Esistono lingue inferiori o superiori? PDF
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Marco Svolacchia
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Questo testo approfondisce il dibattito sulla supposta esistenza di lingue "primitive" in relazione a popolazioni con uno sviluppo tecnologico minore. L'autore dimostra come ogni lingua umana possegga una struttura grammaticale complessa e la capacità di esprimere una vasta gamma di concetti, indipendentemente dalla cultura del popolo che la parla. L'analisi si concentra sulla sfatazione di pregiudizi linguistici riguardanti lingue amerindiane, aborigene e pidgin.
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Marco Svolacchia 1 Esistono lingue inferiori o superiori? 1 Lingue inferiori 1.1 I popoli primitivi parlano lingue primitive? Un noto linguista del secolo scorso, O. Jespersen, sosteneva che alc...
Marco Svolacchia 1 Esistono lingue inferiori o superiori? 1 Lingue inferiori 1.1 I popoli primitivi parlano lingue primitive? Un noto linguista del secolo scorso, O. Jespersen, sosteneva che alcune lingue viventi sarebbero primitive, in quanto caratterizzate da strani sistemi grammaticali, che rifletterebbero una visione primordiale del mondo. I non linguisti vanno oltre e ritengono che esistano lingue con poca o nessuna grammatica, con lessico ridotto, privi di concetti astratti e generalizzazioni e che farebbero ampio uso di gesti e grugniti. Completamente falso: non c’è nessuna correlazione tra il livello tecnologico di una civiltà e la lingua ad essa associata. Ogni lingua umana conosciuta ha un sistema grammaticale ricco e complesso, un lessico di molte migliaia di parole ed è in grado di esprimere qualunque concetto di cui i propri parlanti necessitino. 1.2 Le lingue amerindiane non possono esprimere concetti astratti? Intorno agli anni ‘20, per sfatare questo mito, il grande linguista americano E. Sapir scrisse un articolo in cui comparava la seguente frase inglese con la sua traduzione in alcune lingue nordamerindiane: ‘He will give it (a stone) to you.’ wishram a-č-i-m-l-ud-a will-he-him-thee-to-give-will takelma ‘òk-t-xpi-n-k will-give-to thee-3p-FUT. paiute meridionale maga-vaania-aka-anga-’mi give-will-visible thing-visible creature-thee yana ba-a-a-si-wa-’numa 1 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici round thing-away-to-PRES./FUT.-done onto-thou in future nootka o’-yi-’aql-’at-e’ic that-give-will-done onto-thou art navaho n-a-yi-diho-’ál thee-to-TRANS.-will-round thing FUT. takelma ‘okúspi dà/diede a te ‘òspink darà a te ‘òspi può darlo a te ‘òspik è un fatto che lo diede a te La formulazione nelle lingue amerindiane considerate non differisce minimamente per ricchezza grammaticale e astrazione da quella inglese: oltre a forme pronominali (i.e. parole grammaticali), compaiono marche categoriali del verbo (tempo, aspetto e modo) e del nome, che possono differire più o meno da quelle dell’inglese, ma non più di quanto quelle dell’inglese differiscano da quelle di altre lingue molto prestigiose. Il punto fondamentale è che le lingue amerindiane mostrano la stessa qualità espressiva di qualunque altra lingua umana, indipendentemente dalla cultura tecnica che caratterizza la civiltà di chi la parla. Nelle parole di E. Sapir: When it comes to linguistic form, Plato walks with the Macedonian swine-herd, Confucius with the head- hunting savage of Assam. 1.3 Do Aborigines speak a primitive language? «As a linguist who spends much time researching Australian Aboriginal languages, I have often been informed by people I have met in my travels that ‘You must have an easy job – it must be pretty simple figuring out the grammar of such a primitive language.’ If you go further and ask your travelling companions over a beer or six why they hold this belief, you encounter a number of sub-myths: There is just one Aboriginal language. Aboriginal languages have no grammar. The vocabularies of Aboriginal languages are simple and lack detail. Alternatively, they are cluttered with details and unable to deal with abstractions. Aboriginal languages may be all right in the bush, but they can’t deal with the twentieth century». Nicholas Evans 1. «So, you can speak Aborigine?» MITO: non esiste la “lingua aborigena”; esistono 250–600 lingue aborigene australiane (la differenza nella stima dipende da come si classificano le varietà linguistiche: lingue a sé o dialetti di una stessa lingua?). Tenendo presente che ci sono c. 750.000 parlanti aborigeni (= 2.000 parlanti per lingua), la diversificazione linguistica in Australia in rapporto ai parlanti è molto maggiore che in Europa. Marco Svolacchia 2. «There’s no grammar – you can just chuck the words together in any order» MITO: Molte lingue aborigene dell’Australia hanno sì un ordine delle parole molto libero, ma il ruolo che ciascuna parola riveste nella frase è specificato da una marca di caso. Per esempio, negli esempi seguenti della lingua kayardild l’ordine delle parole (dangka ‘uomo’; kurrija ‘vede’; banga ‘testuggine’) è variabile, ma la marca di caso specifica se il nome è il soggetto (-a = che vede) o l’oggetto (-ya = che è visto): L’uomo vede la testuggine: dangkaa bangaya kurrija dangkaa kurrija bangaya bangaya dangkaa kurrija dangkaa kurrija bangaya, ecc. La testuggine vede l’uomo: bangaa dangkaya kurrija bangaa kurrija dangkaya dangkaya bangaa kurrija dangkaya kurrija bangaa, ecc. Pertanto, molte lingue aborigene si comportano come il greco o il latino, lingue tradizionalmente celebrate da molti come modelli di lingua impareggiabili per precisione e logicità). Tuttavia, il kayardild fa anche di meglio, se si vuole stare a questo gioco: mentre nelle lingue a noi familiari una frase come ‘L’uomo vide la testuggine sulla spiaggia’ è sistematicamente ambigua (chi è sulla spiaggia: l’uomo, la testuggine o entrambi?), in k. non lo è, come gli esempi seguenti mostrano: La testuggine: dangkaa banga-ya kurrija ngarn-nurru-ya L’uomo: dangka-a bangaya kurrija ngarrnnurruw-a Il complemento aggiunto ngarn-nurru ‘sulla spiaggia’ prende la marca di caso del nome a cui si riferisce (nelle frasi sopra, se prende la marca dell’oggetto significa che è la testuggine a trovarsi sulla spiaggia; se prende la marca del soggetto è l’uomo a trovarsi sulla spiaggia). Si confronti l’italiano, che, grazie all’accordo tra l’aggettivo e il nome a cui si riferisce, disambigua frasi altrimenti ambigue (cf. la frase ambigua ‘Matteo vinse con Mario stanco’: chi era stanco?): Matteo vinse con Marta stanca. Matteo vinse con Marta stanco. La differenza è che in kayardild anche i complementi aggiunti si accordano col nome a cui si riferiscono. Pertanto, se un ricco sistema di accordo significa raffinatezza linguistica (come nella communis opinio), allora molte lingue aborigene australiane sono superiori anche ai tanto celebrati latino e greco. 