Filosofia del Diritto - Lezione 5 (Slide) PDF
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This document provides lecture notes on the theories of interpretation in the field of law. It looks at the concept of interpretation, its problems and different interpretations proposed in the past and present. It also details the related topics from a philosophical viewpoint.
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Lezione 5 Sessione 0 TEORIE DELL’INTERPRETAZIONE 1 L’interpretazione Il problema della interpretazione del diritto attiene alla comunicazione dei criteri di condotta. L'interpretazione è il modo con cui una comunicazione viene recepita e, quindi, i problemi dell'inter...
Lezione 5 Sessione 0 TEORIE DELL’INTERPRETAZIONE 1 L’interpretazione Il problema della interpretazione del diritto attiene alla comunicazione dei criteri di condotta. L'interpretazione è il modo con cui una comunicazione viene recepita e, quindi, i problemi dell'interpretazione sono relativi ai difetti ed alle disfunzioni che la comunicazione linguistica può portare con sé. Le incertezze e le difficoltà di recepire gli aspetti essenziali di ciò che è comunicato costituiscono per buona parte la problematica dell’interpretazione del diritto. Interpretazione: Significa risalire da un segno al suo significato. Il termine latino interpretatio traduce il greco hermeneia, che però aveva un significato più ristretto. Infatti, Platone parla di hermeneia in un contesto in cui distingue tra oggetti che non sollevano problemi per l’intelligenza e oggetti che, invece, pongono un problema perché colpiscono il senso con impressioni tra loro opposte (dette appunto interpretazioni). Interpretare Indica il modo di cogliere qualcosa offerto dal mondo esterno. In San Tommaso è presente anche il significato di interpretazione come delucidazione dei significati oscuri di un testo. Da questa accezione, e dall’elaborazione intorno al problema dei sensi della Sacra Scrittura, il termine passerà nell’uso moderno. L’età moderna si apre sotto il segno della ricerca di un criterio che serva a limitare gli arbitri dell’interpretazione figurale giunta ai suoi estremi nella speculazione rinascimentale. Nel Settecento l’interpretazione passa dal campo ristretto dell’esegesi biblica ogni tipo di testo. Interpretazione viene, così, a significare la comprensione di ogni testo il cui senso non sia immediatamente perspicuo dal quale cuna 2 qualche distanza (linguistica, storica, psicologica). L’interpretazione ha a che fare dunque con lo svelamento di un senso nascosto. Inizia a farsi strada il dibattito sull’interpretazione intorno al problema che esso poneva, ovvero Fino a che punto l’interpretazione miri semplicemente a ricostruire il senso inteso dall’autore e fino a che punto l’interpretazione apporti nuove conoscenze. Le teorie dell’interpretazione elaborate nel Novecento accentuano di volta in volta uno degli elementi accumulati Nella nozione lungo il corso della storia (e cioè il riferimento al linguaggio, la storicità, lo svelamento dei sensi oscuri). L’interpretazione giuridica Quando oggetto dell'interpretazione sono le norme, si parla di “interpretazione giuridica”. Fino al secolo scorso, oltre ad essere un’attività eventuale cui ricorrere solo in casi estremi e marginali, l’interpretazione è sempre stata un’attività pericolosa da dover tenere sotto controllo da parte del Legislatore. La scelta dell’interprete del diritto (o del giudice) è guidata da principi, che, pur non essendo diritto positivo, tuttavia ne costituiscono il presupposto. Ogni giudice, nell'applicare una norma, non può fare a meno di pensare che lo scopo di questa sia ragionevole, che essa non sia diretta ad attuare ingiustizie o a offendere principi morali consolidati. Il giudice quindi sarà imparziale e neutrale nell'esaminare tutte le alternative, nel considerare gli interessi di tutte le persone coinvolte nel caso, e cercherà di usare qualche principio generale accettabile come base ragionata per la decisione. Questo equipaggiamento 3 morale del giudice fa parte del metodo interpretativo perché garantisce un'equilibrata determinazione della norma Questo metodo garantisce che una decisione possa essere resa accettabile come il prodotto ragionato di una scelta consapevole e imparziale. 