Economia delle Imprese e dei Mercati PDF
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Questo documento introduce diverse teorie economiche relative all'economia delle imprese e dei mercati, incluso il paradigma Struttura-Comportamento-Performance (SCP). Vengono discusse le differenze tra microeconomia e macroeconomia, con particolare attenzione alle analisi positive e normative in economia. Il documento analizza e confronta concetti chiave come la politica industriale, le teorie neoclassiche dell'impresa e sviluppi contemporanei.
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Economia delle imprese e di mercati Agenda 1. Differenze tra microeconomia e macroeconomia 2. Cosa si intende per economia industriale? 3. Economia industriale vs Politica industriale 4. Paradigma Struttura-Comportamento-Performance(SCP) 1. Differenze tra microeconomia e macroeconomia Gli ar...
Economia delle imprese e di mercati Agenda 1. Differenze tra microeconomia e macroeconomia 2. Cosa si intende per economia industriale? 3. Economia industriale vs Politica industriale 4. Paradigma Struttura-Comportamento-Performance(SCP) 1. Differenze tra microeconomia e macroeconomia Gli argomenti che vengono studiati dalla scienza economica possono essere analizzati da due parti di vista, quello microeconomico e quello macroeconomico. Microeconomia: analizza il comportamento dei singoli soggetti economici e in particolare del consumatore e dell’imprenditore. Ad esempio studia perché un consumatore acquista un certo bene invece di un altro e perché un imprenditore decide di produrlo e di venderlo. Macroeconomia: si concentra sul funzionamento del sistema economico nel suo complesso. Ad esempio studia il volume globale dei consumi e dei risparmi, il livello generale dell’occupazione, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti di un Paese, e così via per grandezze aggregate. I metodi di analisi delle scienze economiche Ogni scienza può seguire due strade per raccogliere informazioni e per trarre delle conclusioni sul fenomeno osservato: il metodo deduttivo (dal generale al particolare) e il metodo induttivo (dal particolare al generale) Metodo induttivo Osservazione dei Generalizzazioni Teoriche comportamenti economiche reali Metodo deduttivo Teorie economiche Ipotesi Verifica dei comportamenti reali Analisi positiva e normativa Le analisi economiche possono essere di tipo positivo o normativo. Analisi positiva: l’economia si limita ad osservare ed descrivere la realtà per quello che è ad esempio in un’indagine di raccolta dati egli si limita a riportare i dati raccolti, senza entrare nel ,merito del provvedimento(ovvero senza esprimere la propria opinione personale). Descrive le relazioni di causa ad effetto. Analisi normativa : l’economista non si limita a raccogliere dati e a osservare la realtà ma esprime dei giudizi su ciò che si dovrebbe fare per realizzare determinati obiettivi (come ad esempio accrescere il benessere della collettività). È volta a individuare le scelte migliori. 2. Cosa si intende per economia industriale? Viene definita economia industriale la disciplina che si interroga sulle possibili regole di buona gestione delle “Industry”. L’economia industriale si occupa quindi del funzionamento dei mercati e dei settori industriali, in particolare del mondo in cui le imprese completano fra di loro. Si focalizza in particolare sul comportamento dei singoli attoria sopratutto sulle interdipendenze tra questi attori, studiando come esse evolvono nel tempo, trasformando la struttura dell’industria, dell’economia de della società. 3. Economia industriale vs Politica industriale Nell’ambito dell’economia industriale, un ruolo cruciale lo hanno le politiche pubbliche poiché il loro compito è quello di evitare conseguenze negative derivanti dalla detenzione di potere di mercato da parte delle imprese. A tal proposito le politiche possono essere suddivise in due grandi categorie: Regolamentazione Antitrust ( detta anche Politica della concorrenza) Oltre alle politiche di regolamentazione e antitrust, possono venire adottate politiche mirate a particolari imprese o gruppi di imprese. Tali norme rientrano sotto l’etichetta di politica industriale il cui scopo ultimo è quello di rafforzare la posizione di mercato di un’impresa o di un settore , in particolare nei confronti di imprese estere. La politica industriale in genere non è ben vista dagli economisti, in quanto è l’intervento statale a decretare il successo di alcune imprese o interi settori industriali. 4. Paradigma Struttura-Comportamento-Performance (SPC) Molti economici analizzano i settori industriali facendo riferimento ad un approccio noto come paradigma struttura-comportamento-performance (SCP). Secondo tale approccio, la struttura di mercato influenza i comportamenti delle imprese operanti nel mercato, che a loro volta influenzano la performance delle imprese, in quanto si basa sul presupposto che esista un nesso causale fra le suddette componenti. Stigler (1968j riteneva che tale paradigma proprio esse di indagare la. Didascalia Strategic Management:Il modello delle 5 forze di Porter Il paradigma SCP, sviluppato nell’ambito dell’economia industriale, ha contribuito alla crescita della disciplina della gestione strategica di impresa. Grande influenza è stata esercitata da Porter (1980) con il modello delle cinque forze riguardante l’ambiente competitivo delle imprese, il quale è stato profondamente influenzato dal paradigma SCP. Didascalia Lezione 2 Agenda 1. Le teorie di impresa:la teoria neoclassica 2. Critiche alla teoria neoclassica 3. Sviluppi della teoria di impresa : il caso americano 1. La teoria neoclassica Definizione di impresa: istituzione economica che si occupa di produzione e scambio di beni e servizi , attraverso le proprie componenti organizzative interne e attraverso i suoi legami con l’esterno. La teoria neoclassica dell’impresa, intende spiegare la determinazione del prezzo e della quantità di prodotto offerto sulla base dell’ipotesi di massimizzazione del profitto. Adam Smith con il suo libro “La ricchezza delle nazioni” (1776), e il filosofo ed economista a cui si deve lo sviluppo della teoria neoclassica. Attraverso lo studio della trasformazione della società inglese e dell’economia, egli evidenzia come la divisione del lavoro (ovvero la sua organizzazione secondo una logica di specializzazione) è l’estensione del mercato ( ovvero la possibilità di scambiare beni e servizi) fossero gli aspetti più rilevanti di questo cambiamento. La divisione del lavoro permette di aumentare la produttività grazie alla maggior abilità e capacità di giudizio che i lavoratori acquisiscono specializzandosi nelle varie fasi del processo produttivo. Per Smith l’impresa sostiene dei costi è tenuto conto di questi fissa un profitto che possa remunerare il proprietario, di conseguenza stabilisce un pezzo di vendita. La determinazione del prezzo è dunque tutta in capo al produttore e dipende quindi dall’offerta. Al contrario per W.S. Jevons il valore di un bene dipende dall’utilità che genera nel consumatore che acquista e dunque la determinazione del prezzo dipende fondamentalmente dalla domanda espressa dai consumatori. Infine Alfred Marshall, economista inglese. He insegnava a Cambridge, nella sua opera Principles of Economics, integra le due prospettive precedenti e sviluppa quello che viene definito lo schema di Domanda e offerta. In questa visione, il prezzo è la quasmgiga sono determinati in maniera congiunta dal comportamento di imprese e consumatori. Per Marshall, risulta essere centrale il concetto di interazione tra domanda e offerta. La teoria neoclassica dell’impresa, non si propone dunque il rappresentare l’impresa come organizzazione complessa,ma poiché risulta essere centrale la determinazione del valore,del prezzo e del,a quantità di un bene o servizio, si può concludere che la teoria neoclassica dell’impresa è un eletto della teoria dei prezzi. Nel contesto neoclassico l’impresa è rappresentata come una funzione di produzione che trasforma input in output: Y=f(X) Non c’è differenza tra imprenditore e impresa ovvero l’imprenditore “ è l’impresa” ed è colui che sceglie la combinazione di input o output che massimizzano i profitti. 2. Critiche alla teoria neoclassica Herbert Simon , premio Nobel per l’economia nel 1978 e padre dell’economia comportamentale, mosse alcune critiche alla teoria neoclassica, sostenendo che mostrava un’attenzione sproporzionata all’analisi degli scambi, piuttosto che all’analisi dell’impresa. La lacuna principale da lui sostenuta, si basava sull’assunto che la teoria neoclassica non era nel dettaglio del funzionamento delle imprese (le considera come black box). In particolare non vengono approfonditi: Gli obbiettivi che guidano le attività delle imprese La complessità dell’organizzazione interna delle imprese L’incertezza e l’informazione imperfetta in cui operano le imprese Come nella realtà le imprese assumono le proprie decisioni 3. Sviluppi della teoria di impresa: il caso americano La teoria di impresa si e evoluta nel tempo, cercando di inseguire i cambiamenti osservati nella realtà. In particolare, alcuni degli sviluppi sulla teoria di impresa su ispirano all’esperienza americana, la quale agli inizi del Novecento diventa rilevante sia per la nascita di imprese integrate verticalmente ,sia per l’influenza che l’economia e la produzione americana iniziano ad esercitare a livello globale. L’impresa americana di inizio Novecento e nei fatti molto diversa dall’impresa con cui si confrontava Adam Smith nell’Inghilterra di fine Settecento. Sono gli anni del Taylorismo in Nord America che segano una trasformazione dell’impresa che mette al centro l’organizzazione scientifica del lavoro. Viene infatti riorganizzato il ciclo produttivo secondo criteri di ottimizzazione economica. Progressiva spaccatura tra proprietà e management Le teorie manageriali Le teorie manageriali mettono al centro il ruolo del manager dentro l’impresa , le sue relazioni con la proprietà e le possibili strategie per promuovere un allineamento degli obiettivi di queste due componenti dell’impresa. A inizio Novecento, le imprese più grandi e di successo sono diventate organizzazioni molto complesse dove risulta sempre più difficile il controllo di un’unica persona, l’imprenditore/proprietario, dunque il controllo inizia ad essere progressivamente frammentato in diverse figure manageriali e la proprietà dispersa tra azionisti individuali e istituzionali. Le imprese guidate e controllate da un imprenditore-manager hanno lasciato lo spazio a una nuova forma di impresa moderna, in cui la proprietà è diffusa (e di fatto inattiva) e il cui controllo è passato ai manager. La proprietà divorzia dall’effettivo controllo Le teorie comportamentali Le teorie comportamentali partono dall’ipotesi che le imprese non abbiano obiettivi propri. Le decisioni di un’impresa emergono dalla contrattazione tra una pluralità di gruppi e individui (stakeholder) che perseguono una molteplicità di obiettivi spesso in conflitto. Il comportamento finale tenuto dall’impresa sarà quindi il risultato di questi conflitti, negoziazioni e interazioni. La teoria comportamentale riconosce che ogni processo decisionale ha luogo in situazioni di incertezza o comunque razionalità limitata. La teoria dei costi di transazioni La teoria dei costi di transazione nasce negli anni trenta del Novecento, in quanto sulla scia dell’esperienza americana alcuni studiosi cercano di chiarire le ragioni della nascita stessa delle imprese e della loro crescita. La teoria dei costi di transazione mette al centro dell’analisi le relazioni che si instaurano all’interno delle imprese e sui mercati. Il maggior esponente è Ronald Coase (1937), premio Nobel per l’economia nel 1991, secondo il quale i costi di transazione sorgono a fronte di una transazione di mercato. Tali costi si riferiscono al costo d’uso del meccanismo di mercato, ossia un costo associato agli scambi di mercato, detto anche costo di transazione. L’esistenza