3. «Just a few hundred words and you’ve got it all» MITO: Le lingue aborigene hanno un lessico molto ricco, in particolare relativamente all’ambiente in cui parlanti vivono; in alcuni casi, la terminologia zoologica aborigena ha anticipato di molti millenni la classificazione tassonomica scientifica, come mostra la seguente tabella, che riporta i nomi dei macropodi (canguri e wallaby, canguri nani) in kunwinjku: LINNEANO E INGLESE MASCHIO FEMMINA CUCCIOLO Macropus antilopinus karndakidj kalaba karndayh djamunbuk (antilopine wallaroo) (large individual male) (juvenile male) Macropus bernardus nadjinem baark djukerre 3 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici (black wallaroo) Macropus robustus kalkberd kanbulerri wolerrk narrobad (wallaroo) (large male) (juvenile male) Macropus agilis warradjangkal/ merlbbe/kornobolo nakornborrh nanjid (agile wallaby) kornobolo nakurdakurda! (baby) (very large individual) La tassonomia in kunwinjku è molto più dettagliata di quella scientifica e di quella inglese, distinguendo anche il sesso e l’età del macropode. Nello stesso tempo, esiste anche un termine che designa l’intera classe dei macropodi, kunj, esistente nella tassonomia scientifica, ma non in inglese. Pertanto, è falsa sia la credenza che le lingue aborigene abbiano un lessico molto semplice sia la credenza, contraddittoriamente inversa, che le lingue aborigene siano incapaci di generalizzazioni. 4. «They might be OK in the bush, but there’s no way they can deal with the modern world» MITO: È vero che il lessico è la parte di una lingua che più rispecchia l’ambiente e la cultura del popolo che la parla. Pertanto, è banalmente vero che una lingua non può essere adattata immediatamente alle esigenze di un’altra comunità, specie se molto distante culturalmente e geograficamente, ma questo vale per qualsiasi lingua. Tuttavia, quando i parlanti vogliono esprimere un concetto nuovo, utilizzano le risorse della propria lingua per creare un’altra parola, o un altro senso di una parola già esistente, oppure prendono in prestito una parola da un’altra lingua. Ad esempio, in italiano la parola subcosciente è stata creata utilizzando parole e formativi che già esistevano nel proprio lessico: [sub + [cosciente]]. Massa, nel senso che ha in fisica di ‘quantità di materia contenuta in un corpo’, è un’estensione della parola massa ‘quantità indefinita di elementi’. Grattacielo è un calco (una traduzione letterale) dell’inglese americano (skyscraper, lett. ‘cielo- gratta’); la parola computer è stata presa in prestito dall’inglese, in cui deriva dal verbo compute ‘calcolare’ (a sua volta prestito dal francese computer ‘computare’, derivato dal latino computare). Del resto, nessuna di queste parole esisteva in latino: dovremmo concludere che il latino è una lingua limitata? RISULTATI: sebbene esistano culture che possiamo definire ‘primitive’ in base a parametri di natura tecnologica, non si dà il caso di lingue primitive. Ciò non deve stupire, per almeno due ragioni: 1) Ogni lingua contemporanea è l’ultimo anello di una lunghissima catena evolutiva che, sebbene in gran parte a noi sconosciuta, deve consistere di almeno molte decine di migliaia di anni; i pochi secoli o migliaia di anni che hanno differenziato sensibilmente il modo di produzione e lo stile di vita delle diverse popolazioni della Terra sono, al confronto, ben poca cosa. 2) La cultura non ha nulla a che vedere col linguaggio in senso stretto (fonologia e grammatica), largamente sotto la soglia della consapevolezza. L’unico settore che è correlato alla cultura materiale e spirituale di un popolo è il lessico. Anche in questo caso, però, non si più parlare di lessico ‘primitivo’ o ‘evoluto’: il lessico di ogni lingua è adeguato alle esigenze di chi la parla; quando le esigenze cambiano, ogni lingua ha le risorse per venir loro incontro. Marco Svolacchia 1.4 Pidgin hawaiano Per capire che cos’è una vera lingua primitiva basta dare un’occhiata a un pidgin, termine con cui si designa una forma di comunicazione utilizzata quando i gruppi coinvolti nell’interazione, in genere di natura commerciale, non condividono nessuna lingua. Un esempio molto conosciuto è quello del pidgin hawaiano, studiato da Derek Bickerton. Eccone alcuni esempi, caratterizzati da semplicità e difformità, caratteristiche che, come si è visto, sono assenti nelle lingue vere e proprie: a. Now days, ah, house, ah, inside, washi clothes machine get, no? Before tinte, ah, no more, see? And then pipe no more, water pipe no more. Oggigiorno (in) casa esserci (le) lavatrici; un tempo non esserci, capire? (Le) tubature non esserci, (le) tubature (dell’) acqua non esserci. b. Good, this one. Kaukau any kind this one. Pilipin island no good. No more money. Bene (si sta), qui. (C’è da) mangiare (di) ogni tipo, qui. Filippine non (si sta) bene. Niente soldi. SEMPLICITÀ. Non c’è presenza di grammatica in queste frasi: mancano parole o forme grammaticali (p.e., il verbo non è specificato per tempo, aspetto e modo: get significa ‘c’è, ‘c’era’ o ‘ci sarà’?), solo sequenze di parole. L’interpretazione della frase dipende dal contesto e dalla conoscenza delle informazioni rilevanti. Le potenzialità espressive sono molto limitate: si può parlare solo di argomenti elementari. a. The poor people all potato eat. (GIAPPONESE) b. Work hard this people. (FILIPPINO) DIFFORMITÀ. I pidgin variano nella pronuncia e nella sintassi a seconda della lingua madre del parlante. Nel primo degli esempi sopra, pronunciato da un giapponese, il verbo sta alla fine della frase, come in giapponese; nel secondo, all’inizio della frase, come nelle lingue delle Filippine (p.e. pilipino/tagalog). Perché i pidgin sono lingue primitive? Semplicemente perché non sono lingue: non sono la lingua madre di nessun individuo; sono semplicemente un espediente a cui si ricorre in caso di deficit comunicativo (come anche il linguaggio gestuale che si usa spontaneamente in situazioni limite, p.e. quando si è in un Paese di cui non si capisce affatto la lingua). 