamine. Assemblate insieme, queste lamine formano delle unità funzionali a forma esagonale dette lobuli epatici. Tra un lobulo e l’altro ci sono gli spazi portali, nei quali si trovano l’arteria epatica (sangue arterioso), la vena porta (sangue venoso), e il canalicolo biliare. A partire dalla periferia del lobulo, le lamine convergono verso il centro dove si trova la vena centrolobulare. Tra una lamina e l’altra si trovano i capillari del fegato detti sinusoidi, che contengono sangue per metà venoso, per metà arterioso. Essi trasportano sangue misto e sboccano nella vena centro lobulare. Il sangue qui è solo venoso. Lo stroma connettivale nel fegato normale è molto scarso; è visibile solo nello spazio portale. Nella cirrosi si osserva un marcato aumento di tessuto connettivo, che sostituisce zone di parenchima epatico gravemente danneggiate. Il fegato ha grande capacità rigenerativa, ma se gli stimoli lesivi sono molto ripetuti o gravi, lo stroma normale viene danneggiato e gli epatociti non riescono a rigenerare. In loro sostituzione si forma del tessuto connettivo (tessuto cicatriziale). Questo si può verificare per esempio nel caso di una epatite virale cronica. L’organo diventa fibrotico. Nei casi più gravi questa condizione prende il nome di cirrosi e molto frequentemente si accompagna ad edema. L’edema è molto evidente a livello addominale, e prende il nome di ascite. Le cause possono essere: - Ipertensione del sistema portale La struttura del parenchima è alterata, tutte le connessioni vascolari sono alterate a causa della deposizione di tessuto connettivo. Si possono generare anche “shunts” arterovenosi, il normale flusso del sangue è ostacolato. All’interno delle diramazioni della vena porta, s’innalza la pressione e molto fluido interstiziale viene riversato fino ad uscire sulla superficie dell’organo e a raccogliersi nella cavità addominale. - Ridotto drenaggio linfatico Il tessuto cicatriziale ostacola il normale drenaggio linfatico. - Ipoalbuminemia Poiché molti epatociti mancano (sostituiti da tessuto cicatriziale) diventa carente la produzione di albumina. - Ipocatabolismo dell’aldosterone Normalmente l’aldosterone viene catabolizzato dagli epatociti. In caso di insufficienza epatica questo determina una maggiore presenza di questo ormone in circolo e quindi ritenzione idrica. EDEMA POLMONARE È una condizione mortale (è l’edema stesso che causa la morte) che generalmente deriva da conseguenze di problemi cardiaci nel lato SINISTRO del cuore, come insufficienza del ventricolo sinistro o vizi della valvola bicuspide. Nel sistema venoso polmonare aumenta la pressione idrostatica e questo favorisce l’edema. Nel polmone ci sono condizioni particolari che proteggono l’organo dall’edema. Il polmone a differenza di altri organi è protetto da riversamento dei fluidi perché la pressione del sangue che arriva al polmone è molto più bassa rispetto a quella rilevabile in altri organi. La pressione del sangue nei polmoni è attorno ai 20 mmHg (più bassa rispetto ai normali 35). Questo accade perché il polmone riceve sangue dal cuore destro, che ha una parete muscolare più debole rispetto al sinistro. Anche la abbondante rete linfatica rappresenta un fattore di protezione, infatti grazie ai movimenti respiratori la rete linfatica funziona come una pompa aspirante e drena il fluido molto efficacemente. Per finire, sulla superficie degli alveoli (che sono a contatto 8 con l’aria) l’acqua va incontro ad evaporazione. Questa condizione è cruciale perché per consentire una efficiente ossigenazione del sangue è importante che l’interstizio polmonare (membrana respiratoria) si mantenga sottile e privo di accumuli di fluido; solo così l’ossigeno inspirato riesce a diffondere e a raggiungere il sangue (attraverso la diffusione le molecole non riescono a coprire grandi distanze; se si accumulasse del liquido, lo spazio interstiziale aumenterebbe di spessore e la diffusione diventerebbe più difficoltosa). Grazie a questi fattori di protezione anche in caso di insufficienza cardiaca sinistra nel polmone non si accumula facilmente fluido interstiziale. L’insufficienza cardiaca sinistra riduce però la quantità di sangue immessa nella circolazione arteriosa, provocando l’attivazione del sistema renina- angiotensina-aldosterone. Per questo motivo nei pazienti con insufficienza cardiaca sinistra si può manifestare un edema sistemico (da ritenzione). A volte (nei casi più gravi) l’elevata produzione di angiotensina causa una vasocostrizione periferica generalizzata che determina congestione della circolazione polmonare (il sangue viene spinto verso la circolazione polmonare dalla vasocostrizione periferica); in queste condizioni la capacità dei polmoni di ostacolare l’accumulo di fluidi viene saturata e la membrana respiratoria inizia ad inspessirsi. L’aumento della pressione idrostatica nell’interstizio fa fuoriuscire fluido negli alveoli: l’ossigenazione inizia ad essere compromessa. In carenza di ossigeno le cellule endoteliali del microcircolo (molto sensibili all’ipossia) sono danneggiate e la barriera endoteliale comincia a perdere integrità: iniziano a fuoriuscire dal circolo anche proteine, quindi l’edema diventa essudatizio. La fuoriuscita progressivamente diventa sempre più importante e non rimane isolata anche perché gli alveoli sono in comunicazione tra loro, quindi l’edema comincia a estendersi nel parenchima impedendo la respirazione (morte per asfissia). Il tempo di manifestazione dipende dalla gravità del problema che l’ha causato. In molti casi, l’esordio è lento e si riesce ad intervenire somministrando farmaci che aumentano la pressione osmotica del sangue richiamando liquidi in circolo. A volte l’edema polmonare nasce direttamente come edema essudatizio: polmoniti gravi (l’agente patogeno danneggia la microcircolazione circolare); inalazione di gas irritanti (che danneggiano l’endotelio dei capillari polmonari); ipossia (in elevata montagna oltre i 4-4500 m. l’edema polmonare è facilitato perché ad elevate altitudini la quantità di ossigeno diminuisce, e la scarsa ossigenazione può danneggiare l’endotelio polmonare (aumenta la permeabilità dell’endotelio). 9 REAZIONE INFIAMMATORIA e IMMUNITÀ INNATA Risposta che i nostri tessuti vascolarizzati mettono in atto in seguito a stimoli lesivi; è una reazione aspecifica e stereotipata, consiste in una risposta vascolare e nella migrazione e attivazione dei leucociti. Serve a reclutare nella sede danneggiata materiale difensivo: cellule e proteine che costituiscono l’essudato infiammatorio. Come esempio di stimolo lesivo consideriamo una ferita. Quando ci si procura una ferita cutanea da taglio, per esempio, l’organismo fronteggia l’emorragia tramite l’emostasi, ma deve anche fronteggiare il rischio di contaminazione batterica dovuto all’esposizione del tessuto verso l’ambiente esterno. Tutti i nostri mezzi di difesa non sono negli interstizi dei tessuti ma nel sangue, dove sono presenti leucociti e proteine antibatteriche (anticorpi e proteine del complemento, battericide). La risposta infiammatoria serve a far arrivare nel punto danneggiato questo materiale di difesa. Questo accade grazie a segnali chimici detti mediatori dell’infiammazione, prodotti dal tessuto danneggiato, che fanno vasodilatare la microcircolazione vicino all’area danneggiata (che appare rossa) facendo arrivare più sangue; contemporaneamente i vasi della microcircolazione attorno alla ferita divengono permeabili; ciò consente alle sostanze protettive di raggiungere i tessuti. Il materiale di difesa che si raccoglie nell’interstizio dei tessuti genera gonfiore (edema infiammatorio costituito da essudato). I mediatori vengono generati fino a quando lo stimolo lesivo non viene eliminato. In genere quando il danno è molto lieve e nella circolazione è presente un buon livello di anticorpi specifici contro i microbi che hanno contaminato il tessuto, la fuoriuscita di essudato è in grado di risolvere la contaminazione. Questo avviene solo in caso di stimoli lesivi lievi. Negli altri casi la risposta INF dura più a lungo; con il passare del tempo, però, le sue caratteristiche mutano e diventa più efficiente; la prima fase di formazione dell’essudato è definita infiammazione acuta; è seguita da una fase in cui i fenomeni vascolari diventano meno evidenti, ma sono reclutate nell’area danneggiata cellule difensive competenti e specializzate (inf. cronica). A questo stadio non si parla più di essudato, ma di infiltrato cellulare. Nell’infiammazione cronica inizia la risposta immunitaria, che può innescarsi solo grazie alla reazione infiammatoria (sono quindi due fenomeni collegati). La reazione infiammatoria è un sistema di difesa innato molto antico, viene anche chiamata immunità naturale o innata mentre la risposta immunitaria vera e propria è molto più evoluta, è detta anche immunità acquista o specifica e compare solo dai vertebrati in poi. La risposta infiammatoria si è evoluta con il significato di una risposta difensiva antibatterica (recluta nel punto danneggiato cellule e proteine antibatteriche), perché i batteri sono i patogeni più diffusi nell’ambiente. È talmente efficiente da innescarsi in tempi molto rapidi: si attiva prima che nei nostri tessuti diventino evidenti i segni di contaminazione batterica; questo è importante ai fini della efficienza della reazione difensiva perché i batteri si replicano molto velocemente. Ciò che effettivamente mette in moto la risp. inf. è la presenza di danno tessutale. La conseguenza di questo è che tutte le volte che i nostri sistemi di difesa percepiscono un danno tissutale (anche in assenza di contaminazione batterica) la risp. inf. si attiva, sempre con le stesse modalità: questo fa della reazione infiammatoria una risposta aspecifica e stereotipata. In molti casi il reclutamento di cellule attivate con potenzialità battericida (anche in assenza di batteri) finisce per causare ulteriore danno ai tessuti. Normalmente questo danno è di entità limitata perché la risposta INF è anche dotata di meccanismi di autoregolazione, che spengono la reazione (per es. quando lo stimolo lesivo viene eliminato). Se però gli stimoli lesivi si protraggono nel tempo o ci sono agenti patogeni difficili da eliminare, il danno può diventare rilevante. Lo stesso può succedere se la regolazione della risposta è difettosa (specialmente in individui geneticamente predisposti). I farmaci antinfiammatori servono proprio a limitare i danni collaterali della risposta, specialmente se questa si protrae nel tempo. 