dei costi di transazione deriva dal fatto che i contratti necessari a concludere una transazione di mercato sono spesso contratti incompleti. Organizzare il lavoro all’interno di un’impresa, attraverso contratti di lavoro, permette di ridurre una serie di costi di transazione e di incertezze che sorgerebbero invece dovendo negoziare di volta in volta i dettagli delle prestazioni oggetto della transazione. Lezione 3 Il consumatore Agenda 1. Il mercato :la funzione di domanda 2. Funzione di domanda ed elastica 3. La teoria del comportamento del consumatore 1. Il mercato: la funzione di domanda Definizione di mercato: in economia con la parola “mercato” viene intesa l’istituzione, ossia l’insieme di regole che definiscono il perimetro entro il quale avvengono gli scambi di beni e servizi. Per comprendere perché un bene scambiato sul mercato abbia un determinato prezzo, possiamo definire il mercato come luogo in cui si incontrano domanda e offerta, ovvero dove compratori e venditori raggiungono un accordo sullo scambio di uno specifico prodotto. La funzione della domanda di mercato per un prodotto o un servizio mostra la relazione tra prezzo di mercato e numero delle unità di prodotto o servizio che i consumatori desiderano acquistare a quel prezzo. La quantità di prodotto che i consumatori desiderano acquistare dipende da una serie di fattori tra cui: Il prezzo del bene stesso Il prezzo di altri beni Il reddito del consumatore Altri elementi ( fattori ambientali o preferenze dei consumatori) Il prezzo del bene stesso Il primo fattore da cui dipende la quantità che ciascun consumatore vorrebbe acquistare di un determinato bene è il prezzo del bene stesso. Infatti, quanto minore è il prezzo di un bene, tanto maggiore sarà la quantità domandata. Se il prezzo aumenta, si presume che nessun consumatore razionale accrescerà la quantità acquistata, viceversa se il prezzo diminuisce. Ogni individuo ha la propria curva di domanda, domanda individuale, e la somma di queste origine alla domanda aggregata di mercato per un determinato bene o servizio. Didascalia Il prezzo di altri beni La quantità che si desidera acquistare di un determinato bene, può anche dipendere da altri beni, in base alla relazione che li lega. Beni indipendenti: la variazione del prezzo del primo, non avrà effetto sulla quantità domandata del secondo. Beni complementari: ossia vengono spesso consumati insieme; un aumento nel prezzo del primo bene genererà sia una diminuzione della domanda del bene stesso, sia un calo nella domanda del secondo bene. Beni sostituti: ossia sono uno alternativo all’altro; un aumento del prezzo del primo bene determinerà una diminuzione della sua quantità domandata e un incremento della quantità del secondo bene. Il reddito del consumatore La quantità domandata di un bene dipende inoltre dal reddito degli individui, e la direzione della variazione dipende dal livello di quest’ultimo. La relazione tra reddito e quantità domandata è rappresentata dalla curva di Engel, introducendo il concetto di beni normali e beni inferiori. Didascalia 2. Funzione di domanda ed elastica Elasticità della domanda rispetto al prezzo La quantità domandata di beni può avere una sensibilità diversa rispetto a variazioni di prezzo. Tale sensibilità viene detta elasticità della domanda. Il concetto di elasticità è legato alla pendenza della curva di domanda; la quantità domandata è più sensibile a variazioni di prezzo per beni considerati frivoli o di lusso, che presentano curve di domanda più “piatte”, al contrario di beni che vengono considerati come necessari che tendono ad avere curve di domanda più inclinate. Elasticità della domanda rispetto al prezzo Didascalia Didascalia Dati ΔP, ovvero la variazione del prezzo tra due punti della curva di domanda del mercato e ΔQ, ovvero la variazione corrispondente della quantità domandata, la variazione percentuale della quantità domandata è ΔQ/Q e la variazione percentuale del prezzo è ΔP/P Didascalia Elasticità della domanda rispetto al prezzo Didascalia 3.La teoria del comportamento del consumatore Descrive come i consumatori distribuiscono i propri redditi tra differenti beni e servizi per massimizzare il proprio benessere. Viene suddivisa in tre passaggi: Preferenze del consumatore: le ragioni per cui le persone preferiscono un bene a un altro. Vincoli di bilancio: i consumatori valutano anche i prezzi, disponendo di redditi limitati che implicano un tetto alla quantità di beni che essi possono acquistare. Scelte del consumatore: date le loro preferenze e i loro redditi limitati, i consumatori scelgono di acquistare combinazioni di beni che massimizzano la loro soddisfazione. Queste combinazioni dipendono dai prezzi dei diversi beni, quindi comprendere le scelte dei consumatori aiuta a comprendere la domanda. Lezione 4 L’impresa Agenda 1. Il mercato:la funzione d’offerta 2. La massimizzazione dei profitti e le curve di costi: il breve periodo 3. Le curve di costo:il lungo periodo 1. Il mercato: la funzione d’offerta La funzione di offerta del mercato indica le quantità di beni o servizi che le imprese sono disposte a offrire in rapporto a una serie di fattori tra cui: Il prezzo dei beni stessi (P); I fattori produttivi (F); Altri elementi (E). La curva di offerta rappresenta graficamente la relazione fra il prezzo di un bene o servizio e la quantità che le imprese sono disposte a offrire per ogni livello di prezzo, a parità di altre condizioni. La relazione tra prezzo e quantità è positiva Didascalia La quantità offerta dipende anche dal prezzo dei fattori produttivi, fra cui ad esempio il prezzo dell’energia per far funzionare gli impianti e del lavoro da impiegare nei processi produttivi. Se il prezzo dei fattori produttivi (ovvero i costi di produzione) diminuisce, a parità di altre condizioni, l’impresa sarà disposta a offrire maggiori quantità di bene per ogni livello di prezzo (la curva di offerta si sposta verso destra). Didascalia Infine, sulla quantità offerta possono influire tutti i restanti fattori (E), tra cui possiamo trovare: Obiettivi dell’impresa; Tecnologia; Prezzo dei beni correlati; Aspettative; Altri fattori particolari. Surplus del consumatore e surplus del produttore Come visto in precedenza, il mercato si può considerare il luogo in cui avviene l’incontro tra domanda e offerta, ove cioè i compratori e venditori raggiungono un accordo sullo scambio di uno specifico prodotto, determinandone il prezzo. La curva di domanda identifica la massima disponibilità a pagare dei consumatori per ciascuna quantità di prodotto, mentre la curva di offerta indica il prezzo minimo a cui le imprese sono disposte a offrire ciascun livello di output. Si può quindi definire prezzo di equilibrio quel prezzo in corrispondenza del quale la quantità domandata è uguale alla quantità offerta (ovvero quantità di equilibrio). Il mercato tende al prezzo di equilibrio tramite meccanismi di aggiustamento dei comportamenti dei venditori e degli acquirenti. La differenza tra disponibilità massima a pagare e prezzo è detta surplus del consumatore. Allo stesso modo al prezzo di equilibrio tutte le imprese offriranno a un prezzo superiore rispetto a quello minimo indicato nella curva di offerta; la differenza è detta surplus del produttore. Didascalia 3. La massimizzazione dei profitti e le curve di costo: il breve periodo Il profitto, indicato con la lettera greca Π(pi), è dato dalla differenza tra ricavo totale e costo totale: Π = (p x q) – (c x q) Dove p è il prezzo unitario, q è la quantità e c è il costo unitario di produzione. I profitti vengono quindi massimizzati quando da un lato si riescono a minimizzare i costi e dall’altro a massimizzare i ricavi. La quantità ottimale di bene da produrre corrisponde al livello di output che minimizza i costi. Per individuare la quantità ottimale, occorre identificare come varia l’output prodotto in relazione alla quantità di input, riferibili a due grandi categorie: il lavoro L (il numero di operai e di manager ecc..) e il capitale K (macchinari, fabbricati, terreni ecc..). Si definisce funzione di produzione la relazione tecnologica tra gli input utilizzati e gli output ottenuti in un determinato arco di tempo: q = g (L, K) Per aumentare la quantità prodotta, l’impresa deve aumentare la quantità di input impiegati utilizzando al meglio gli impianti esistenti, o dotandosi di nuovi impianti o introducendo nuove tecnologie. Tre scenari: 1. Breve periodo: l’impresa può variare solo la quantità di lavoro e non il capitale; 2. Lungo periodo: l’impresa può variare le quantità di entrambi i fattori produttivi; 3. Lunghissimo periodo: l’impresa può modificare anche la tecnologia adottata. Il breve periodo Le quantità: Nel breve periodo l’impresa non può modificare il capitale impiegato, quindi può solo decidere quale sia la quantità ottimale di lavoro da utilizzare. Tre grandezze fondamentali: Il prodotto totale (PT), definito come la quantità prodotta durante un certo intervallo di tempo usando tutti gli input; Il prodotto medio (PM), definito come la quantità di prodotto realizzato in media da ogni unità di lavoro impiegato (es: un’ora o un lavoratore); Il prodotto marginale (P’), definito come la variazione del prodotto totale corrispondente all’utilizzo di un’unita addizionale dell’input variabile. Didascalia Didascalia Le quantità: La quantità di lavoro per utilizzare in maniera ottimale gli impianti esistenti è quella che massimizza il prodotto medio, ossia laddove le curve di prodotto medio e prodotto marginale si incontrano. Legge dei rendimenti decrescenti I costi: Dal punto di vista economico, quando si parla di costo ci si riferisce al cosiddetto costo opportunità, che include tutto ciò a cui si rinuncia a fronte di una determinata decisione. Costo economico = Costo opportunità Tre grandezze fondamentali: Il costo totale (CT), definito come il costo sostenuto per produrre una determinata quantità di prodotto in una data unità di tempo. I costi sono variabili o fissi; Il costo medio totale (CMT), definito come il costo totale da sostenere per produrre una data quantità di prodotto diviso per il numero di unità prodotte (costo unitario); Il costo marginale (C’), definito come l’aumento di costo che deriva dall’aumento di una unità di Didascalia quantità prodotta I costi: La capacità produttiva ottimale nel breve periodo è il livello di produzione che corrisponde al livello minimo del costo medio totale di breve periodo, ovvero dove il costo medio totale interseca il costo marginale. 