Le Comunicazioni di Massa (PDF)
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This document provides an introduction to mass communication studies, focusing on the effects of mass media on society. It analyzes different theoretical paradigms, including the critical paradigm, limited effects paradigm, and long-term effects paradigm. The document explores the relationship between mass media and society, and how media impact social and cultural constructions
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Introduzione Partiamo dalla constatazione di alcuni limiti delle discipline massmediologiche in Italia, cercando di trovare dei rimedi nella collaborazione di più autori ed anche di più approcci disciplinari. Gli studi sulla comunicazione di massa in Italia risentono moltissimo dell'influenza degli...
Introduzione Partiamo dalla constatazione di alcuni limiti delle discipline massmediologiche in Italia, cercando di trovare dei rimedi nella collaborazione di più autori ed anche di più approcci disciplinari. Gli studi sulla comunicazione di massa in Italia risentono moltissimo dell'influenza degli approcci nord-americani e britannici, da una parte, e di quelli francesi, dall'altra. I primi sono stati, e sono ancora, determinanti per quanto riguarda l'impatto dei media sulla società e più in generale della costruzione simbolica della società: lo studio sugli effetti rappresenta la parte sicuramente maggioritaria di questi approcci. L'influenza francese è importante invece per quanto riguarda gli studi sul contenuto e in generale sui testi, in modo particolare nella variante semiologica e linguistica. Se l'analisi dell'impatto della comunicazione di massa sulla società è un'area percorsa prevalentemente dai sociologi, e, in misura minore, dagli psicologi, l'analisi orientata ai testi resta terreno privilegiato di semiologi e linguisti; questi studiosi di diversa appartenenza disciplinare, in linea di massima, hanno però poche occasioni di incontro. Una delle domande fondamentali che hanno dato vita alla riflessione teorica, alla ricerca empirica e al dibattito sulle comunicazioni di massa è relativa al loro impatto sulla società. Un modo semplice per ricostruire tale complessa tematica degli effetti prodotti dai mass media può essere quello di individuare alcuni schemi teorico-interpretativi, ossia alcuni paradigmi, relativi alla concezione del rapporto media-società. Tali schemi appaiono disposti, sebbene con corpose sovrapposizioni, lungo un percorso evolutivo divisibile in fasi successive; e, seppure ricorrendo ad una notevole semplificazione, sembra possibile individuare dei paradigmi che risultano predominanti nei vari momenti di tale evoluzione. Qui proviamo a estrapolare dai diversi contributi quattro paradigmi e due grandi fasi. I paradigmi sono quello critico, quello degli effetti limitati, quello degli effetti a lungo termine e quello tecnologico. Le due fasi temporali trovano il loro confine negli anni ‘70, un decennio che sembra porsi come spartiacque. Occorre partire dal momento in cui le scienze sociali si pongono di fronte all'avvento dei mass media nelle forme della propaganda politica, della pubblicità commerciale e, soprattutto, dell'industria culturale, cioè della produzione e distribuzione su vasta scala delle merci destinate allo svago e all'uso del tempo libero. Di tale prima fase troviamo una discussione nel contributo iniziale del volume, in cui una delle questioni fondamentali è quella del rapporto tra un nuovo tipo di società, prodotto dei processi di industrializzazione e urbanizzazione, la cosiddetta società di massa, da una parte, e l'avvento dei mass media, dall'altra. Questi due aspetti finiscono per essere rappresentati da molti studiosi come interdipendenti, l'uno come la sostanza dell'altro; su tale base si afferma un paradigma, definito "paradigma critico" poiché comune a tutte le teorie critiche della società e della cultura "di massa", che resiste a lungo, almeno fino agli anni ‘70. I media, all'interno di tale schema, rappresentano uno strumento che permette la legittimazione culturale del potere. Regimi totalitari e regimi democratici sono accomunati dallo squilibrio del potere "dei pochi sui molti", che si regge sulle comunicazioni e la cultura di massa. Questa stessa prospettiva sul rapporto potere-media-società costituisce l'origine della prima forma di approccio empirico all'influenza dei media, quello dell'analisi dei messaggi propagandistici: con tale studio, Lasswell, a partire dal secondo decennio del ‘900, fonda la tecnica e i principi dell'analisi del contenuto, con la finalità di indagare il rapporto tra propaganda e costruzione di quei "miti politici" su cui si fonda e si giustifica il potere. Tuttavia, la ricerca empirica non costituisce il fulcro del paradigma critico e lo stesso concetto di "effetti" ancora non è in uso; possiamo dire che non si parla sempre e necessariamente di conseguenze prodotte dai contenuti delle comunicazioni di massa, ma più spesso e più significativamente di quelle indotte dalla presenza stessa delle comunicazioni di massa, cioè effetti - per così dire - sistemici. Fra tali approcci, sebbene basati su concetti diversi quali cultura di massa, industria culturale, eterodirezione e manipolazione, vi sono alcuni tratti comuni, sintetizzabili nei seguenti elementi: Nella società vi è un'elevata concentrazione del potere, cui corrisponde un intreccio o una simbiosi tra potere politico, economico e culturale - comunicativo ; I media sono o diventano strumenti del potere e della sua riproduzione, tramite la creazione del consenso verso il sistema sociale, senza che si ricorra ad alcuna forma di coercizione, poiché sono funzionali all'affermazione dell'ideologia dello status quo e della conformità; Pagina 1 di 81 I media hanno una penetrazione psicologica occulta, e queste teorie verranno successivamente chiamate "ipodermiche" proprio per indicare metaforicamente l'idea dell'insinuarsi delle nuove forme culturali al di sotto del livello consapevole degli individui; Le subculture presenti nella società prima dell'avvento dei mass media (religiosa, etnica, locale, di classe) si disintegrano e dissolvono, non potendo costituire una risorsa cognitiva per l'individuo e per i gruppi sociali, che perciò sono concepiti come destinatari molto permeabili ai messaggi mediali. Quest'ultimo è un punto fondamentale: il paradigma critico, infatti, non si reggerebbe se le forme di aggregazione, di socializzazione e di "produzione culturale" tipiche del vivere in comunità non fossero considerate - come è proprio del concetto stesso di massa - emarginate, erose, o del tutto scomparse: come a dire che la cultura, o meglio le culture (o subculture) della società perdono totalmente e inesorabilmente autonomia, per dissolversi nell'indistinta uniformità di una cultura di massa forgiata dai media. Questa concezione del rapporto tra cultura della società e comunicazioni di massa viene messa in discussione, a cominciare dalla fine degli anni ‘40, da un paradigma sostanzialmente antagonista, quello degli "effetti limitati". Si tratta di una lettura che accomuna sociologi e psicologi. La critica esplicita alle teorie ipodermiche si appunta più che altro sul "modello comunicativo", cioè sul tipo di schema della comunicazione che vi è incorporato, anche se poi le conseguenze di tale critica sono molto più ampie. Vengono considerati inadeguati alcuni aspetti cruciali e tra loro collegati di quel "modello": la passività del pubblico nel momento in cui riceve i messaggi e l'assenza di fattori "intermediari" nel rapporto tra emittente e destinatario, assenza che implica la cosiddetta "linearità" del processo comunicativo. Tali fattori sono concepiti, su entrambi i versanti di studio, all'insegna di una concezione della ricezione come attività di rielaborazione dei messaggi da parte dei riceventi, sia sul piano del processo mentale sia sul piano dell'interazione sociale. Per studiare i cosiddetti fattori intermediari vengono messi in atto programmi di ricerca di lunga durata, con indagini che ripetono uno stesso set di ipotesi di lavoro e lo perfezionano nel tempo. La centralità della dimensione empirica nella riflessione delle scienze sociali sulle comunicazioni di massa è, in fondo, la seconda grande novità di tale paradigma: il problema dell'impatto dei messaggi della comunicazione di massa sui riceventi assume lo statuto di oggetto di indagine empirica e gli effetti divengono dichiaratamente un oggetto specifico degli studi sul rapporto media/società. Nel complesso, questi studi propongono la tesi di effetti depotenziati, o meglio di effetti che interagiscono con altre condizioni o dinamiche sia sociali che psicologiche riguardanti i destinatari, e da queste vengono "limitati". Allargando la prospettiva, si può dire che le tesi su cui si basa tale paradigma ristabiliscono un equilibrio tra comunicazione di massa, da una parte, e, dall'altra, cultura degli individui e delle collettività, che vengono concepite come dotate di un certo grado di autonomia (seppure costruite, a loro volta, con il contributo dei mass media). A rafforzare l'impostazione tipica del paradigma degli effetti limitati arrivano, negli anni ‘60, i Cultural Studies inglesi, che contribuiscono in maniera determinante a mettere in luce il carattere polisemico del messaggio e l'importanza dei diversi contesti sociali e cognitivi all'interno dei quali si sviluppano le varie letture, spesso antagoniste, dei messaggi della comunicazione di massa. Oltre alle innovazioni relative ai fattori intermediari e alla centralità dell'indagine empirica, il paradigma degli effetti limitati propone un ulteriore cambiamento di prospettiva: i media, in quanto imprese in un sistema di mercato tendenzialmente concorrenziale, non sono più strumenti del potere dominante ma istituzioni sociali preposte alla circolazione delle informazioni e delle idee. E ciò già di per sé implica la fuoriuscita dalle visioni della persuasione occulta e della manipolazione. Questo stesso cambiamento del ruolo delle comunicazioni di massa nella società si colloca all'origine anche dell'ulteriore passaggio ad un terzo paradigma, che apre una nuova fase degli studi sugli effetti e sembra anche rappresentare una rottura rispetto al passato, più di quanto i passaggi precedenti non lo siano già stati; paradigma che costituisce quindi l'inizio della vicenda contemporanea della complessiva riflessione teorica sul rapporto media-società. Parliamo del paradigma degli "effetti a lungo termine" o "effetti cognitivi". La nuova prospettiva nasce proprio da una critica a quella degli effetti limitati. La tesi degli innovatori prende le mosse dall'idea (trascurata in precedenza, secondo questi approcci) per cui l'influenza che i media esercitano sul pubblico è l'effetto dell'estesa presenza delle comunicazioni di massa nella società contemporanea, dell'uso quotidiano che le persone ne fanno per acquisire informazioni, per distrarsi, per imparare ecc. Tale cambiamento di rotta è anche la conseguenza dell'avvento dell'uso di massa del mezzo televisivo. Pagina 2 di 81 Una prima tesi è che lo schema di ricerca su cui si è strutturato il paradigma degli effetti limitati (situazione di campagna e forme di fruizione studiate nel breve periodo) oscura altri e ben più importanti tipi di influenza dei media. Deve essere quindi studiato quell'impatto che deriva da un'esposizione continuativa e ordinaria e può consistere in effetti di tipo cumulativo. La proposta è di considerare non più soltanto modificazioni degli atteggiamenti nel breve periodo, ma modificazioni delle conoscenze nel lungo periodo. Tale concezione alternativa poggia sulla mediazione-costruzione da parte dei mezzi di comunicazione di una realtà sociale complessa e tendenzialmente globale: l'idea chiave, in tal senso, è quella della creazione di una realtà "di seconda mano", cioè non esperita direttamente. Questa nuova prospettiva, detta appunto della costruzione sociale della realtà, in sé non implica l'esclusione della capacità delle persone di "negoziare" il significato dei messaggi mediali, ossia di ricevere attivamente e creativamente. Ma la nuova prospettiva vuole affermare - questo è il punto cruciale - che la distanza tra le persone e