10 Perché l’INF si è evoluta mantenendo queste caratteristiche di potenziale lesività per i tessuti? L’innesco rapido (conseguente ai primi segnali di danno tissutale) rende la risposta difensiva molto efficiente; questa caratteristica ha sicuramente salvato la vita ai nostri progenitori che vivevano in condizioni igienicamente precarie. Solo chi era capace di fronteggiare in maniera vigorosa il rischio di gravi infezioni sopravviveva e riusciva a riprodursi. Adesso che il rischio di soccombere a gravi malattie infettive si è molto ridotto, ci troviamo per lo più ad affrontare le conseguenze negative a cui una risposta così pronta ed efficace ci espone. Gli effetti collaterali della risposta in genere cominciano a diventare rilevanti con il passare del tempo. In molte condizioni patologiche tipiche dell’età più avanzata è stato dimostrato il contributo di uno stato infiammatorio protratto nel tempo (esempio: arteriosclerosi, tumori, malattie neurodegenerative come l’Alzheimer). Leucociti LE CELLULE DELL’INFIAMMAZIONE I protagonisti della INF sono i leucociti del sangue. Possono essere classificati in base alla morfologia del loro nucleo in: leucociti polimorfonucleati (o granulociti) e leucociti mononucleati. I leucociti “polimorfi” hanno un nucleo con più lobi e molti granuli citoplasmatici; essi vengono distinti in base alla affinità dei granuli per i coloranti usati in istologia - Granulociti neutrofili (sono fagociti): I più presenti nel sangue da 4000 a 11000 cell. per mm3 (circa il 60-70% del totale). I granuli sono poco colorabili sia con coloranti basici che acidi. Tipici dell’infiammazione acuta, sono la prima linea di difesa contro i batteri perché sono specializzati nella fagocitosi, per questo vengono detti anche fagociti. Se il loro numero in circolo diminuisce aumenta il rischio di contrarre infezioni batteriche. Derivano dal midollo osseo e non sono in grado di riprodursi, hanno una emivita massima di 48 h. All’interno del citoplasma sono presenti 3 tipi di granuli: 1) Granuli primari (azzurrofili) che contengono enzimi simili a quelli lisosomiali e idrolasi; 2) Granuli secondari (o specifici) che contengono proteine antibatteriche come lisozima e lattoferrina (proteina che sottrae ferro dalla membrana plasmatica dei batteri); 3) Granuli terziari che contengono molecole di adesione ed enzimi. In condizioni normali si trovano solo nel sangue; la loro presenza fuori dal circolo segnala che è in corso una risposta infiammatoria. Intervengono nella fagocitosi dei batteri e producono mediatori dell’infiammazione. 11 - Granulociti Eosinofili: I granuli si colorano intensamente con il colorante detto eosina (colore fucsia o rosa intenso, che lega le proteine citoplasmatiche). L’eosina è un colorante acido, che va a legarsi a proteine basiche contenute nei granuli. Queste proteine basiche degli eosinofili (dette anche cationiche) hanno la funzione di difenderci dagli elminti (vermi); quando vengono rilasciate hanno la funzione di “perforine”, ledono cioè il rivestimento dei parassiti. Gli eosinofili sono anche importanti nelle allergie. Normalmente li troviamo in tracce nella circolazione, ma anche nei tessuti (tipicamente all’esterno della parete dell’intestino). Sono dotati di una emivita più lunga e non agiscono per fagocitosi, ma tramite esocitosi dei granuli. - Granulociti Basofili: hanno granuli con elevata affinità per coloranti basici come l’ematossilina (di colore blu, in grado di legare gli acidi nucleici). La sostanza acida in essi contenuta è un glicosamminoglicano noto come EPARINA. L’eparina dei basofili lega una seconda molecola, l’istamina. Questa è il componente attivo dei granuli, che funge da mediatore (già preformato) dell’infiammazione. Sono normalmente presenti solo in circolo, ma nei tessuti è presente una cellula simile ai basofili detta MASTOCITA. Questa cellula ha una origine midollare, ma non è un leucocita; i suoi granuli hanno lo stesso contenuto di quello dei basofili e anch’essi liberano istamina. CELLULE MONONUCLEATE - Monociti: Derivano dal midollo osseo rimangono nel sangue per qualche giorno, giungono i tessuti e si trasformano in macrofagi. Nel sangue hanno un aspetto tondeggiante e il nucleo reniforme. - Macrofagi: I macrofagi sono cellule specializzate nella fagocitosi e diventano prevalenti nella fase cronica dell’infiammazione. Garantiscono una difesa più efficiente rispetto ai neutrofili perché oltre alla fagocitosi e alla produzione di mediatori dell’infiammazione, sono specializzati in diverse funzioni. Possono intervenire nella regolazione della coagulazione del sangue, crescita cellulare, produzione di collagene; grazie ai macrofagi viene avviata la riparazione tissutale (formazione della cicatrice). Sono operativi anche nella “pulizia” dei detriti di tessuti danneggiati (“scavenging”); sono responsabili della induzione di effetti sistemici generalizzati come la febbre e, soprattutto, sono essenziali nella attivazione della risposta immunitaria. Per arrivare alla piena attivazione hanno bisogno di percepire diversi segnali: provenienti dai patogeni, dal tessuto danneggiato, dalle altre cellule infiammatorie. Nelle prime fasi (infiammazione acuta) ricevono questi segnali e producono mediatori dell’infiammazione, aiutando l’attivazione della risposta. Nel corso della risposta, l’insieme dei segnali che hanno percepito induce i macrofagi ad adattare le loro caratteristiche e ad intervenire indirizzando la reazione di difesa nella maniera più idonea a risolvere il problema. Per questo il loro contributo è prevalente nella fase tardiva dell’infiammazione. Il picco di attivazione viene raggiunto grazie all’intervento dei linfociti. Quindi i macrofagi attivano il sistema immunitario e sono a loro volta attivati dall’intervento dei linfociti. Hanno emivita lunga e capacità replicativa. NB.: il contributo della INF alle condizioni patologiche tipiche dell’età avanzata (arteriosclerosi, tumori, malattie neurodegenerative) è legato al protratto stato di attivazione dei macrofagi. 12 - Linfociti: Sono la seconda classe più numerosa dopo i neutrofili. Hanno il nucleo rotondo e poco citoplasma, oltre ad essere presenti nel sangue popolano organi e i tessuti linfoidi, nonché la linfa che circola nei vasi linfatici. Si distinguono linfociti T e linfociti B. Sono protagonisti della risposta immunitaria specifica e sono caratterizzati da un recettore di membrana deputato al riconoscimento dell’antigene (vedi Sistema Immunitario). - Cellule linfoidi della immunità innata. Questo gruppo di cellule è stato descritto in tempi recenti. Si originano dallo stesso progenitore dei linfociti, ma non hanno un recettore funzionale deputato al riconoscimento dell’antigene e condividono alcune proteine di superficie tipiche dei monociti/macrofagi. Sono prevalentemente cellule residenti nei tessuti e sono particolarmente abbondanti al di sotto delle mucose. Partecipano alla risposta di difesa rilasciando mediatori. Il sottogruppo più importante di questa famiglia di cellule sono i linfociti natural killer - Linfociti natural killer (NK). Mostrano una attivazione più precoce rispetto ai linfociti B e T. Hanno la capacità di riconoscere le cellule alterate grazie a caratteristiche di superficie. Costituiscono una linea di difesa molto importante proprio per la precocità con cui si attivano; sono in grado di riconoscere cellule trasformate (tumori) o cellule infettate da virus. Eliminano queste cellule con una modalità simile a quella dei linfociti citotossici: rilasciando granuli citoplasmatici contenenti proteine lesive. Grazie a questa loro capacità eliminano quindi i serbatoi di infezione, ma anche cellule non più funzionali. Contribuiscono all’attivazione della risposta infiammatoria producendo mediatori. Rappresentano circa il 15 % dei linfociti. Le diapositive proiettate a lezione riassumono i principi basilari del meccanismo d’azione dei linfociti NK. La funzione di queste cellule è controllata da: Recettori di attivazione Recettori di inibizione NB: osservare e studiare la figura a lato; maggiori chiarimenti verranno dati nelle lezioni successive (vedi pag. 67) 13 MEDIATORI DELL’INFIAMMAZIONE Un mediatore è una qualsiasi molecola generata nel focolaio dell’infiammazione in grado di innescare e mantenere attiva la risposta infiammatoria. Il primo segnale di innesco della reazione di difesa è il danno tissutale: ci sono molecole normalmente presenti all’interno delle nostre cellule che in seguito al danno cellulare vengono riversate all’esterno, dove vengono percepite dalle cellule della difesa come segnale di “pericolo” e quindi di attivazione. In questo paragrafo si parlerà non di queste molecole (costituenti normali delle