3. Le curve di costo: il lungo periodo Il lungo periodo: Nel lungo periodo tutti i fattori produttivi sono variabili. La prima decisione che l’impresa deve prendere è quindi identificare quale sia la combinazione ottimale di lavoro e capitale, sostenendo il costo più basso possibile (principio della minimizzazione del costo). La seconda decisione da prendere nel lungo periodo riguarda l’identificazione della quantità ottimale da produrre sulla base dei costi. Il loro andamento si legge sulla curva di costo medio di lungo periodo (CMLP), la quale indica i costi unitari più bassi a i quali è possibile produrre. Scala efficiente minima Didascalia Il lungo periodo: Infine, la forma ad U che caratterizza la curva di costo medio di lungo periodo è legata ai rendimenti di scala, ossia alla relazione esistente tra la variazione degli input e la corrispondente variazione degli output. Si distinguono in economie di scala e diseconomia di scala. Didascalia Relazione tre ricavo marginale e costo marginale Lezione 5 CONCORRENZA,EQUILIBRIO ED EFFICIENZA Agenda 1. La concorrenza perfetta 2. Il monopolio 3. Efficenza: mercato concorrenziale vs monopolio Le tipologie di forme di mercato La struttura di mercato è l’insieme di caratteristiche che determinano il comportamento e le performance di acquirenti e venditori. La teoria neoclassica dell’impresa considera le seguenti tipologie di forme di mercato: La concorrenza perfetta; Il monopolio; La concorrenza imperfetta, suddivisa in: - Oligopolio; - Concorrenza monopolistica. Didascalia 1.La concorrenza perfetta La concorrenza perfetta è una struttura di mercato caratterizzata dal contemporaneo verificarsi di tutte le seguenti condizioni: - Sul mercato operano numerosi consumatori; - Sul mercato operano numerose piccole imprese dette price taker; - Il prodotto è standardizzato o indifferenziato; - Vi è simmetria tecnologica; - Gli acquirenti hanno a disposizione tutte le informazioni necessarie per valutare le caratteristiche del prodotto; - Non esistono barriere in entrata o in uscita. La singola impresa è price taker, ossia non riesca da sola a influenzare il prezzo del bene/servizio offerto, che è determinato unicamente dall’interazione tra domanda e l’offerta di mercato. L’impresa fronteggia una domanda orizzontale. Il breve periodo di concorrenza perfetta La condizione che deve essere rispettata per massimizzare il profitto è la seguente: R’ = C’ Solo in concorrenza perfetta per l’impresa il prezzo è costante, di conseguenza il ricavo marginale sarà anch’esso costante e uguale al prezzo. La quantità ottimale sarà fissata nel punto in cui P = R’ = C’ Se in corrispondenza di tale quantità il prezzo determinato dal mercato sarà superiore al costo medio l’impresa otterrà dei profitti, viceversa otterrà delle perdite. Il lungo periodo in concorrenza perfetta In entrambe le situazioni di breve periodo, gli spostamenti previsti determineranno il raggiungimento di un equilibrio di lungo periodo in cui le imprese realizzano profitti nulli. Con l’espressione profitto nullo, si fa riferimento al concetto di profitto economico, il quale tiene conto anche dei costi opportunità (es: la remunerazione dell’imprenditore) Equilibrio in concorrenza perfetta In un’economia concorrenziale, attraverso il meccanismo dei prezzi che segnala la scarsità o l’eccessiva disponibilità di beni sul mercato, le azioni dei singoli, dirette a massimizzare il proprio interesse personale, consentono di raggiungere il massimo benessere sociale complessivo. La concorrenza perfetta è la struttura di mercato più efficiente in quanto massimizza il surplus di consumatore e produttore. Tuttavia, la concorrenza perfetta è una struttura di mercato che si riscontra molto raramente nella realtà. 2. Il monopolio Nel monopolio, a fronte di una pluralità di consumatori, l’offerta è nelle mani di un’unica impresa ed esistono elevate barriere all’ingresso di concorrenti potenziali, ossia il mercato si dice non contendibile. Tipologie di monopolio: Monopolio legale; Monopolio tecnologico; Monopolio naturale. Massimizzazione del profitto nel monopolio In un mercato che si trova in una condizione di monopolio, il monopolista ha il massimo livello di potere di mercato ed è quindi in grado di fissare il prezzo del proprio prodotto, diventando price maker. Nel monopolio il prezzo dipende dalla quantità e viceversa. 3. Efficenza: mercato concorrenziale vs monopolio Il monopolio presenta alcuni limiti. Innanzitutto determina inefficienza allocativa, in quanto il benessere totale risulta ridotto rispetto alla concorrenza perfetta, a causa di ciò che viene chiamato perdita secca, ossia una perdita di efficienza economica che non va a beneficio né dei consumatori, né del produttore. Inoltre, l’assenza di competizione fa sì che il monopolista sia orientato verso iniziative volte a mantenere il proprio potere di mercato e a ricerca una rendita (rent seeking). Lezione 6 Concorrenza, equilibrio ed Efficenza pt. 2 Agenda 1. Concorrenza imperfetta: La concorrenza monopolistica 2. Concorrenza imperfetta: L’oligopolio 3. Il caso Opec 1. Concorrenza imperfetta: La concorrenza monopolistica La concorrenza monopolistica presenta alcune delle caratteristiche della concorrenza perfetta: - Elevato numero di produttori sul mercato; - Basse barriere all’entrata o all’uscita; - Obiettivo delle imprese è massimizzare il profitto. Tuttavia, i beni offerti dai diversi produttori non sono perfettamente omogenei, ma godono di un certo grado di differenziazione che consente alle imprese di applicare un prezzo diverso da quello dei concorrenti. Grazie alla differenziazione di prodotto, l’impresa può quindi scegliere di fissare un prezzo diverso da quello dei concorrenti, applicando un markup ai propri costi senza temere un annullamento delle proprie vendite. In questa struttura di mercato, come in concorrenza perfetta, l’equilibrio di lungo periodo è caratterizzato da profitti nulli. Le imprese per restare sul mercato devono produrre una quantità inferiore rispetto a quello che sarebbe l’utilizzo ottimale dei propri impianti, avendo quindi una capacità produttiva in eccesso. Nella realtà i mercati in concorrenza monopolistica sono probabilmente i più diffusi (ad esempio i ristoranti). 2. Concorrenza imperfetta: l’oligopolio L’oligopolio è caratterizzato dalla presenza di un numero limitato di imprese che offrono prodotti simili tra loro. L’elemento che più caratterizza questa struttura di mercato è il fatto che le imprese sono consapevoli di operare in condizioni di interdipendenza con i concorrenti. Ciò che definisce questo settore, perciò non è tanto il numero assoluto di imprese che vi operano (non si può identificare una soglia sotto la quale si è in oligopolio), quanto il fatto che tale numero permette alle imprese di essere pienamente consapevoli di quali siano le imprese rivali, e che le proprie azioni sono collegate a quelle delle altre imprese. In oligopolio, quindi, nel determinare il proprio livello di prezzo e di output le imprese fanno delle ipotesi circa le possibili reazioni dei rivali a fronte delle proprie decisioni. Si parla di variazioni congetturali per identificare le assunzioni fatte da un’impresa relativamente alle possibili reazioni dei rivali rispetto alle proprie azioni. In un mercato oligopolistico le imprese devono quindi decidere se vogliono competere con i rivali o se invece preferiscono attuare forme di collusione, ottenendo situazioni di simil- monopolio. Attraverso pratiche collusive, le imprese concludono accordi denominati cartelli e sono considerati pratiche per la maggior parte illegali, sanzionate in maniera decisa dalle Autorità Antitrust. Un caso particolare è rappresentato dall’OPEC. 3. Il caso Opec Lezione 7 CENNI DI TEORIA DEI GIOCHI Agenda 1. La teoria dei giochi 2. Equilibrio di Nash: il dilemma del prigioniero 3. Il mercato rilevante e le misure di concentrazione 1. La teoria dei giochi Con l’espressione teoria dei giochi si intende un insieme di modelli formali per l’analisi di situazioni di conflitto o interazione strategica tra diversi soggetti (detti giocatori) che prendono decisioni interdipendenti, ossia tenendo conto delle possibili azioni a reazioni degli altri giocatori. Le scelte delle imprese che operano in condizioni di interdipendenza e interazioni con altri attori economici sono state ampiamente studiate dalla teoria dei giochi, che negli ultimi anni è diventata uno strumento molto utilizzato dell’analisi economica. Alcune definizioni Gioco: Situazione di interdipendenza strategica dove il risultato dipende dalle decisioni del giocatore stesso e dalle scelte degli altri. Payoff: Valore associato a un possibile risultato. Utilità/Profitto. Strategia: Regola o piano d’azione per partecipare a un gioco Strategia ottimale: Strategia che massimizza il payoff atteso di un giocatore. Determinare le strategie ottimali può essere difficile anche in condizione di completa simmetria e informazione perfetta. Giochi cooperativi o non cooperativi I giochi economici per le imprese possono essere cooperativi o non cooperativi. La differenza fondamentale tra le due tipologie sta nella possibilità di sottoscrivere accordi vincolanti. Nei giochi cooperativi ciò è possibile, nei giochi non cooperativi no. Alla stessa maniera, quando le imprese in oligopolio scelgono di prendere le proprie decisioni in maniera indipendente rispetto ai rivali si parla di oligopolio non cooperativo. E’ fondamentale per le decisioni strategiche, a prescindere dalla tipologia di gioco, capire il punto di vista del proprio avversario e dedurre le sue probabili risposte alle nostre azioni. Strategie dominanti Una strategia dominante si verifica quando un giocatore ha una strategia che è strettamente migliore di ogni altra, indipendentemente dalle scelte strategiche dell’altro giocatore. Una strategia dominante fornisce al giocatore che la possiede il payoff ottimale (più alto), indipendentemente dal comportamento dei rivali. Equilibrio in strategie dominanti: Risultato di un gioco in cui ogni impresa ha una strategia dominante e la adotta. Sfortunatamente non in tutti i giochi esiste una strategia dominante per ciascun giocatore. 2. Equilibrio di Nash: il dilemma del prigioniero Uno dei giochi più utilizzati per spiegare le scelte in ambito oligopolistico è il cosiddetto dilemma del prigioniero. Nel caso dell’oligopolio, ogni impresa è motivata a operare al meglio delle proprie possibilità dato il comportamento delle imprese concorrenti. Ciascuna impresa, quindi, prende in considerazione i suoi concorrenti e ipotizza che essi facciano altrettanto. Il concetto fu spiegato per la prima volta dal matematico John Nash nel 1951, perciò l’equilibrio che descrive è detto equilibrio di Nash: Ciascuna impresa si comporta nel modo migliore possibile date le azioni dei concorrenti Didascalia Se il prigioniero A non confessa, corre il rischio che il suo complice tenti di trarne vantaggio. Dopotutto, indipendentemente dalla scelta del prigioniero A, per il prigioniero B è sempre conveniente confessare. Per le stesse ragioni, confessare è sempre conveniente anche per il prigioniero A, quindi B deve temere che A tenti di trarre vantaggio dalla sua confessione. Le imprese di un oligopolio spesso si trovano in una situazione analoga a quella dei due prigionieri. Il caso Procter & Gamble P&G dovrebbe aspettarsi che i suoi concorrenti scelgano il prezzo di $1,40, e che dovrebbe anch’essa fare la stessa scelta. Ma P&G si troverebbe nella situazione più vantaggiosa scegliendo, assieme ai concorrenti, il prezzo di $1,50. Le imprese si trovano di fronte al dilemma del prigioniero. Quali che siano le scelte di Unilever e Kao, P&G ottiene risultati migliori scegliendo $1,40. Considerazioni Ricapitolando, l’equilibrio di Nash è di tipo non cooperativo, in quanto ogni impresa sceglie l’opzione che gli garantisce il maggior profitto possibile, date le azioni dei concorrenti. Il profitto realizzato da ciascuna impresa è maggiore di quello che otterrebbe in condizioni di concorrenza perfetta, ma minore di quello garantito da un accordo collusivo. Quindi il dilemma del prigioniero costringe le imprese di un oligopolio alla concorrenza aggressiva e a profitti bassi? Non necessariamente. Il nostro prigioniero immaginario ha una sola opportunità per decidere se confessare o meno; un’impresa, invece, di solito può tornare più volte sulle proprie scelte di quantità e prezzo, osservando con continuità il comportamento dei concorrenti e regolando il proprio di conseguenza. Ciò fa sì che le imprese possano costruirsi una “reputazione”, sulla base della quale ottenere la fiducia dei concorrenti. Grazie a questo, talvolta, negli oligopoli prevalgono coordinamento e cooperazione. 