4 PREMESSA SULLE TEORIE DELL’INTERPRETAZIONE GIURIDICA Per quanto concerne la teoria dell’interpretazione giuridica (e il suo specifico settore rappresentato dall’interpretazione della legge), è opportuno distinguere due diversi ambiti di ricerca. Il primo settore è rappresentato dalla teoria dell’interpretazione giuridica in senso stretto, che guarda a questa attività da un punto di vista strutturale. Tale teoria si preoccupa di esaminare il modo in cui l’interpretazione effettua le sue attribuzioni di significato, nei suoi profili metodologici e nelle sue implicazioni teoriche. Qui il nodo centrale è come debba essere caratterizzato il processo di attribuzione di significato alla disposizione. L’attribuzione di significato può essere caratterizzata come una scoperta? Oppure si tratta di una creazione? Il secondo settore è costituito dalla teoria dell’argomentazione giuridica (il perché dell’interpretazione), che si preoccupa della questione del perché si sia realizzata una determinata attribuzione di significato e non un’altra; essa si pone l’obiettivo di esaminare gli argomenti usati o da usare dalla dottrina e dalla giurisprudenza per giustificare un certo tipo di risultato interpretativo e/o applicativo. 5 TEORIA DELL’INTERPRETAZIONE GIURIDICA IN SENSO STRETTO Sulla relazione interpretazione e significato, nell’area della filosofia analitica sono in particolare Backer e Hacker ad introdurre tale nozione, per i quali conoscere una regola significa sapere quali atti contano come corretta applicazione di essa. Sostenere che esiste una relazione interna fra significato e interpretazione equivale ad affermare che non è concettualmente possibile sviluppare definizioni e teorie dell’interpretazione che non siano anche, e necessariamente, definizioni e teorie del significato. Formalismo Il primo orientamento, che è anche quello storicamente più risalente, è il formalismo interpretativo, che trova le sue origini in Francia, agli inizi del 1800 da parte della Scuola dell’Esegesi (scuola di giuristi che contribuiscono prima a creare il grande edificio della Codificazione Napoleonica, e che poi si preoccupano di sottoporre ad interpretazione le sue norme). L’idea centrale che questa scuola porta avanti è il principio della completezza della legge, ossia l’idea per cui nel codice ci siano tutte le risorse per consentire di decidere tutte le fattispecie concrete. Il codice è considerato tendenzialmente completo, o comunque completabile senza stravolgimenti da parte dall’interprete. L’interprete deve quindi tirar fuori dai testi tutto ciò che essi già contengono, anche solo implicitamente. Il criterio ermeneutico fondamentale per cogliere il significato delle espressioni contenute nelle varie disposizioni è quello della intenzione o volontà storica del legislatore, sottesa alla formulazione dell’enunciato. Nei casi in cui la volontà reale non risulti palese e manifesta nel 6 testo, si va in cerca della volontà presunta, e cioè ci si sforza di cogliere quale sarebbe stata l’intenzione del legislatore concreto se avesse potuto prevedere la situazione per la quale, appunto, manca una sua indicazione specifica, chiara. L’idea centrale del formalismo interpretativo è, in primo luogo, dunque, quella secondo cui interpretare è “scoprire un significato preesistente” e, in secondo luogo, quella secondo cui tale significato, nei casi in cui vengano poste in essere interpretazioni genuine, è l’unico significato vero, corretto. Antiformalismo Il secondo gruppo di orientamenti è rappresentato dall’antiformalismo interpretativo. Il secondo gruppo di orientamenti è rappresentato dall’antiformalismo interpretativo (d’ora in poi semplicemente antiformalismo). L’antiformalismo interpretativo non esprime, ancora più che il formalismo interpretativo, una teoria dell’interpretazione unitaria; soprattutto ai suoi inizi, verso la fine del 1800, esso si caratterizza come un insieme di forti reazioni critiche agli eccessi del formalismo, reazioni che cominciano a svilupparsi in Germania