cellule), ma di segnali chimici specificamente prodotti nel tessuto danneggiato, che funzionano da innesco per la risposta infiammatoria. Si distinguono mediatori di origine cellulare e mediatori di origine plasmatica; questi ultimi sono tutti peptidi che vengono scissi da proteine plasmatiche più grandi. Le proteine di origine sono prodotte dal fegato. I mediatori hanno in genere una emivita breve e quindi in caso di stati infiammatori prolungati la loro produzione è protratta nel tempo. Nelle nostre cellule ci sono solo 2 mediatori preformati: le amine vasoattive istamina (nei mastociti e nei basofili) e serotonina (nelle piastrine). Essendo già preformati, questi garantiscono la rapidità di innesco della reazione infiammatoria. Tutti i mediatori sono molecole molto potenti: per esempio il rilascio sistemico di istamina può causare la morte per shock anafilattico. La presenza di almeno un mediatore preformato è importante per garantire la rapidità della risposta, ma per ridurre il rischio di conseguenze pericolose è più utile che tutti gli altri non siano già disponibili in scorte. L’effetto fondamentale di tutti i mediatori della fase acuta della INF è aiutare la formazione di essudato. MEDIATORI PREFORMATI L’istamina è la prima ad essere rilasciata nel corso della fase acuta dell’infiammazione in quanto è già pronta e immagazzinata nei granuli dei mastociti e dei basofili. La presenza di questo mediatore è importante perché garantisce la rapidità d’innesco della risposta. La degranulazione avviene in risposta al danno cellulare, che generalmente fa aumentare la concentrazione di Ca2+ nel citoplasma. Questo effetto induce esocitosi dei granuli e l’istamina viene liberata. Questa molecola è molto diffusa in natura, p. es. si trova nei peli urticanti dell’ortica o di alcuni bruchi (processionaria). Nell’INF gli effetti di questo mediatore sono: vasodilatazione delle arteriole (arriva quindi più sangue alla zona lesionata), aumento della permeabilità delle venule (entrambi questi aspetti favoriscono la formazione di essudato), aumento della esposizione di selectina P sulla membrana delle cellule endoteliali (è una proteina che facilita il reclutamento dei neutrofili nella zona danneggiata). L’istamina però genera anche una contrazione della muscolatura liscia dei vasi più grandi e causa prurito. La vasodilatazione e la vasocostrizione della muscolatura liscia sono due fenomeni apparentemente opposti, ma sono innescati entrambi dall’istamina perché l’effetto di questa molecola dipende dal tipo di recettori cellulari ai quali si va a legare. Per tutti questi motivi viene considerata come il principale mediatore della fase di aumento immediato della permeabilità vascolare. Un altro mediatore già preformato (di origine cellulare) è la serotonina, contenuta nelle piastrine che si attivano nel processo di coagulazione del sangue. Rispetto all’istamina tende a causare più spesso la vasocostrizione; il rilascio di serotonina da parte delle piastrine è stimolato dall’aggregazione piastrinica. Gli altri mediatori vengono rapidamente sintetizzati dopo l’inizio della risposta. MEDIATORI DI ORIGINE PLASMATICA Si dividono in tre gruppi: quelli che derivano dai fattori della coagulazione, le chinine e quelli che derivano da proteine del complemento 14 Derivanti da fattori della coagulazione (Fibrinopeptide A e B) Si generano durante l’emostasi in cui sono impegnati, oltre alle piastrine, i fattori della coagulazione: proteine responsabili della cascata di reazioni che ha come esito finale quello di trasformare il fibrinogeno in un polimero solido (fibrina) che impedisce l’ulteriore fuoriuscita del sangue. Quando c’è la lesione di un vaso sanguigno, viene esposto ciò che è al di sotto delle cellule endoteliali, ovvero la membrana basale che contiene collagene. Il primo fattore che si attiva a contatto con la lamina basale è detto fattore di Hageman o fattore XII. Questo è una proteina ricca di cariche positive e quindi si lega alla membrana basale contenente collagene carico negativamente. A contatto con il collagene cambia conformazione, si attiva e dà inizio ad una reazione a catena. In successione vengono attivati gli altri fattori della coagulazione fino alla trombina (fattore II), un enzima proteolitico che va ad agire sul fibrinogeno (peso 340000 Dalton). Questa proteina plasmatica è formata da due subunità speculari costituite da 3 catene dette alfa beta e gamma. La solubilità del fibrinogeno è dovuta ai residui N-terminali delle catene alfa e beta, contenenti aminoacidi idrofili. La trombina rimuove queste estremità, ovvero il fibrinopeptide A e B (FPA-FPB) (che fungono da mediatori dell’infiammazione), rendendo così la molecola insolubile. Una volta reso insolubile, il fibrinogeno inizia a sedimentare e a formare un reticolo, che verrà poi stabilizzato da legami covalenti. A questo scopo interviene il fattore XIII che con la sua attività enzimatica di trans-glutaminasi forma dei legami covalenti tra il gruppo COOH dell’acido glutammico e il gruppo NH 2 della lisina, stabilizzando il reticolo di fibrina (che interrompe la perdita di sangue). Il FPA e il FPB fungono da mediatori chemiotattici richiamando leucociti neutrofili e aumentano la permeabilità delle venule. Probabilmente piccole quantità del fattore di Hageman possono attivarsi anche in assenza di una lesione vascolare grazie al rilascio di istamina, che permeabilizza le venule causando retrazione delle cellule endoteliali; di conseguenza piccole zone di membrana basale possono essere esposte e far attivare il fattore XII. L’emostasi è un processo strettamente regolato: in concomitanza con la generazione di fibrina si innescano sempre dei meccanismi di controllo che portano alla degradazione della fibrina stessa (fibrinolisi) per evitare una sua polimerizzazione eccessiva. L’enzima più importante che degrada la fibrina è la plasmina, che genera prodotti di degradazione che possono funzionare da mediatori dell’infiammazione. Questi hanno lo stesso effetto del FPA e del FPB. Questi mediatori intervengono prevalentemente in caso di lesioni ai vasi, proprio perché legati all’emostasi. Chinine Il più importante è un mediatore detto bradichinina (9 aminoacidi), deriva da una proteina plasmatica più grande detta chininogeno. Questo viene trasformato in bradichinina dopo un taglio proteolitico effettuato dalla callicreina che normalmente è presente nel plasma sotto forma di precallicreina (la precallicreina è attivata dal fattore di Hageman). La bradichinina aumenta la permeabilità delle venule, la dilatazione delle arteriole (causa quindi la formazione di essudato) ed è fortemente algogena, cioè genera un dolore bruciante e intenso, ma di breve durata (stimola direttamente le terminazioni del dolore). Il chininogeno nel plasma circola sempre associato alla precallicreina o al fattore XI della coagulazione; inoltre tende a legarsi al collagene esposto in caso di danni all’endotelio perché è carico positivamente. In questo modo entra in contatto con il fattore di Hageman (fattore XII) che può attivare la precallicreina in callicreina, oppure il fattore XI, che prosegue nella cascata dell’emostasi. Per questo motivo grandi quantità di bradichinina si formano tutte le volte che c’è un danno vascolare (es. una ferita da taglio: il dolore bruciante è dovuto alla bradichinina). 15 Derivanti dalle proteine del complemento Il complemento è un insieme di proteine plasmatiche (da C1 a C9) che si attivano in presenza di infezione batterica innescando una serie di reazioni a cascata che portano alla eliminazione dei batteri. Si possono attivare o direttamente sulla superficie dei batteri o grazie al sistema immunitario; l’eliminazione dei batteri avviene attraverso la perforazione del rivestimento batterico (vedi paragrafo sulla immunità umorale). In genere nella reazione a catena ogni proteina del C attivata viene scissa in 2 frammenti, denominati “a” e “b”. Il frammento b è il più grande e continua la reazione di attivazione a catena; quello a è il più piccolo e viene disperso (es: C3a C3b). Alcuni questi frammenti “a” sono mediatori dell’infiammazione, più precisamente il C3a C4a e C5a; sono anche detti anafilotossine e hanno l’effetto di aumentare la liberazione di istamina dai mastociti. C5a è anche un forte chemiotattico, cioè richiama i granulociti neutrofili e attiva la fosfolipasi A2 (vedi oltre). Il C3b ha la caratteristica di andarsi ad attaccare sulla superficie dei batteri (formando un legame covalente) favorendone la fagocitosi perché i fagociti (neutrofili e macrofagi) hanno recettori per il C3b (i segnali di riconoscimento che facilitano la fagocitosi perché legati alla membrana del patogeno vengono detti opsonine; C3b è quindi un’opsonina). È possibile che questi fattori si generino anche se nel focolaio infiammatorio non sono presenti batteri perché con il danno cellulare possono essere rilasciati enzimi proteolitici; inoltre lo stesso fattore di Hageman è una proteasi in grado di attivare il complemento; generalmente quando questo fattore si attiva, va ad attivare a sua volta tutti i mediatori di origine plasmatica. MEDIATORI DI ORIGINE CELLULARE I mediatori cellulari non solo innescano la risposta infiammatoria ma intervengono anche nella sua regolazione; possono essere a breve raggio di azione o mediatori con effetti sistemici (es: citochine). I mediatori a breve raggio si generano a partire dai fosfolipidi di membrana delle cellule danneggiate, dove l’aumento di concentrazione del calcio citoplasmatico o mediatori come il C5a attivano la fosfolipasi A2 (enzima localizzato sotto la membrana) che stacca l’acido grasso che si trova esterificato in posizione 2 del glicerolo. A partire da questo acido grasso si ottengono i mediatori. Nei nostri fosfolipidi in posizione 2 c’è generalmente l’acido arachidonico, un acido grasso polinsaturo (contiene diversi doppi legami) con 20 atomi di carbonio che appartiene al gruppo degli Omega 6 (il primo dei doppi legami è nel carbonio numero 6 a partire dalla coda). L’acido arachidonico viene successivamente trasformato da due enzimi: la lipossigenasi e la ciclossigenasi; si ottengono così tipi diversi di mediatori detti eicosanoidi (perché provengono da un acido grasso a 20C). Alcune di queste molecole non sono solo mediatori dell’infiammazione, ma intervengono nella regolazione di molti fenomeni fisiologici; funzionano come ormoni ad azione locale e per questa loro proprietà sono definiti autacoidi. Altri derivati dell’acido arachidonico sono gli endocannabinoidi, es. l’etanolamide dell’acido arachidonico (anandamide). Gli endocannabinoidi sono molecole endogene che si legano agli stessi recettori dei principi attivi della cannabis e regolano l’eccitabilità neuronale (l’anandamide per es. genera senso di tranquillità e beatitudine). 