3.Il mercato rilevante e le misure di concentrazione Al fine di valutare il livello di concorrenza che caratterizza un certo mercato è importante identificare l’ampiezza del mercato rilevante, ovvero i confini entro i quali operano le imprese in concorrenza tra loro e che perciò le distinguono dalle imprese che offrono beni o servizi che, al contrario, non entrano in competizione in un dato mercato. Per definire i confini del mercato rilevante le Autorità Antitrust utilizzano generalmente un test denominato SSNIP (Small but Significant and Non-transitory Increase in Price). Una volta determinata l’ampiezza del mercato rilevante, il livello di concorrenza che determina un determinato mercato può essere valutato osservando il livello di concentrazione dei venditori in un dato mercato. La concentrazione dei venditori si riferisce, in particolare, alla numerosità ed alla distribuzione per dimensione delle imprese in un mercato. Un’industria è caratterizzata da un alto livello di concentrazione quando la produzione di un determinato bene o servizio è accentrata nelle mani di poche e grandi imprese. I due principali indicatori di concentrazione sono: Il rapporto di concentrazione per le prime “n” imprese (Cn), ovvero la quota di mercato detenuta dalle n imprese più grandi rispetto alla dimensione totale dell’industria. L’indice di Herfindhal-Hirschman (HH), ovvero la somma dei quadrati delle quote di mercato di tutte le imprese del settore. Valore massimo HH = 1, vi è una situazione di monopolio (una sola impresa detiene l’intero mercato). Valore minimo HH = 1/N, vi una situazione in cui tutte le imprese dell’industria detengono uguali quote di mercato. Lezione 8 Fallimenti del mercato e regolamentazione Agenda 1. I fallimenti del mercato 2. Esternalità e regolamentazione 3. Beni pubblici e asimmetria informativa 1.i fallimenti del mercato Una prima possibile giustificazione dell’intervento di politica industriale è legata alla presenza di fallimenti di mercato. Quando i mercati falliscono l’equilibrio che si raggiunge sul mercato può non essere il migliore possibile per la società. II mercati falliscono in presenza di: ~ Esternalità; ~ Beni pubblici; ~ Asimmetria informativa; ~ Mercati non competitivi. I governi attraverso la regolamentazione, la produzione diretta e interventi a sostegno degli attori economici possono correggere i fallimenti di mercato. Gli approcci cosiddetti di fallimento del mercato (market failure) condividono il presupposto che le forze di mercato, in generale, siano in grado di produrre risultati desiderabili dal punto di vista economico e in particolare di garantire l’efficienza. Concetto di Pareto Efficienza (o Ottimo paretiano): non è possibile migliorare le condizioni di un soggetto senza peggiorare quelle di un altro. Il mercato è una «macchina per l’elaborazione delle informazioni» dove i prezzi guidano l’economia. Tuttavia in particolari circostanze i meccanismi di mercato possono incepparsi e, appunto, fallire. Solo in questi casi il governo potrebbe occuparsi di rimediare a tali fallimenti promuovendo interventi di politica industriale. In questa prospettiva, la politica industriale è considerata come uno strumento che i governi potrebbero decidere di promuovere per correggere il mercato nei casi in cui questo dimostra di fallire. 2. esternalità e regolamentazione Esternalità Si hanno esternalità quando l’attività di un individuo genera ricadute (spill-overs) che in maniera non intenzionale hanno un effetto (positivo o negativo) sull’attività di altri individui. Nello specifico, ci si interessa delle azioni di produttori o consumatori che hanno effetti (positivi o negativi) su soggetti terzi non coinvolti nello scambio. Le tipologie sono diverse, a seconda della natura del soggetto che è la fonte dell’esternalità e di quello che da questa viene colpito. Tassonomia dí esternalità ~ Negativa, produttore-produttore: in questo caso l’attività di un produttore ha ricadute negative su quella di un altro produttore senza che il primo paghi per il danno arrecato. Es: inquinamento atmosferico e reputazione. ~ Positiva, produttore-produttore: in questo caso l’attività di un produttore ha ricadute positive su altri produttori, senza che il primo sia ricompensato per questo. Es: programmi di formazione, attività di ricerca e sviluppo. ~ Negativa, produttore-consumatore: in questo caso l’attività di un produttore ha ricadute negative sui consumatori. Es: concerti o discoteche all’aperto. ~Positiva, produttore-consumatore: in questo caso l’attività di un produttore genera benefici sui consumatori senza che si possa obbligare quest’ultimi a pagarne il prezzo. Es: wi-fi accessibile gratuitamente. ~ Negativa, consumatore-consumatore: in questo caso il comportamento scorretto di un consumatore genera un costo ad altri consumatori che non si è in grado di far pagare per intero a chi li ha causati. Es: fake news. ~ Positiva, consumatore-consumatore: in questo caso l’attività di un consumatore ha ricadute positive su altri consumatori. Es: volontariato. ~ Positiva, consumatore-produttore: poco frequenti, sono i casi in cui è il comportamento del consumatore a determinare ricadute positive sul produttore. Es: recensioni su prodotti o servizi. ~Negativa, consumatore-produttore: ci si riferisce ai comportamenti privati che causano un danno ad attività produttive senza che chi li ha provocati venga chiamato a rispondere. Es: raccolta differenziata non correttamente eseguita. I costi sociali delle esternalità In assenza di uno specifico intervento pubblico, le esternalità positive non vengono remunerate e difficilmente si paga un costo per produzione di esternalità negative. La Conseguenza è la sovrapproduzione di esternalità negative e la sottoproduzione di esternalità positive. Il costo sociale legato alla presenza di esternalità positive e negative può essere rappresentato graficamente. In presenza di esternalità, la letteratura dei fallimenti del mercato legittima il soggetto pubblico a intervenire per garantire che le esternalità positive e negative vengano prodotte in quantità socialmente ottimali e desiderabili, attraverso: ~ Supporto a chi genera esternalità positive tutelandone i diritti, ad esempio tramite sussidi e/o sgravi fiscali, o a scoraggiare chi produce esternalità negative, ad esempio attraverso tasse e/o sanzioni. ~Politiche in segmenti di particolare interesse come ad esempio interventi in favore della ricerca e dell’innovazione o interventi di natura ambientale che mirano a ridurre l’inquinamento. Regolamentazione Al fine di limitare esternalità negative, come l’inquinamento, i governi possono intervenire innanzitutto attraverso la regolamentazione. In primo luogo si potrebbe fissare un tetto massimo a ciascuna produzione che utilizza prodotti inquinanti, tuttavia nella pratica è complicato andare a definire il livello di produzione per ogni impresa. In secondo luogo, più frequentemente si pongono limiti all’emissione di sostanze dannose per l’ambiente nei processi produttivi e si lascia alle imprese la scelta di come gestire tale limite, investendo in tecnologie adatte a prevenirle oppure in tecnologie che, ex post, ove possibile possano ripulire l’ambiente. ~ Protocollo di Kyoto; ~ Caso Ilva. Imposte pigouviane Accanto alla regolamentazione, per limitare l’inquinamento il soggetto pubblico può inoltre intervenire attraverso la tassazione. In questo quadro sono particolarmente rilevanti le imposte pigouviane, dal nome dell’economista Arthur Pigou che per primo le ha teorizzate e proposte. Per quanto riguarda le esternalità negative, le imposte pigouviane spingono il costo privato verso l’alto avvicinandolo a quello sociale. Mentre è prevista la possibilità di assegnare sussidi ai produttori di esternalità positive. Hanno un duplice effetto: ~ Incentivano il produttore a limitare l’esternalità negativa prodotta; ~Generano un gettito fiscale per l’autorità pubblica. Vi è però il rischio che a seguito di questa imposta le imprese potrebbero decidere di scaricare parte di quest’onere sul consumatore finale. Esempio: Plastic Tax 3.Beni pubblici e asimmetria informativa Beni pubblici I beni (e i servizi) vengono normalmente suddivisi in due grandi categorie: ~ Beni privati; ~ Beni pubblici. I beni pubblici hanno natura e caratteristiche distintive dai beni privati. Tali caratteristiche sono la non rivalità e la non escludibilità nel consumo. ~ Non rivale: quando il consumo di un bene (o servizio) da parte di un soggetto non preclude il contestuale consumo dello stesso da parte di un altro soggetto. ~ Non escludibile: quando il consumo di un bene (o servizio) sia consentito a un soggetto, ma non sia tecnicamente possibile (o conveniente) impedire che altri consumino lo stesso bene. Quando le due condizioni di non rivalità e non escludibilità sono entrambe pienamente soddisfatte siamo di fronte a un bene pubblico puro. Es: un faro. Al contrario, quei beni (o servizi) in cui le condizioni di non escludibilità o di non rivalità non sono perfettamente soddisfatte vengono denominati beni misti, i quali essere a loro volta suddivisi in beni club e beni comuni. Free riding: la simultanea presenza delle condizioni di non rivalità e non escludibilità può dare origine a comportamenti opportunistici. In tale situazione, chi produce il bene pubblico può stancarsi di non potere escludere consumatori opportunisti (cosiddetti free-riders). Il risultato sarà quello di scoraggiare produzione e consumo, conducendo verso situazioni in cui i mercati non offriranno l’ammontare ottimale e socialmente desiderabile di beni e servizi pubblici. La tragedia dei beni comuni: in caso di libero ed eccessivo sfruttamento di un bene (es. un pascolo) da parte di una comunità (che aumenta continuamente il numero di animali che vengono portate su uno stesso terreno), prima o poi tutta la comunità sarà danneggiata (perché ogni animale potrà mangiare sempre meno, producendo di conseguenza sempre meno carne o latte). Asimmetria informativa L’asimmetria informativa insieme all’azzardo morale è una delle due problematiche chiave relative alla teoria dell’agenzia. Al centro di tale teoria vi è il cosiddetto rapporto principale-agente, ossia un tipo di relazione in cui l’agente si trova ad operare in favore del principale, ma gli interessi dei due possono risultare conflittuali o divergenti e il principale non ha possibilità di conoscere o controllare direttamente l’operato dell’agente. L’asimmetria informativa, quindi, tratta problemi legati all’informazione, in particolare fa riferimento alla presenza di informazione nascosta in quanto la qualità dei beni e servizi scambiati sul mercato difficilmente può essere considerata come perfettamente conosciuta sia da chi compra che da chi vende. Una delle due parti coinvolte nello scambio ha più informazioni dell’altra riguardo alle caratteristiche del bene o del servizio oggetto dello scambio. In presenza di incompletezza di informazioni, i prezzi non riflettono tutte le differenze di qualità e caratteristiche tra beni. Siamo di fronte quindi a un processo di selezione avversa, frutto di asimmetrie informative, le quali conducono a un’incompleta circolazione delle informazioni nel mercato e risultati non socialmente desiderabili. Esempi: mercato delle auto usate, Grameen Bank Intervento pubblico auspicabile: ~ Introdurre regole sulle modalità con cui il consumatore è informato circa le caratteristiche dei prodotti; ~ Rispetto di criteri di completezza, chiarezza e veridicità Nel caso dell’azzardo morale invece, è l’azione nascosta (più che l’informazione) a essere rilevante, nella circostanza in cui l’agente operi in maniera opportunistica contro l’interesse del principale. Esempio: settore creditizio e prodotti assicurativi Politica della concorrenza e normativa Agenda 1.Le aree di intervento della politica della concorrenza 2.Normativa antitrust negli Stati Uniti 3.Normativa antitrust in Europa e in Italia 1. Le aree di intervento della politica della concorrenza Le politiche a tutela della concorrenza sono espressamente volte a: ~ Garantire la concorrenzialità in un determinato mercato; ~ Mitigare gli effetti della mancanza di competizione; ~ Contrastare i tentativi di monopolizzazione e gli abusi di posizione dominante. Le Autorità competenti, prima di intervenire, sono chiamate a: ~Analizzare attentamente la reale mancanza di concorrenza del mercato; ~Decidere se tale assenza non sia giustificabile sul piano dei costi di produzione e dell’innovazione e non vada pertanto accettata mitigandone gli effetti attraverso la regolamentazione. Alcuni paesi sono stati tolleranti nei riguardi delle concentrazioni di potere economico: ~ Favorito esplicitamente la nascita e lo sviluppo di veri e propri monopoli; ~ Preoccupandosi scarsamente degli effetti sul livello dei prezzi di mercato e sui consumi. In questi casi, gli interventi adottati hanno avuto