il mondo circostante è tale da creare una generalizzata dipendenza dai media, e che in questa condizione la cultura di appartenenza (ammesso che se ne consideri la sopravvivenza) è tutt'al più vulnerabile, se non ininfluente. Gli effetti a lungo termine, specialmente nella versione propria della coltivazione televisiva e dell'agenda setting, riportano in auge una concezione di effetti, non solo cognitivi o cumulativi, ma soprattutto forti, nel senso di escludere i famosi fattori intermediari e con essi Pattività - selettività del pubblico. Con gli effetti cognitivi si assiste al rilancio di un modello comunicativo lineare, basato su un revival modernizzato delle idee tipiche della società di massa. Va precisato che questa seconda fase non è una fase in cui l'eredità degli effetti limitati si perda completamente, poiché anzi le sue idee centrali, essenzialmente quelle relative all'attività dei riceventi, come singoli e come gruppi, vengono ulteriormente sviluppate, seppure all'interno di quadri concettuali diversi: è il caso della teoria degli usi e gratificazioni, che, proprio concentrandosi sulle attività del pubblico, sulle motivazioni e le forme di uso (individuale e sociale) dei media, mantiene viva quella antica "filosofia" del rapporto media-società e rappresenta la persistente indicazione di un diverso percorso di lettura del problema dell'influenza dei media. Contemporaneamente si sviluppa, come già accennato, anche un altro filone di studi, denominato dei Cultural Studies, che, analogamente a quello degli effetti limitati, sottolinea l'attività di rielaborazione dei riceventi, proponendo la loro libertà interpretativa, sulla base di modalità di decodifica negoziate o oppositive. Tali due filoni divengono poi determinanti come base per l'avvio e lo sviluppo degli studi etnografici sul pubblico. Si può dire, sebbene in modo non ortodosso, che la ricerca etnografica rappresenti un punto in vario modo culminante degli studi sugli effetti. Quest'area di studi ripropone e approfondisce il legame tra approccio empirico alla ricezione (questa volta con tecniche qualitative), visione plurale dell'organizzazione sociale e prevalenza delle attività dei riceventi sull'influenza dei media. Secondo le indagini etnografiche, le persone sono in grado, attraverso lo sviluppo di proprie competenze interpretative, di costruire personalmente e interattivamente il significato dei testi e anche, quindi, di attribuire autonomamente senso alla realtà, sia vissuta sia mediata: nella fruizione e comprensione dei testi televisivi, ad esempio, esperienze mediali precedenti ed esperienze o vissuti personali si intrecciano con la propensione a fare commenti sul testo e sulle immagini (le cosiddette glosse), strutturandosi così percorsi interpretativi del tutto originali. Non si può neanche dimenticare che la versione "estremista", per così dire, del paradigma degli effetti cognitivi mostra una sorprendente insensibilità e impermeabilità anche all'interscambio delle tradizionali scienze della comunicazione con la "neonata" scienza dei segni, cioè la semiologia: si tratta soprattutto di una feconda mutuazione che le prime operano dalla seconda (seppure per vie che rimarrebbero da precisare) in ordine a concetti come decodifica, significazione, enunciazione, patto comunicativo, competenze comunicative ecc. e alle conseguenze teoriche che ne discendono. L'influenza della linguistica francese è a questo proposito determinante: ma proprio la diversa provenienza, anche geografico - culturale, dei diversi approcci, contribuisce a renderne più difficile l'incontro, e quindi anche il reciproco arricchimento, facendo sì che essi rimangano, diremmo tragicamente, distanti. Ancora a proposito di quella che viene considerata la svolta degli effetti cognitivi, sembra opportuna una considerazione sul concetto di costruzione sociale della realtà. Non sembra che tale concetto sia una novità degli anni ‘70 nelle teorie delle comunicazioni di massa. È evidente, invece, che abbia una sua preminenza nella prima fase degli studi sul rapporto media- società, proprio nell'idea di un'influenza sul consenso, ottenuto attraverso il condizionamento delle visioni del mondo possedute dal pubblico. E altrettanto significativa la sua presenza (anche se, ovviamente, ancora non lo si chiama così) negli studi sull'influenza personale, che contengono una densa riflessione sui fattori del mutamento culturale e discutono quale sia l'apporto che alla "costruzione" dei nuovi modi di pensare danno i media e le subculture dei gruppi sociali. Pagina 3 di 81 Quindi, la costruzione sociale della realtà, ossia la costruzione per via sociale delle rappresentazioni individuali e collettive della realtà, non è - e non può essere - un'acquisizione delle teorie delle comunicazioni di massa grazie e attraverso il paradigma degli effetti cognitivi. Quest'ultimo, eventualmente, propone una sua propria visione della costruzione sociale della realtà, nel senso che la realtà viene costruita e imposta alla società dai media. L'approccio è marcatamente "media-centrico", si impernia cioè sulla prevalenza dell'influenza dei media, ed è volutamente opposto a quello "socio-centrico", basato sulla prevalenza delle influenze non mediali o sull'equilibrio fra i due tipi. In tale impostazione individuiamo la specificità del paradigma degli effetti cognitivi e della sua opposizione a quello degli effetti limitati. Pur mostrando una forte somiglianza con il paradigma critico (data dalla linearità del modello comunicativo), il paradigma degli effetti cognitivi propone un'importante novità rispetto al paradigma critico: i media non vengono più visti come parte integrante di un potere sociale coeso, ma costituiscono un potere autonomo, che può però essere il potere centrale della società. Secondo le letture più radicali degli effetti cognitivi, i media non sono più, certamente, strumenti del potere, ma sono essi stessi il potere, la più grande e incontrollabile concentrazione di potere culturale e politico della società contemporanea. Ciò che il paradigma degli effetti cognitivi forti recupera dal paradigma critico è l'idea della mancanza di autonomia e differenziazione culturale della società, agganciandosi alla prospettiva della omogeneizzazione, che, a partire dalle teorie della società di massa, attraversa tutta l'evoluzione della riflessione sui media. La concentrazione del potere culturale, la linearità del processo comunicativo e la perdita della differenziazione sociale si accompagnano ad un revival teorico-metodologico, non sempre manifesto ma visibile ad un'attenta osservazione, di tipo positivistico, in cui si ritiene che il ricevente non possegga la consapevolezza dei modi in cui recepisce e costruisce il significato dei messaggi mediali. Tali modi non possono quindi essere oggetti diretti dell'indagine sul pubblico: è il ricercatore ad effettuare, secondo i propri costrutti concettuali e di metodo (ossia arbitrariamente e in gran parte a priori), la connessione tra messaggi e processi di produzione del significato. Su tale terreno appare evidente la spaccatura e l'incompatibilità tra agenda setting e coltivazione televisiva, da una parte, e usi e gratificazioni e approccio etnografico, dall'altra. Lo stesso concetto di messaggio, come accennato, è coinvolto dalla diversa configurazione degli schemi teorico-interpretativi: in quello che possiamo chiamare il neopositivismo delle teorie radicali degli effetti cognitivi il messaggio riacquista largamente quei connotati di oggettività che a lungo ne avevano caratterizzato la concezione. Il binomio omogeneizzazione/differenziazione è, anch'esso, una chiave di lettura fondamentale per tutte le teorie riguardanti il rapporto tra i media e la società, sia riguardo al modo in cui la società, per così dire, si presenta al cospetto dei media, sia riguardo al modo in cui viene trasformata dall'azione dei media. Sul versante dell'omogeneizzazione troviamo un quarto paradigma, quello tecnologico, collocato in posizione intellettualmente più defilata e temporalmente a cavallo delle due fasi descritte. I mezzi di comunicazione sono, in tale visione, un'estensione sensoriale dell'uomo e quindi danno forma e sostanza alla stessa esperienza umana. La tecnologia modifica la società innanzitutto in senso antropologico: non tanto i loro contenuti ma i mezzi stessi della comunicazione di massa modellano la cultura della società contemporanea. Anche in questo caso, tuttavia, siamo nel campo di effetti sistemici ipotizzati sul piano teorico-filosofico piuttosto che indagati attraverso le tecniche della ricerca sociale. La prospettiva tecnologica contribuisce a rafforzare l'idea della pervasività delle comunicazioni di massa nella società contemporanea, o meglio l'idea che esse costituiscano l'essenza stessa dell'ambiente sociale. Pure gli studi sull'opinione pubblica (cui è dedicata la seconda parte del volume), propongono una disposizione sui due versanti del binomio omogeneizzazione/differenziazione. Da un lato troviamo letture del ruolo dei media come attori negoziali della rappresentazione- costruzione della realtà, combinate con visioni del pubblico come autonomo e plurale e con concezioni dell'opinione pubblica come entità articolata e dinamica. Dall'altro lato troviamo letture che privilegiano la centralità del potere dei media (cui può fare eccezione solo la loro subordinazione ai tradizionali centri di potere), associate a concezioni del pubblico come intrinsecamente permeabile e permeato dall'influenza per lo più indiretta ma ineludibile dei media (o dell'ambiente che i media creano); pubblico che diventa automaticamente quella fantomatica entità chiamata opinione pubblica di massa. Il fatto è che nelle scienze sociali in generale, non solo in quelle della comunicazione, il carattere tendenzialmente omogeneo o differenziato delle forme culturali rappresenta - piuttosto che un punto di arrivo, ossia il risultato di indagini e programmi di ricerca - un assunto, la sostanza stessa della prospettiva da cui guardare la società. Pagina 4 di 81 Si tratta di una dicotomia che ripete, quasi meccanicamente, un'ormai classica divisione in due partiti intellettuali e scientifici, dalle posizioni sostanzialmente inconciliabili. CAPITOLO 1, Industria culturale, cultura di massa e mass media Il concetto di industria culturale è entrato stabilmente nel vocabolario delle scienze sociali ed economiche per indicare l’organizzazione produttiva della cultura e il rapporto tra cultura e mercato. Tale concetto nasce fortemente connotato in senso ideologico all’interno del dibattito sviluppatosi a partire dagli anni ’40 e ’50 negli USA e in Europa tra difensori e detrattori della cultura di massa, la nuova cultura nata e diffusa dai mas media. Tra le 2 guerre mondiali si è sviluppata una teoria che ha animato il dibattito sociologico per più di un trentennio: la teoria della società di massa. Si trattava di una teoria generale sull’evoluzione e la struttura della società contemporanea, che assegnava ai mass media un ruolo fondamentale nella trasformazione dei rapporti sociali. I principali elementi comuni sono: La società contemporanea si caratterizza per l’accresciuto potere delle grandi organizzazioni e delle istituzioni centrali della società. I mass media sono soggetti a un processo di concentrazione, per cui il potere di influenzare l’opinione pubblica appare controllato da ristrette élite. Il tessuto sociale diventa più debole, meno organizzato, e gli individui appaiono più isolati e privi di forti legami di gruppo. Il pubblico atomizzato e coinvolto in rapporti sociali formali e astratti risulta più vulnerabile all’influenza dei mass media, i quali contribuiscono a loro volta alla disgregazione del tessuto sociale. Nell'ambito delle teorie della società di massa, un nodo cruciale è costituito dal dibattito sulla "cultura di massa" che ne costituisce il versante culturale e simbolico. Le teorie critiche della cultura di massa Fra le teorie critiche della cultura di massa possiamo distinguere tra: Critica conservatrice. È portavoce dei valori umanistici di difesa della civiltà europea occidentale, denunciava l’invasione dei sottoprodotti culturali dell’industria moderna, sottolineando gli aspetti di banalizzazione, decadenza