e poi anche in Francia e in Italia. Tre sono le tendenze principali in cui si condensa questa reazione, fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo: la giurisprudenza degli interessi e il movimento del diritto libero. L’idea centrale comunemente condivisa è quella secondo cui l’attività interpretativa genuina crea il significato della disposizione nel momento in cui applica il diritto al caso concreto. Vi sono dei casi in cui questa creazione non 7 si verifica, perché la soluzione è talmente ovvia che viene direttamente ricavata dalla norma. Tuttavia nei casi che sono, invece, rilevanti per la teoria dell’interpretazione, il significato non viene colto dall’indagine semantica avente per oggetto una disposizione, ma viene ricavato direttamente dall’esame della realtà economicosociale sottostante, dalla quale l’interprete trae la soluzione interpretativa più adeguata, individuando valori-guida, selezionando gli interessi più rilevanti, facendo appello al proprio senso di equità. Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un forte declino delle concezioni formalistiche, mentre quelle antiformalistiche attraversano, soprattutto all’interno della nostra cultura giuridica, un periodo di particolare vivacità. La giurisprudenza degli interessi La giurisprudenza degli interessi è un pensiero filosofico creato da Rudolf von Jhering (1818-1892). Egli sostenne che la scienza del diritto deve ricercare gli interessi (scopi) che costituiscono il principio fondatore del diritto. Si tratta di una tesi che si pone in contrasto con la giurisprudenza dei concetti, coniata dallo Heck. Il primato della logica che la giurisprudenza dei concetti ha fatto valere nel lavoro della scienza giuridica viene soppiantato dal “primato dello studio e della valutazione della vita. Scoprire ultimo della scienza giuridica e dell’attività dei giudici e l’appagamento dei bisogni della vita e delle tendenze appetiti ve esistenti nella comunità giuridica sia materiali che ideali”. A questi interessi guarda la giurisprudenza degli interessi che “cerca di tenere presente questo scopo finale anche in ogni singola operazione in ogni costruzione di 8 concetti” e considera le leggi come “risultanti degli interessi di carattere materiale nazionale religioso ed etico che in ogni comunità giuridica si affrontano e lottano per essere riconosciuti”. Heck respinge l’opinione secondo lui l’ordinamento giuridico sarebbe senza lacune e che per qualsiasi caso possa trovarsi all’interno dell’ordinamento la norma in base a cui deciderlo. Egli ritiene che un caso di lacuna si debba compiere uno sviluppo assiologico del comando del legislatore tenendo presente interessi in gioco e cercando di non integrarli in basi a giudizi di valore. Si evince, dunque, come la giurisprudenza degli interessi sia del tutto in contrasto con il positivismo giuridico secondo cui l’ordinamento non avrebbe alcuna lacuna. Il movimento del diritto libero La giurisprudenza degli interessi è una delle manifestazioni di un più ampio fenomeno che ha preso il nome di movimento del diritto libero. Questo movimento, questa tendenza assume forme diverse e tra l’Ottocento e il Novecento si manifesta in molti campi dall’arte alla religione. La caratteristica sostanziale e la rivolta contro la tradizione e il conformismo. Il primo esponente del movimento fu Eugenio Ehrlich, Il quale affermava il valore di una libera ricerca del diritto di contro al principio dell’applicazione meccanica del comando del legislatore ha fatti concreti. La tesi più innovatrice fu sostenuta da Ermanno Kantorowicz (1877-1940), Il quale sostenne che accanto al diritto statuale anzi prima di esso esistesse con 9 pari valore il diritto libero, prodotto dall’opinione giuridica dei membri della società, dalle sentenze dei giudici e dalla scienza giuridica. Uno dei principi del movimento libero fu il rifiuto del dogma legalistico delle scuole classiche dell’Ottocento per cui il diritto era soltanto la norma costituita dalla legge o ricavata mediante procedimenti logici dal sistema delle leggi, e non era dato all’interprete di ricorrere a procedimenti extra-legali. Il movimento ha come idea centrale che in qualsiasi ordinamento legislativo permane uno spazio vuoto che spetta al l’interprete colmare. 