l’obiettivo di favorire la nascita di: ~Campioni nazionali, ovvero imprese sufficientemente grandi ed efficienti in grado di fare fronte alla competizione internazionale e rappresentare l’interesse di un paese a essere presente sui mercati; ~Monopolio naturale, ovvero la circostanza in cui la maggiore efficienza produttiva è garantita quando è un unico produttore a soddisfare l’intera domanda di mercato. L’autorità antitrust è incaricata di: ~Valutare attentamente le questioni legate alla determinazione del mercato rilevante; ~Misurazione dell’effettiva concentrazione di mercato; ~Considerare l’esistenza di possibili monopoli naturali. Una volta accertate le condizioni di scarsa o nulla concorrenzialità di un mercato, le Autorità poste a tutela della concorrenza sono chiamate a valutare i possibili interventi correttivi. L’intervento è solitamente riconducibile ad azioni in tre differenti aree: 1)L’abuso del potere di mercato (o di posizione dominante); 2) Le fusioni e le acquisizioni; 3) Le pratiche restrittive della concorrenza. L’abuso di potere di mercato Abuso di potere di mercato: Le imprese sono giunte per qualche ragione, anche indipendente dalla loro diretta volontà, ad occupare nel mercato una posizione dominante. Conseguenze: ~Possibilità di fissare un prezzo di vendita del proprio prodotto superiore al costo marginale; ~ Vantaggio competitivo che consente loro di operare senza risentire in modo sostanziale della pressione concorrenziale esercitata da altre imprese. Esempi: Alibaba & Facebook Nella pratica, molto più spesso le Autorità antitrust si pongono l’obiettivo di valutare e promuovere la presenza di un livello di concorrenza sostenibile (workable competition). Le fusioni e le acquisizioni Le politiche di controllo delle fusioni e acquisizioni sono generalmente volte a prevenire il crearsi di mercati non competitivi e di condizioni di eccessiva concentrazione di mercato. L’ Autorità antitrust è chiamata a valutare se la proposta formulata da due o più produttori di fondersi in un’unica impresa possa in qualche modo creare posizioni di dominio del mercato e riduzioni del livello di concorrenzialità tali da ledere l’interesse più generale della collettività. Ad esempio, l’effetto di una fusione orizzontale è quello di aumentare la concentrazione di mercato, ovvero il livello di accentramento della produzione di un determinato bene o servizio nelle mani di poche e grandi imprese. Esempi: Amazon, Apple, Google, Facebook Le pratiche restrittive della concorrenza Si verificano quando due o più produttori possono adottare comportamenti coordinati o intese per ridurre il livello di concorrenza nel mercato e, conseguentemente, incrementare i propri profitti a danno dei consumatori. Tali accordi possono essere: ~Orizzontali: coinvolge imprese appartenenti alla stessa industria, le quali, specialmente nei mercati oligopolistici per alleggerire la pressione concorrenziale evitano forme dirette di concorrenza di prezzo (adozione di politiche comuni di prezzo) oppure attuano la concorrenza non di prezzo (collaborazione per portare avanti in maniera congiunta progetti di R&D). ~ Verticali: coinvolge produttori operanti in fasi diverse dello stesso processo produttivo, le quali per ridurre il livello di concorrenza creano barriere all’entrate mediante, ad esempio, contratti di vendita in esclusiva, accordi di esclusiva territoriale o tasse di ingresso. 2.Normativa antitrust negli Stati Uniti Gli Stati Uniti sono caratterizzati da una lunga tradizione in materia di normativa antitrust. Le leggi principali su cui ancora oggi si fonda il quadro normativo della politica per la concorrenza sono: ~ Lo Sherman Antitrust Act del 1890; ~ Il Clayton Antitrust Act del 1914; ~ Il Federal Trade Commission Act del 1914. Di particolare importanza è il Federal Trade Commission Act, il quale va ad istituire la Federal Trade Commission (FTC), agenzia espressamente incaricata di vigilare, valutare e intervenire nei casi di adozione di pratiche restrittive della concorrenza. Più in generale, la FTC si occupa inoltre di tutela dei consumatori e dei casi di pubblicità ingannevole. A partire dagli anni Settanta, è emerso un approccio volto alla riduzione del ruolo pubblico nelle dinamiche produttive, giustificato sulla base di un approccio neoliberista che iniziò in quegli anni. Tale approccio ha avuto ripercussioni anche sull’applicazione della normativa antitrust americana, divenuta via via generalmente più tollerante nei riguardi delle concentrazioni di potere economico. 3. Normativa antitrust in Europa e in Italia In Europa l’atteggiamento nei riguardi delle concentrazioni di potere di mercato è stato molto diverso da quello adottato negli Stati Uniti. Durante la prima metà del XX secolo, le economie europee erano ancora relativamente chiuse dentro i confini nazionale, con barriere commerciali che rendevano difficoltosa l’integrazione dei mercati europei. A tal proposito, i governi europei adottarono politiche nazionali che non contrastassero la crescita dimensionale delle imprese, ma piuttosto la favorissero, come nel caso di politiche volte alla promozione di cosiddetti campioni nazionali. Dagli anni Cinquanta, contestualmente all’avvio dei processi di integrazione economica e di creazione di un mercato unico, la normativa antitrust europea ha iniziato a convergere verso il modello americano. L’obiettivo era quello di favorire la competizione all’interno del Mercato Unico europeo. La normativa europea, fatta valere dalla Direzione generale della Concorrenza della Commissione Europea, si applica solamente alle imprese con base in Stati membri che hanno relazioni commerciali con altri Stati dell’Unione Europea. Alle imprese che operano esclusivamente entro i confini nazionali si applicano le specifiche norme antitrust nazionali. Le norme fondamentali della politica antitrust europea sono oggi contenute nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nato con la firma del Trattato di Lisbona nel 2007. Gli articoli del TFUE che delineano il quadro normativo in materia di tutela della concorrenza in Europa sono: ~ L’articolo 101 - disciplina gli accordi e le associazioni tra imprese; ~L’articolo 102 - vieta l’abuso di posizione dominante; ~ L’articolo 107 e l’articolo 108 - regolano la tematica degli aiuti di Stato. In Italia la prima legge a tutela della concorrenza fu istituita nel 1990, esattamente cento anni dopo lo Sherman Antitrust Act (USA). Nel secondo dopoguerra si consolida in Italia l’idea di un ruolo importante del governo in campo economico, volto a sostenere lo sviluppo del sistema industriale attraverso imprese di proprietà pubblica in molteplici settori. Questa caratteristica della politica industriale italiana giocava a favore della nascita di grandi imprese nazionali ed era di fatto incompatibile con l’applicazione di una politica a tutela della concorrenza volta a contrastare i monopoli. Solo alla fine degli anni Ottanta del XX secolo, con la progressiva integrazione dell’Italia nell’economia europea si riapre il dibattito sulla necessità di adottare una normativa antitrust italiana. La normativa a tutela della concorrenza fu istituita con la legge n. 287 del 1990, «Norme per la tutela della concorrenza e del mercato». L’applicazione di questa legge spetta all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che è un organo collegiale che opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione (Art. 10). La legge si ispira alla normativa antitrust europea e si applica alle intese, agli abusi di posizione dominante e alle concentrazioni di imprese (art. 1). Gli articoli che delineano il quadro della normativa antitrust italiana sono: ~ L’articolo 2 – disciplina le intese tra imprese ~ L’articolo 3 – vieta l’abuso di posizione dominante ~ L’articolo 4 – regola la concorrenza a seguito di intese tra imprese ~ Gli articoli 5 e 6 – disciplinano le concentrazioni di imprese a seguito di fusioni e acquisizioni Strategie del prezzo Agenda 1.La discriminazione di prezzo 2.Prezzi e comportamento competitivo 3.Prezzi regolati dallo Stato: i prezzi massimi 1.Strategie del prezzo La teoria neoclassica identifica nell’uguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale la regola che permette di determinare il livello di prezzo che massimizza i profitti, a prescindere dalla struttura di mercato in cui opera l’impresa. Tuttavia nella realtà, i processi decisionali all’interno dell’impresa sono molto più complessi rispetto a quanto suggerito dalla teoria neoclassica, complessità che spesso non viene sintetizzata in maniera efficace dalla sola regola di massimizzazione del profitto. Vi possono essere quindi, situazioni specifiche dove le scelte legate al prezzo non rispettano l’assunto su cui si basa la teoria neoclassica. Il Cost Plus Pricing Di frequente le imprese, a causa della difficoltà di reperire le informazioni relative alla funzione di domanda utilizzano metodi alternativi per determinare il prezzo dei propri prodotti e/o servizi. Uno dei più utilizzati è il metodo del cost plus pricing, che consiste nel determinare il prezzo partendo dal costo totale, a cui viene aggiunta una percentuale a copertura dei costi fissi e del margine di profitto, denominata markup. Costi totali Costi unitari % di Markup Prezzo di vendita Tale metodo presenta diversi vantaggi: ~Attuazione pratica semplice; ~ Richiede numero limitato di informazioni legate al livello di costi; ~ Permette di raggiungere una relativa stabilità di prezzi; ~ Aumento accettabilità dell’impresa sotto il profilo sociale. Ma anche alcune difficoltà: ~ Corretta imputazione dei costi; ~ Costo medio cambia al variare dell’output richiede stima funzione di domanda; ~ Imprese multi-prodotto; ~ Concorrenza. La discriminazione di prezzo La discriminazione di prezzo consiste nel vendere lo stesso prodotto a prezzi diversi a seconda delle caratteristiche di chi lo acquista o della quantità acquistata. Non costituisce discriminazione di prezzo vendere a prezzi diversi prodotti che non siano perfettamente uguali, se la differenza di prezzo è giustificata dalle diverse caratteristiche dei due prodotti (esempio: un olio di semi e un olio d’oliva). La discriminazione di prezzo è praticabile solo in presenza di specifiche condizioni: Prezzo netto, ovvero che il costo per unità di prodotto sia uguale; Certo grado di potere di mercato da parte dell’impresa; Sia impossibile praticare l’arbitraggio; Identificare all’interno della domanda segmenti di clienti; Indurre i clienti all’auto-selezione, ovvero identificare il proprio segmento di riferimento. La discriminazione di prezzo di primo grado Nella discriminazione di prezzo di primo grado (o perfetta, o prezzi personalizzati), ogni cliente paga un prezzo diverso, corrispondente alla sua massima disponibilità a pagare. Nella pratica, la discriminazione di prezzo di primo grado è più facilmente applicabile quando l’impresa: ~ Ha un rapporto personale con ciascun cliente (es. banche o assicurazioni); ~ E’ in grado di definire accordi specifici per ogni transazione dopo aver raccolto informazioni sulla capacità di spesa del cliente (es. nella vendita di un’automobile); ~Serve un numero limitato di clienti per i quali opera su commessa. La discriminazione di prezzo di secondo grado La discriminazione di prezzo di secondo grado consiste nell’applicazione di un prezzo unitario diverso a seconda della quantità acquistata. Ad esempio, l’impresa potrebbe proporre dei menù all’interno dei quali gli acquirenti possono fare la propria scelta, in cui il prezzo unitario cambia a seconda della quantità totale acquistata. I consumatori che acquistano le stesse quantità pagheranno lo stesso prezzo. Altri esempi di discriminazione di prezzo di secondo grado sono le tessere fedeltà o le raccolte a punti. Rientra fra le discriminazioni di secondo grado anche l’applicazione di una tariffa in due o più parti (es. energia elettrica o gas). La discriminazione di prezzo di terzo grado La discriminazione di prezzo di terzo grado consiste nell’applicare un prezzo