del gusto, divertimento plebeo, volgarizzazione. La distinzione concettuale principale era quella tra: Alta cultura Bassa cultura, o cultura di massa Cultura autentica Cultura inautentica Tra gli autori più significativi possiamo citare José Ortega y Gasset, Hannah Arendt e Gunther Anders. Critica radicale. La critica di sinistra, debitrice perlopiù della vulgata marxista, vedeva nella cultura di massa il nuovo oppio dei popoli, moderna e più efficace versione della funzione ideologica e consolatoria già svolta dalla religione. Una consapevole mistificazione con cui il capitalismo distrae le masse dai loro veri problemi e ne indebolisce la coscienza di classe. All'interno di quest'area gli esponenti della Scuola di Francoforte, emigrati in America negli anni ‘30 per sfuggire al nazismo, apportarono un approccio critico radicale, ispirato dal marxismo ma essenzialmente originale. Oltre al saggio sull'industria culturale di Horkheimer e Adorno, Dialettica dell'illuminismo (1947) e allo studio di Lowenthal (1944) sulle biografie di personaggi famosi nelle riviste popolari, vanno ricordati: Eclipse of Reason di Horkheimer (1947). La ricerca coordinata da Adorno The Authoritarian Personality (1950). Pagina 5 di 81 I saggi di Fromm, Escape from Freedom (1941) e The Sane Society (1955). One dimensional Man (1964) di Marcuse, che ha esercitato grande influenza sul clima intellettuale al di qua e al di là dell’oceano. Habermas (1962), l'opera d'esordio del maggiore esponente della seconda generazione, sul passaggio dall'opinione pubblica criticamente fondata al pubblico consumatore di cultura. L’industria culturale L’espressione industria culturale viene introdotta da Horkheimer e Adorno nel saggio omonimo inserito in Dialektik Der Aufkàrung. Si tratta di una consapevole rottura terminologica e concettuale. Come spiegò Adorno, l’espressione cultura di massa utilizzata negli appunti preparatori, venne sostituita nella stesura definitiva con quella di industria culturale, per eliminare fin dall’inizio l’interpretazione consueta e cioè che si tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, di una forma contemporanea di arte popolare. Sebbene gli autori della Scuola di Francoforte contestino al marxismo di ridurre troppo semplicisticamente la cultura e l'arte all'economia, essi non rinnegano tuttavia il principio fondamentale del materialismo storico per cui è la struttura sociale, in particolare modo la struttura economica (capitalistica) della società, a definire ultimamente la cultura. Horkheimer e Adorno dichiarano che i meccanismi e le logiche che governano la produzione e la distribuzione della cultura attraverso i mass media sono del tutto analoghi a quelli degli altri settori dell'industria capitalistica. I prodotti culturali costituiscono delle merci, nel senso che il contenuto artistico ed estetico è soggetto alle regole dello scambio e del profitto. L'evoluzione del settore della comunicazione di massa nei paesi capitalistici è simile a quella degli altri settori industriali e la concorrenza sul mercato della comunicazione tende a sfociare nella creazione di posizioni dominanti di tipo oligopolistico. La concentrazione dello spirito non è che un aspetto e una conseguenza della concentrazione del sistema economico. L’interesse degli esponenti della scuola di Francoforte non è rivolto agli effetti di singoli media e messaggi, ma alla funzione che il sistema dei mass media nel suo insieme svolge nell’ambito della società capitalistica. L’industria culturale, non è solo un settore dell’industria capitalistica, ma esercita anche una fondamentale funzione ideologica per tutto il sistema. Non ha una propria ideologia, ma riflette l’ideologia dei settori dominanti della società. Al di la delle differenze di media, generi e messaggi, vi è un comune orientamento ideologico, costituito dall’apologia della società: l'industria culturale torna a fornire come paradiso la stessa vita quotidiana; la nuova ideologia ha per oggetto il mondo come tale. Horkheimer e Adorno non riservano particolare attenzione alla prospettiva dei riceventi, ma sono interessati a quella egli emittenti, di coloro che controllano i media e l’industria culturale. La logica che guida le scelte dei grandi comunicatori e dei manager dell'industria culturale è la stessa che per i due autori segna la storia dell'Occidente: quella razionalità strumentale o logica amministrativa che porta a considerare gli altri come oggetti per i propri fini senza alcuna considerazione della loro soggettività e dei loro bisogni. Questi prodotti culturali (e la loro ideologia implicita) si impongono ai riceventi, così che la sfera del consumo e della cultura cessa di essere la sfera della libertà del consumatore: il consumatore non è sovrano, come l'industria culturale vorrebbe far credere, non è il suo soggetto bensì il suo oggetto. L'industria culturale contribuisce a creare un mondo unidimensionale, nel quale l'amministrazione della vita da parte dei poteri forti della società non si esaurisce nella sfera della produzione e del lavoro, ma viene ad abbracciare anche la sfera del consumo e della cultura. La cultura omogeneizzata La prospettiva critica della scuola di Francoforte ha influenzato un gruppo di autori radicali americani, i cui contributi compaiono sulla rivista della sinistra intellettuale “Politics”, diretta da Dwight MacDonald e nei volumi “mass culture”, a cura di Rosenberg e White e “culture for the millions?” a cura di Jacobs. Essi collocano le ragioni storiche della nascita della cultura di massa nella democrazia politica e nell’istruzione di massa, ma condannano il fatto che la grande industria, grazie al controllo delle nuove tecnologie produttive e della comunicazione, si sia appropriata del mercato dei beni culturali. La cultura di massa ha raccolto l’eredità della cultura popolare preindustriale, ma in realtà le differenze sono più significative delle somiglianze Pagina 6 di 81 Mentre la cultura popolare cresceva dal basso come espressione spontanea del popolo, la cultura di massa è imposta dall’alto, fabbricata da professionisti arruolati dagli imprenditori del settore. È una cultura omogeneizzata che abbatte le barriere di classe, tradizione, gusto e dissolve ogni differenza culturale. La cultura di massa è essenzialmente conservatrice: si basa sulle opinioni e i sentimenti diffusi. Produce una continua stimolazione ed eccitazione superficiali. I suoi prodotti sono standardizzati e includono la reazione controllata del destinatario. Questa idea, già avanzata da Adorno, viene sviluppata nel saggio di Greenberg sul kitsch e il cattivo gusto. Il kitsch non è una qualità bassa o deteriore di un prodotto, ma un particolare modo di intendere il rapporto tra produttore e fruitore dell'oggetto culturale. Il prodotto culturale è costruito in modo tale da favorire una ricezione immediata e superficiale: l'industria culturale assieme al prodotto vende anche le modalità del suo uso, la stessa reazione del destinatario. All'interno della cultura di massa, MacDonald introduce infine una distinzione tra due diversi livelli: La cultura di massa propriamente detta, o Masscult. Qui il trucco è scoperto - piacere alle folle con ogni mezzo. Il Midcult, il quale possiede le qualità essenziali del Masscult - la formula, la reazione controllata, la mancanza di qualsiasi metro di misura tranne la popolarità - ma le nasconde pudicamente con una foglia di fico culturale. Il Midcult contiene un duplice tranello: finge di rispettare i modelli dell'Alta cultura, mentre in effetti li annacqua e li volgarizza. Manipolazione ed eterodirezione La sociologia critica americana ha espresso negli anni ’50 alcuni autori che hanno raggiunto una vasta popolarità influenzando profondamente il clima intellettuale del dopoguerra. The power elite, di Charles Wrhigt Mills pone in maniera radicale e polemica il problema del rapporto tra la struttura del potere real nella società americana e la funzione assolta dall’insieme delle istituzioni culturali o apparato culturale. Attraverso i mass media si realizza, secondo Mills quella particolare forma di esercizio del potere che egli chiamerà manipolazione, che si affianca e si sostituisce alle forme più tradizionali, costituite dall’autorità e dalla coercizione. La manipolazione è l'esercizio segreto del potere, sconosciuto a chi ne subisce l’influenza che si afferma quando gli uomini hanno potere accentrato e incondizionato, ma non autorità, oppure quando, per una ragione qualsiasi, non desiderano fare uso apertamente del loro potere. La condizione perché ciò avvenga, osserva Mills in sintonia con Horkheimer e Adorno, è che l'élite del potere detenga la proprietà o controlli direttamente o indirettamente tutti i principali mezzi di comunicazione di massa, anche in condizioni di apparente pluralismo delle fonti e dei canali di comunicazione. Attraverso i mass media diventa possibile formare le opinioni, sollevare o neutralizzare i problemi, canalizzare i bisogni e le aspirazioni, orientare gli atteggiamenti senza che appaia mai direttamente il collegamento con le élite dominanti. L'apparato culturale, da un lato, trasforma le finalità di mantenimento del potere delle élite e di conservazione dello status quo in influenze formatrici, modelli di identificazione, simboli e immagini della società; dall'altro, impedisce un'effettiva comunicazione dalla base al vertice. The lonely crowd di David Riesman sviluppa un punto di vista diverso rispetto ai froncofortesi e a Mills. Il concetto intorno al quale Riesman costruisce il suo saggio è quello di eterodirezione, che indica al tempo stesso una disposizione fondamentale della personalità e un principio di organizzazione sociale. Ciò che è comune a tutte le persone eterodirette è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l’individuo, quelli che conosce o quelli con cui ha relazioni indirette attraverso gli amici o i mezzi di comunicazione di massa. Questa fonte è naturalmente interiorizzata nel senso che la dipendenza da essa come guida nella vita è radicata nel bambino molto presto. I fini verso i quali tende la persona eterodiretta si spostano con lo spostarsi della guida: è solo il processo di tendere a una meta e il processo di fare attenzione ai segnali degli altri che rimangono inalterati per tutta la vita. Pagina 7 di 81 Questo modo di tenersi in contatto con gli altri permette una stretta conformità di comportamento attraverso un’eccezionale sensibilità per le azioni e i desideri degli altri. Per Riesman l’eterodirezione non è una passività imposta, ma un atteggiamento attivo di ricerca della conformità, di permeabilità di disponibilità verso influenze esterne. Riesman da una spiegazione strutturale di questo orientamento della personalità: l’eterodirezione è il carattere sociale o modo di conformità più adatto alle società industriali avanzate dell’occidente. La continua ricerca del consenso e dell’approvazione altrui, la rapida circolazione dei guati e delle preferenze, rispondono infatti alle esigenze di funzionamento di una società a capitalismo maturo il cui vero problema non è più la produzione ma il consumo e la sua continua promozione. Questi tratti della personalità vengono coltivati, sebbene in forme e modalità diverse, da tutte le agenzie di socializzazione: dalla famiglia alla scuola, dal gruppo dei pari agli ambienti professionali ai mass media. La teoria della democratizzazione della cultura Alle teorie critiche si oppone la teoria consensuale della società di massa, i cui autori principali sono Edward Shils e Daniel Bell, riconducibile all’orientamento struttural-funzionalista che ha egemonizzato la teoria sociologica negli Usa negli anni ’60. Tale teoria concepiva la cultura di massa come un aspetto fondamentale della democratizzazione della società. Le teorie critiche della società di massa hanno avuto il merito, secondo Shils di aver attirato l’attenzione della sociologia, anche se con esiti fuorvianti, su un aspetto fondamentale della più recente fase di sviluppo della società moderna: l’inclusione della massa della popolazione nella società. Grazie al diffuso benessere, all’estensione dei diritti civili, alla democrazia politica, all’istruzione di massa, la maggioranza della popolazione è entrata