10 TEORIA DELL’ARGOMENTAZIONE GIURIDICA La teoria dell’argomentazione di Alexy consiste in una dottrina procedurale del discorso pratico razionale generale. Tale proposta è finalizzata a una adeguata rappresentazione delle procedure mediante le quali le scelte giuridiche vengono giustificate. In quest’ottica, i processi giustificativi, sia giuridici, che pratico-generali, sono intesi come attività dialogiche alle quali prendono parte soggetti che hanno interessi diversi. Alexy insiste sulla struttura discorsiva dell’esperienza pratica generale e, in particolare, della comprensione giuridica. Secondo Alexy una tesi normativa è razionalmente giustificata solo se costituisce il risultato di una procedura argomentativa razionale. Riconoscere l’esistenza di alcune regole procedurali vincolanti significa poter disporre di una struttura indispensabile per giudicare la correttezza e non arbitrarietà di una decisione. Alexy attribuisce al discorso giuridico natura contrattuale, ossia ritiene che esso sia fondato sull'accordo tra i parlanti. Il giurista individua nel discorso giuridico due elementi centrali: la pretesa di correttezza e il principio di universalizzabilità. La pretesa di correttezza, che costituisce il punto di saldatura tra diritto e morale, comporta l’osservanza formale di un ordinamento vigente. Il principio di universalizzabilità ripropone l'approccio morale kantiano come istanza di controllo, anche nell’analisi del discorso giuridico. 11 Lezione 5 Sessione 1 bis DOTTRINA TRADIZIONALE ED ERMENEUTICA 1 DOTTRINA TRADIZIONALE DELL’INTEPRETAZIONE E NUOVA COSCIENZA ERMENEUTICA La dottrina tradizionale è fondata sull’idea che il senso degli enunciati normativi sia fondamentalmente univoco e che possa essere colto dall’interprete senza particolare fatica ermeneutica. A questa teoria si riferiscono le disposizioni sull’interpretazione che già per il loro carattere normativo fanno trasparire l’intenzione delle legislatore di porre netti limiti alla libertà dell’interprete. L’articolo 12 delle Preleggi recita: “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”. Le linee fondamentali della dottrina tradizionale dell’interpretazione giungono a maturazione nelle giuspositivismo ottocentesco. La critica a questa impostazione tradizionale ha avuto carattere filosofico e si è compiuta con il diffondersi di una nuova coscienza ermeneutica in senso stretto. Lo sviluppo della nuova coscienza ermeneutica ha comportato non solo la riformulazione delle categorie fondamentali del giuspositivismo ottocentesco, ma anche il crollo della variante chiamata logicismo giuridico e, conseguentemente, della convinzione che possano darsi interpretazioni vere 2 in assoluto e che possano darsi interpretazioni passive (cioè tali da non mettere in gioco la personalità dell’autore). Oggi va ritenuto alla stregua di un principio ormai acquisito, innanzitutto, che l’interprete nella sua attività individua non la norma ma una delle possibili norme nell’enunciato normativo; in secondo luogo che l’individuazione della norma (e, dunque, l’attività di interpretazione) implica da parte sua un atteggiamento assolutamente attivo sul testo da interpretare. L’attività dell’interprete, infatti, non può essere ritenuta passiva, poiché egli non è chiamato a chiarire il significato implicito di un enunciato, bensì ad attribuire a quell’enunciato un significato. L’interprete è, dunque, un produttore di norme. In questa prospettiva, la validità della norma altro non è che la dimensione formale del potere decisionale posseduto dal giudice e viene a coincidere con l’effettuare lita propria dell’ordinamento giuridico. L’ermeneutica ci obbliga insomma a ripensare e a riformulare una serie di concezioni giuridiche tradizionali da quella della certezza del diritto a quella della funzione del giurista. 