16 CICLOSSIGENASI Dalla ciclossigenasi (COX) si ottengono prostaglandine (PG) e trombossani (TX). Ci sono 2 forme di ciclossigenasi: COX1 (enzima costitutivo, sempre espresso, porta alla produzione di prostaglandine attive fisiologicamente) e COX2 (enzima inducibile, responsabile della formazione dei mediatori dell’infiammazione). Le PG fisiologiche regolano diverse funzioni: filtrazione renale, produzione di muco sulla mucosa gastrica, diverse fasi della fisiologia della riproduzione (impianto dell’embrione, contrazione dell’utero, parto). Le COX nel corso della loro attività catalitica producono radicali dell’ossigeno che ne causano la successiva inibizione (si “disattivano”). Prostaglandine Derivano dalla trasformazione dell’acido arachidonico operata dalla COX. Questi mediatori possono essere prodotti da tutte le nostre cellule, perché tutte hanno la ciclossigenasi, ma a seconda della cellula la prostaglandina prodotta può essere diversa. Le prostaglandine, chiamate così perché scoperte per la prima volta nel liquido seminale, sono indicate dalla sigla PG + una terza lettera che indica la struttura della molecola e un numero che fa riferimento al numero di doppi legami della molecola. Una delle più importanti (come mediatore dell’INF) è la PGE2, prodotta dai macrofagi attivati, insieme alla PGD2, prodotta dai mastociti. Esse facilitano la formazione di essudato perché sono vasodilatatrici. In generale le PG sono responsabili del dolore della risposta infiammatoria, meno acuto rispetto a quello evocato dalla bradichinina, ma di maggiore durata; abbassano la soglia di sensibilità delle terminazioni nervose. La PGI2 (prodotta dalle cellule endoteliali) è nota anche come prostaciclina, (perché presenta un anello in più nella struttura) contribuisce a mantenere dilatati i vasi sanguigni, e inibisce l’aggregazione piastrinica. Le PG aumentano la vasodilatazione e poiché i vasi sono già stati resi più permeabili grazie all’istamina (e altri mediatori), la formazione di essudato è facilitata. Le PG possono mediare localmente anche gli effetti sistemici della INF, per esempio la PGE2 causa anche febbre (vedi oltre). Trombossani Le piastrine grazie prevalentemente alla COX1 producono i trombossani; sono indicati da TX + terza lettera più un numero. Il più importante è il TXA2, questo favorisce l’aggregazione delle piastrine, la vasocostrizione e la formazione del tappo emostatico. LIPOSSIGENASI Dalla lipossigenasi (LO) si ottengono leucotrieni (LT + lettera + numero) e lipossine (LX + ecc.). la lipossigenasi è presente solo in pochi elementi cellulari e sono state descritte tre forme. - 5 lipossigenasi caratteristica dei leucociti neutrofili. - 12 lipossigenasi tipica delle piastrine. - 15 lipossigenasi è indotta dall’azione della prostaglandina E2 sui neutrofili nelle fasi più avanzate dell’infiammazione. Leucotrieni Sono prodotti solo dai leucociti; sono definiti “trieni” perché contengono 3 doppi legami coniugati (cioè alternati). Grazie alla 5-LO l’acido arachidonico viene trasformato in (leucotriene) LTA4; questa è la molecola di partenza da cui si ottengono i leucotrieni mediatori dell’infiammazione. A partire da LTA4 per aggiunta di 1 molecola di acqua si ottiene il LTB4 potentissimo segnale chemiotattico (cioè di richiamo) per i leucociti neutrofili. Aggiungendo invece glutatione (tripeptide costituito da gamma-glutammil-cisteinil-glicina) si ottiene il 17 leucotriene C4 che può essere trasformato in D4 sottraendo l’acido glutammico e in E4 sottraendo al D4 la glicina. LTA4 + gamma-glutammico-cisteina-glicina → LTC4 LTC4 – acido glutammico → LTD4 LTD4 – glicina → LTE4 Tutti questi vengono chiamati cisteinil-leucotrieni per via del legame con la cisteina, e sono molto importanti nell’infiammazione che caratterizza alcune reazioni allergiche perché responsabili della bronco-costrizione (broncospasmo). Lipossine Sono mediatori di spegnimento della risposta infiammatoria, funzionano nella fase più avanzata della risposta andando ad inibire l’ulteriore reclutamento (chemiotassi) e l’attivazione dei leucociti neutrofili; hanno quindi una funzione regolatrice. Derivano dalla 12- LO (tipica delle piastrine), che a partire da LTA4 porta alla formazione di LXA4 e LXB4; per la generazione di queste LX è necessario quindi l’intervento dei neutrofili per la sintesi del LTA4 e delle piastrine. La 15-LO (indotta nei neutrofili nelle fasi più tardive della INF per azione della PGE2) genera direttamente LXA4. La 15-LO può essere indotta anche nelle cellule della mucosa infiammata. Man mano che gli stimoli lesivi sono eliminati, la risposta infiammatoria cambia e cominciano a prevalere i segnali di spegnimento che possono essere prodotti dalle stesse cellule che hanno favorito l’innesco dell’infiammazione; la risposta infiammatoria tende quindi ad autoregolarsi. FARMACI ANTINFIAMMATORI I farmaci antinfiammatori di uso più comune (FANS, farmaci antinfiammatori non steroidei) inibiscono le COX e hanno come bersaglio proprio alcuni dei mediatori su elencati. L’aspirina (acido acetil-salicilico), per esempio, inibisce la sintesi delle prostaglandine perché inibisce le ciclossigenasi mediante acetilazione. La COX1 però produce anche prostaglandine che hanno funzioni fisiologiche. Questo spiega gli effetti collaterali dell’aspirina (e degli altri FANS) che a seguito di un uso protratto possono favorire la comparsa di ulcere gastro-duodenali. A basse dosi l’aspirina viene usata anche per la prevenzione di fenomeni trombotici (cardio-aspirina). Dalla COX1 si ottengono sia la prostaciclina (con effetto anticoagulante perché vasodilatatrice) sia TXA2 (con effetto pro coagulante). Agendo sulla COX1 l’aspirina blocca quindi la formazione di due mediatori ad azione opposta. Il mediatore piastrinico viene però inibito in maniera permanente, perché le piastrine non hanno nucleo e non possono riprodurre nuovo enzima COX; al contrario, le cellule endoteliali riescono a superare il blocco generando nuovo enzima. Quindi l’effetto prevalente è quello di contrasto alla coagulazione e alla trombosi. È stato osservato che acetilando l’enzima COX2 l’aspirina ne cambia l’attività inducendo la generazione di un nuovo tipo di mediatore, definito ATL (aspirin triggered lipoxin), che è una lipossina, quindi un mediatore di spegnimento. Il paracetamolo è un inibitore di COX particolare; riduce alcuni effetti sistemici della INF (dolore, febbre), ma non “spegne” la risposta, probabilmente perché viene inibito dalle condizioni del microambiente del focolaio infiammatorio (radicali dell’O2, vedi oltre). Nei casi più gravi per spegnere l’infiammazione si usano farmaci steroidei (cortisone e simili, che hanno molti effetti collaterali). Sono potentissimi antinfiammatori perché agiscono a monte, impedendo l’attivazione della fosfolipasi A2. Vanno quindi ad inibire la produzione di tutti i mediatori eicosanoidi. Esiste un’altra via per controllare l’eccesso di mediatori infiammatori, ovvero consumare abitualmente alimenti contenenti acidi grassi Ω3 (acidi grassi polinsaturi in cui il primo doppio legame è nella posizione 3 a partire dalla fine). Questi sono acidi grassi essenziali, non vengono cioè sintetizzati dall’organismo. I più importanti sono l’EPA acido eicosipentaenoico, (20 atomi di carbonio con 5 doppi legami) e il DHA, acido docosaexaenoico con 22 C e 6 doppi legami. Si 18 trovano specialmente nel pesce azzurro. Quando l’alimentazione ha un adeguato livello di Ω3 essi vanno ad inserirsi nei grassi di membrana al posto dell’acido arachidonico. Quando si attivano le risposte infiammatorie può essere sfruttato anche l’acido grasso Ω3 al posto dell’arachidonico da parte delle COX. Da questi acidi grassi si ottengono mediatori meno potenti, con una struttura un po’ diversa (PGE3, LTB5); inoltre possono agire a livello nucleare impedendo la sintesi di citochine infiammatorie. Dagli Ω3 vengono prodotti anche dei mediatori di spegnimento detti resolvine e protectine, che bloccano l’attivazione dei neutrofili. MEDIATORI CELLULARI CON EFFETTI SISTEMICI Sono le citochine; vengono sintetizzate nel corso della risposta infiammatoria e sono importanti soprattutto nelle fasi tardive dell’infiammazione e nella risposta immunitaria. La differenza fondamentale rispetto ai mediatori elencati finora (che hanno un effetto localizzato) è che le citochine diffondono attraverso la circolazione e possono quindi avere effetti sistemici. Sono