1.5 Razzismo linguistico I pregiudizi riguardo alla superiorità/inferiorità delle lingue si riflettono in alcuni fenomeni, spesso subdoli perché largamente inconsapevoli e preterintenzionali, i.e. sotto forma di quelli che in psicologia sociale vengono chiamati atteggiamenti, che possono coincidere con le opinioni, ma non necessariamente (è più sovente il contrario). 5 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici 1.5.1 Trascrizioni “fai da te” Un riflesso della sufficienza linguistica verso lingue, o meglio comunità linguistiche, considerate inferiori è la pratica di trascrivere i nomi “ad orecchio”, senza tenere conto dell’ortografia nazionale, o delle pratiche di trascrizione nel caso di sistemi di scrittura non a base latina. Un tipico caso è dato dalla resa abituale dei nomi arabi (l’arabo è una lingua che utilizza molti fonemi che non esistono nelle lingue europee più familiari) come in Moammed e Ali, due tipici nomi arabo- islamici, che è estremamente approssimativa: trascrivendo la forma ortografica araba in una a base latina, la resa dovrebbe essere, risp., Muḥammad e ‛Ali (in cui ‘ḥ’ e ‘‛’ stanno per due consonanti gutturali). Un’alternativa del primo senza diacritici, macchinosi al computer, è MuHammad, con una semplice h maiuscola. Un’altra alternativa – ancora più semplice, sebbene meno precisa – sarebbe Muhammad, nemmeno questa normalmente utilizzata, perché la presenza della gutturale non viene percepita, o categorizzata, da molti parlanti italiani. Per il somalo non vale nemmeno l’alibi di una scrittura diversa: già nel 1973 ha adottato una scrittura a base latina, in cui i nomi già citati sono scritti, risp., Muxammad e Cali, scrivibili con una comune macchina da scrivere. Tuttavia, anche per i nomi somali la resa tipica è quella più approssimativa (Moammed, Ali), ignorando completamente l’ortografia nazionale (anche nei documenti ufficiali). Quale pensate sarebbe la nostra reazione se si adottasse la stessa pratica, una resa ortografica “ad orecchio”, coi nomi delle lingue dei Paesi con maggiore peso politico? Eccone alcuni esempi (riconoscete i nomi?): Margheret Taccie Anghela Merchel Gion Chennedi Nicolà Sarcosì 1.5.2 «Suona bene/suona male» Nella communis opinio si ritiene che la simpatia/antipatia linguistica (‘suona bene’; ‘suona male’) dipenda da caratteristiche intrinseche della lingua (la sua pronuncia). In realtà, almeno nella gran parte dei casi, la fonologia di una lingua non c’entra nulla; gli atteggiamenti linguistici derivano da atteggiamenti di natura culturale. Ad esempio, c’è buona evidenza del fatto che gli italiani siano tradizionalmente esterofili, ma questo vale solo per persone che provengono da alcuni Paesi (tipicamente quelli dell’Europa settentrionale e degli USA); non altrettanto per persone che provengono da altri Paesi, in particolare quelli dell’Europa orientale e dei Paesi sottosviluppati (o che lo erano fino a tempi recenti). Questa differenza di atteggiamento si riflette nel gradimento rispetto all’accento straniero, che in alcuni casi fa simpatia, o viene addirittura considerato chic (e in rari casi perfino imitato), e che in altri raccoglie reazioni molto meno favorevoli. Le differenze di gradimento tra lingue possono essere molto specifiche. Ad esempio, per molti britannici (e non solo) l’italiano (anche per chi non lo parla affatto) suona elegante, sofisticato e vivace; il francese è sentito come romantico, colto e armonioso; il tedesco, l’arabo e alcune lingue dell’estremo oriente sono ritenute aspre, dure e di suono sgradevole. Marco Svolacchia RISULTATO: il rapporto di causa effetto tra simpatia linguistica e suono va, in generale, rovesciato: una lingua non raccoglie più o meno simpatia a seconda di come suona, ma suona più o meno bene a seconda del grado di simpatia che riscuote la comunità che la parla. 1.5.3 «Si capisce/non si capisce» Un fenomeno citato nella letteratura sociolinguistica è quello delle asimmetrie di comprensione, per cui i parlanti di due comunità linguistiche vicine danno giudizi diversi riguardo alla reciproca intercomprensibilità. Un caso noto è quello degli spagnoli e dei portoghesi, che parlano due lingue strettamente imparentate (lo spagnolo è grosso modo a metà strada tra l’italiano e il portoghese), tali che si possa immaginare che, con un certo grado di adattamento reciproco, possano attuare una comunicazione elementare senza troppi problemi. La realtà è diversa: mentre la maggior parte dei portoghesi dichiara di capire abbastanza bene lo spagnolo, la maggior parte degli spagnoli dichiara di incontrare grosse difficoltà a capire il portoghese. A rigor di logica, questa asimmetria di giudizio non ha senso: la somiglianza è una proprietà transitiva (se A è simile a B, anche B deve essere simile ad A). La spiegazione è di natura psicologica: quando si comunica con persone che parlano una lingua diversa (o dialetto diverso) si rende necessario uno sforzo cognitivo maggiore e una maggiore disponibilità comportamentale (‘devo chiedere di parlare più lentamente’, ‘devo chiedere di ripetere se non capisco’, ‘devo sforzarmi di capire’, ecc.); in mancanza di questa disponibilità, la comunicazione non avrà successo. L’asimmetria nella disponibilità all’adattamento linguistico riflette un’asimmetria di tipo sociale: nel caso specifico, in parte si spiega col fatto che molti spagnoli si ritengono (qualunque sia la ragione) superiori ai portoghesi; in parte, perché sono (o erano) i portoghesi a emigrare in Spagna e non l’inverso. A conferma, si noti che in Sudamerica non vige questa asimmetria linguistica tra brasiliani, di lingua portoghese, e i popoli dei Paesi confinanti, di lingua spagnola; la ragione è che i rapporti di potere tra Brasile e gli stati vicini sono di natura diversa rispetto a quelli che vigono tra Portogallo e Spagna. 1.5.4 I “selvaggi” non parlano lingue, ma dialetti o idiomi o parlate Molto spesso nei mass media ci si imbatte in riferimenti linguistici apparentemente bizzarri nei confronti dei popoli dei Paesi sottosviluppati, in particolare dell’Africa. Gli africani, per fare un caso tipico ma non esclusivo, per i giornali non parlano lingue, ma ‘idiomi’ o ‘dialetti’ (a volte ‘parlate’). Anche non tenendo conto del pregiudizio per cui non si considera lingua una varietà solo parlata, in Africa esistono molte lingue che sono scritte e che hanno uno status di lingua ufficiale nazionale, alcune delle quali sono parlate da molti milioni di persone (come il swahili o l’hausa, per fare due esempi). Pertanto, che cosa manca esattamente a queste lingue affinché vengano considerate come tali anche dai giornalisti e simili? 