3 I criteri dell’ermeneutica La sfida di fronte alla quale si trova il pensiero ermeneutico è: può esso indicare criteri intrinseci per sottrarre il sapere giuridico alla tentazione del non senso? I criteri cui può fare riferimento l’ermeneutica sono: IL DATO PRECEDE IL PENSIERO Il primo criterio implica il prendere sul serio il circolo ermeneutico, che può essere enunciato utilizzando un’espressione di Italo Mancini, secondo cui “L’avvio ermeneutico è legato non alla protologia del pensare ma alla deuteronomicità del riconoscere”. Non c’è ermeneutica autentica se non si parte dall’ammissione che il dato precede il pensiero e che esso va rispettato. Per colui che interpreta questo dato non si identifica solo col diritto positivo inteso come norma materiale, ma soprattutto con le aspettative di giustizia presenti nella società. Nei confronti di queste aspettative il giurista interprete è in debito, nel senso che deve rendere giustizia e questo debito costituisce un criterio di individuazione del giusto significato da attribuire alla norma. IL GIUDICE DEVE APPLICARE IL DIRITTO Il giurista interprete vuole non solo conoscere la realtà ma modificarla. Egli sarà chiamato a dare all’enunciato del legislatore quella interpretazione che, adeguandosi più di ogni altra alla realtà, avrà forza incisiva su di essa per ordinarla, pacificarla e salvarla. LA FEDELTÀ AL DIRITTO COME FEDELTÀ ALL’ESSERE Il terzo criterio riassume i due precedenti e fa riferimento alla fedeltà. La fedeltà a cui bisogna fare riferimento e una fedeltà all’ essere poiché 4 l’attività del comprendere presuppone la possibilità da parte dell’essere ad essere compreso. Fedeltà all’essere per il giurista è fedeltà al diritto. Infatti, il giurista e tenuto ad una attività ermeneutica nei limiti in cui egli presupponga l’antecedenza del diritto alla legge positiva. Chiaramente questo presuppone che il diritto antecedente alla legge sia un diritto non formulato positivamente, un diritto di principio, il diritto naturale. 5 Lezione 5 Sessione 2 LA FILOSOFIA ERMENEUTICA E I PROBLEMI DI APPLICAZIONE 1 L’ermeneutica filosofica come filosofia ermeneutica La filosofia ermeneutica rappresenta anzitutto una nuova esperienza che consiste nel ritrovare le nostre stesse questioni, i nostri problemi, nei testi filosofici e nei problemi da loro posti nel corso della nostra tradizione di pensiero, in una sorta di colloquio, di dialogo tra passato e presente, che abbatte l’unilateralità della coscienza metodologica, sia storicista che scientista. Questo incontro con il passato o questo modo di affrontare nuovamente i problemi filosofici diviene non un metodo, nel senso di applicazione di leggi universali agli oggetti particolari della ricerca, ma un accesso alla verità delle cose stesse, che raggiungiamo direttamente attraverso le domande implicite nei testi e nei problemi filosofici. Gadamer (1900 - 2002) sul senso della sua filosofia ermeneutica scriveva: «In effetti la nascita della mia filosofia ermeneutica non è in fondo nient’altro che il tentativo di dare una legittimazione teoretica allo stile dei miei studi e del mio insegnamento. La prassi era la cosa primaria. Fin da sempre io ero preoccupato, quasi in modo angoscioso, di non dire troppo, e di non arrivare mai a costruzioni teoretiche che non potessero trovare riscontro nell’ esperienza». La coscienza storico-effettuale e la riabilitazione del pregiudizio precomprensione Un’analisi dell’esperienza ermeneutica, cioè dell’interpretazione, è rimandata all’ analisi dei presupposti della coscienza storicamente determinata. Il primo di questi presupposti, o della struttura della precomprensione, è quello 2 della riabilitazione dei pregiudizi, che dal punto di vista conoscitivo è parallela a quella dell’occasionale e del decorativo nell’esperienza estetica. I pregiudizi non sono, come voleva l’Illuminismo, soltanto il ricettacolo o il frutto dell’ignoranza e dell’oscurantismo dei tempi passati, ma rappresentano il punto di partenza dal quale ci muoviamo, ovvero le condizioni del nostro conoscere; essi costituiscono la storicità del nostro intendere. Questo comporta anche una riabilitazione dell’autorità e della tradizione storica, in particolare di quell’autorità che ci si impone per la sua superiorità nel campo stesso della conoscenza e del giudizio critico; l’autorità non significa semplice accettazione, ma