mediatori molto complessi perché spesso l’effetto complessivo che viene osservato nelle diverse situazioni non dipende dalla singola citochina, ma dall’insieme delle citochine prodotte. Esempi di citochine sono: le interleuchine (IL), gli interferoni (IFN; tipo I-III), le chemochine (chiamate così perché sono specializzate nella funzione chemiotattica, cioè richiamano altre cellule), le citochine della famiglia del Tumor Necrosis Factor (es.: TNF-). Le citochine sono prodotte da diversi tipi cellulari ed hanno la funzione di mediare diversi processi fisiologici: ematopoiesi, risposte immuni, difese dell’ospite contro infezioni da virus e da parassiti, risposte infiammatorie e febbre, funzioni delle cellule citotossiche e dei fagociti, riparazione delle ferite, rimodellamento dei tessuti, metabolismo cellulare, proliferazione e differenziazione cellulare. È stato osservato che il “signaling” aberrante o eccessivo di alcune citochine contribuisce significativamente alla patogenesi di diverse malattie. Per esempio, l’aumento di IL-1 e IL-6 può contribuire alla gravità ci alcune condizioni infiammatorie croniche su base autoimmunitaria come il diabete di tipo1, l’artrite reumatoide, il lupus, la psoriasi. Citochine macrofagiche Per semplicità saranno ora citati gli effetti delle principali citochine prodotte dai macrofagi nel corso della riposta infiammatoria: IL-1, IL-6, TNF- (fattore di necrosi tumorale, il nome deriva unicamente dalla circostanza che ha portato alla sua scoperta). Esse hanno effetto sull’endotelio (facilitano il reclutamento di neutrofili e monociti); aumentano la permeabilità del microcircolo; attivano i leucociti; inducono la proliferazione di fibroblasti e la sintesi di collagene, cioè nella fase tardiva contribuiscono a riparare il tessuto danneggiato. Oltre a questi effetti locali, diffondendo in circolo hanno anche la possibilità di generare effetti sistemici (per esempio causano la febbre). L’IL-1 prodotta dal focolaio infiammatorio, diffondendo con la circolazione raggiunge l’ipotalamo e qui stimola la produzione di prostaglandina E2; PGE2 è il segnale locale responsabile della alterazione del centro termoregolatore, che genera lo stato febbrile (l’aspirina ci fa passare la febbre perché inibisce la produzione di PGE2 da parte delle cellule dell’ipotalamo). Tutti i sintomi che sperimentiamo in caso di reazioni INF importanti (malessere generalizzato, debolezza, inappetenza, decadimento fisico ecc.) sono causati da queste citochine: allo scopo di difenderci mobilizzano tutte le nostre energie e le concentrano verso la reazione di difesa. Altra citochina macrofagica con effetti simili a IL-1 è IL-6. Altri mediatori dell’infiammazione Quando viene staccato l’acido arachidonico per intervento della fosfolipasi A2, ciò che resta del fosfolipide di membrana è il PAF (fattore che attiva le piastrine), un mediatore da 100 a 10000 19 volte più forte dell’istamina. Essendo poco solubile quando viene rilasciato si lega all’albumina; causa vasodilatazione, aumento della permeabilità delle venule e anche reclutamento dei leucociti. Se iniettato è causa di una forte aggregazione piastrinica, da qui il nome. Probabilmente è importante nelle reazioni allergiche. Un altro mediatore, ma di spegnimento, è il NO, ossido di azoto o ossido nitrico. È un gas prodotto a partire dall’ arginina per mezzo dell’enzima ossido nitrico sintetasi. Questo enzima è presente in tre forme, una endoteliale, una del tessuto nervoso e una prodotta dai macrofagi. Le prime due forme sono costitutive, la terza è inducibile. L’enzima ossido nitrico sintetasi dell’endotelio (eNOS) è importante per la fisiologia dell’endotelio perché NO è un vasodilatatore. Nelle cellule nervose NO viene usato come neurotrasmettitore. Nei macrofagi l’enzima è inducibile ed è attivato dalla risposta infiammatoria. L’OSSIDO NITRICO viene usato dai macrofagi anche perché i suoi derivati hanno potere battericida e funziona da mediatore di spegnimento perché riduce il reclutamento dei leucociti. Ruolo dei mediatori nelle diverse reazioni infiammatorie Vasodilatazione prostaglandine, NO, istamina aumento della permeabilità amine vasoattive, C3a e C5a, bradichinina, leucotrieni C4, vascolare D4, E4, PAF chemiotassi, reclutamento e C5a leucotriene B4 chemochine, IL1, TNF-, prodotti attivazione di leucociti batterici Febbre IL1, TNF-, prostaglandine Dolore prostaglandine, bradichinina danno tissutale neutrofili e macrofagi, enzimi lisosomiali, metaboliti dell’ossigeno, NO 20 CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE DELL’INFIAMMAZIONE Le caratteristiche della reazione infiammatoria sono così evidenti da essere state descritte con efficacia fin dai primi testi di medicina, in epoca romana e anche egiziana. Sono definite segni cardinali dell’INF e sono: RUBOR, CALOR, TUMOR, DOLOR. Questi primi quattro furono descritti da Cornelio Celso (enciclopedista/medico romano del I secolo DC). Molto tempo dopo, Virchow (1821-1902) ne ha aggiunto un altro: FUNCTIO LAESA, per sottolineare la capacità della reaz. INF di causare danno tissutale. Rubor La prima cosa che si nota osservando una reazione INF è il rossore a livello del tessuto danneggiato; questo è causato da un maggior contenuto di sangue rispetto ai tessuti circostanti (i tessuti infiammati sono iperemici). L’iperemia (rossore) si può generare con diverse modalità, e in particolare può essere suddivisa in attiva o passiva. L’iperemia attiva è un fenomeno locale dovuto alla vasodilatazione arteriolare provocata dai mediatori pro- infiammatori, come l’istamina, le prostaglandine, le chinine, i fattori del complemento; è definita così perché grazie ai mediatori nei tessuti arriva effettivamente più sangue. Quando per effetto dei mediatori su elencati si dilatano le arteriole, tutto il sangue invade la rete capillare, che si riempie completamente (normalmente non è così). Essendo localizzata, la vasodilatazione fa affluire una grande quantità di sangue in una determinata porzione di tessuto; questo aumenta la pressione idrostatica locale favorendo la formazione dell’essudato. Se andiamo ad osservare invece le venule di un tessuto infiammato notiamo il lume completamente occupato da globuli rossi tutti impilati (perché si ha un aumento della permeabilizzazione delle venule che fa fuoriuscire la componente liquida del sangue); questi globuli rossi fittamente impilati che riempiono il lume delle venule ostacolano il deflusso del sangue. Questa caratteristica osservabile a livello delle venule viene definita come iperemia passiva, perché il maggior contenuto di sangue nel tessuto è dovuto ad una difficoltà di deflusso del sangue. Calor Si osserva solo nelle reazioni che interessano il distretto cutaneo. Il maggior contenuto di sangue a livello cutaneo fa aumentare il calore della cute; l’aumento di temperatura conseguente all’iperemia viene percepito sulla cute perché la cute è più fredda del sangue. Tutti gli organi interni hanno la stessa temperatura del sangue, quindi l’iperemia non ne aumenta il calore. Dolor Il dolore dipende dalle prostaglandine (che abbassano la soglia di sensibilità delle terminazioni del dolore) e dalla bradichinina (stimola direttamente le terminazioni del dolore e causa dolore bruciante e intenso ma di breve durata). L’istamina non ha un effetto dolorifico vero e proprio, ma causa piuttosto prurito, irritazione. Il dolore nella risposta infiammatoria ci aiuta ad individuare un’area danneggiata e quindi a proteggerla. Il dolore non è sempre presente nelle infiammazioni; un’infiammazione al fegato o al polmone non causa percezione di dolore, fino a quando la reaz. INF arriva ad interessare i foglietti di rivestimento degli organi (dove ci sono le terminazioni nervose del dolore). Tumor (gonfiore) L’ultimo segno caratteristico è il gonfiore, che è dovuto all’essudato accumulato nell’interstizio. Nel corso dell’infiammazione l’aumento di permeabilità del microcircolo (che fa fuoriuscire l’essudato) si può generare con meccanismi diversi: 1) Danno diretto ai vasi del microcircolo (endotelio) dovuto agli stimoli lesivi (ci può essere una vera e propria lesione del vaso o anche semplicemente l’effetto di una sostanza tossica o di un 21 patogeno sulle cellule endoteliali). La permeabilità persiste finché le cellule endoteliali non vengono rigenerate. In alcuni casi ci può essere uno stimolo lesivo che causa un danno non immediatamente evidente (perché più blando). Es.: scottatura solare, che genera una risposta INF in genere dopo qualche ora (in questo caso si parla di permeabilità da danno ritardato). 2) Effetto di mediatori, in primo luogo l’istamina, che agiscono in modo immediato e brevemente (max 30min). Questi mediatori hanno effetto sulla permeabilità delle venule; causano la contrazione dei microfilamenti di actina nelle cellule endoteliali delle venule provocando il distacco delle cellule stesse. 3) Se un focolaio persiste per più di 24h, i mediatori coinvolti cambiano, in genere in queste fasi entrano in gioco le citochine, soprattutto la IL-1 (e il TNF-); esse non agiscono sulle venule ma sui capillari. È stato osservato che per effetto di IL-1 e TNF- le cellule endoteliali riorganizzano il loro citoscheletro diventando da piatte a rotondeggianti; la maggiore permeabilità è dovuta al distacco delle cellule. Il fenomeno si manifesta più tardivamente perché i macrofagi hanno un tempo di attivazione più lungo. 