a pieno titolo a far parte della società e a goderne i benefici. In questo contesto si situa la decisa contestazione della teoria critica della cultura di massa e dell’industria culturale. Nelle società del passato i gruppi sociali dominanti svolgevano un ruolo di direzione politica e di mediazione culturale e costituivano il punto di partenza e di arrivo della circolazione sociale dei prodotti culturali. La società di massa si caratterizza invece per la democratizzazione dell’accesso alla cultura. Per Shils l’espressione cultura di massa non rimanda ad un concetto univoco e scientificamente valido, ma viene riferita, a seconda dei casi, alle proprietà sostantive della cultura, alla posizione sociale dei suoi fruitori o ai mezzi attraverso i quali è trasmessa. Essa inoltre appiattisce la pluralità di forme dell’esperienza culturale moderna sulle sue espressioni più rozze e brutali. Nella società di massa convivono invece diversi livelli di cultura: La cultura superiore o raffinata. La cultura mediocre. La cultura brutale. Questi si differenziano non solo per i temi trattati, ma soprattutto per la ricchezza di contenuto simbolico. Già nel XIX secolo, con la formazione di un vasto pubblico di lettori, si è avuta una grande espansione nel consumo di cultura mediocre o brutale: periodici popolari, romanzi d'appendice, libri politici di interesse passeggero, poesia inferiore, biografie, opere esemplari di teologia e di edificazione morale. In tempi più recenti, questi prodotti sono stati affiancati e, in parte sostituiti, dai film e dai programmi radiofonici e televisivi. Essi costituivano, e costituiscono tuttora, la gran parte dei consumi culturali. In sintesi, la tesi fondamentale dei due autori è che, per quanto prevalgano ancora gli aspetti mediocri e brutali, la cultura della società di massa non può essere misurata sul metro di una visione ideale e romantica dell’integrità dell’esperienza letteraria e artistica, privilegio di pochi, ma va giudicata, nel contesto di una più complessiva evoluzione socio-culturale, come una prima fase di acculturazione di vaste masse, in precedenza pressoché analfabete e del tutto escluse da ogni tipo di cultura. La teoria tecnologica della cultura Pagina 8 di 81 Il dibattito sui mass media e la cultura di massa, vede negli anni ’70 un nuovo protagonista, Marshall McLuhan, portatore di un nuovo paradigma di analisi dei media, alternativo sia al paradigma dominante della mass Communication research, espresso da Lazarsfeld e dai sociologi riuniti intorno al Bureau of Applied Social Research della Columbia University, sia la paradigma critico. L’opera di McLuhan costituisce la versione più nota ed estremistica del paradigma tecnologico, che annovera altri importanti autori, quali Innis e Ong. Sebbene sia stata fortemente osteggiata, accusata di dilettantismo e impressionismo, senza dubbio la teoria di McLuhan ha rappresentato una sfida che ha spinto gli studiosi a mettere in dubbio le teorie correnti sulla comunicazione e la cultura di massa. McLuhan insiste su un'idea centrale e semplice: i media non rappresentano il mondo ma danno forma al mondo, poiché danno forma alla nostra stessa esperienza del mondo. L'ambiente umano si costruisce a partire dai media e intorno ai media, poiché questi plasmano le strutture percettive e cognitive con cui l'uomo vede il mondo e agisce nel mondo. Per dirla con le parole dello stesso McLuhan, i nuovi media non sono dei nuovi modi per riportarci al vecchio mondo reale; sono essi stessi il mondo reale e rimodellano radicalmente la cultura e la società precedenti. McLuhan enuncia i principi fondamentali della sua più nota teoria in The Gutenberg Galaxy (1962) e Understanding Media (1964). Gli aspetti salienti possono essere così riassunti: La teoria dei mass media viene ripensata nel contesto di una più ampia teoria delle tecnologie, intese come estensioni dell’uomo. Queste estensioni non costituiscono solo delle cose, degli strumenti che l'uomo utilizza, ma anche delle funzioni attive che retroagiscono e modificano il loro artefice. I mezzi di comunicazione sono estensioni degli organi e delle funzioni sensoriali. McLuhan propone una antropologia sensorialista, secondo la quale le essenziali caratteristiche psicologiche e sociali dell'uomo derivano dalle modificazioni sensoriali provocate dai mezzi di comunicazione. Un vero e proprio tecnomorfismo. La teoria dei media di McLuhan presenta un carattere tendenzialmente deterministico. Afferma, infatti, che l'uomo è il servomeccanismo dei suoi media ed erige lo sviluppo tecnologico a variabile indipendente del mutamento socio-culturale. A partire da queste tesi McLuhan rifiuta tutto il dibattito sulla cultura di massa: il vero problema non sono i contenuti dei media e la loro funzione ideologica, né è interessante chiedersi se propongano una visione realistica o deformata della realtà sociale. In verità non ha senso parlare di una cultura di massa; occorre parlare piuttosto di una cultura dei media, poiché sono i diversi media, di volta in volta dominanti, che generano e definiscono i diversi modelli di cultura. La teoria di McLuhan, anche se ha goduto di vasta risonanza ed è divenuta per un certo periodo una moda culturale, non è mai riuscita ad entrare nel mainstream della teoria e della ricerca sulla comunicazione di massa, costituendo peraltro uno dei principali bersagli polemici degli esponenti dell'approccio critico di cui si collocava agli antipodi. Tuttavia la sua influenza sotterranea appare più ampia e profonda di quanto non si creda, soprattutto perché ha introdotto una visione dei media come linguaggi e ambienti culturali, che molte teorie successive hanno in vario modo ripreso e sviluppato. Culture nazionali, umanistiche, religiose e cultura di massa Nel contesto europeo, sopratutto in Francia e Gran Bretagna, emergono alcuni autori e correnti che risentono piò o meno direttamente dell’influenza della Scuola di Francoforte, ma sviluppano percorsi e prospettive autonome. Il tratto che li accomuna è l'intendere la cultura di massa come una vera e propria cultura in senso antropologico e sociologico e l'avvalersi nella sua analisi di una molteplicità di prospettive disciplinari, dalla sociologia alla linguistica, dalla semiotica alla psicanalisi. Il principale centro propulsore dell’analisi delle comunicazioni e della cultura di massa in Francia è il Centre d’études des Communication de masse, fondato dal sociologo George Friedmann, con la rivista “Communication”. Vi collaborano diversi studiosi tra cui Roland Barthes, di cui vanno ricordate le analisi sui riti e i miti della cultura di massa e sul sistema della moda, Moles, Morin e Greimas. L'esprit du temps di Edgar Morin è lo studio che più direttamente si riferisce al saggio di Horkheimer e Adorno. Pagina 9 di 81 Non solo Morin riconosce la superiorità dell'approccio della Scuola di Francoforte rispetto a tutte le altre analisi critiche, ma opera anche un interessante approfondimento della visione del mondo dell'industria culturale: il nuovo spirito dei tempi appunto. La cultura di massa deve essere considerata a tutti gli effetti una cultura poiché costituisce un corpo di simboli, di miti e immagini concernenti la vita pratica e la vita immaginaria, un sistema di proiezioni e di identificazioni specifiche, e si aggiunge alla cultura nazionale, alla cultura umanistica, entrando in concorrenza con loro. Le società moderne sono policulturali. In esse focolari di cultura di natura diversa sono in attività: la religione o le religioni, lo Stato nazionale, la tradizione umanistica si affrontano o coniugano le loro morali, i loro miti, i loro modelli nell'ambito della scuola e fuori di essa. La cultura di massa integra e al tempo stesso si integra in una realtà policulturale, si fa contenere, controllare, censurare (dallo Stato, dalla Chiesa), e nello stesso tempo, tende a corrodere e disgregare le altre culture. Per questo, cioè, essa non è autonoma in senso assoluto, può permearsi di cultura nazionale, religiosa, o umanistica, e a sua volta permeare la cultura nazionale, religiosa o umanistica. Parimenti, essa non è la sola cultura del XX secolo, ma è la corrente davvero di massa e nuova di questo secolo. Nata negli Stati Uniti, essa si è acclimatata nell'Europa occidentale. Alcuni dei suoi elementi si diffondono su tutto il globo. Essa è cosmopolita per vocazione e planetaria per estensione, ci pone i problemi della prima cultura universale della storia dell'umanità. Il primo carattere di questa nuova cultura è di essere prodotta secondo le norme della fabbricazione di massa industriale. Si tratta di un’industria ultra-leggera, ma è organizzata sul modello dell’industria più concentrata tecnicamente ed economicamente: nel campo privato, pochi grandi gruppi di stampa, poche grandi catene radio e televisive, poche società cinematografiche concentrano gli strumenti e dominano le comunicazioni di massa. Nel campo pubblico [e questo è un carattere specifico dell'Europa rispetto agli Stati Uniti], è lo Stato che assicura la concentrazione. Un secondo carattere della cultura di massa, che ne definisce la logica intrinseca, è la ricerca del grande pubblico. Agli inizi del XX secolo, le barriere delle classi sociali, delle età, del livello di educazione delimitavano le rispettive zone di cultura. Queste barriere non sono del tutto abolite, nel senso che permangono delle differenze nei consumi culturali, ma, a partire dagli anni ’30 è emerso un nuovo tipo di stampa, di radio, di cinema e di televisione, il cui carattere è di rivolgersi a tutti, al di la di ogni differenza. Dall’interazione tra questi due aspetti discendono i criteri con cui i contenuti vengono prodotti e le caratteristiche sostantive di questi contenuti. La principale è l’eclettismo, la coesistenza dei più diversi contenuti, temi e generi: la varietà, nell'ambito di un giornale, di un film, di un programma radiofonico, mira a soddisfare tutti gli interessi e i gusti, in modo da ottenere un massimo di consumi. La cultura mosaico Se L’esprit du temps di Morin si riferisce esplicitamente alla riflessione di Horkheimer e Adorno e al dibattito sulla cultura di massa, Sociodynamique de la culture di Abraham Moles propone una teoria sistematica della cultura e del ciclo culturale in una prospettiva cibernetica, cioè di una scienza generale degli organismi. A differenza di Morin che privilegia una prospettiva di contenuto, Moles intende definire le caratteristiche strutturali della cultura di massa. Le culture greco-romana, cristiano-medievale, umanistica, rinascimentale, illuminista, idealista (da Aristotele all'Ottocento), hanno affermato l'esistenza di soggetti principali, di temi del pensiero predominanti di fronte a soggetti meno importanti e agli elementi minuti della vita di tutti i giorni. La struttura della cultura contemporanea appare invece del tutto diversa: la tessitura di questo schermo di conoscenze è profondamente cambiata, diremmo che essa tende piuttosto verso una specie di sistema fibroso, di feltro, i frammenti della nostra conoscenza sono minuzzoli senza ordine, legati a caso da semplici relazioni di prossimità, di epoca di acquisizione, di assonanza, di associazione d'idee, senza una struttura definita dunque, ma con una coesione che può, quanto il legame logico visto precedentemente, assicurare una certa densità dello schermo delle nostre conoscenze. Chiameremo questa cultura "cultura mosaico" poiché si presenta essenzialmente aleatoria, come un insieme di frammenti giustapposti senza costruzione, senza punto di riferimento, in cui nessuna idea è necessariamente generale, ma molte idee sono importanti (idee forza, parole chiavi ecc.). Pagina 10 di 81 I mass media sono i principali soggetti e artefici della nuova cultura: reggono la nostra cultura filtrandola, prelevano elementi particolari dai fenomeni culturali per conferire loro importanza, valorizzano un'idea e ne svalorizzano un'altra, infine polarizzano completamente il campo culturale. In tale contesto cambia anche la modalità della trasmissione e della acquisizione delle conoscenze: ormai ciò che l’individuo incorpora nel suo tessuto mentale gli giunge assai più con l’impregnazione della mente immersa nella sfera dei messaggi che attraverso il processo