riconoscimento di una superiore conoscenza. L’interpretazione come “fusione degli orizzonti” e il suo valore di verità La distanza temporale tra l’autore e il testo interpretato che appartengono al passato, e l’interpretare nella situazione presente, costituisce l’autentica dimensione dell’ermeneutica. Questa tensione che si rivela nell’interpretazione delle voci della tradizione, in un colloquio che è appunto l’essere nella tradizione, e il proseguire della tradizione stessa, è la situazione della distanza temporale; è questo essere situato dell’interpretazione che viene chiamato da Gadamer, sulla scia di Nietzsche e di Husserl, un orizzonte, in quanto è il punto in base al quale riusciamo a vedere e capire tanto il nostro passato quanto il nostro stesso presente. Poiché comunque è soltanto nel nostro presente oriz- zonte che possiamo essere situati, mentre il testo o l’autore interpretato appartengono al loro proprio orizzonte, l’opera dell’interpretazione o 3 l’esperienza ermeneutica non potrà consistere che in una fusione degli oriz- zonti, cioè del nostro orizzonte presente e dell’orizzonte passato in cui il testo e l’autore interpretati sono a loro volta situati. Questa fusione degli orizzonti rende comunque impossibile una completa immedesimazione nello spirito del tempo passato, una sua completa e oggettiva ricostruzione e quindi anche una sua esaustiva comprensione, per via appunto dell’incolmabile distanza tra il nostro orizzonte e quello del passato. Ma tutto questo, più che essere un male, è il vero momento positivo dell’interpretazione. Quel che avviene è la vera e propria crescita del testo, la sua concrezione nel rapporto con il presente, tramite il mondo dell’interprete ed il suo orizzonte. In questo accrescimento ontologico del testo e dei problemi in esso trattati tramite le domande che poniamo al testo consiste la verità dell’interpretazione. La verità non è mai l’adeguazione o la ricostruzione perfetta del testo, ma ciò che il testo ci svela del reale, e questo svelamento viene semplicemente accresciuto dalle domande che l’interpretazione pone al testo e le risposte che le risposte che l’interprete ottiene dal testo interpretato. L’interpretazione infatti non può essere limitata semplicemente alla ricostruzione filologica del testo, poiché la semplice ricostruzione filalogica del testo non può essere mai l’essenziale dell’interpretazione, ovvero l’interpretazione essenziale. Il circolo ermeneutico della precomprensione e pregiudizio La struttura della precomprensione, ovvero i presupposti o pregiudizi che formano le condizioni del nostro intendere, sono una sorta di anticipazione del conoscere, poiché li portiamo con noi prima dell’effettiva conoscenza; essi 4 appartengono infatti al nostro orizzonte conoscitivo e guidano la conoscenza stessa. Questa struttura della precomprensione in quanto principio attivo e reale del conoscere viene chiamato da Gadamer anche l’anticipazione della perfezione, o della completezza della conoscenza stessa. Il circolo ermeneutico consiste in questo: poiché la struttura della precomprensione e l’anticipazione della perfezione, cioè della conoscenza veramente adeguata ci costringono, nell’ effettivo lavoro ermeneutico, a cambiare i pregiudizi stessi, ovvero nel confronto con pregiudizi diversi, o con le diverse pre-comprensioni che sono sottese ai testi che incontriamo, l’interpretazione è costretta a ritornare sui propri pregiudizi, dai quali si accorge di essere stata all’inizio guidata, sia per confermarli, per negarli o toglierli; ed è in questo ritornare su di sé che si dimostra la forza reale del circolo ermeneutico, o dell’anticipazione che l’interpretazione porta con sé nell’incontro con i testi. Il circolo non è un circolo vizioso, viziato cioè dai presupposti da cui era partito, quando l’interpretazione effettivamente funziona, o è quella seria interpretazione che non si sovrappone semplicemente al testo, o vi sovrappone i propri pregiudizi e la propria precomprensione, poiché l’autentico incontro con l’alterità dell’altro, del testo che appartiene ad un mondo altrui, non è tanto la scoperta dei pregiudizi del mondo