4) Alla fine della reazione infiammatoria (vedi oltre) viene riformato nuovo tessuto e nuovi vasi. I vasellini neoformati hanno una parete ancora incompleta e più permeabile; per questo il gonfiore può persistere anche in questa fase. 22 IL RECLUTAMENTO DEI LEUCOCITI NEL FOCOLAIO INFIAMMATORIO L’essudato contiene proteine difensive (che fuoriescono immediatamente quando il microcircolo si permeabilizza), ma anche cellule. La loro fuoriuscita dal circolo non è immediata e il loro intervento richiede qualche ora per essere evidente. Per intervenire, i leucociti devono innanzitutto percepire segnali di richiamo chemiotattici (chemiotassi), fermarsi nella microcircolazione della zona infiammata, fuoriuscire dal circolo, diffondere nell’interstizio fino al focolaio infiammatorio e individuare il loro obiettivo (i batteri da fagocitare). Le prime cellule ad intervenire sono i leucociti neutrofili: protagonisti della fase acuta dell’infiammazione con specifica funzione battericida. Secondariamente vengono reclutati i monociti/macrofagi, che si attivano più tardi. Per quanto riguarda la fagocitosi dei batteri, i due tipi di cellule sono all’incirca equivalenti, quello che cambia è la tempistica dell’intervento e anche il livello di specializzazione. I macrofagi sono cellule molto più abili nell’individuazione dei segnali di danno o della presenza di patogeni, ma sono molto lenti nel raggiungere lo stato di attivazione; nelle prime fasi contribuiscono prevalentemente producendo mediatori che aiutano l’innesco della reazione di difesa. Il segnale più importante che attiva le cellule di difesa è la percezione del danno tissutale; contemporaneamente esse possono essere attivate anche dalla presenza di segnali generati dalla presenza di patogeni. Complessivamente i segnali derivati dal danno tissutale sono indicati con la sigla DAMPs (Damage-associated molecular pattern); sono spesso dei costituenti normali presenti all’interno delle cellule che, rilasciati in ambiente extracellulare, indicano chiaramente la presenza di un danno. Es.: i cataboliti dell’ATP; alcune proteine intracellulari come HMGB1 (high mobility group B1, un fattore di trascrizione, cioè una proteina nucleare); ma anche prodotti di degradazione della matrice extracellulare. Per quanto riguarda le proteine (soprattutto HMGB1, una delle più studiate) è stato ipotizzato che il loro riconoscimento come segnale di danno sia legato allo stato redox dei gruppi SH. Dentro le cellule c’è un ambiente prevalentemente riducente, i gruppi SH delle proteine sono liberi (è importante per l’attività degli enzimi). All’esterno della cellula le proteine appena rilasciate (con i gruppi SH liberi) funzionano da segnale di danno; rapidamente in ambiente extracellulare i gruppi SH si ossidano, la conformazione della proteina cambia e questa non viene più percepita come DAMP. Questo fenomeno avrebbe il significato di autolimitare la risposta infiammatoria. I segnali derivanti dai patogeni sono definiti PAMPs (Pathogen-associated molecular patterns). Sono molecole caratteristiche di agenti patogeni (batteri, virus o altri parassiti) che sono estranee ai nostri tessuti e vengono quindi percepite come segnale di pericolo. Ad esempio il lipopolisaccaride della parete batterica (nei GRAM-), l’RNA a doppia elica presente in alcuni virus, l'acido lipoteicoico, flagellina, etc. sono esempi di PAMPs. Sia DAMPs che PAMPs si legano a recettori presenti sui fagociti, detti PRR (pattern recognition receptors) Questi recettori si trovano su neutrofili, linfociti NK, macrofagi. I macrofagi sono particolarmente specializzati in questa funzione di riconoscimento (vedi oltre, INF cronica). Quando i neutrofili percepiscono i DAMPs o i PAMPs si attivano subito, mentre i NK e i macrofagi, al riconoscimento dei segnali, producono citochine e altri mediatori che contribuiscono al richiamo di altre cellule (es: neutrofili); per intervenire direttamente i macrofagi necessitano di ulteriori segnali. GUARDARE BENE E STUDIARE LA FIGURA SEGUENTE 23 La figura mostra 3 tipi di famiglie di recettori di membrana coinvolti nel riconoscimento dei PAMPs (PRRs). NB: Questi recettori caratterizzano TUTTE le cellule della reazione di difesa; la maggiore varietà è espressa dai macrofagi e dalle loro forme specializzate. I recettori PRR hanno diverse caratteristiche funzionali: per esempio i recettori della famiglia dei Toll-Like Receptors (TLR) sono tipicamente recettori di attivazione (pro-infiammatori); questi recettori sono dotati di un dominio citoplasmatico che induce la produzione di citochine. Ci sono diversi tipi di TLR, specializzati nel riconoscimento di diverse strutture: TLR-2 riconosce il peptidoglicano, TLR-3 riconosce l’RNA a doppia elica (tipica struttura virale), TLR- 4 riconosce il lipopolisaccaride, TLR-5 la flagellina (vedi figura proiettata a lezione). Un’altra famiglia di recettori è costituita da proteine di membrana la cui catena (alfa-elica) attraversa la membrana sette volte. Questi recettori sono specializzati nel riconoscimento delle chemochine, di mediatori lipidici e di peptidi che iniziano con formil-metionina. Questi peptidi sono un forte segnale di richiamo per i neutrofili perché tutte le proteine batteriche hanno sempre la N-formil-metionina come primo aminoacido. Terza famiglia di recettori (tipica dei macrofagi) è quella specializzata nel riconoscimento di zuccheri come il mannosio (recettori lectinici); questo zucchero è presente nel rivestimento batterico e non si trova mai nelle porzioni esterne delle nostre glicoproteine. NB: La figura in alto mostra anche la diversità funzionale di queste famiglie recettoriali. Sono stati identificati anche recettori intracellulari, definiti NOD-Like Receptors (NLR). Si trovano nel citoplasma di macrofagi, cellule dendritiche (vedi INF cronica) e anche in alcune cellule epiteliali. Sono coinvolti nel riconoscimento di PAMPs penetrati nelle cellule mediante fagocitosi o pori di membrana oppure di DAMPs, generati dal danno cellulare. Sono coinvolti dell’attivazione di un complesso enzimatico chiamato inflammasoma, responsabile della secrezione di citochine. NB: I primi segnali attivano prontamente i leucociti neutrofili (prima linea di difesa); pur essendo più “abili” nella percezione dei DAMP/PAMP, i macrofagi non si attivano subito, ma nelle prime fasi producono mediatori che aiutano l’attivazione della reazione di difesa e il 24 richiamo di altri leucociti. Al richiamo dei neutrofili contribuiscono anche i mediatori discussi precedentemente (es.: LTB4, C5a). POTREMMO CHIEDERCI: COME È POSSIBILE CHE I LEUCOCITI CIRCOLANTI RIESCANO A PERCEPIRE I SEGNALI DI ATTIVAZIONE? I leucociti sono in circolo; i segnali si generano nell’interstizio dei tessuti. Nella microcircolazione le condizioni di flusso facilitano la percezione dei segnali. Il flusso nei vasi di grosso calibro è laminare: la velocità di scorrimento si riduce man mano che ci sia avvicina alle pareti (per effetto dell’attrito); i leucociti si trovano al centro e viaggiano ad alta velocità. Nella microcircolazione il calibro ridotto dei vasi non consente il moto laminare e i leucociti vengono facilmente spinti contro le pareti a contatto con l’endotelio. Se si sta generando un focolaio infiammatorio, il fenomeno è amplificato anche dalla fuoriuscita di essudato che porta alla formazione di grossi agglomerati di eritrociti che spingono i neutrofili contro le pareti (vedi iperemia passiva). I neutrofili a contatto con l’endotelio sono definiti leucociti marginati. Fisiologicamente nella microcircolazione i leucociti neutrofili sono sempre marginati; a contatto con l’endotelio iniziano a stabilire interazioni deboli con la membrana delle cellule endoteliali. Queste interazioni si generano tra la selectina P sulle cellule endoteliali e le glicoproteine di membrana dei leucociti. Grazie a queste interazioni i leucociti iniziano a rotolare sull’endotelio (rolling). Se nell’interstizio si sta generando un focolaio INF, viene liberata istamina, che fa aumentare l’espressione di selectina P sulle cellule dell’endotelio. (La selectina P e anche il fattore di Von Willebrand sono contenuti nei corpi di Weibel-Palade, organelli citoplasmatici presenti nelle cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni e il cuore.) L’aumento di selectina P fa rallentare il rotolamento dei neutrofili sull’endotelio. Questa fase di rallentamento delle cellule è importante perché consente ai DAMPs (che dall’interstizio iniziano a diffondere raggiungendo i vasellini del microcircolo) di venire a contatto con i neutrofili ed essere riconosciuti dal recettore PRR di membrana (VEDI pag. 23-24). Immediatamente i neutrofili si attivano, arrestandosi in corrispondenza del focolaio infiammatorio. ATTIVAZIONE LEUCOCITI NEUTROFILI (vedi diapositive proiettate a lezione) Appena un segnale DAMP o PAMP viene legato dal recettore di membrana, il recettore (PRR) attiva attraverso proteine-ponte (proteine di collegamento) un enzima chiamato fosfolipasi C che si trova sotto la membrana plasmatica. La fosfolipasi C idrolizza il fosfatidilinositolo difosfato (fosfolipide di membrana) dando origine a un residuo di inositolo trifosfato (IP3) e a diacilglicerolo (DAG). Questi sono entrambi dei segnali che vanno ad innescare all’interno della cellula delle reazioni di attivazione. Il DAG attiva delle proteina-chinasi responsabili della degranulazione (esocitosi del contenuto dei granuli) nei leucociti neutrofili. L’IP3 aumenta la concentrazione di calcio nel citoplasma; in questo modo si attiva la fosfolipasi A2 e vengono generati i mediatori che derivano dall’acido arachidonico, che richiamano altri leucociti (es. LTB4). L’aumento del calcio intracellulare inoltre agisce sul citoscheletro del leucocita conferendo alla cellula la capacità di compiere movimenti ameboidi. Altro importante effetto dell’aumento del calcio è quello di far cambiare lo stato delle integrine di superficie (proteine di membrana, che vengono attivate). Quest’ultimo fenomeno induce il leucocita ad aderire stabilmente sulla cellula endoteliale nel punto in cui ha ricevuto il segnale di attivazione. 