razionale dell’educazione, più ordinato e metodico ma operante solo per un breve periodo della sua vita. Connaturato all’idea di impregnazione è il fatto che le nostre conoscenze non provengono da uno sforzo ma da un apporto permanente dell’ambiente esterno a noi in tutti i suoi aspetti. La società dei consumi Un altro importante contributo francese all'analisi della cultura di massa è costituito dagli studi di Jean Baudrillard, di cui il più noto e influente è La société de consommation (1970). Baudrillard pone al centro della riflessione il rapporto tra sistema del consumo e industria culturale. Società dei consumi e industria culturale sono infatti le due facce, sociale e simbolica, dello stesso processo fondamentale: la produzione industriale delle differenze. Secondo Baudrillard l'uomo è caratterizzato da un bisogno essenziale di differenziarsi dagli altri. Nelle società del passato, premoderne e della prima modernità, le differenze di nascita, di sangue, di religione riguardavano l'essenziale, o almeno ciò che veniva considerato come essenziale. Erano dunque differenze che creavano coesione e riconoscimento reciproco all'interno del gruppo di appartenenza e, al tempo stesso, distanza e separazione dagli altri gruppi o strati sociali. La società industriale capitalistica tende invece ad abolire le differenze reali tra gli uomini, omogeneizza le persone e i prodotti, al tempo stesso però essa genera e controlla un sistema, quello dei consumi, che si basa sulla continua produzione delle differenze attraverso la personalizzazione del consumo e il possesso di oggetti che conferiscono identità. Il sistema dei consumi costituisce un fondamentale meccanismo di riproduzione sociale, e non solo un prerequisito del funzionamento delle economie capitalistiche avanzate, poiché tiene sotto controllo la tensione alla differenza degli individui e dei gruppi sociali, trasformandola da fattore di separazione, ostilità e conflitto sociale in fattore di integrazione, mezzo di comunicazione e di scambio. L’aspetto fondamentale, che già Riesman aveva individuato, è che la società dei consumi e tutti i media che la circondano e la presidiano, facendo del consumo un linguaggio di comunicazione, non produce conflitto e ostilità tra gli individui e i gruppi, ma integrazione sociale, nel senso che la differenza unifica, propone gli stessi modelli, costruisce terreni per la comunicazione anziché per la separazione e il conflitto. I Cultural Studies, industria culturale e cultura di classe All’inizio degli anni ’70 emerge in Inghilterra un gruppo di studiosi, riuniti intorno al Center for Contemporary Cultural Studies dell’università di Birmingham, che darà via al filone di studi noto come Cultural Studies. Anche la prospettiva dei Cultural Studies inglesi si riferisce direttamente al marxismo, con cui condivide l'approccio critico, i concetti di ideologia dominante e di egemonia, l'impegno militante. Come bene riassume Crane: come i marxisti essi affermano che l'ideologia dominante riflette gli interessi politici ed economici della classe che controlla il sistema economico e politico. Il loro principale obiettivo è quello di capire come questa classe riesca ad imporre la sua concezione del mondo (egemonia) sui membri delle altre classi sociali, al punto che queste accettano le istituzioni sociali, politiche ed economiche esistenti come fossero naturali ed inevitabili. Mentre altri filoni del marxismo, come la Scuola di Francoforte, erano principalmente interessati alla natura e agli effetti dell'ideologia, la tradizione dei Cultural Studies inglesi ha cercato di capire come gruppi sociali diversi rispondano all'ideologia della classe dominante. A differenza della teoria critica dei francofortesi e delle analisi degli studiosi francesi, più orientate al contenuto e all'ideologia implicita della cultura di massa, i Cultural Studies dirigono invece la loro attenzione sul rapporto tra produzione e ricezione. Questa prospettiva è stata aperta dai lavori dei tre padri fondatori: Lo studioso di letteratura Richard Hoggart (1958) Lo storico Edward P. Thompson (1963) Pagina 11 di 81 Raymond Williams (1958,1961,1974), uno dei più acuti e poliedrici studiosi di storia e sociologia della cultura e della comunicazione. Il maggior interesse di questi studi sta nel tentativo di delineare le relazioni tra cultura commerciale di massa e cultura operaia. Distaccandosi da un'astratta formulazione di coscienza di classe, essi intendono la cultura non come un semplice epifenomeno della collocazione di classe, né come un insieme di prodotti dell'intelletto e della fantasia. La cultura è un intero sistema di vita, che si definisce per alcuni elementi comuni, come i costumi e la lingua nazionale, e alcuni elementi specifici, come appunto la cultura che nasce dall'appartenenza di classe. La cultura operaia, pur subendo l'influenza della cultura commerciale e dei suoi modelli, è capace di una relativa autonomia e di una resistenza, che affonda le sue radici nei modi di vita tradizionale delle comunità operaie, nelle relazioni concrete di gruppo primario e nelle pratiche di vita quotidiana. Questo tema della autonomia-relazione tra cultura popolare e industria culturale diventerà centrale in tutta la riflessione successiva dei Cultural Studies. Codice egemonico e lotta per il significato Secondo Stuart Hall, che alla fine degli anni ’60 succede a Hoggart nella direzione del Center for Contemporary Cultural Studies divenendo la principale figura intellettuale del gruppo, tutta la cultura prodotta dai mass media è costruita secondo un codice egemonico che tende a perpetuare la struttura di potere esistente e la divisione classista della società. La funzione ideologica dei mass media non consiste però essenzialmente nella trasmissione delle direttive dei gruppi dominanti, né in un'opera di consapevole censura o distorsione di avvenimenti o problemi sociali da parte degli operatori dei media. Essi assumono invece un ruolo fondamentale nel produrre e articolare una definizione della realtà, una cornice consensuale su cui ognuno concorda, che traccia i confini di ciò che è socialmente accettato, pacifico, naturale. Questo incorniciamento ideologico della realtà sociale opera attraverso meccanismi raffinati e complessi di inclusione/esclusione che, da un lato, lasciano ampio spazio ad una diversità pluralistica di forme espressive e rappresentazioni sociali, dall'altro stabiliscono cosa debba essere emarginato o ignorato come inaccettabile e deviante. Secondo Hall e i suoi collaboratori nelle società industriali avanzate il conflitto sociale si sposta in larga parte sul terreno della definizione della realtà: una vera e propria lotta di classe nel linguaggio, una lotta per il predominio nel discorso. Questa lotta per il significato trova il suo fondamento nello scarto tra i processi di produzione (codifica) e di ricezione (decodifica). Riferendosi in particolare al messaggio televisivo, Hall osserva che vi è una distorsione e un fraintendimento sistematico tra il processo della produzione e della ricezione, che deriva dall’asimmetria dei codici della fonte e quelli del ricettore, e, ancora più radicalmente dalle differenze strutturali, sia di relazione che di posizione, tra emittente e audience. Secondo questa prospettiva, i mass media sono certamente veicoli dell'ideologia egemone, la quale riflette gli interessi delle élite e delle classi dominanti. Questa ideologia non ha tuttavia una presa assoluta e indifferenziata sulla società: le diverse classi e gruppi sociali reagiscono diversamente in funzione della loro collocazione nella struttura sociale. I destinatari non accettano necessariamente e nello stesso modo i significati immanenti al testo e costruiti secondo il codice egemonico. Essi possono attivare tre diversi percorsi interpretativi: Accanto ad una lettura preferenziale, per cui i riceventi aderiscono sostanzialmente al codice dominante e alle intenzioni dei produttori. Letture negoziate (cioè selettive) che, pur accettando il quadro di valori del codice dominante, elaborano proprie definizioni e letture particolari divergenti. Letture oppositive che ridefiniscono il messaggio in un quadro di riferimento alternativo che comporta l'esplicito rifiuto del codice egemonico. Secondo questa prospettiva, il limite dell'approccio dei francofortesi stava nell'avere appiattito l'attività di decodifica alla sola lettura preferenziale, interna e succube del codice dominante, non riuscendo a scorgere alcuno spazio per la libertà interpretativa del ricevente, così che il dominio culturale attraverso i mass media appariva loro assoluto e incontrastato. Pagina 12 di 81 Una più sofisticata e realistica analisi del processo comunicativo conduce invece a identificare strutturalmente una distanza, una asimmetria tra processi di codifica/decodifica, e quindi la possibilità di letture parzialmente o totalmente divergenti. Gli Audience Studies Lo schema codifica/decodifica di Hall ha costituito l’ipotesi di partenza per una serie di ricerche sul consumo televisivo note come Audience Studies. Tre aspetti fondamentali caratterizzano questi studi: Mentre l’approccio degli usi e gratificazioni mette il potere dei media tra parentesi, dirigendo l’analisi sul ricevente e sull’uso attivo dei media in una prospettiva essenzialmente utilitaristica e funzionalistica, gli Audience Studies collocano al centro dell'attenzione l'interazione, il gioco aperto di incontro/ scontro, inclusione/conflitto tra i codici dei produttori e quelli dei destinatari, indagandone le diverse modalità e determinanti sociali. Gli Audience Studies non considerano semplicemente i lettori o gli spettatori come individui ma come membri di comunità interpretative, cioè di gruppi sociali, generazionali, sessuali, etnici, che condividono esperienze di vita e codici culturali omogenei. Vengono adottati e progressivamente affinati dei metodi qualitativi di analisi del consumo mediale, spesso integrati tra loro, tra cui il metodo etnografico, già utilizzato in antropologia e sociologia, che consiste nell'osservazione partecipante da parte del ricercatore della concreta situazione di fruizione in ambito domestico che, oltre agli studiosi inglesi, vede tra i suoi alfieri anche l'americano Lull. La prima ricerca sul consumo televisivo nata nell’ambito del Cultural Studies riguarda il magazine popolare Nationwide trasmesso dalla BBC nella fascia preservale negli anni ’70. La ricerca si componeva di due parti: Una prima parte di analisi testuale esaminava il programma dal punto di vista della codificazione, cioè i suoi contenuti ideologici e il modo in cui si rivolgeva al pubblico. La seconda parte indagava attraverso una serie di interviste di gruppo a manager, sindacalisti, studenti, apprendisti, il modo in cui queste diverse categorie di spettatori interpretavano il testo accettando, riformulando o rifiutando la lettura (dominante) adottata dal programma dei problemi e degli eventi. Il principale risultato di questa seconda ricerca fu che effettivamente le diverse categorie sociali tendevano a relazionarsi diversamente al codice dominante, aderendo o distanziandosi dai significati contenuti nel testo e rielaborandoli attivamente, anche se la collocazione socio-economica degli interpreti, pur significativa, non era sufficiente a dar conto di tutta la varietà di gusti e interpretazioni che emergeva. Se l'approccio di Hall privilegia l'appartenenza di classe come fondamentale riferimento dei processi di decodifica, un secondo filone di ricerca pone al centro dell'attenzione il rapporto tra gender e consumi culturali e televisivi. Questi studi si sono rivolti innanzitutto ai generi televisivi femminili, come la soap opera e la fiction romantica, tradizionali oggetti di denigrazione e disprezzo da parte dei critici della cultura di massa, cercando di cogliere lo stretto rapporto fra il testo e le pratiche di consumo da parte delle donne. Tale rapporto può essere analizzato dai due lati del processo di codifica/decodifica. Da un lato, vari studi hanno documentato come i media tendano a formare i generi intorno a determinate comunità interpretative, adattandoli ad esse: così le ricerche sui programmi preferiti dalle donne hanno mostrato che questi riflettono il modo di