interpretato, ma piuttosto dei propri pregiudizi, nella confrontazione con i pregiudizi altrui. Tutto è pregiudizio! Gadamer si richiama in questo a Heidegger: il problema non è quello di evitare il circolo ermeneutico, ma del come ci muoviamo in esso, e cioè del muoverci in esso in senso autentico. Questa autenticità è data dal modo in cui riusciamo a metterci 5 effettivamente in contatto con il punto di vista altrui, in modo da abbandonare i nostri pregiudizi e da acquistare comprensione. Il problema della applicazione Nel momento in cui il diritto è stato posto e fissato nel testo giuridico acquisisce una sua cogenza ed universalità; ma questa sua validità universale deve poi confrontarsi la l’infinita particolarità e peculiarità dei casi. Mai un caso è l’esatta riproduzione della legge emanata. Come applicare dunque l’universalità della legge, di cui abbiamo sempre una precomprensione nel nostro tempo, al caso particolare? 6 Lezione 5 Sessione 3 Figure del dibattito giuridico ermeneutico contemporaneo 1 Emilio Betti (1890 -1968) Sul tema dell’interpretazione si sono misurati numerosi filosofi. L’ermeneutica giuridica ha, però, una tradizione in Italia grazie a Emilio Betti. Nell’analizzare la teoria dell’interpretazione giuridica di Betti è necessario muovere dal presupposto della non esclusività e della non autosufficienza del punto di vista giuridico. Il diritto non è, nella visione bettiana, un universo chiuso, delimitato, bastante a se stesso, ma lo strato spirituale di un processo di realizzazione dello spirito la cui vita si obiettivizza anche in altre forme rappresentative. Si tratta di un concetto che, riprendendo la teoria idealistica dello spirito oggettivo, mostra il rilevante influsso su Betti della filosofia di Dilthey, Nietzche e Bergson. Ciò che conferisce unità di senso al diritto è precisamente la sua natura di totalità spirituale, di unità organizzata in se stessa coerente: esso è dunque ordine giuridico in quanto integrato e sviluppato a dovere da chi lo interpreta, detta la massima della decisione di possibili conflitti e, attraverso la massima, determina l’agire richiesto dal diritto nella vita sociale. L’antinormativismo storicistico bettiano perviene ad esiti sostanzialmente non dissimili, nel senso del riconoscimento della creatività e della produttività della funzione dell’interprete, da quelli della più accreditata metodologia giuridica contemporanea, di cui condivide la critica del preteso automatismo della sussunzione sillogistica e il fermo rifiuto di quelli che definisce i “surrogati matematici del processo interpretativo” proposti dal neopositivismo logico. L’atto ermeneutico è creativo, poiché esso realizza l’accostamento e la sintesi tra l’astrattezza della legge e la concretezza della situazione storica che si 2 tratta di qualificare giuridicamente, anche se non si tratta di un ricreare subordinato, derivato, vincolato ad una oggettività irriducibile. Convergenti con i risultati di tale metodologia sono anche la tesi della pluralità degli ordinamenti giuridici e la consapevolezza dell’inesauribilità del processo di concretizzazione del diritto. L’ordinamento giuridico è, secondo Betti, qualcosa che non è, ma si fa, in accordo con l’ambiente sociale storicamente condizionato, proprio per opera assidua di interpretazione. Il compito dell’interpretazione è Perenne e non mai condotto a termine, necessario tanto per mantenere l’ordinamento efficiente e funzionante in relazione a quelle strutture dell’agire sociale che il diritto stesso riconosce e semantizza, quanto per attuare la stessa operazione interpretativo-applicativa della singola norma ai singoli casi concreti che via via si presentino. Questa opera, che Betti definisce di adattamento, di adeguazione, di integrazione di sviluppo della legge, si lega indissolubilmente alla prospettiva storicistica di un reale inteso come processo inesausto di realizzazioni spirituali tradottesi in forme rappresentative. Nell’interpretazione giuridica la ratio della norma è individuabile a partire da una riflessione sul suo fondamento logico ed assiologico, che sappia tenere insieme l’esigenza, perenne, di coerenza intrinseca dell’ordinamento e la sua conformità alle esigenze sociali storicamente determinate. 