1.5.5 Sufficienza linguistica: «Parla l’africano» Un altro esempio di razzismo linguistico è rappresentato dalla sufficienza con cui ci si riferisce alle lingue dei Paesi sottosviluppati. Parallelamente al pregiudizio già visto, per cui nell’opinione di molti australiani esisterebbe ‘l’aborigeno’, per alcuni addetti ai lavori nei mass media esisterebbe l’’africano’ (si noti anche la palese contraddizione col pregiudizio precedente, per cui in Africa si parlano numerosi ‘idiomi’; ma tant’è: il pregiudizio non necessita di coerenza). Un caso recente è dato da un articolo sulla pagina di un noto giornale nazionale, in cui l’articolista commentava il fatto che l’allenatore tedesco della squadra del Togo, durante i mondiali di calcio in Germania, aveva incontrato grossi problemi di comunicazione coi giocatori, nonostante ‘parlasse l’africano’, 7 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici avendo già allenato la squadra della Nigeria. Se si considera la distanza geografica tra Nigeria e Togo e il fatto che l’Africa è il continente in cui è presente il maggior grado di diversità linguistica del mondo, un’affermazione del genere è risibile (molto più che se si parlasse di ‘lingua europea’, dato che l’Europa è il continente che presenta la minore differenziazione linguistica del mondo: come reagiremmo alla stessa affermazione con ‘europeo’ al posto di ‘africano’?). 1.5.6 ‘Extracomunitario’ Un’altra manifestazione di razzismo linguistico è offerta dall’uso di alcuni termini che si riferiscono alla sfera socio-politica. Un esempio eclatante è l’uso che in Italia si fa correntemente del nome ‘extracomunitario’ (come in ‘un extracomunitario’), che in linea di principio designerebbe un cittadino che non fa parte dell’Unione Europea. Nella pratica, però – e specie nei mass media – si utilizza generalmente il termine solo in concomitanza a cittadini dei Paesi in via di sviluppo (o, comunque, non di prima fascia): qualcuno ha mai sentito applicare ‘extracomunitario’ a cittadini svizzeri o statunitensi (tanto per fare due esempi), che pure sono cittadini di Paesi che non aderiscono alla UE? In altre parole, ai cittadini di Paesi di prima fascia ci si riferisce con la denominazione specifica; agli altri in modo generico, residuale (= ‘coloro che non sono noi’). 2 Lingue superiori Speculare, e logicamente quasi complementare, all’idea che esistano lingue inferiori è la credenza nella superiorità di alcune lingue. Per lo più, ma non sempre, la scelta è dettata da sciovinismo, come in alcune delle citazioni seguenti, relativamente recenti: (PRO INGLESE) Imagine the Lord talking French! Aside from a few odd words in Hebrew, I took it completely for granted that God had never spoken anything but the most dignified English. Clarence Day, Life with Father, 1935 * (PRO FRANCESE) “Ce qui distingue notre langue des langues anciennes et modernes, c’est l’ordre et la construction de la phrase. Cet ordre doit toujours être direct et nécessairement clair. Le français nomme d’abord le sujet du discours, ensuite le verbe qui est l’action, et enfin l’objet de cette action: voilà la logique naturelle à tous les hommes; voilà ce qui constitue le sens commun. Or cet ordre, si favorable, si nécessaire au raisonnement, est presque toujours contraire aux sensations, qui nomment le premier l’objet qui frappe le premier. C’est pourquoi tous les peuples, abandonnant l’ordre direct, ont eu recours aux tournures plus ou moins hardies, selon que leurs sensations ou l’harmonie des mots l’exigeoient; et l’inversion a prévalu sur la terre, parce que l’homme est plus impérieusement gouverné par les passions que par la raison. Le français, par un privilège unique, est seul resté fidèle à l’ordre direct, comme s’il était tout raison, et on a beau par les mouvemens les plus variés et toutes les ressources du style, déguiser cet ordre, il faut toujours qu’il existe; et c’est en vain que les passions nous bouleversent et nous sollicitent de suivre l’ordre des sensations: la syntaxe française est incorruptible. C’est de là que résulte cette admirable clarté, base éternelle de notre langue. Ce qui n’est pas clair n’est pas français; ce qui n’est pas clair est encore anglais, italien, grec ou latin. “Conte” Antoine de Rivarol, 1753-1801 * (PRO FRANCESE) “A propos de la langue française, il est difficile d’ajouter, après tant d’autres, des éloges tant de fois répétés sur sa rigueur, sa clarté, son élégance, ses nuances, la richesse de ses temps et de ses modes, ladélicatesses de ses sonorités et de sa ponctuation, la logique de son ordonnancement.” Presidente F. Mitterrand * Marco Svolacchia (PRO FRANCESE) In translating English prose into French we shall often find that the meaning of the text is not clear and definite... Looseness of reasoning and lack of logical sequence are our common faults... The French genius is clear and precise... In translating into French we thus learn the lesson of clarity and precision. Ritchie & Moore (professori americani di letteratura francese) * (PRO FRANCESE) The seventeenth century, which believed it could bend everything to the demands of reason, undoubtedly gave logic the opportunity to transform the French language in the direction of reason. Even today it is clear that it conforms much more closely to the demands of pure logic than any other language. W. von Wartburg (romanista del secolo scorso) Sorprendentemente, almeno per un occidentale contemporaneo, il francese è stato per alcuni secoli considerato la lingua più logica, chiara e precisa (sorprende molto meno se si pensa che è stato il veicolo principale dell’Illuminismo e, in genere, del razionalismo filosofico). Le lingue di elezione cambiano nel tempo e nello spazio, e la fortuna linguistica muta incessantemente, a volte in direzioni paradossali (per cui la ex lingua un tempo considerata inferiore è diventata una lingua di grande prestigio; raramente, anche l’inverso si è verificato). Una lista rappresentativa, ma non completa, può essere la seguente: ARAMAICO: è stata la lingua comune di due imperi, quello babilonese e quello persiano, utilizzata come lingua franca in tutto il Vicino Oriente e oltre. GRECO: ha avuto un’immensa influenza in tutto il Mediterraneo per molti secoli a causa della diffusione della civiltà greca, lasciando un segno profondo anche nel latino; in seguito, durante l’impero bizantino, ha avuto una grande influenza sul Mediterraneo e sull’Europa orientali essendo diventato il veicolo della cristianizzazione della Chiesa orientale. LATINO: è stata la lingua del Mediterraneo e di gran parte dell’Europa occidentali per molti secoli, secondo solo al greco come prestigio nell’Occidente classico. È significativo il fatto che ancora all’epoca di Cicerone era invece ritenuta una lingua inadatta a scopi filosofico-scientifici, per i quali si ricorreva al greco, prima che lo stesso dimostrasse, adattandovi molte parole greche, che anche in latino era possibile scrivere di filosofia e di scienze. Durante tutto il Medioevo (e in alcuni settori anche oltre) il latino è stato la lingua di cultura per eccellenza, sia per l’immensa eredità dell’Impero Romano sia perché fu adottato e utilizzato per la cristianizzazione dell’Occidente dalla Chiesa Romana (la Bibbia ebraica e il Nuovo Testamento greco vennero tradotte in latino, nella versione nota come ‘Vulgata di S. Girolamo’), tanto che studio e latino erano sostanzialmente sinonimi. ARABO: è stato il veicolo prima dell’Islam, poi della cultura islamica in generale per molti secoli. È tuttora, in una forma semplificata e modernizzata, il veicolo della cultura alta in tutti i Paesi arabi e la lingua della fede islamica per tutti i musulmani (per cui il Corano non può essere tradotto, in quanto sarebbe stato dettato a Maometto in arabo), la maggior parte dei quali non ha l’arabo come lingua madre. Ha avuto un’enorme influenza su tutta le lingue dei Paesi islamici (che ne hanno adottato in genere anche il sistema di scrittura). CINESE: ha avuto un’influenza millenaria, e tuttora ha, sull’Asia orientale (prestando anche la sua scrittura a molte altre lingue) ed è stato il veicolo della grande cultura imperiale cinese e di alcune religioni di grande influenza in Oriente (confucianesimo e taoismo, in particolare). Ci sono buone 9 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici ragioni per ritenere che tornerà a rivestire una grande importanza, parallelamente alla crescente rilevanza che la Cina sta assumendo nell’economia e nella politica mondiale. SANSCRITO: è stata la lingua degli antichi testi filosofico-religiosi indiani (Mahabharata, Veda, Bhagavadgita, ecc.) che hanno esercitato un’influenza enorme anche al di fuori dell’India, in particolare nel Sud-est asiatico. Ancora oggi è studiato e letto dagli eruditi induisti e gode di immenso prestigio. Il suo sistema di scrittura, il Devanagari, è stato adottato in molte lingue dell’Asia meridionale. FRANCESE: ha esercitato una grande influenza in Occidente per alcuni secoli dell’era moderna fino alla II Guerra mondiale, dopo la quale è stata ampiamente soppiantata dall’inglese come lingua internazionale. Come nel caso del latino rispetto al greco, da lingua di basso prestigio fino al Medioevo rispetto al latino (era uno dei volgari che ne erano derivati) è assurta allo stato di lingua di grande prestigio e di presunta superiorità logica. INGLESE: è assurto a prima vera lingua globale grazie alla supremazia politica, economica e tecnologica prima dell’Impero Britannico, poi, dopo la II Guerra mondiale, degli Stati Uniti. È ormai la lingua della tecnica, della ricerca scientifica internazionale, dell’informatica (e di Internet in particolare), della musica pop/rock e del cinema internazionale. Gli standard di maggiore prestigio sono quello britannico e quello americano (che è dominante dal punto di vista del lessico). Questa rapida carrellata delle lingue “superiori” mostra che il prestigio linguistico non deriva da presunte qualità intrinseche di una lingua, ma da fattori socio-politici e dall’importanza e la funzione che le viene attribuita. Un fattore spesso ricorrente è quello religioso, che attribuisce alla lingua (e spesso persino alla sua scrittura) dei testi sacri un prestigio illimitato, se non un’aura magica. 2.1 Purismo linguistico Un correlato naturale della presunta superiorità di una lingua sulle altre è il purismo linguistico, una reazione intollerante verso l’influenza delle altre lingue sulla propria, che ne minerebbero la purezza originaria. In particolare, sono i prestiti da altre lingue che suscitano le reazioni più forti (in relazione ai quali una denominazione abbastanza neutra è il termine ‘forestierismi’, un’altra è il termine ‘barbarismi’, che parla da solo: si tratta di parole di lingue barbare, al di fuori dell’ecumene delle genti civili). La nozione di purezza linguistica originaria non ha alcuna base scientifica per almeno due ragioni: 1. Non sappiamo nulla riguardo all’origine delle lingue, ma sappiamo con certezza che nessuna rimane inalterata nel tempo: da sempre, tutte le lingue mutano incessantemente a tutti i livelli (pronuncia, grammatica, lessico, ecc.). Pertanto, la nozione di ‘originale’ in riferimento alle lingue non ha alcun senso. 2. Nessuna lingua è impermeabile: tutte, quale più quale meno, hanno influenzato e sono state influenzate da altre nel corso del tempo (sebbene il flusso può essere molto asimmetrico, in dipendenza dei rapporti di potere tra le comunità in contatto). Pertanto, nemmeno la nozione di ‘puro’ in riferimento alle lingue ha alcun senso. In molte comunità linguistiche si sono avute, o si hanno tuttora, reazioni puriste. Attualmente la lingua che è percepita come più minacciosa è l’inglese, in particolare da chi parla una lingua romanza (i.e. derivata dal latino). Un Paese che si distingue particolarmente in questo senso è la Marco Svolacchia Francia. Ironicamente, il francese (seguito a ruota dal latino stesso) è la lingua che più ha influenzato l’inglese, e molte parole inglesi entrate nel francese sono in origine francesismi (p.e., sport deriva dal francese antico desport, da cui proviene l’italiano diporto) o latinismi (p.e., mass media deriva dalle parole latine media, pl. di medium ‘mezzo’, e massa ‘impasto’). Se la nozione di purezza linguistica fosse spendibile per le lingue, l’inglese sarebbe una delle lingue meno “pure” conosciute: ci sono buone ragioni per definirla, in un certo senso, una lingua “ibrida”, metà germanica e metà romanza (i.e. una lingua ‘germanica romanizzata’, se si vuole), come andiamo a mostrare. 