conversare e gli stili emozionali femminili. L'andamento lento, ripetitivo, ricco di pause, la struttura narrativa aperta, i continui dilemmi morali ed emozionali di fronte a cui si trovano i protagonisti (e il pubblico) delle soap opera risponde, ad esempio, ad un tipico genere di discorso femminile, il pettegolezzo. Dall'altro lato, Hobson e Buckingham hanno concretamente analizzato, utilizzando il metodo etnografico, le pratiche di fruizione delle donne, in particolare casalinghe. Da questi studi sono emersi due mondi totalmente diversi di consumo televisivo: un mondo maschile e uno femminile. Mentre per gli uomini la casa è essenzialmente il luogo del riposo e del tempo libero, per le donne essa coincide, anche quando svolgono un lavoro esterno, con la sfera del lavoro domestico. Pagina 13 di 81 In tal senso, la fruizione della radio e della televisione, e di alcuni particolari generi come la soap opera, costituisce la principale compagnia nelle attività domestiche e le aiuta a combattere il senso di monotonia e di frustrazione collegato alla routine e alla ripetitività della vita quotidiana. L'ascolto della radio e della televisione fornisce anche la punteggiatura della giornata lavorativa, accompagnando e marcando i suoi diversi momenti. Le subculture giovanili Un altro campo di ricerca dei Cultural Studies riguarda le subculture giovanili. A partire dagli anni ’50 emerge un nuovo fenomeno culturale: la differenziazione dei gusti in base all’età. In questo contesto si crea una sfera di consumi culturali specificamente rivolta ai giovani con particolari media, come il giradischi e il juke-box e generi come il rock and roll. Se l'emergere di questo tipo di cultura è certamente un fatto generazionale, dagli anni ‘60 si sono anche sviluppate delle subculture giovanili, talvolta con i caratteri di controcultura: rocker, mod, teddy boy, hippy, skinhead, punk ecc. Due studi segnano in modo particolare gli esordi di questo filone di ricerca: L'antologia Resistance through Rituals, curata da Hall e Jefferson (1976) Il saggio di Dick Hebdige, Subculture: TheMeaning of Style (1979). Queste subculture giovanili appaiono come il prodotto dell'interazione tra l'elemento generazionale e l'appartenenza di classe (proletaria) e si caratterizzano per l'invenzione di uno stile di vita, espresso da un particolare gergo, rituali, modi di vestire, preferenze musicali, che conferiscono significati diversi e alternativi ai rituali e ai comportamenti tipici della cultura di massa. Il rapporto tra industria culturale e subculture giovanili è un gioco aperto. Se da un lato i gruppi giovanili esprimono la loro distanza dalla cultura dominante e dai valori ufficiali attraverso particolari gusti musicali, tipi di ballo, forme di aggregazione non istituzionalizzate, spesso creando dei particolari bricolage o re-inventando riti e miti della cultura di massa, anche l’industria culturale è costantemente impegnata a monitorare e ricondurre al suo interno ciò che si muove ai suoi margini. In uno studio successivo, Hiding in the Light (1988), Hebdige riconosce di avere sottovalutato la presa dell'industria culturale su questi stili culturali antiegemonici, nel senso che la cultura commerciale è capace di riappropriarsi delle strategie culturali oppositive e d'avanguardia sterilizzandole e inserendole in un'offerta più vasta e differenziata di stili giovanili di vita e di consumo. Cultura di massa o culture dei media? Un dato che caratterizza tutte le teorie che abbiamo fin qui considerato è l'idea dell'uniformità e dell'omogeneità della cultura di massa. Ciò è del tutto evidente nel paradigma critico, ma anche nella teoria del codice dominante di Hall, in cui la differenziazione viene affidata alla relativa autonomia interpretativa dei riceventi, legata essenzialmente all'appartenenza di classe. Negli ultimi vent'anni sono emerse tuttavia varie teorie di diversa provenienza che rifiutano questa visione e sottolineano invece la ricchezza e la multiformità della produzione dell'industria culturale. Queste stesse teorie enfatizzano, dall'altro lato, l'idea della libertà del ricevente. I moderni narratori di storie A partire dagli anni ’70 vari autori come Carey, Newcomb e Fiske, riconducibili anch’essi all’universo internazionale dei Cultural Studies, hanno indicato nel medium televisivo il più importante narratore di storie del nostro tempo. Newcomb ha definito la televisione il central storyteller system della società attuale. Questi autori non considerano la televisione un medium piatto e univoco, ma un sistema narrativo di grande ricchezza, varietà e significatività. La fiction cinematografica e televisiva costituisce il più ricco corpus narrativo del nostro tempo ed ha la possibilità di raggiungere un gran numero di destinatari. Essa ci dischiude tanti mondi possibili e ci consente di vivere in modo vicario, nell'immaginazione e nella fantasia, situazioni diversissime che ci sono precluse nella vita quotidiana. Pagina 14 di 81 Così non appare esagerato considerare la televisione the most popular art. I contenuti della televisione, e la fiction in particolare, possono essere studiati non meno seriamente dei generi letterari e teatrali dell'alta cultura, con metodologie e strumenti altrettanto raffinati. Secondo Newcomb lo storytelling televisivo assume anche una fondamentale funzione rituale e partecipativa in quanto alimenta continuamente un processo simbolico di condivisione dei significati attraverso i quali gli individui comprendono, costruiscono, conservano, ma anche re-immaginano e trasformano la realtà. La televisione ha sempre una funzione insieme di conservazione e di trasformazione culturale. Una prospettiva per certi aspetti analoga è contenuta nella teoria della funzione bardica della televisione di Fiske e Hartley. Come l'ordine dei bardi nelle società celtiche, la televisione costituisce un'istituzione sociale distinta e identificabile, il cui ruolo è quello di costruire attraverso un linguaggio retorico specializzato un mondo comune tra le élite dominanti e la più vasta società. Assolvendo questo ruolo di mediazione, la televisione non riflette semplicemente le opinioni dei gruppi dominanti (secondo l'idea di cinghia di trasmissione dell'ideologia), né il sentire generalizzato degli spettatori (secondo l'idea di "specchio" della cultura condivisa). Svolge invece una funzione di distillazione e di sintesi: i materiali culturali grezzi, che emergono dalle più diverse interazioni e pratiche sociali, vengono rielaborati, soprattutto attraverso la fiction cinematografica e televisiva, e restituiti al pubblico come modelli, norme e forme di comportamento e di relazione, che ispirano la vita quotidiana e i comportamenti sociali, in forza del prestigio professionale e sociale dei nuovi bardi e delle gratificazioni che il pubblico ricava dalle loro storie. Il supermarket culturale Secondo Fiske la cultura di massa assomiglia a un supermarket che offre una ricchissima varietà di prodotti, da cui ognuno preleva ciò che gli serve e meglio risponde ai suoi gusti e preferenze per poi assemblarlo in modo personale. In questa prospettiva, che lo stesso Fiske definisce della democrazia semiotica e della resistenza culturale popolare, il ricevente non si limita a negoziare i significati della cultura comune elaborata dai nuovi bardi della cultura di massa, ma utilizza i contenuti dei media come un puro pretesto, una semplice occasione, un materiale grezzo da usare liberamente per ricostruire come un puzzle i propri significati, a volte anche del tutto divergenti e indipendenti dallo stesso prodotto culturale. Più in generale Fiske ritiene che anche le pratiche quotidiane ispirate dalla società dei consumi e dalla cultura di massa possano essere oggetto e luogo della resistenza culturale popolare. E cita la pratica dello shopping, il rito che più di ogni altro descrive ed incarna la società dei consumi e della cultura di massa. Fiske osserva che gruppi di giovani utilizzano i centri commerciali come luoghi di ritrovo sfruttando questo spazio per esprimere una propria identità autonoma e ribelle, gli anziani passeggiano al caldo nel centro commerciale nei mesi invernali senza acquistare nulla, e tante persone guardano le vetrine nella pausa lavorativa di mezzogiorno, sbirciano qua e là nei negozi, provando le merci, guardandosi allo specchio senza avere alcuna intenzione di comprare. Questa teoria porta alle estreme conseguenze la prospettiva della decodifica di Hall. La relativa autonomia, sempre determinata dalle concrete collocazioni sociali dei riceventi, si trasforma in questo caso in un'autonomia assoluta nel contesto di una teoria che potremmo definire della ricezione anarchica. Le culture dei media A differenza della prospettiva della scuola di Francoforte la teoria della mediatizzazione culturale di Altheide e Snow afferma che i media, o meglio, ogni medium specifico sia portatore di una propria, distintiva, visione del mondo. Mutuando i principali concetti della teoria di McLuhan, dalla frame analysis di Goffman e della teoria della costruzione sociale della realtà, i due autori sostengono che la cultura non passa semplicemente attraverso i mass media, ma prende forma nei (e dai) media. Essi costituiscono, infatti, dei fattori primari nella formazione della coscienza collettiva, cioè di quell'insieme di idee sulla realtà sociale che accettiamo come ovvie e date per scontate. I media contribuiscono alla formazione di questa coscienza collettiva non solo perché la alimentano di contenuti, ma più radicalmente perché operano come delle cornici o strutture interpretative della realtà. L'industria culturale e dei media non esprime dunque un'unica ideologia o un codice egemonico o ordine di discorso unico e tendenzialmente onnicomprensivo, ma una pluralità di forme culturali. Pagina 15 di 81 Ogni medium, ma anche ogni genere o formato mediale, si caratterizza infatti per una particolare grammatica o logica, cioè per un proprio modo, tipico e distintivo, di presentare e ricostruire la realtà. Così, ad esempio, le news centrate sull'evento singolo diventano lo schema con cui ci rappresentiamo la realtà socio-politica contemporanea, la situation comedy o la soap opera offrono un termine di paragone per le relazioni della vita quotidiana, la percezione del passato storico assume le forme del romanzo storico o del western, il senso del mistero viene coltivato dalle immagini dei generi fantasy e horror. In secondo luogo queste visioni del mondo dei media non sono riflessi o epifenomeni di determinate relazioni sociali ed economiche o rapporti di potere, ma costituiscono delle vere e proprie forme a priori dell'esperienza culturale alla stregua delle grandi cornici ideologiche e culturali con cui gli individui danno senso alla realtà, quali il cristianesimo, la visione scientifica del mondo o il capitalismo. Tali forme culturali diventano normali e vengono reificate come la realtà nella coscienza collettiva di una società, ed appaiono così pervasive che possono quasi essere assimilate alle istituzioni totali di Goffman. Stili di vita e consumi mediali Il concetto di stile di vita costituisce una radicale contestazione dell'immagine della moderna società industriale come società uniforme e omogeneizzata e, al tempo stesso, la forma più estrema di differenziazione dei riceventi. Esso tuttavia non emerge da una prospettiva antagonistica, ma costituisce forse la più coerente espressione della teoria della demassificazione della società, cioè la teoria del superamento della società di massa per evoluzione interna. Un'idea annunciata, ad esempio, all'inizio degli anni ‘80 da un best seller di Toffler, secondo cui le forze che hanno concorso alla realizzazione della società di massa [cioè urbanizzazione, industrializzazione, burocratizzazione, comunicazione tecnologica] hanno preso improvvisamente ad operare in senso inverso, così da far emergere una società sempre più de-massificata, nella quale cresce lo spazio per le differenze individuali e di gruppo. Se nel significato sociologico più classico, legato agli studi di Weber, Simmel e Veblen, il concetto di stile di vita appare legato a gruppi specifici di status e al prestigio di cui godono, l'uso che si è affermato negli ultimi decenni enfatizza