3 Donald Dworkin (1931 - 2013) Altra figura importante della cultura ermeneutica del diritto è quella di Donald Dworkin. La sua filosofia giuridica si oppone principalmente alla jurisprudence di Hart per tre ragioni: riflette sul diritto statunitense più che diritto in generale; lo fa sulla base di valutazioni morali, di contro alla avalutatività hartiana; recupera motivi dell’ermeneutica continentale. L’opera di Dworkin si occupa di interpretazione, facendone anzi l’aspetto centrale del diritto; allude alla tradizione ermeneutica e civetta con l’ermeneutica gadameriana; dà per scontato il dualismo metodologico, estremizza l’hermeneutic point of view e aderisce all’ermeneutica “analitica”. Egli sostiene che gli ordinamenti giuridici non possono essere ridotti a strutture normative e che accanto alle norme esistono i principi che rappresentano uno standard che deve essere osservato in quanto requisito di giustizia e di equità. I principi pur essendo strutturalmente etero già beh nei rispetto alle regole sono complementari ad esse nell’ordinamento giuridico. Mentre le regole sono valide in quanto poste e possono essere modificate in forza di una deliberazione, i principi sono validi in quanto corrispondono a esigenze morali. La presenza dei principi rappresenta il nucleo morale della comunità. La visione giudiziaria deve essere coerente con i principi. L’esigenza della coerenza emerge in relazione alla apertura dei principi e alle loro diverse concezioni presenti in una società pluralista, ma anche deriva dal possibile conflitto tra i diversi principi posti alla base della comunità. La coerenza esprime l’esigenza di un’universalizzabilità della decisione, cioè quella di 4 trattare i casi uguali in modo uguale. Essa ha una dimensione argomentativa relativa alla valutazione dei diversi principi applicabili e delle esigenze del caso e rappresenta la dimensione morale dell’evoluzione del diritto. Dworkin si oppone non solo allo scetticismo giusrealista, ma anche alla teoria mista di formalismo e scetticismo difesa da Hart: i principi, in effetti, avrebbero proprio la funzione di escludere la discrezionalità giudiziale nei casi oscuri, facendo sì che ogni caso abbia sempre una sola soluzione corretta. All’ovvia obiezione che di fatto si danno spesso conflitti interpretativi, e che i principi sembrano un rimedio peggiore del male, perché ogni giudice può invocarne uno diverso, Dworkin risponde con una controbiezione tutt’altro che ovvia: i conflitti interpretativi sarebbero imputabili ai limiti della mente umana. Questa teoria ambisce appunto a spiegare il conflitto interpretativo: proprio il fatto che nel diritto si diano normalmente conflitti di interpretazione, infatti, costituirebbe un ulteriore ragione per abbandonare il giuspositivismo. I giuspositivisti vedrebbero il diritto come un mero dato di fatto e i concetti giuridici come regole convenzionali per l’uso dei termini: questa visione, peraltro, non spiegherebbe i conflitti interpretativi. In realtà il diritto non sarebbe un semplice fatto, bensì insieme un fatto e un valore; i concetti giuridici, a loro volta, non avrebbero carattere convenzionale, come preteso dagli analisti giuspositivisti, bensì interpretativo. Un concetto interpretativo come quello di diritto è infatti oggetto non di mera rilevazione di convenzioni linguistiche, ma di interpretazione: attività che si distinguerebbe da tale rilevazione sia perché creativa o costruttiva, sia perché 5 potrebbe essere compiuta solo dal partecipante alla stessa pratica sociale oggetto di interpretazione, e non da un osservatore esterno. Dworkin propone una definizione che definisce “interpretivismo”, basata sull’idea che il diritto è un concetto interpretativo all’interno di una pratica sociale, vale a dire che il diritto è una pratica sociale che dipende da valori e concezioni morali. La sua teoria è basata su una concezione costituzionale della democrazia che viene vista come sistema basato su principi che esprimono i diritti degli individui e hanno come presupposto l’idea di uguaglianza. 6