diverso a seconda delle caratteristiche del cliente, a prescindere dalla quantità acquistata, ed è anche la più diffusa. In questo caso, l’impresa è consapevole dell’esistenza di gruppi di consumatori con una diversa elasticità della domanda e quindi una diversa disponibilità massima a pagare, che rende conveniente suddividere il mercato in due o più gruppi, a ciascuno dei quali verrà applicato un prezzo diverso. Le modalità attraverso cui viene attuata sono molteplici: ~ Intertemporale; ~ Differenti marche; ~ Coupon e buoni sconto; ~ Bulding (o vendite abbinate o collegate). Tabella riassuntiva discriminazioni di prezzo 2. Prezzi e comportamento competitivo Esistono situazioni in cui il prezzo viene determinato al fine di evitare l’entrata di nuovi concorrenti o di favorire l’uscita dal mercato di rivali esistenti. In questi casi, il perseguimento di tale obiettivo può determinare per l’impresa nel breve periodo una forte riduzione del profitto o addirittura una situazione di temporanea perdita. La scelta di utilizzare strategie di prezzo aggressive è spesso giustificata dalla presenza di elevate barriere all’uscita, le quali rendendo più difficile il ritiro dal mercato delle imprese esistenti, fanno sì che queste siano particolarmente agguerrite nei confronti dei concorrenti. Le due strategie utilizzate sono: ~ prezzi predatori; ~ I prezzi limite. Prezzi predatori Un’impresa adotta una strategia di prezzi predatori quando riduce il proprio prezzo a un livello molto basso, anche inferiore ai propri costi medi, per indurre i concorrenti esistenti a uscire dal mercato o per scoraggiare l’entrata di nuovi concorrenti. Una volta ottenuto l’effetto desiderato, l’impresa rialza nuovamente il prezzo. Applicare prezzi predatori ha successo solamente se le potenziali entranti credono che l’impresa dominante sia sufficientemente forte e aggressiva da permetterle l’applicazione di prezzi predatori. Le leggi antitrust vietano le politiche di prezzi predatori, tuttavia identificare tale pratica non è semplice, in quanto non vi è accordo sulla metodologia da utilizzare. Convenzionalmente, se i prezzi sono inferiori al costo marginale di breve periodo sono definiti predatori, poiché l’impresa avrebbe un intento diverso della massimizzazione del profitto nel lungo periodo, cercando di recuperare eventuali perdite di breve periodo. Prezzi limite L’impresa fissa il prezzo più alto che può applicare senza provocare l’entrata di nuove imprese, rinunciando perciò a una parte di extra profitto. Affinché sia efficace questa strategia richiede che l’impresa esistente abbia un vantaggio di costo sulle nuove entranti. Per evitare che potenziali entranti riescano ad ottenere extra profitti all’impresa dominante conviene ridurre il prezzo, portandolo appena al di sotto del punto minimo della curva di costi medi del concorrente, che non avrà quindi più convenienza ad entrare sul mercato. Dal momento che entrambe le strategie di prezzo evidenziate possono determinare forti danni alle imprese concorrenti, a volte non è necessario che vengano effettivamente implementate per raggiungere l’effetto voluto, ma è successivamente la minaccia della loro messa in atto. 3.prezzi regolati dallo Stato: i prezzi massimi Non sempre i prezzi vengono fissati liberamente dalle imprese sulla base delle proprie scelte strategiche. Esistono infatti situazioni in cui i prezzi vengono applicati o regolati dallo Stato. Una di queste situazioni è l’imposizione di un prezzo massimo, detto anche calmieramento. Si può verificare in due situazioni: ~ Riduzione dell’offerta della quantità prodotta; ~ Aumento della domanda a causa di eventi esogeni. Fusioni e acquisizioni Agenda 1.Le fusioni orizzontali 2.Le fusioni verticali 3.Le fusioni conglomerali 1.Fusioni e acquisizioni Attraverso le fusioni e le acquisizioni due o più imprese giuridicamente separate giungono a formare un unico soggetto economico. Si tratta di strategie d’impresa poste in essere con lo specifico scopo di influenzare la performance aziendale e la posizione competitiva nei confronti dei concorrenti. La fusione (detta anche integrazione o consolidamento), indica l’unione di due o più imprese indipendenti a formare un’unica società. L’acquisizione, è uno specifico tipo di fusione, che avviene quando un’impresa acquista un numero di azioni di un’altra impresa sufficiente ad esercitare su di essa un’influenza dominante (Incorporante e incorporata). Una fusione può altresì configurarsi come una scalata ( o take-over), nel caso in cui un’unica impresa acquisisca la proprietà di una società a proprietà diffusa, ovvero controllata da diversi proprietari. La prassi prevede che gli amministratori predispongano il progetto finalizzato alla ridefinizione dell’assetto societario, il quale dovrà poi essere approvato dall’assemblea dei soci. Sulla base del prodotto offerto dalle imprese che realizzano la fusione è invece possibile riconoscere tre tipologie principali di fusioni: ~Orizzontale; ~ Verticale; ~Conglomerale. Le funzioni orizzontali La fusione orizzontale è quella che coinvolge imprese che producono gli stessi prodotti e/o servizi. Tale tipologia può avere un impatto sia sulla struttura e il livello di concorrenzialità del mercato, in quanto riduce il numero di imprese che vi operano, sia sulla struttura dei costi delle imprese coinvolte, le quali possono trovare nella fusione dei guadagni in termini di efficienza. Le fusioni orizzontali hanno effetti diretti in due ambiti principali: ~ Concorrenzialità del mercato 1) Riduzione del numero di imprese in un mercato; 2) Aumento della concentrazione del mercato; 3) Maggiore potere di mercato per la nuova impresa; ~Efficienza produttiva 1) Miglioramento del livello di efficienza produttiva delle imprese coinvolte; 2) Riduzioni di costo dovute a: razionalizzazione degli impianti produttivi ed economie di scala. La fusione tra il gruppo FCA e il gruppo PSA-Peugeot La fusione tra i due grandi gruppi si completa il 16 gennaio del 2021. La tipologia di operazione è considerata come una fusione alla pari. Dal punto di vista contabile, il gruppo PSA è stato considerato l’acquirente e il gruppo FCA l’acquisito. A livello legale invece, è avvenuto il contrario in quanto è stato il gruppo FCA a cambiare ragione sociale in Stellantis. Essendo stata un’operazione destinata a modificare gli equilibri competitivi del settore e potenzialmente idonea a determinare una posizione dominante, è stato necessario ottenere l’approvazione da parte dei tre paesi interessati (Italia, Francia, Stati Uniti) e dalla Commissione Europea. In particolare quest’ultima ha posto condizioni affinché sia garantita la libera concorrenza. La nuova società è quotata sia alla Borsa di Parigi, sia alla Borsa di Milano ed infine alla Borsa di New York. 2. Le fusioni verticali La fusione verticale riguarda imprese che operano in fasi diverse dello stesso processo produttivo.In questo caso il vantaggio principale ricercato dalle imprese è quello relativo alla riduzione dei costidi produzione. La maggiore efficienza si ottiene svolgendo all’interno dell’impresa particolari fasi del processo produttivo piuttosto che ricorrere a transazioni di mercato (make or buy). Gli effetti sul livello di concorrenza del mercato, in caso di fusioni verticali sono più difficili da valutare. Esempio di fusione verticale SpaceX SpaceX attraverso l’integrazione verticale ha perseguito una riduzione dei costi dei propri prodotti, andando a internalizzare ovvero a produrre internamente la maggior parte dei suoi componenti, riducendo i costi rispetto al principale concorrente, United Space Alliance. Tramite il perseguimento di tale strategia è riuscita a ottenere un vantaggio competitivo di costo rispetto a United Space Alliance, quest’ultima infatti risultava avere una maggiore frammentazione della catena di fornitura, in cui i vari fornitori producevano ad un costo più alto, con un conseguente prezzo di circa 460 milioni di dollari per lancio. SpaceX è riuscita invece a ottimizzare i costi per singolo lancio a “soli” 90 milioni di dollari. Le fusioni verticali L’impresa che si viene a costituire in seguito alla fusione controlla internamente fasi successive dello stesso processo produttivo, mediante il quale si realizza un certo bene o servizio. Il processo produttivo può essere pensato quindi, come una sequenza di attività che descrive l’insieme delle operazioni necessarie alla creazione e commercializzazione di un prodotto, detta catena del valore. Le fasi iniziali sono dette attività a monte ( attività upstream). Le fasi finali sono dette attività a valle (attività downstream). Tipologie di fusioni verticali L’integrazione a monte (o all’indietro) si riferisce alla circostanza in cui un’impresa realizza una fusione con un’impresa operante in fasi precedenti del ciclo produttivo, ottenendo quindi il controllo interno dei propri input. L’integrazione a valle (o in avanti) si riferisce invece alla circostanza in cui un’impresa realizza una fusione con un’impresa operante in fasi successive del ciclo produttivo, controllando internamente un’attività basata sull’utilizzo dei propri prodotti. Sbilanciata, ovvero quando le capacità produttive delle imprese operanti in fasi diverse non si eguagliano e l’impresa ha necessità di ricorrere a transazioni esterne per reperire i fattori produttivi. Bilanciata, ovvero quando le capacità produttive delle imprese operanti in fasi diverse si eguagliano e l’impresa non ha alcuna necessità di ricorrere a transazioni esterne per reperire i fattori produttivi. Le fusioni verticali Ogni volta che i costi delle transazioni esterne, condotte nel mercato, sono sensibilmente maggiori rispetto a quelli organizzativi interni dell’azienda riguardo le proprie attività produttive, esiste un incentivo ad una fusione verticale. I principali fattori che possono permettere di ridurre i costi ricorrendo ad una fusione verticale sono: ~Interdipendenza tecnologica tra fasi del processo produttivo; ~ Incertezza; ~ Beni capitali specialistici; ~ Esternalità; ~Imposte e controllo pubblico dei prezzi di vendita. 3.Le fusioni conglomerali La fusione conglomerale è quella tra imprese che producono beni e/o servizi sostanzialmente differenti. Questo tipo di fusione è spesso motivato da opportunità di profitto che un’impresa intravede nei settori produttivi coinvolti dall’operazione. Tali opportunità derivano dallo sfruttamento di economie di produzione congiunta (o economie di scopo), le quali consentono la riduzione dei costi di produzione e il miglioramento della posizione competitiva dell’impresa. Il soggetto che nasce dalla fusione conglomerale è un’impresa diversificata (o conglomerale), contraddistinta dal fatto di essere multi-prodotto. Vi sono tre diverse tipologie di diversificazione: ~ Diversificazione orizzontale: l’impresa decide di produrre nuovi beni o servizi, realizzando una produzione diversa, ma continua a rivolgersi allo stesso mercato e stessi clienti (collegata nella domanda); ~ Diversificazione correlata: l’impresa realizza un nuovo prodotto mediante un processo produttivo che utilizza una tecnologia già in essere presso l’impresa stessa (collegata nell’offerta); ~ Diversificazione conglomerata pura: vengono realizzati prodotti nuovi che non sono apparentemente collegati né nella domanda né nell’offerta. Imprese che desiderano avviare la produzione in settori ormai maturi, dove la pressione concorrenziale è più elevata e la domanda di mercato è stagnante, potrebbero più facilmente ampliare la gamma dei beni e servizi offerti mediante fusioni conglomerali. I principali vantaggi della diversificazione risultano essere i seguenti: ~ La riduzione della concorrenza di mercato (ricorrendo a sussidi incrociati); ~ L’efficienza produttiva (attraverso economie di scopo); ~ La riduzione dei costi di transazione; ~Il miglioramento della posizione dei manager (attenzione al fenomeno noto come “la maledizione del vincitore”). ALLEANZE STRATEGICHE E RESTRIZIONI VERTICALI Agenda 1.Le alleanze strategiche 2.Tipologie di alleanze strategiche 3.Le restrizioni verticali 1.Le alleanze strategiche Vantaggi simili a quelli generati da fusioni e acquisizioni possono essere ricercati attraverso altre strategie d’impresa, le quali consentono di mantenere separata la proprietà delle imprese coinvolte. Le alleanze strategiche sono accordi di cooperazione tra imprese autonome finalizzati allo sfruttamento di specifiche sinergie (ad esempio cooperazione su progetti di ricerca e sviluppo). Tra le tipologie di sinergie che possono essere realizzate mediante alleanze strategiche troviamo: ~Sinergie modulari; ~Sinergie sequenziali; ~Sinergie reciproche. Le restrizioni verticali fanno invece riferimento a contratti a lungo termine che pongono condizioni e limitazioni a imprese collegate verticalmente tra loro, e possono essere viste come una valida alternativa alle fusioni verticali. L’alleanza strategica coinvolge imprese che si accordano per la condivisione di risorse e attività al fine di raggiungere un obiettivo comune. Si tratta quindi di un contratto incompleto tra imprese, in quanto queste stabiliscono contrattualmente il coordinamento organizzativo delle attività comuni, ma non sono specificati i doveri, le responsabilità e la condotta da adottare se nel tempo dovessero mutare le condizioni di partenza. Caratteristica centrale delle alleanze strategiche è quindi la possibilità di modificare o interrompere l’accordo di cooperazione del tempo, a differenza delle fusioni che hanno il limite di essere irreversibili. Comuni alleanze strategiche: le joint venture, i consorzi, accordi di franchising, e i contratti di licensing. 