2.1.1 Lessico Circa la metà del lessico inglese è di origine latina, vuoi perché preso in prestito dal latino stesso (soprattutto per effetto della cristianizzazione da parte della Chiesa di Roma), vuoi, ancor di più, perché preso in prestito dal francese in epoca normanna. Una conseguenza di questo stato di cose è la presenza di coppie di quasi sinonimi, in cui la parola di origine romanza appartiene a una sfera più raffinata e intellettuale. Ad esempio, il nome della carne dei principali animali commestibili proviene dal francese e differisce dal nome dell’animale stesso, autoctono (p.e., beef vs. cow; pork vs. pig); di una coppia di aggettivi quello derivato dal francese ha in genere un significato metaforico e un ambito più ristretto, poetico-letterario (p.e. deep, ‘a deep river’ vs. profound, ‘a profound book’). 2.1.2 Sintassi germanica Tutte la lingue germaniche sono caratterizzate dal fenomeno del verb second, per cui il verbo occupa sempre la 2a posizione nella frase principale, come gli esempi italiani seguenti, a cui è stata applicata la sintassi germanica, illustrano: 1 2 3 4 Silvia guarda la TV tutte le sere. La TV guarda Silvia tutte le sere. Tutte le sere guarda Silvia la TV. L’inglese è invece a parte, avendo una sintassi più vicina a quella delle lingue romanze. 2.1.3 Livelli morfologici e fonologici Le regole della morfologia (= la grammatica delle parole) dell’inglese e le regole della fonologia (= la grammatica dei suoni) che l’accompagna si dividono in due sottogruppi, come le regole seguenti illustrano. Degeminazione Quando in- si unisce alla parola seguente solo una delle due /n/ viene pronunciata (b); quando un- si unisce alla parola seguente entrambe le /n/ vengono pronunciate (c): (a) (b) (c) in+effectual in+nocuous un+natural in+probable im+mature un+necessary Raddolcimento della Velare /k/ in fine di parola diventa /s/ prima di alcuni suffissi (b), ma non cambia prima di altri (c): (a) (b) (c) [k] [s] *[s] electric electric–ity panick–ing 11 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici critic critic–ism kick–ing mystic mystic–ism stick–y Spirantizzazione /t/ e /d/ diventano, risp., /s/ e /z/ prima di alcuni suffissi (b), ma non cambiano prima di altri (c): (a) (b) (c) [t/d] [s] *[s] pirate pirac–y pirat–ing president presidenc–y might–y conclude conclus–ive flight–y Riduzione trisillabica Una vocale accentata si abbrevia prima di alcuni suffissi bisillabici (b), ma non cambia prima di altri (c): (a) (b) (c) lunga breve lunga vain van–ity might–i–ly serene seren–ity teeter–ing divine divin–ity pirat–ing La spiegazione di questa asimmetria è che nella morfologia dell’inglese ci sono due tipi diversi di affissi: (a) (b) in-, -ity, -ic, -al, -ory, -ate, -ion, -ant, -th, ecc. un-, -ed, -(e)s, -ing, -ness, -ly, -ful, -ship, -hood, -ment, ecc. Gli affissi in (a) vengono denominati ROMANZI (latinate) perché per la maggior parte sono di origine (neo)latina; gli affissi in (b) vengono denominati GERMANICI (germanic) perché per la maggior parte sono di origine germanica. La denominazione è in parte convenzionale: ci sono alcuni affissi non in linea con la derivazione storica. Si tratta di due serie di affissi connessi a regole morfologiche diverse: le regole in (a) sono poco produttive e opache; le regole in (b) sono produttive e trasparenti. In altre parole, l’inglese ha due diverse grammatiche di parola (due diversi livelli morfologici), una che deriva dai prestiti del latino o del francese, l’altra nativa, di origine germanica, a cui corrispondono regole fonologiche (di pronuncia) diverse. LIVELLO 1 LIVELLO 2 in-, -ity, -ic, -al, -ory, ate, -on, -th, ecc. un-, -ed, -s, -ing, -ness, -ly, -ful, -ship, ecc. APOFONIA (passato verbi forti) composti ‘germanici’ UMLAUT (e altri plurali irregolari) composti opachi In conclusione, l’inglese è stato influenzato profondamente dal latino (e derivati) a tutti i livelli, lessicale, sintattico, morfologico e fonologico: è paradossale che venga considerato una minaccia alla “purezza romanza”. 2.2 Esterofilia vs. “ecologia linguistica” Una reazione altrettanto ingenua al contatto linguistico, sebbene opposta, è l’esterofilia linguistica, che si riflette nell’adozione di parole da una lingua sentita come prestigiosa, o Marco Svolacchia comunque connotata favorevolmente, di cui la lingua ricevente non ha un bisogno oggettivo, in quanto già dispone di parole equivalenti. Attualmente, in Italia (ma anche in altri Paesi) il fenomeno è rilevante e riguarda l’inglese, lingua che sembra avere, specie tra i giovani, una connotazione di modernità e prestigio. Seguono alcuni esempi di questi prestiti indebiti (nella colonna a destra si trova l’equivalente italiano “autoctono”; si noti la presenza emblematica di ‘jay’, il nome della lettera ‘j’ dell’alfabeto che presso alcuni giovani ha soppiantato il nome italiano): INGLESE ITALIANO management gestione mobility manager gestore della mobilità shuttle navetta gossip pettegolezzo “jay” “i lunga” Un aspetto che catterizza molti prestiti dall’inglese è la loro pronuncia immaginaria, in particolare per la posizione dell’accento principale (la colonna a sinistra riporta l’accentazione nella lingua di origine; quella a destra l’accentazione di fantasia, tipica di molti italiani; kolossal è una forma tedesca): colòssal (kolossàl) còlossal/kòlossal suspènce sùspence perfòrmance pèrformance Hallowéen Hàlloween Un altro aspetto ingenuo che caratterizza questi prestiti è la pronuncia ortografica (spelling pronunciation), per cui le parole inglesi non vengono pronunciate come dovrebbero, ma in base a come sono scritte: essendo l’ortografia inglese molto poco affidabile per risalire alla pronuncia di una parola, il risultato è una pronuncia di pura fantasia. Di seguito alcuni esempi (nella colonna a sinistra ricorrono le forme con pronuncia ortografica; in quella di destra ricorre la pronuncia inglese reale): matrix meitrix Titanic Taitænic under andə catering ceitering media midia bipàrtizan baipartizàn Si noti media, che è ambiguo: può essere il plurale di medium ‘mezzo’ (pronunciato media), un prestito dal latino, o può essere la forma abbreviata di mass media ‘mezzi di comunicazione di massa’ (pronunciato midia). L’ingenuità