maggiormente la dimensione dell'identità individuale e della costruzione soggettiva rispetto alla collocazione sociale oggettiva. La crescente differenziazione dei valori, delle opinioni, degli atteggiamenti, dei gusti è l'espressione di un orientamento culturale generale delle società industriali avanzate, che Inglehart ha definito postmaterialistico, in cui diventa sempre più importante l'aspetto dell'identità e dell'espressività personale. Gli stili di vita vengono identificati attraverso un particolare tipo di analisi empirica (detto ricerca psicografica) volto ad indagare le determinanti psicologiche e socio-culturali di comportamenti individuali e collettivi. Uno dei primi programmi di ricerca realizzato a partire dagli anni ’60 è il Values and Life Styles che, partendo dalla scala dei bisogni di Maslow e dalla tipologia dei caratteri sociali di Riesman, ha suddiviso la popolazione americana in nove diversi stili di vita. Simili programmi di ricerca sono stati realizzati anche in altri paesi: in Italia ricordiamo Sinottica e Monitor 3SC. Questa metodologia di ricerca consente di identificare dei gruppi con particolari profili socio- culturali relativamente omogenei al loro interno e diversi tra loro, ma anche di coglierne nel corso del tempo i mutamenti quantitativi e qualitativi. Ciò che accomuna questi gruppi non sono tanto e principalmente delle variabili socio-demografiche derivanti dalle grandi strutture di differenziazione sociale, come la classe sociale, il genere, l'età, l'appartenenza etnica, lo status socio-economico, il livello di istruzione o la professione, bensì variabili più sottili e immateriali, quali determinati valori, opinioni, atteggiamenti, gusti, che presentano un certo grado di coerenza e consentono di delineare un profilo psicologico e socio-culturale caratteristico. L'analisi degli stili di vita è strettamente correlata agli stili di consumo e alle mode ed anzi il maggior impulso a questi studi è venuto proprio dalle applicazioni nel campo del marketing e della pubblicità. Ciò è stato possibile perché anche in questo campo si è assistito ad un rovesciamento di prospettiva, legato ai mutamenti del sistema produzione/consumo nelle società industriali avanzate: non è più il cliente che deve adattarsi al prodotto, ma è il prodotto che deve adattarsi al cliente. Questa nuova filosofia aziendale dell'orientamento al consumatore ha trovato il suo punto d'arrivo nel concetto di marketing individualizzato. L'aspetto degli stili di vita è infine collegato alle diverse forme e modalità di uso dei media, in un duplice senso. Da un lato, gli stili di vita influenzano i modelli di consumo e quindi anche i modelli di consumo dei media; dall'altro, l'uso dei media o particolari diete mediali costituiscono una parte integrante di una più ampia costellazione di atteggiamenti e comportamenti psicologici e sociali. Pagina 16 di 81 Il sistema dell’industria culturale Sebbene quello dell'industria culturale rimanga un tema caldo e ideologicamente sensibile, a partire dagli anni ‘70 emerge gradualmente un più chiaro orientamento analitico, che produce una serie di studi e ricerche empiriche sull'industria culturale, i suoi attori, i suoi prodotti, i suoi meccanismi di produzione, distribuzione e consumo. Studiare l'industria culturale come sistema significa analizzare le diverse organizzazioni e i processi attraverso i quali i prodotti culturali vengono creati, distribuiti e fruiti dai consumatori nei mercati nazionali e internazionali. La produzione nell’industria culturale A partire dagli anni ’70 varie ricerche sono state condotte sul processo di produzione e sul management delle industrie culturali: cinema, televisione, editoria e musica leggera. È emerso che le decisioni artistiche in queste industrie sono capillarmente sorvegliate dai vertici aziendali che intervengono in ogni fase della produzione, dalla scrittura dei copioni alla scelta delle strategie promozionali, con esiti non sempre felici a causa di strategie basate su stereotipi e modelli ormai superati. Nell’industria cinematografica e della musica leggera, il numero dei creatori è poi limitato a una cerchia relativamente ristretta ed esclusiva di autori che ne hanno perfettamente assimilato i valori e i modelli espressivi. Anche se si registrano stagioni di particolare effervescenza creativa come gli anni ‘70, in cui si ebbe una straordinaria fioritura di serie televisive destinate ad un grande successo internazionale, sia nel campo cinematografico sia in quello della produzione televisiva vi è una crescente standardizzazione delle formule e una insofferenza verso i contenuti insoliti. In campo televisivo, ad esempio, poiché l'innovazione è percepita come un rischio, vengono selezionati e costruiti prodotti simili a quelli che già hanno ottenuto successo in passato, come libri best seller e film di successo, da cui vengono tratte le serie televisive, oppure si ricombinano formule o ripresentano personaggi già amati e apprezzati dal pubblico. Come nel campo dell'informazione giornalistica, anche nella realizzazione di questi prodotti artistici i creatori e gli strateghi dell'industria culturale si osservano reciprocamente per convalidare le proprie scelte culturali ed estetiche e non trovarsi spiazzati. I sistemi di produzione, circolazione e consumo culturale Le arene culturali Un primo modello del sistema dell’industria culturale è stato proposto da Diana Crane. Si tratta di un modello sincronico, basato sulle interazioni fra i 3 principali ambiti nei quali si determina la produzione e la circolazione dei prodotti culturali. Il settore centrale è dominato da conglomerati che diffondono cultura a pubblici nazionali ed internazionali e ai quali tutti i membri della popolazione sono in qualche modo esposti. La televisione è il principale medium in questo settore, insieme al cinema e ad alcuni grandi quotidiani e periodici di informazione. Il settore periferico è dominato da organizzazioni come network radiofonici, case discografiche ed editori di riviste e libri che diffondono cultura su base nazionale ma a gruppi specifici solitamente basati sull’età e sullo stile di vita. Settore della cultura urbana, prodotta e diffusa in contesti cittadini per pubblici locali. Le organizzazioni che attirano pubblici ristretti con i più esoterici ed eccentrici materiali tendono ad essere organizzazioni culturali locali la cui importanza nella produzione e diffusione della cultura è generalmente trascurata da quanti evidenziano il ruolo della cultura popolare prodotta dai conglomerati. Le organizzazioni culturali locali, che sono solitamente parte di network culturali sono spesso fonte di nuove idee, alcune delle quali raggiungono alla fine l'arena culturale. Mentre la teoria critica dell’industria culturale concepiva il settore centrale come capace di assorbire e amalgamare tutti i contenuti culturali che provenivano dai settori più periferici e marginali, l’analisi delle Pagina 17 di 81 arene culturali di Crane sottolinea invece che c’è una tensione continua tra la tendenza dei media centrali a dominare il sistema nel suo insieme e la regolare proliferazione di nuove organizzazioni culturali nei settori periferico e locale. Nella misura in cui le organizzazioni del settore centrale si fondono per formare conglomerati sempre più grandi, sembra impossibile sfuggire alla minaccia di egemonia, alla imposizione di una concezione del mondo elitaria su tutta la società. In ogni caso, il numero delle organizzazioni nei settori periferico e locale continua a crescere. I generi entro ciascun tipo di cultura tendono continuamente a differenziarsi, così come è costantemente in crescita il numero dei diversi stili di vita. Dalla produzione al consumo: interfacce, filtri e feedback Un secondo modello analitico del sistema dell’industria culturale è stato elaborato da Hirsch, poi ripreso e adattato da Griswold. Questo modello si sviluppa secondo una logica diacronica, nel senso che ricostruisce il viaggio di un prodotto culturale, dalla sua ideazione fino al consumo finale, attraverso una serie di organizzazioni o sottoinsiemi. All’origine del processo vi sono gli artisti creativi: scrittori, compositori, cantanti, attori, registi. Ne fanno parti tutti coloro che pensano, scrivono, compongono, realizzazione performance artistiche. Al suo interno si forma un’area di professionisti, che dispongono di mezzi espressivi e tecnici più sofisticati e intrattengono relazioni privilegiate con il secondo sottosistema, quello manageriale, costituito dalle aziende attive nei diversi settori dell’industria culturale. Tra questi due sottosistemi esiste un'area di confine, che funziona come interfaccia. Gli artisti creativi possono servirsi di agenti o proporsi direttamente alle aziende del settore, le quali, a loro volta, possono utilizzare scopritori di nuovi talenti. Quest'area di connessione è però anche un filtro, una struttura di gatekeeping, che decide chi e che cosa sia interessante dal punto di vista delle organizzazioni manageriali. Si tratta di considerazioni non riferite esclusivamente alla qualità degli artisti e dei prodotti culturali, ma soprattutto alla loro valorizzazione e vendibilità sul mercato. Il sistema manageriale promuove un artista o un prodotto sul mercato con una serie di iniziative pubblicitarie, anche se non tutti ricevono lo stesso trattamento. Le iniziative promozionali si rivolgono direttamente al pubblico, ma possono anche indirizzarsi verso un terzo sottosistema, quello dei mass media. Recensori di libri, giornalisti, disc-jockey, conduttori di talk show, cioè gli operatori e gli intermediari culturali attivi in questo terzo sottosistema, possono promuovere attivamente, bocciare o semplicemente ignorare un prodotto. Trasmettere continuamente una nuova canzone su un network radiofonico, recensire benevolmente un film su un quotidiano o una rivista specializzata, presentare un libro e il suo autore in un seguito programma televisivo, sono scelte che influenzano in modo determinante il successo di un prodotto culturale presso il pubblico. Per questo le organizzazioni manageriali dispongono di uffici stampa e strutture di marketing che intrattengono rapporti con i mass media al fine di assicurare un'accoglienza positiva e un'adeguata promozione dei prodotti culturali. L'accoglienza del prodotto da parte dei mass media costituisce un primo feedback per l'organizzazione manageriale, che in tal modo può disporre di un importante elemento di valutazione del successo di un prodotto. Il carattere strategico di questo legame tra organizzazioni produttive dell'industria culturale e mass media fa sì che si creino varie forme di collusione, dalle bustarelle ai disc-jockey al maggiore spazio che le riviste letterarie riservano ai migliori inserzionisti. A questo proposito occorre anche considerare che, talvolta le aziende produttrici e i mass media fanno parte di uno stesso grande gruppo editoriale e mediale, per cui il sottosistema mediale coopera attivamente come rinforzo e momento costitutivo nella strategia promozionale delle aziende. Attraverso questa successione di filtri il prodotto culturale viene selezionato e canalizzato verso i destinatari. Il pubblico, anche se variamente indirizzato e stimolato all'accoglimento favorevole di un certo prodotto dalla struttura di marketing che lo accompagna, rimane tuttavia l'arbitro finale del suo successo, misurato dal numero di biglietti, dischi o libri venduti e, in riferimento alla televisione, dagli indici di ascolto e di gradimento. La risposta del pubblico costituisce il secondo e inappellabile feedback di cui le aziende dispongono per valutare il successo dei loro prodotti, la validità delle linee editoriali, l'efficacia delle strategie promozionali, la direzione degli investimenti futuri. Pagina 18 di 81 La circolazione internazionale dei prodotti culturali Fino a qualche decennio fa, l’industria culturale si rivolgeva in primo luogo ai mercati domestici. I mercati extranazionali rappresentavano un di più, una specie di valore aggiunto, ma la maggior parte del fatturato veniva realizzato in ambito nazionale. Anche gli attori e i processi dell'industria culturale si collocavano essenzialmente all'interno di contesti nazionali. Oggi non è più così. Un