25 Le integrine sono costituite da due catene, una alfa e una beta. Ci sono diversi tipi di catene alfa e beta. Il leucocita neutrofilo ha subunità beta di tipo beta2 (nota anche come CD18); la catena alfa può variare (CD11a, CD11b, CD11c). Ci sono quindi 3 tipi diversi di integrine sui leucociti: CD11a/CD18, CD11b/CD18, CD11c/CD18 che però si legano tutte alla proteina endoteliale ICAM1. In una reazione INF ci possono essere diverse ondate di richiamo dei neutrofili; una seconda ondata può verificarsi per es. ad opera della selectina E, indotta dall’IL-1 e TNF-. IL-1 e TNF- possono anche far aumentare l’espressione di una proteina delle cellule endoteliali (VCAM- 1) che lega l’integrina con catena beta1 tipica dei monociti/macrofagi. Ci sono alcune malattie genetiche che rivelano l’importanza della funzione delle integrine; la più comune è la LAD (deficit di adesione leucocitaria) di tipo 1, caratterizzata dalla carenza di catena beta2 (CD18) delle integrine. Durante la reazione infiammatoria, i leucociti non riescono a raggiungere il focolaio, perché non si fermano sull’endotelio: in genere gli esiti delle infezioni sono molto più gravi (fino alla necrosi dei tessuti); per esempio a livello orale le infezioni non controllate causano perdita del tessuto osseo a sostegno del dente e, di conseguenza, la perdita del dente stesso. La proteina CD18 funziona anche da recettore per il C3b (recettore di opsonizzazione, vedi oltre), quindi nella LAD di tipo 1 è compromessa anche la fagocitosi dei batteri. Nella LAD di tipo 2 invece viene a mancare il ligando (glicoproteina di superficie dei leucociti neutrofili) per la selectina P (normalmente presente sulle cellule endoteliali). I LEUCOCITI RAGGIUNGONO IL FOCOLAIO INFIAMMATORIO Appena i leucociti percepiscono il segnale di attivazione, oltre a fermarsi in corrispondenza del focolaio INF diventano capaci di compiere movimenti ameboidi. Grazie a questi movimenti i neutrofili si insinuano tra le cellule endoteliali (tramite pseudopodi) e superano l’endotelio (diapedesi). Sempre come conseguenza della attivazione, cominciano a rilasciare in esterno il contenuto dei loro granuli (ricchi di idrolasi), prima di incontrare il batterio da fagocitare. Questo li aiuta a superare la membrana basale e a diffondere nell’interstizio. L’attivazione dei neutrofili risulta quindi in un evento lesivo per i nostri tessuti. In molti casi i neutrofili sono richiamati in assenza di batteri da fagocitare (richiamati dal danno tissutale); viene quindi meno la loro funzione utile (fagocitosi) e il danno al tessuto può essere rilevante (effetto lesivo della risposta infiammatoria). Per individuare l’agente patogeno da fagocitare, i neutrofili sono facilitati se sulla superficie dei batteri sono legati dei segnali di riconoscimento; questo processo, definito opsonizzazione, avviene grazie molecole (opsonine) che aderiscono al rivestimento batterico. Le più importanti sono gli anticorpi IgG1 e IgG3, riconosciuti sia dai neutrofili che dai macrofagi grazie ad un recettore che lega il frammento Fc (è una parte della molecola di anticorpo). Un’altra opsonina è un frammento del complemento chiamato C3b che si lega covalentemente alla superficie del batterio consentendone l’eliminazione immediata sia da parte dei neutrofili che dei macrofagi (grazie ad un recettore presente su queste cellule). I batteri possono essere fagocitati anche se non sono opsonizzati, in questa funzione però sono più efficienti i macrofagi, perché hanno dei recettori di membrana che riconoscono strutture batteriche (es. lo zucchero mannosio); ci possono essere ceppi batterici che sono rivestiti da una capsula che ostacola la fagocitosi (es: pneumococco: può essere capsulato, in questo caso diventa più resistente alla fagocitosi). 26 UCCISIONE DEI BATTERI Una volta che il leucocita neutrofilo ha riconosciuto il suo bersaglio, vi aderisce con la membrana e lo ingloba in una vescicola; se i batteri sono appoggiati su un substrato (non liberi nell’essudato), il leucocita riesce a fagocitarli più facilmente strisciando con movimenti ameboidi sulla superficie del substrato (fagocitosi di superficie). (Un esempio particolare di fagocitosi - non riferibile a batteri - è la fagocitosi frustrata: a volte il bersaglio da eliminare può essere troppo grande per essere inglobato; in questo caso i leucociti si appoggiano sulla sua superficie e rilasciano i granuli in essi contenuti. Esempio: uccisione degli elminti da parte degli eosinofili). Il batterio fagocitato viene incluso in una vescicola che prende il nome di fagosoma; dalla fusione del fagosoma con i granuli citoplasmatici del neutrofilo si origina il fagolisosoma. In realtà la liberazione delle proteine lesive contenute all’interno dei granuli comincia anche prima che la vescicola del fagosoma sia stata completamente sigillata, e quindi una parte del loro contenuto lesivo viene rilasciata nel tessuto circostante, danneggiando l’interstizio. Il batterio viene ucciso attraverso due meccanismi: - ossigeno indipendente: consiste nella liberazione di proteine lesive sulla superficie del batterio. I leucociti neutrofili hanno già pronti granuli che contengono proteine battericide (lattoferrina, lisozima, defensine) ed enzimi idrolitici (elastasi, collagenasi, idrolasi non specifiche) che danneggiano il rivestimento batterico e quindi portano alla sua uccisione. - ossigeno dipendente: i fagociti possono usare la molecola di ossigeno e i suoi derivati a scopo battericida. Questo meccanismo si innesca quando i leucociti sono attivati. La molecola di O2 accettando elettroni può essere ridotta a H2O (per ridurre una molecola d’ossigeno in due di H2O sono necessari 4 elettroni). Gli elettroni possono essere acquisiti anche singolarmente ma la riduzione parziale di O2 genera molecole che sono poco stabili e quindi molto reattive; in alcuni passaggi si formano anche radicali (molecole o frammenti di molecole con 1 elettrone spaiato). Riassunto delle reazioni: O2+e-→ O2-· (radicale superossido) →+e- + 2H+→ H2O2 (perossido di idrogeno) →+e- +H+→ H2O + OH· (radicale idrossile) il quale con il quarto (ultimo) elettrone → +e-+H+ → H2O La prima riduzione genera l’anione superossido e avviene grazie all’enzima NADPH ossidasi, presente anche nei leucociti non attivi. Il complesso enzimatico nei leucociti non attivi è diviso in una subunità citoplasmatica e una sulla membrana dei granuli. Quando i leucociti si attivano, le due subunità si uniscono l’enzima cede un e- ad una molecola di ossigeno, che si trasforma nell’anione superossido (dentro la vescicola): O2 + NADPH → O2-· + NADP + H+ (O2-· è sia radicale che anione) Il radicale superossido può danneggiare il rivestimento batterico, ma essendo molto instabile si trasforma rapidamente; può reagire con un atomo metallico e ritornare alla forma di O2 oppure può essere trasformato dall’enzima superossido dismutasi che fa reagire fra di loro due O2-· trasferendo l’elettrone di uno sull’altro; così si ottengono O2 e H2O2: 2 O2- + 2 H+ → H2O2 + O2 (superossido dismutasi) La trasformazione può proseguire con la reazione di Haber – Weiss tra H2O2 (perossido di 27 idrogeno) con O2-·: O2-· + H2O2 → OH- + OH + O2. Questa reazione avviene nel lume del fagolisosoma (ma può avvenire anche prima che questo si chiuda) ed è catalizzata da atomi metallici, i quali strappano l’elettrone al radicale superossido e lo cedono a H2O2. Di tutte queste specie molecolari il radicale idrossile è quella che contribuisce maggiormente alla distruzione batterica perché è reattivo, ma più stabile e quindi ha più possibilità di arrivare immutato sulla membrana batterica. Grazie ad un enzima detto mieloperossidasi (contenuto sempre nei granuli dei neutrofili), a partire dall’H2O2 in presenza di Cl- viene ottenuto l’acido ipocloroso che sotto forma di sale viene chiamato ipoclorito (OCl-), fortemente reattivo e capace di danneggiare anche le particelle virali. È un disinfettante comunemente usato; agisce per clorinazione delle macromolecole di rivestimento dei patogeni, alterandone la struttura (lega il cloro). I macrofagi hanno un’arma in più: producono l’ossido nitrico (NO) che si può combinare con l’anione superossido O2-· formando l’OONO (perossinitrito). NO è anche un mediatore di spegnimento nella risposta infiammatoria. 