linguistica è tale che ricevono la stessa pronuncia anglofila anche parole di altra provenienza, come negli esempi seguenti, dei latinismi: medium ‘midium’ junior ‘giunior’ Che si tratti di moda linguistica è dimostrato da quelle parole che avevano una doppia pronuncia, alla francese o all’inglese, come negli esempi seguenti: FRANCESE INGLESE Canadà Cànada taxì (tassì) tàxi rallie ràlly 13 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici La scelta tra le due varianti è legata alla fascia generazionale (maggiore l’età del parlante, maggiore la probabilità della pronuncia alla francese) e alla lingua straniera di imprinting (francese o inglese). La versione alla francese è ormai assente tra i giovani. La moda anglofila è stata estesa anche a parole di altra origine, che venivano pronunciare con l’accento sull’ultima sillaba, come Iràn, islàm, attualmente pronunciate dai più, e dai giovani in generale, come Ìran, ìslam. Persino cognomi italiani di tipo veneto, terminanti in consonante, tradizionalmente pronunciati con l’accento sull’ultima sillaba, subiscono la stessa sorte: p.e., Bènetton, Fùrlan, Còin. Neanche lo stesso francese si salva; molte parole vengono lette come fossero inglesi: p.e., dèpliant, mìgnon, Crème càramel, òmelette (si noti che alcuni pronunciano addirittura la consonante finale di dépliant, che è muta in francese); un altro noto esempio è stage ‘corso intensivo’, un prestito dal francese, pronunciato ormai dai più st[ei]ge, come si trattasse di un prestito dell’inglese, in cui esiste una parola con la stessa ortografia, ma con tutt’altro significato. La moda si estende a tutto ciò che vagamente potrebbe sembrare inglese; p.e., molti nomi tedeschi o di altre lingue germaniche vengono letti come fossero inglesi; un noto esempio è Michael, pronunciato [Maikl], Schumacher (l’ortografia identica per tedesco e inglese aiuta). Del repertorio cialtrone fanno parte parole pesudoinglesi, come footing, una pura invenzione (pare francese, ma adottata prontamente dagli italiani): il termine inglese per ‘corsa lenta’ è jogging. Un altro vezzo è di utilizzare dei prestiti dall’inglese al plurale col formativo dell’inglese, come in films, computers, che è un’evidente affettazione, in quanto i nomi che in italiano terminano in consonante (per lo più prestiti da altre lingue, latino letterario compreso) non sono declinati (p.e. un cactus/due cactus, non *cacti). Del resto, la pratica è assai incoerente: perché non viene allora estesa anche a forme come camion (i camions?), tram (i trams?); mouse (i mice/mouses?), blits (i blitser?), golpe (i golpes?)? Va anche detto che, per lo più, il formativo plurale viene scritto, ma non pronunciato (alla “francese”, ironicamente). Un’altra categoria di anglicismi è quella che passa attraverso i false friends (o faux-amis), parole di altre lingue di pronuncia simile, ma di diverso significato. In alcuni casi, il senso della parola inglese (o uno dei sensi) è entrata nell’uso italiano, aggiungendosi al significato originario o sostituendolo. Alcuni esempi: intrigante (nel senso di ‘interessante’, invece di ‘maneggione’); realizzare (nel senso di ‘rendersi conto’, invece di ‘creare’); educazione (nel senso di ‘istruzione/formazione’, invece di ‘buona condotta’). In altri casi, il false friend inglese ha sostituito la parola italiana con significato equivalente e forma simile (p.e., visuale, al posto di visivo o illustrato, come in dizionario visuale, invece di illustrato). Ci si potrà chiedere dove finisca la critica all’esterofilia lingustica e dove cominci il purismo linguistico. La risposta è che entrambi gli atteggiamenti sono reazioni ingenue al contatto linguistico (non esistono lingue inferiori, ma nemmeno lingue superiori). Per individuare il punto di equilibrio (potremmo parlare di “ecologia linguistica”) si può applicare ai prestiti il criterio che si applica ai tecnicismi, parole che non fanno parte del lessico comune, il cui uso dovrebbe essere motivato: andrebbero utilizzati quando sono specifici (= convogliano un significato inesistente nel lessico comune), non quando sono collaterali (= aggiungono un sinonimo “difficile” a una parola già esistente). Ecco alcuni esempi delle due categorie: TECNICISMI SPECIFICI COLLATERALI emicrania = *mal di testa deambulare = camminare dolo = *colpa incartamento = busta Marco Svolacchia 3 Stereotipi linguistici L’accento di fantasia introduce il caso degli stereotipi su lingue specifiche, concezioni erronee di una comunità linguistica o di un singolo parlante riguardo ad altre lingue. Normalmente, si basano su fraintendimenti che portano a ipergeneralizzare una singola proprietà di una lingua. Ecco alcuni esempi ricorrenti di stereotipi linguistici: ARABO: “accento sempre sull’ultima sillaba”:*Ahmèd, *Mohammèd, *Alì (Àhmed, Mohàmmed, Àli) FALSO: l’accento in arabo, come in italiano, può cadere sulle ultime tre sillabe. Lo stereotipo deriva probabilmente dal turco, lingua della nazione islamica più conosciuta in Occidente per secoli, in cui l’accento cade effettivamente sempre sull’ultima sillaba. INGLESE: “accento sulla prima sillaba”: *sùspence, *còlossal (suspènce, colòssal) FALSO: in inglese l’accento può, come in italiano, cadere sulle ultime tre sillabe. Lo stereotipo deriva probabilmente dal fatto che in inglese, in molte parole di origine latina, manca la sillaba finale (o le sillabe finali) a differenza dell’italiano, dando la falsa impressione di accentazione iniziale di parola (p.e., staziòne/stàtion, intelligènte/intèlligent; in realtà, in tutti gli esempi l’accento cade sulla penultima sillaba). TEDESCO: “solo consonanti sorde”: antiamo, pravo FALSO: come in italiano, in tedesco ci sono due serie di consonanti occlusive, sorde (/p, t, k/) e sonore (/b, d, g/), che però vengono pronunciate in modo diverso, utilizzando più la forza consonantica che la sonorità per differenziarle. All’inverso, a un orecchio tedesco l’italiano può suonare, erroneamente, come una lingua con tutte consonanti occlusive sonore. “LINGUE AFRICANE”: “solo consonanti sonore”: badrone, “io moldo gondendo” FALSO: nessuna lingua africana (in realtà, nessuna lingua del mondo) utilizza solo consonanti sonore. Lo stereotipo deriva con tutta probabilità dal fatto che in molte lingue del Nord Africa, arabo compreso, non esiste il fonema /p/ (storicamente diventato /f/); di conseguenza, quando un parlante di queste lingue deve pronunciate una parola di un’altra lingua che contiene /p/, l’adatterà come /b/ (p.e., petrolio corrisponde all’arabo bitruul). Anche qui un singolo fatto è stato ipergeneralizzato. Questo tratto è stato molto utilizzato al cinema anche per caratterizzare gli afroamericani, che nulla hanno a che fare coll’Africa settentrionale, nei vecchi film italiani o doppiati in italiano (p.e. Via col vento). Spesso, a questa caratteristica si accompagna la mancanza di forme grammaticali (p.e. l’ausiliare, come nel secondo esempio) e di flessione nel verbo (io volere…). Il tutto serve a conferire ai parlanti una connotazione di inferiorità, percepita in genere come comica. Si tratta di uno stereotipo decisamente razzista (del bovero negro). 