aspetto fondamentale del processo della globalizzazione comunicativa è che i grandi sistemi industriali di produzione vedono derivare la maggior parte dei loro introiti dalle vendite su un mercato globale. Ad esempio, a partire dalla metà degli anni ‘90, l'industria cinematografica statunitense ricava la maggior parte dei suoi introiti dalle vendite all'estero rispetto al mercato domestico americano, senza contare i video e i passaggi televisivi. Lo stesso accade per i programmi televisivi. Il mercato mondiale mostra una continua crescita del volume degli scambi negli ultimi 3 decenni. Il quadro generale appare caratterizzato dai seguenti elementi: A livello globale poche nazioni occidentali, con in testa gli USA, figurano tra i principali produttori di programmi televisivi. In numerosi paesi, la % dei programmi importati raggiunge quote ragguardevoli dell’intera programmazione, con presenze significative nelle fasce di maggior ascolto. Il flusso è costituito soprattuto da programmi di intrattenimento e di evasione. In termini di dipendenza dall’estero, anche i paesi europei risultano fortemente dipendenti dagli USA. Questo quadro del flusso internazionale dei prodotti dell’industria cinematografica e televisiva è stato messo in discussione da alcune evidenze empiriche che lo arricchiscono di alcuni importanti elementi: Numerose ricerche in diversi paesi hanno dimostrato la preferenza del pubblico per la fiction di produzione nazionale, purché di qualità accettabile, sulla base del principio della prossimità culturale, che è uno dei principali regolatori dei consumi culturali e mediali. I programmi acquistati all'estero si attestano in genere su livelli di ascolto medi, mentre i picchi di audience premiano sistematicamente la fiction domestica. Così negli ultimi anni in Europa, anche in relazione al rafforzamento delle capacità produttive dell'industria nazionale, la fiction di produzione domestica ha conquistato il prime time, mentre permane un predominio americano nelle altre fasce di programmazione durante la giornata. Si ridisegna la geografia dei centri di produzione. Un caso interessante è rappresentato dall'America Latina, una delle aree in cui tradizionalmente più alta risultava la penetrazione dei prodotti dell'industria culturale americana. Nel 1982 una ricerca in 6 paesi ha messo in luce la tendenza a produrre di più e ad importare di meno. I primi passi in questa direzione sono stati compiuti dal Messico, seguito da Brasile, Argentina e Venezuela. Protagoniste principali di questa inversione di tendenza erano le telenovele, un tipo di soap opera che costituisce il più popolare genere televisivo di produzione latino-americana. Il loro successo internazionale non solo avrebbe favorito la riduzione delle importazioni, ma avrebbe anche in qualche modo equilibrato il rapporto con i paesi più industrializzati costituendo un importante prodotto di esportazione. Anche i prodotti dell’industria culturale occidentale più affermati ricevono un’accoglienza diversa nei vari contesti nazionali e socio-culturali. È il caso di Dallas, che costituì uno dei più grandi successi televisivi internazionali degli anni ‘80, citato come l'esempio più evidente della conquista del mondo da parte dell'industria televisiva americana. I sostenitori della tesi dell'imperialismo culturale vi hanno visto, infatti, un tipico caso di esportazione dei modelli culturali americani: valori, concezioni, modi di intendere i rapporti sociali e familiari, penetrano impercettibilmente nella mentalità di chi guarda il programma, anche in contesti lontanissimi da quello in cui esso è nato e che vi è rappresentato. Alle analisi qualitative del contenuto si sono affiancati vari studi sul significato attribuito a Dallas dai pubblici di diversi paesi. La più nota e influente ricerca è costituita da un ampio studio comparativo di Liebes e Katz (1987,1990). Pagina 19 di 81 La ricerca analizza 4 pubblici di diversa origine etnica e culturale in Israele, messi a confronto con il pubblico americano di Los Angeles e il pubblico giapponese, di un paese cioè dove Dallas ha registrato uno dei pochi brucianti insuccessi. Dall'analisi è risultato che gli schemi interpretativi dei gruppi appartenenti alla stessa comunità culturale erano assai simili per forma e contenuto, mentre differivano notevolmente da comunità a comunità. Un'importante conclusione a cui perviene la ricerca di Liebes e Katz è che i valori dei gruppi sociali e la loro collocazione sociale influenza profondamente l'attività di ricezione, confermando la prospettiva espressa ad esempio da Hall e da altri autori dei Cultural Studies, ma volgendola contro le tesi dei sostenitori dell'imperialismo culturale. La comprensione deriva sempre da una complessa interazione fra testo e ricevente. Il testo ha senza dubbio una sua oggettività ed è costruito secondo una serie di criteri culturali, ideologici e stilistici ben definiti, che dirigono l'attenzione su certi temi e guidano le possibili interpretazioni. Al tempo stesso però lo spettatore, inserito in determinate comunità interpretative, dispone sempre di una capacità di decodifica e negoziazione dei significati sia dal punto di vista estetico, sia dal punto di vista morale e ideologico. CAPITOLO 2, L’influenza personale e le comunicazioni di massa L’influenza personale come chiave di lettura del rapporto tra media e società Negli anni ’40, presso la Columbia University, si sviluppa un programma di ricerca teso ad indagare sul campo l’efficacia della comunicazione politica, sulla quale si era in precedenza costruita la lettura dell’influenza forte e diretta delle comunicazioni di massa. Il lavoro della Bureau of Applied Social Research, l’unità di ricerca della prestigiosa università di New York, ha per oggetto il confronto dei vari mezzi di comunicazione, incluso lo scambio interpersonale proprio delle interazioni faccia a faccia, nel produrre un cambiamento di atteggiamento. Le risultanze della ricerca capostipite di questo programma - pubblicata nel 1944 con il titolo The People's Choice - evidenziano la maggiore capacità di esercitare questo tipo di influenza in campo politico-elettorale da parte delle relazioni interpersonali, rispetto ai flussi comunicativi provenienti dai giornali e dalla radio, cominciando a configurare un profondo cambiamento di prospettiva nello studio e nell'interpretazione del rapporto tra mass media e società. Innanzitutto viene superato il concetto principe che nelle teorie precedenti identifica l'insieme dei destinatari-riceventi, ossia quello di massa, nella sua duplice accezione: Da un lato come insieme di individui disancorati dalla cultura di origine e di antica appartenenza (a classi, gruppi etnici, comunità religiose, territori ecc.). Dall’altro lato come aggregato sociale di persone isolate e inabilitate a creare gruppi o altre formazioni sociali in grado di definire una propria identità, a fronte della capacità dei mezzi di comunicazione di massa di generalizzare una cultura della conformità e dell'apatia. Da un punto di vista molto generale, la scoperta dell'importanza dell'influenza personale restituisce centralità ai gruppi primari, dalla famiglia, alla cerchia degli amici e a quella dei colleghi di lavoro, fino ai club o altri tipi di organizzazioni, come ambienti in cui il pensiero e gli atteggiamenti delle persone si formano e subiscono, eventualmente, dei cambiamenti. La cultura dei gruppi sociali non sembrerebbe quindi vittima di un'ineluttabile forza di erosione e di annientamento, rappresentata dall'irrompere sulla scena sociale dell'industrializzazione, dell'urbanizzazione e delle comunicazioni di massa. Guardando al modello di società e di processo comunicativo sottostante alla riflessione scientifica sulle comunicazioni di massa sviluppatasi a partire dagli anni venti, Katz e Lazarsfeld osservano che quegli studiosi, prevalentemente influenzati dalle concezioni proprie delle scuole sociologiche europee di fine ‘800, muovevano in primo luogo dall'immagine di una massa atomizzata di milioni di lettori, ascoltatori e spettatori pronti a ricevere il messaggio. In secondo luogo, immaginavano ogni messaggio come uno stimolo diretto e potente, tale da produrre una immediata risposta. In breve i mass media venivano considerati come un nuovo tipo di forza unificatrice che si estende a toccare ogni occhio e ogni orecchio in una società caratterizzata da scarsità di relazioni interpersonali e da un'organizzazione sociale amorfa. Nelle scienze sociali vi è stata però la scoperta delle persone, e vi è stata sopratutto la riscoperta del piccolo gruppo, tratto comune a varie indagini degli anni ‘40 e ‘50 che hanno dovuto, inaspettatamente Pagina 20 di 81 rispetto alle premesse, prendere atto della rilevanza dei gruppi primari e dei gruppi informali nelle dinamiche sociali, compresa la persuasione tramite i mezzi di comunicazione di massa. Sono due le caratteristiche determinanti dei piccoli gruppi, e più esattamente delle relazioni interpersonali, che li impongono come variabili decisive negli studi sulla comunicazione e sulla persuasione di massa: La comunanza di opinioni e atteggiamenti. Riguardo questo punto, occorre considerare le relazioni interpersonali come punti di ancoraggio di opinioni, atteggiamenti, abitudini e valori, nel senso che le persone producono collettivamente delle idee e dei comportamenti e tendono a mantenerli, poiché tali gruppi hanno una notevole forza di integrazione e di coesione. Il fatto di costituire reti di comunicazione. Riguardo questo secondo punto, si può dire che i gruppi primari possono servire da canali per la trasmissione di comunicazioni provenienti dai mass media, tramite ciò che possiamo definire la funzione di relè svolta dalle relazioni interpersonali, intesa come funzione di collegamento e intermediazione. Entro tale funzione un ruolo determinante viene esercitato da alcune persone più esposte alla comunicazione di massa, dette leader d’opinione, capaci di convincere gli altri ad assumere un certo atteggiamento verso specifici problemi che implicano una decisione. Va precisato che i leader d’opinione non costituiscono un gruppo autonomo e separato e che la leadership d'opinione non è un carattere che alcuni hanno ed altri non hanno, ma è piuttosto una parte integrante della continua interazione che ha luogo nei rapporti quotidiani fra persone. Il processo comunicativo della persuasione di massa è un processo che si svolge sempre a due livelli (o due fasi): Il primo va dai media ai leader di opinione. Il secondo va dai leader di opinione agli altri membri del gruppo (flusso della comunicazione a due livelli). Nella schematizzazione non deve però perdersi un aspetto essenziale: la trasmissione non è da intendersi come un semplice passaggio di informazioni, ma come momento in cui si produce l'influenza. L'influenza, intesa come capacità di convincere il pubblico di massa, si colloca al secondo livello del flusso di comunicazione. Quindi la persuasione perseguita attraverso campagne di comunicazione di massa è efficace o meno solo grazie al ruolo svolto da tali figure di leader all'interno dei piccoli gruppi. Le relazioni interpersonali diventano la variabile interveniente più importante tra messaggio e reazione al messaggio; l'influenza dei media, mediata dalle relazioni interpersonali di gruppo, si frantuma, percorrendo le molteplici strade dei network personali. Leadership di opinione e campagne elettorali Il programma di ricerca del Bureau of Applied Social Research parte dal problema della decisione di voto, con un’indagine sulla campagna elettorale presidenziale del 1940. Si può dire che l'interesse per la comunicazione elettorale e per le sue conseguenze sia stato quello fondamentale di tutto il programma, anche se i primi risultati spingeranno il gruppo di ricercatori a rivolgere successivamente la loro attenzione a tipi di comunicazione diversi. Il problema di un cambiamento nel comportamento di voto indotto dai mass media ripete l'originario interesse della ricerca nel campo della comunicazione per la propaganda, ma rappresenta anche l'anticipazione di un oggetto di studio e di dibattito pubblico che esploderà negli anni ‘70 e, soprattutto, negli anni ‘70, quando apparirà chiaro che gli elettori hann