2. Tipologie di alleanze strategiche Le joint venture Una joint venture è un accordo mediante il quale due o più imprese si impegnano a collaborare al fine di perseguire un obiettivo comune. Ad esempio può essere finalizzata alla realizzazione di impianti industriali comuni o volta ad una costituzione di una rete commerciale di distribuzione comune. In generale, viene costituita per la realizzazione di investimenti particolarmente costosi o rischiosi, che richiedono capacità finanziarie o competenze disponibili presso una singola impresa, al fine di ripartire su più soggetti le eventuali perdite o utili dell’investimento. A livello formale si tratta di un contratto tra due o più parti, che non implica la costituzione di un nuovo soggetto giuridico, dal momento che le imprese coinvolte restano formalmente separate (unincorporated joint ventures). Tuttavia, a volte può assumere anche forma societaria, per cui è prevista la costituzione di una nuova società dotata di propria personalità giuridica (incorporated joint ventures). L’accordo tra le imprese può terminare una volta realizzati gli specifici obiettivi previsti dal contratto, o se dovessero verificarsi condizioni che li rendono di fatto irrealizzabili. Esempio: L’industria dell’auto in Cina I consorzi A differenza della joint venture, mediante un consorzio due o più imprese predispongono una strutturata organizzazione comune, finalizzata alla gestione congiunta di specifiche funzioni aziendali. La struttura organizzativa del consorzio prevede generalmente un’assemblea con funzioni deliberative e un organo direttivo con compiti di gestione e controllo. I consorzi si suddividono in: ~ Consorzi anticoncorrenziali; ~ Consorzi di cooperazione aziendale; ~ Consorzi di servizi. Anche nel caso del consorzio lo scopo può essere perseguito attraverso la costituzione di una nuova società dotata di propria personalità giuridica (società consortile). Esempio: I consorzi a tutela dell’IGP Il franchising Il franchising è una relazione tra due imprese indipendenti: il franchisor e il franchisee. Il primo cede al secondo il diritto di utilizzare un processo produttivo, collocare un prodotto o utilizzare un marchio conosciuto, in cambio di un corrispettivo, di solito stabilito sotto forma di canone periodico (royalty). Si tratta di un contratto che generalmente stabilisce i prezzi, i servizi offerti, la localizzazione e le modalità di marketing a cui il franchisee dovrà attenersi nello svolgimento della propria attività imprenditoriale. Vi sono due tipologie: ~ Il franchising aziendale, nel quale il franchisor vende al franchisee non solo un prodotto o un marchio ma anche l’intero format aziendale e prevede una forte interazione e comunicazione tra le due parti (Esempio McDonald’s); ~ Il franchising di prodotto o marchio, nel quale il franchisee opera in maniera più indipendente, utilizzando il prodotto o il marchio fornito dal franchisor ma stabilendo in maniera autonoma i servizi accessori erogati alla clientela (Esempio: concessionarie di auto). I contratti di licensing Attraverso un contratto di licensing (licenza), il detentore di proprietà intellettuale (marchio, brevetto o diritto d’autore), detto licensor, ne cedete il diritto di utilizzo a un altro soggetto, detto licensee, affinché questo la possa utilizzare per trarne benefici economici. Il licensee, in cambio della possibilità di utilizzo della proprietà intellettuale, è obbligato al pagamento di un corrispettivo periodico (fee), stabilito di solito come quota sulle vendite realizzate grazie all’uso della licenza. I vantaggi ottenuti si configurano in termini di maggior valore aggiunto apportato dall’utilizzo della licenza al bene o servizio venduto. Ad esempio un marchio o logo molto conosciuto dai consumatori, può incrementare le vendite attraverso la fidelizzazione del cliente stesso. I termini e le condizioni d’uso della licenza possono includere i prodotti a cui la licenza può essere applicata e quelli invece esclusi, oppure le aree territoriali entro cui l’accordo è ritenuto valido. 3. Le restrizioni verticali Le restrizioni verticali fanno riferimento a contratti a lungo termine che pongono condizioni e limitazioni commerciali a imprese collegate tra loro verticalmente. Da un punto di vista strategico si tratta di alleanze che consentono di armonizzare gli interessi delle imprese coinvolte stabilendo dei vincoli di natura commerciale tra aziende indipendenti. Le principali forme di restrizioni verticali sono le seguenti: ~Vendita in esclusiva; ~ Prezzo imposto; ~ Esclusiva territoriale; ~ Tasse di ingresso; La vendita in esclusiva La vendita in esclusiva è un accordo tra un’impresa e il proprio fornitore, che vincola quest’ultimo a vendere un particolare bene o servizio esclusivamente al produttore con cui ha stipulato tale accordo. Un contratto di vendita in esclusiva potrebbe consentire alle imprese coinvolte di conseguire un vantaggio competitivo rispetto ai rivali, sia riducendo la concorrenzialità nel mercato, sia i costi di produzione. Si realizza quindi l’esclusione dal mercato, vale a dire la pratica di rifiutare di rifornire un’impresa a valle o di acquistare da un’impresa a monte. L’esclusione può essere sia parziale che completa. In questo secondo caso un’impresa a valle ottiene il controllo di tutti i fornitori a monte, o al contrario un fornitore a monte ottiene il controllo di tutti i punti vendita a valle. Il prezzo imposto Il prezzo imposto è una forma di restrizione verticale in cui un produttore a monte si riserva il diritto di controllare il prezzo di un bene o servizio venduto dall’impresa a valle ai clienti finali. Solitamente è adottata imponendo ai dettaglianti a valle un prezzo minimo (price floor), anche se è possibile riscontrare accordi che prevedono l’imposizione di un prezzo massimo (price ceiling). L’imposizione del prezzo ai dettaglianti offre garanzie alle aziende produttrici che il bene o servizio sia effettivamente venduto ai clienti finali a un prezzo stabilito. Il prezzo imposto ha la funzione di preservare la reputazione delle imprese produttrici, infatti l’applicazione di un prezzo più elevato a quello di mercato potrebbe servire per comunicare ai consumatori una maggiore qualità del bene o servizio venduto. Esclusiva territoriale Nel caso di un’esclusiva territoriale un’impresa produttrice a monte stipula un accordo commerciale con i propri distributori a valle, al fine di delimitare il territorio geografico entro cui questi ultimi possono vendere il proprio prodotto. Può prevedere diverse forme: ~ Il distributore a valle è tenuto a non vendere al di fuori del proprio territorio ma può concludere transazioni con i clienti che si recano in loco; ~Il distributore a valle è tenuto a vendere unicamente ai compratori residenti in un determinato territorio. Il vantaggio è una minore pressione competitiva e un maggior potere di mercato. Tasse d’ingresso L’applicazione di una tassa di ingresso si riscontra nella fasi della catena del valore connesse alla distribuzione di un bene o servizio, ed è riferita all’opportunità di accesso al mercato finale. Viene generalmente utilizzata nell’ambito della grande distribuzione al dettaglio (catene di supermercati), la quale impone ai propri fornitori, il pagamento di una “tassa” al fine di rendere il loro prodotto accessibile ai clienti o collocato in una posizione più favorevole per attrarre l’attenzione dei consumatori. L’applicazione di una tassa di ingresso può avere effetti importanti sul livello di concorrenzialità nel mercato, infatti se la possibilità di collocare i prodotti in posizioni favorevoli è limitata, solo i produttori in grado di pagarla potranno trarre benefici. Ne consegue minore competitività e viene a crearsi una barriera all’entrata del mercato. Differenziazione di prodotto e pubblicità Agenda 1 Dalla produzione di massa alla personalizzazione di massa 2 La differenziazione di prodotto 3 La pubblicità e le sue funzioni 1. Dalla produzione di massa alla personalizzazione di massa L’importanza attribuita alla differenziazione di prodotto è variata notevolmente nel corso degli anni, parallelamente all’emergere di diversi modelli produttivi, i quali hanno influito sulla capacità di attuarla in maniera efficace. In origine con la prima rivoluzione industriale si passa dalla fabbricazione di manufatti alla produzione di beni tramite l’utilizzo di macchinari, mantenendo però un carattere prettamente artigianale. Con la seconda rivoluzione industriale iniziano a svilupparsi le tecniche di produzione di massa. La concorrenza è è sui prezzi e risulta vincente le imprese che riescono a sfruttare al massimo le economie di scala (Ford). Negli Anni Settanta viene introdotto nuovo paradigma produttivo, comincia a diffondersi la lean production (produzione snella), ovvero le imprese attraverso uno stretto rapporto con i propri fornitori riescono a produrre beni differenziati pur limitando i costi di produzione. Nascita del concetto di Just in Time (Toyota). Con la terza rivoluzione industriale e il diffondersi di tecnologie informatiche e di internet, inizia il raggiungimento della massima efficienza produttiva e prende sempre più importanza la funzione di R&S da un lato e di marketing dall’altro. Si diffonde il concetto di mass-customization. Con quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale (industria 4.0), attraverso l’uso di tecnologie digitali, stampa 3D e intelligenza artificiale all’interno dei processi produttivi, si arriva a quella che viene definita personalizzazione di massa, dove il consumatore tende a ricercare un prodotto pressoché unico. Alcune imprese (Nike e Coca-Cola) hanno poi introdotto ulteriormente alcune strategie dette di iper- personalizzazione, ovvero un prodotto elaborato su basi talmente differenziate da sembrare tagliato su misura per il cliente. Nel tempo, la capacità delle imprese di fidelizzare la clientela andando incontro alle sue specifiche esigenze è diventata una leva di vantaggio competitivo sempre più rilevante. 