28 CLASSIFICAZIONE DELL’INFIAMMAZIONE ACUTA SULLA BASE DELLA COMPOSIZIONE DELL’ESSUDATO Abbiamo preso in esame le due componenti dell’essudato: proteine difensive e cellule. L’essudato però non è sempre uguale; a seconda della sua composizione, la reazione INF può essere classificata in: Eritematosa: si ha una scarsissima formazione di essudato, è visibile solo l’iperemia. Deriva da un danno molto leggero con scarsa generazione di mediatori. Sierosa: l’essudato è prevalentemente liquido con poche cellule (leucociti neutrofili) e composizione simile al siero (il siero è la parte fluida del plasma che rimane dopo la coagulazione del sangue, cioè quando il fibrinogeno è diventato fibrina). L’essudato sieroso quindi non contiene la fibrina. Rispetto alle cellule prevalgono le proteine difensive: anticorpi, proteine del complemento. Un esempio di essudato sieroso è una vescica sottocutanea causata da una leggera scottatura. Catarrale: definita anche mucosa, è una infiammazione che si instaura sulla superficie di una mucosa (es.: raffreddore). La mucosa diventa iperemica e sia l’iperemia, sia i mediatori possono aumentare l’attività delle ghiandole che producono il muco, che si riversa sulla superficie insieme all’essudato. L’essudato catarrale contiene anticorpi specializzati, riversati sulla superficie delle mucose: sono anticorpi appartenenti al gruppo delle IgA. Fibrinosa: situazione più seria caratterizzata dalla presenza di fibrina nell’essudato. La componente cellulare è meno predominante, compare soprattutto fibrinogeno, polimerizzato in fibrina. Tutte le volte che il fibrinogeno fuoriesce nell’essudato diventa fibrina. La polimerizzazione in fibrina si verifica perché nei focolai INF sono generalmente presenti enzimi liberi, rilasciati dalle cellule della INF o dalle cellule danneggiate. La fuoriuscita del fibrinogeno dipende dal grado di permeabilizzazione delle venule: è una molecola grande e quindi riesce a fuoriuscire solo in caso di danni gravi. Nella infiammazione sierosa il fibrinogeno non fuoriesce perché il danno all’origine di questa reazione infiammatoria generalmente è lieve e la permeabilizzazione delle venule è limitata. In genere l’essudato fibrinoso viene osservato nello spazio interno alle sierose (es pleura, pericardio). La fibrina è materiale compatto; alla fine della INF deve essere degradata dai macrofagi. Spesso i macrofagi “organizzano” la fibrina trasformandola in tessuto connettivo cicatriziale (vedi oltre). Purulenta: l’essudato purulento (detto comunemente pus) è quello che contiene il maggior numero di cellule, leucociti neutrofili. Questo tipo di infiammazione è indice di una forte contaminazione batterica. Ci sono ceppi batterici che generano forti segnali di richiamo per i neutrofili; sono detti cocchi piogeni (= generatori di pus). Quando vengono richiamati in gran numero, i neutrofili fagocitano i batteri e subito dopo muoiono (hanno una vita breve, max 48h); morendo rilasciano il loro contenuto enzimatico (proprio per questo il pus è un essudato fortemente lesivo per i tessuti). L’essudato purulento causa la necrosi colliquativa dei tessuti, cioè questi vengono letteralmente degradati. I neutrofili morenti sono detti piociti o cellule del pus. L’essudato purulento con il passare del tempo può evolvere in una lesione tipica dell’infiammazione cronica detta ascesso. NB: i neutrofili sono la cellula tipica della INF acuta, li troviamo sempre nell’essudato, ma solo quando sono la componente prevalente e osserviamo necrosi colliquativa del tessuto l’essudato viene chiamato pus. Emorragica: all’origine c’è stata una ferita o comunque la lesione di vasi con fuoriuscita di sangue; in questo caso finiscono nell’essudato anche globuli rossi. Nel caso di una ferita, 29 l’essudato fuoriesce dalla superficie cutanea e, esposto all’aria, si disidrata, formando l’escara (la “crosta” della ferita). Una volta che la reazione INF si spegne l’essudato viene allontanato grazie ai vasi linfatici. I vasi linfatici sono molto efficienti in questo perché hanno delle fibre che li ancorano alle macromolecole dell’interstizio; quando questo si dilata a seguito della fuoriuscita dell’essudato (edema infiammatorio), queste fibre vengono stirate e ciò permette un maggior drenaggio perché il lume del vaso diventa più pervio (più ampio). Nei casi più gravi può succedere che nel vaso linfatico finiscano anche batteri o mediatori dell’infiammazione; la reazione INF si trasferisce con il flusso della linfa ai linfonodi. Questi si ingrossano e diventano dolenti. Questa condizione prende il nome di linfadenite; se interessa i vasi linfatici si parla di linfangite. COME EVOLVE LA RISPOSTA DI DIFESA? Quando c’è un danno tissutale di lieve entità e/o con scarsa contaminazione batterica/virale e quando abbiamo già a disposizione molti anticorpi specifici per quei patogeni, la risposta si innesca, si forma l’essudato, gli anticorpi neutralizzano i patogeni e rapidamente tutto si risolve, anche con un limitato intervento delle cellule di difesa. In queste condizioni la formazione dell’essudato è sufficiente a risolvere il problema. NB: il danno deve essere MOLTO limitato (es. deve riguardare solo cellule epiteliali e non lo stroma del tessuto) e il nostro sistema immunitario deve essersi già attivato in maniera MOLTO efficiente. In questo caso i DAMPs liberati sono rapidamente eliminati (dal defluire dell’essudato) o modificati (es: HGB1 viene ossidata, vedi sopra) e non più percepiti come segnale di attivazione. La risposta si spegne. Se il danno è importante e/o sono arrivati batteri/virus che il nostro sistema immunitario non aveva mai incontrato, l’essudato non riesce a risolvere il problema. Sono rilasciati molti più DAMPs e quindi si attivano molte più cellule; l’infezione non viene subito arginata e diventano sempre più numerosi i segnali PAMPs. La persistenza dei segnali di attivazione (DAMPs e PAMPs) e il maggiore coinvolgimento cellulare fa procedere la risposta verso la fase cronica (quando finalmente si attiveranno i macrofagi). 30 INFIAMMAZIONE CRONICA La formazione dell’essudato riesce ad eliminare completamente lo stimolo lesivo solo in pochi casi (danni molto lievi, sistema immunitario già efficientemente attivato). Quando l’essudato non è in grado di eliminare l’agente lesivo, la risposta INF persiste, ma nel giro già di 24h le sue caratteristiche iniziano a modificarsi e sono reclutati mezzi di difesa più efficaci. I fenomeni della fase acuta (iperemia, fenomeni vascolari) pian piano si riducono e comincia a prevalere il richiamo di cellule (infiltrato cellulare): vengono attivate cellule di difesa più efficienti (macrofagi e i linfociti) e inizia la risposta immunitaria. Inoltre iniziano a manifestarsi i fenomeni di riparazione dei tessuti. L’inizio della infiammazione cronica ha sia una valenza positiva che negativa; positiva perché i mezzi di difesa reclutati sono più efficienti; negativa perché in questa fase il danno generato ai tessuti, non solo dall’agente lesivo (difficile da eliminare) ma anche dalla risposta stessa, può diventare rilevante. Non sempre l’INF cronica è una diretta conseguenza dell’acuta; in alcuni casi possono essere osservate contemporaneamente caratteristiche della INF acuta e cronica, oppure, a volte, la reazione può esordire direttamente manifestando le caratteristiche della INF cronica (dipende dalle caratteristiche dello stimolo lesivo). Per esempio nella tubercolosi spesso non è evidente una fase caratterizzata da fenomeni vascolari e formazione di essudato, ma comunemente la reazione di difesa si manifesta con le caratteristiche tipiche di una INF cronica (perché il batterio non è molto lesivo per i tessuti e non produce significativo danno tissutale; la persistenza dei PAMPs riconosciuti dai macrofagi porta al diretto coinvolgimento di queste cellule). I macrofagi sono molto più efficienti rispetto ai leucociti neutrofili perché hanno diverse capacità: sono più specializzati nel riconoscimento dei PAMPs; hanno più armi battericide a disposizione (es. perossido nitrico); quando l’agente eziologico viene eliminato, danno il via anche alla rimozione dei detriti tissutali e alla riparazione dei tessuti. La loro piena specializzazione però è lenta e si ottiene solo grazie alla attivazione del sistema immunitario. In questa fase della reazione di difesa, l’infiammazione (cioè la cosiddetta immunità innata) comincia ad integrarsi strettamente con l’immunità specifica. Centrale in questa integrazione è il ruolo delle CELLULE DENDRITICHE (CD), vere e proprie “sentinelle” della reazione di difesa. Le CD sono una popolazione eterogenea di cellule di origine midollare, simili ai macrofagi. Alcune derivano dai monociti del sangue, altre hanno un precursore midollare diverso. Sono localizzate in quasi tutti i tessuti e sono numerose soprattutto sotto la cute e sotto le mucose; queste sedi sono di fatto le principali porte di accesso dei patogeni nei nostri tessuti. La denominazione di queste cellule fa riferimento alla loro forma molto ramificata, che le aiuta nel compito di “intercettare” i patogeni. Nel tessuto in cui sono localizzate estendono infatti le propaggini del loro citoplasma tra le giunzioni delle cellule epiteliali, per venire più facilmente a contatto con eventuali componenti estranei. Analizzano il microambiente del tessuto attraverso micropinocitosi o fagocitosi, per catturare patogeni o componenti del tessuto danneggiato (es: proteine con conformazione alterata). Tutto ciò che queste cellule riescono a catturare viene presentato al sistema immunitario. In un focolaio infiammatorio sono esposte a segnali molecolari derivati dai patogeni e dal danno tissutale (che riconoscono attraverso i PRRs), alle citochine e agli altri mediatori prodotti dalle cellule protagoniste della fase precoce dell’infiammazione. 31 Di volta in volta, i diversi componenti microbici e citochine infiammatorie sono riconosciuti da recettori diversi sulla membrana della CD; questo determina in queste cellule un diverso tipo di sollecitazione e conferisce loro una specializzazione diversa. NB: L’attivazione delle CD è quindi un processo flessibile, che ha come risultato la generazione di CD “effettrici” (attivate) che possono dare il via a diversi profili di specializzazione del sistema immunitario e, in alcuni casi, anche alla sua inattivazione (tolleranza immunitaria). La funzione delle CD che si attivano all’inizio della INF cronica è quella di attivare il sistema immunitario secondo la direzione più giusta per affrontare il problema che si è manifestato nel tessuto. Il sistema immunitario attivato avrà