2. La differenziazione di prodotto Due prodotti possono essere considerati differenti fra loro innanzitutto sulla base del modo in cui ciascun consumatore valuta le loro caratteristiche. Si parla in questo caso di differenziazione orizzontale, nella quale i prodotti differiscono sulla base di elementi che non è possibile ordinare, ma che sono invece valutati dai consumatori in maniera soggettiva (es. preferenze personali riguardo a colori, gusti, forme o stili). I consumatori non hanno le stesse opinioni riguardo a quale sia la varietà di prodotto preferibile. Diversa invece è la differenziazione verticale, dove due prodotti presentano livelli qualitativi complessivi differenti. In questo caso è possibile classificare in maniera oggettiva i prodotti per qualità a seconda ad esempio degli ingredienti utilizzati o di caratteristiche del prodotto stesso. Nella realtà, in quasi tutti i beni la qualità è il risultato della combinazione di elementi di differenziazione orizzontale e verticale. Differenziazione naturale e differenziazione strategica Nella differenziazione naturale, le difformità derivano da attributi o caratteristiche naturali del prodotto. Ad esempio due beni che si distinguono per la loro localizzazione geografica (hotel o immobili) o al luogo diproduzione e provenienza. Esempio di differenziazione naturale in base al luogo di provenienza è quello del vino Chianti Classico DOCG. A tutela del prodotto nel 1924 è stato istituito un consorzio da un gruppo di produttori, per proteggerlo dalle imitazioni. Oggi rappresenta il 95% dei produttori stessi (circa 600 membri). Si occupa di sviluppare strategie di marketing, mantener le relazioni istituzionali e supporto e assistenza ai membri per quanto riguarda gli standard produttivi. Nella differenziazione strategica, al contrario le differenze di prodotto sono deliberatamente create dai fornitori con lo specifico intento di distinguere agli occhi dei consumatori il proprio prodotto da quelli della concorrenza. A volte la strategia di differenziazione attuata dall’impresa punta principalmente ad accelerare il tasso di sostituzione dei prodotti, lanciando sul mercato nuove versioni che in alcuni casi differiscono dalle precedenti per caratteristiche solo marginali, come forma o colore, ma che possono essere sufficienti nel consumatore il desiderio di acquistare il nuovo modello (Apple). Il confine tra differenziazione naturale e strategica è spesso difficile da tracciare (immagine prodotto-paese). 3. La pubblicità e le sue funzioni Riuscire a differenziarsi dalla concorrenza non dipende unicamente dalla capacità dell’impresa di ideare un prodotto o un servizio con caratteristiche uniche, ma anche di riuscire a trasmettere in maniera efficace ai clienti tale unicità. In questo contesto assume un ruolo molto importante la pubblicità che può essere: ~ Informativa, ha come principale obiettivo quello di descrivere il prodotto nelle sue caratteristiche (dimensioni, caratteristiche tecniche, ecc.), nonché di illustrare le principali condizioni di vendita, come il prezzo, la disponibilità, le modalità di pagamento; ~ Persuasiva, ha come obiettivo principale quello di catturare il consumatore e convincerlo che il prodotto è speciale basandosi spesso su dichiarazioni non direttamente verificabili («il nostro dentifricio rende il vostro sorriso più luminoso»). L’obiettivo è differenziare il prodotto e far diminuire la concorrenza sul prezzo. ~ Segnalazione, è spesso collegata al lancio di campagne spesso molto costose ma di grande impatto ed effetto e che di solito forniscono un numero molto limitato di informazioni al consumatore (informativa in senso indiretto). Esempio emblematico Apple con il lancio dell’iPod nel 2001. Un ampliamento della funzione di segnalazione della pubblicità è la comunicazione corporate, rivolta a rafforzare la notorietà di un marchio e orientata a fare in modo che i consumatori scelgano un prodotto non tanto per le caratteristiche del prodotto in sé, quanto per la notorietà ed il prestigio del suo produttore (Esempio Barilla e Lavazza). Esempio: pubblicità Barilla incentrata sui dipendenti e non sul prodotto. Caratteristiche dei beni Il ruolo della pubblicità cambia a seconda della natura dei beni acquistati. ~ Shopping goods, acquistati poco di frequente, per i quali il consumatore è disponibile a spendere un ammontare elevato del proprio reddito (es: automobili, elettrodomestici, mobili). Il consumatore è disposto a spendere tempo e denaro nell’acquisizione delle informazioni necessarie all’acquisto, il ruolo della pubblicità non è molto rilevante. ~ Convenience goods, per i quali il consumatore non vuole spendere molto tempo per sapere cosa è disponibile e dove. In questo caso la pubblicità può ridurre i tempi e i costi della raccolta di informazioni, svolgendo un ruolo economicamente utile. ~ Search goods, ovvero quei prodotti per cui il consumatore è in grado di acquisire le informazioni le informazioni necessarie per effettuare una scelta consapevole prima dell’acquisto, potendo confrontare le diverse alternative senza dover utilizzare il prodotto (es: personal computer). La pubblicità per avere valore deve fornire le informazioni che servono per effettuare una scelta. Il ruolo della pubblicità cambia a seconda della natura dei beni acquistati. ~ Experiece goods, ovvero quei prodotti le cui caratteristiche possono essere accertate e valutate dal consumatore solo dopo averli comprati (es: viaggi, pacchetti turistici). La funzione della pubblicità è solo quello di portare a conoscenza del consumatore l’esistenza del prodotto, non ha bisogno di informazioni dettagliate. Sono pubblicizzati di frequente; ~ Credence goods, ovvero quei prodotti le cui caratteristiche non possono essere valutate nemmeno dopo l’acquisto e l’utilizzo, poiché richiedono competenze molto specialistiche (es: riparazione meccanica o servizi professionali in genere). La scelta in questo caso per i consumatori si rivela costosa e in condizioni di asimmetria informativa. La scelta è dettata principalmente dall’affidabilità e reputazione del produttore. Scopo e intensità della pubblicità dipendono anche dalla fase del ciclo di vita attraversata dal prodotto. Infatti, nello stadio che segue l’immediato lancio sul mercato, la pubblicità è prevalentemente informativa, e ha l’obiettivo di portare il consumatore a conoscenza della novità e delle sue principali caratteristiche e funzionalità. Nella fase di crescita, la funzione della pubblicità è quella di accelerare la penetrazione sul mercato e la diffusione del prodotto. Una volta raggiunto lo stadio della maturità, l’obiettivo dell’attività promozionale diventa la difesa della quota di mercato di fronte ad un declino nel livello di differenziazione di prodotto. Pubblicità comportamentale online La pubblicità personalizzata, anche detta pubblicità comportamentale online, in inglese OBA (Online Behavioural Advertising) è quella effettuata sui siti web e sui social network. Si basa sui percorsi di navigazione precedente, grazie all’utilizzo dei cosiddetti cookies, ossia delle “tracce” lasciate durante la navigazione internet. In questo modo,ad esempio Amazon, pubblicizza a ciascun utente prodotti sulla base delle ricerche effettuate in precedenza anche sui monitor esterni al sito, o ad esempio Facebook è in grado di mostrare inserzioni legate ai dati personali degli utenti o alle pagine visitate. Per l’inserzionista è una pratica che porta sicuramente dei vantaggi, in quanto aumenta la probabilità che il proprio annuncio raggiunga un cliente potenzialmente interessato. Allo stesso modo, anche l’utente può trarre indubbi vantaggi, in quanto evita di visualizzare annunci inutili, ossia lontani dai propri interessi. Pubblicità e regolamentazione Per evitare un potenziale danno o manipolazione dell’utente sono previste diverse norme a tutela dei consumatori. E’ vietata la pubblicità fraudolenta, considerata tale quando contiene affermazioni, esplicite o implicite, su un prodotto sui cui è possibile verificare la non veridicità (es: Poltronesofà nel 2021 è stata multata dall’autorità antitrust per un importo di 1 milione di euro). La legge italiana (d.lgs. n. 67/2000) vieta poi il product placement, ossia l’inserimento di un prodotto in un programma televisivo con la marca esposta e facilmente individuabile a fini promozionali. Allo stesso modo vietata la pubblicità redazionale, dove messaggi pubblicitari vengono presentati su giornali o altri mezzi di comunicazione come se fossero espressione di un opinione imparziale dell’autore. La semplice omissione di informazioni non è considerata pubblicità ingannevole, a meno che l’esplicitazione delle informazioni non sia prevista per legge (es: composizione degli ingredienti di un prodotto alimentare). Se però non vengono fornite tutte le informazioni relative ai rischi associati al consumo del prodotto, la pubblicità è considerata ingannevole (es: pubblicità di WindTre nel 2020). In molti paesi è praticabile la pubblicità comparativa, in cui il proprio prodotto viene messo a confronto diretto con quello di uno o più concorrenti. In Europa è consentita dal 1997 (direttiva 97/55/CE). L’obiettivo della disciplina europea è quello di garantire un elevato livello di tutela dei consumatori, che non devono essere indotti in errore, o ancor peggio posti in condizione di confusione. Per quanto riguarda l’Italia, a tutela del consumatore opera l’Istituto di Autodisciplina della Pubblicità (IAP), all’interno del quale tale compito spetta al Comitato di Controllo, che agisce sia d’ufficio che su segnalazione degli utenti. Tra i suoi compiti ha quello di invitare gli inserzionisti a modificare le comunicazioni che presentino irregolarità in presenza di evidenti violazioni al Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (CAP). TUTELA DELLA PROPRIETA’ INTELLETTUALE Agenda 1. Strumenti di tutela della proprietà intellettuale 2. Il brevetto 3. La procedura di brevettazione 1. Strumenti di tutela della proprietà intellettuale Le leggi di tutela della proprietà intellettuale rispondono all’obiettivo di contemperare due opposte esigenze: ~ Problema di sottoproduzione dell’innovazione legato al paradosso dell’informazione, a tal scopo infatti, maggiore è la durata del diritto di tutela della proprietà intellettuale, maggiore è il tempo a disposizione dell’inventore per recuperare i costi di ricerca e sviluppo sostenuti. ~La concessione di un diritto legale di monopolio può causare un danno alla collettività, per la ridotta possibilità di diffondere rapidamente l’innovazione. I diversi strumenti di protezione della proprietà intellettuale vengono applicati a seconda di cosa è necessario proteggere. I diritti di proprietà intellettuale possono riguardare la creatività oppure la proprietà industriale. Il diritto d’autore Il diritto d’autore o copyright, tutela un atto creativo in ambito letterario, musicale o artistico. Il diritto d’autore entra in vigore automaticamente con la creazione dell’opera purché questa sia mostrata all’esterno in una forma percepibile. Il diritto spetta a chi dimostra di esserne stato il primo autore, fino a prova contraria e senza bisogno di alcun deposito. Tuttavia, è consigliabile effettuare un deposito presso un ente che ne certifichi la data, ad esempio in Italia la SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori). Può essere ceduto a titolo oneroso o gratuito e dura fino a 70 anni dopo la scompara dell’autore. Alla scadenza di tale periodo, l’opera diventa liberamente sfruttabile da chiunque. Strumenti di tutela della proprietà intellettuale Se l’innovazione consiste in una nuova componente funzionale in grado di migliorare la comodità d’uso o l’efficacia di un bene già esistente, l’inventore può richiedere il conferimento di un modello di utilità. La durata d’uso concessa è pari a 10 anni dal deposito della domanda, non rinnovabili. Esempio di modello di utilità: Adidas nel 1978, registrò come modello di utilità il pallone “Tango” formato da 32 pannelli che creavano un disegno di dodici cerchi uguali, rendendo la forma maggiormente sferica rispetto ai modelli precedenti. Se nell’innovazione prevale, al contrario, la componente estetica per l’introduzione di un particolare ornamento si può richiedere il disegno ornamentale. In questo caso, non viene effettuato un esame preventivo delle forme e degli oggetti già depositati. La durata è di 5 anni, prorogabili fino ad un massimo di 25. Il ma