15 2 I dialetti sono lingue degenerate? I Galaaditi chiusero i guadi del Giordano agli Efraimiti e quando uno dei fuggia- schi d’Efraim diceva: «Lasciatemi passare» gli uomini di Galaad gli chiedevano: «Sei un Efraimita?» Se quello rispondeva: «No», i Galaaditi gli dicevano: «Al- lora di’ scibbolet»; e se quello diceva: «Sibbolet», senza fare attenzione alla pro- nuncia, allora lo afferravano e lo scannavano presso i guadi del Giordano. Giudici, 12:5-6 Questo famoso passo dell’Antico Testamento – che riporta l’esito della vit- toria di Galaad su Efraim, due tribù di Israele – è forse la prima attestazione storica di sensibilità alle differenze dialettali. Nel caso specifico, una differenza fonologica, esempli- ficata dalla parola ebraica scibbolet ‘spiga di grano’, venne usata come diagnostica di provenienza geografica. Nei Paesi di lingua inglese il termine shibboleth è entrato in uso in questo senso. Altri esempi di scibbolet con conseguenze non dissimili sono attestati: (1) Wucker (1999) racconta che a Hispaniola, durante un pogrom, gli haitiani nella Repubblica Dominicana venivano identificati dai soldati dominicani per la loro pronuncia di /r/. Ad ognuno veniva mostrato del prezzemolo, perejil in spagnolo, e gli si chiedeva di pronunciarlo: chi non riusciva a produrre la R vibrante dello spagnolo veniva ucciso. (2) Secondo quella che è ritenuta una leggenda, durante i Vespri siciliani gli abitanti dell’isola avrebbero ucciso i francesi che, interpellati, non erano in grado di pronunciare corretta- mente la parola siciliana ciciri, ‘ceci’ (il fonema [ʧ] manca in francese, dove viene adattata con [ʃ]; il fonema /r/ in francese è pronunciato in modo diverso dall’italiano). L’ipersensibilità alle differenze dialettali è largamente attestata, sebbene normalmente con conse- guenze fortunatamente meno cruente. Un caso famoso è costituito dal De Vulgari Eloquentia, in cui Dante Alighieri si interroga su un possibile sostituto del latino come lingua poetica, giudicata, giu- stamente, artificiale. Nonostante la dichiarazione d’intenti, nessuno dei volgari italiani presi in con- siderazione viene giudicato adatto allo scopo, perché in difetto di nobiltà e di altri requisiti necessari. L’inizio della parte in cui esamina i vari dialetti dà immediatamente l’idea del suo atteggiamento in proposito: Il volgare italiano risuona in mille varietà diverse: cerchiamo perciò il linguaggio più elegante d’Italia, quello illustre, e per avere sgombro il cammino in questa nostra caccia, eliminiamo prima dalla selva i cespugli intricati e i rovi. Poiché i Romani si ritengono superiori a tutti, meritano la precedenza in questa nostra opera di sradica- mento o estirpazione: dichiariamo che in nessuna trattazione di eloquenza volgare si dovrà far riferimento a loro. Affermiamo allora che il volgare (o piuttosto turpiloquio) dei Romani è il peggiore dei volgari italiani – ciò che non deve sorprendere: anche nei loro brutti usi e costumi i Romani appaiono come i più fetenti tra tutti i popoli. Infatti dicono: Mezzure, quinto dici?1 Dante, De Vulgari Eloquentia, Libro I, cap. XI 1 Messere, che dici? Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici Non viene esplicitata la ragione di tanta avversità verso il dialetto di Roma all’inizio del ‘300 (molto diverso, si noti, da quello di qualche secolo più tardi, dopo la sua toscanizzazione), ma sembra di capire che avesse a che vedere con la profonda antipatia verso chi la parlava, più che con questioni puramente linguistiche. In tempi più recenti, una delle comunità linguistiche meno tolleranti verso le differenze dialettali, in particolare di pronuncia, è il Regno Unito, di cui George Bernard Shaw ha detto: It is impossible for an Englishman to open his mouth without making some other Englishman hate or des- pise him. G. B. Shaw, Pygmalion (1916), Prefazione Il Pigmalione è una miniera del tipo di pregiudizi linguistici in vigore nella comunità linguistica britannica, almeno fino a qualche decennio fa. Il grado di tolleranza verso la variazione geografica può essere illustrata dalle citazioni seguenti: The English have no respect for their language, and will not teach their children to speak it. * A woman who utters such depressing and disgusting sounds has no right to be anywhere – no right to live. Remember that you are a human being with a soul and the divine gift of articulate speech: that your native language is the language of Shakespeare and Milton and the Bible; and don’t sit there crooning like a bilious pigeon. La sensibilità verso le deviazioni rispetto alla “pura lingua inglese” da parte del protagonista – il professor Higgins (un linguista?!) – è tale che dichiara: Phonetics... the science of speech. That’s my profession... (I) can spot an Irishman or a Yorkshireman by his brogue. I can place any man within six miles. I can place him within two miles in London. Sometimes within two streets. Al di là dell’Atlantico, una società apparentemente molto più egalitaria e tollerante (e linguistica- mente relativamente uniforme) come gli Stati Uniti non sfugge al gioco dell’assegnazione di valori diversi alle varianti regionali e alla discussione di ciò che è “giusto o sbagliato” nel modo di parlare degli altri: I have noticed in traveling about the country a good many differences in the pronunciation of common words... Now what I want to know is whether there is any right or wrong about this matter... If one way is right, why don’t we all pronounce that way and compel the other fellow to do the same? If there isn’t any right or wrong, why do some persons make so much fuss about it? Lettera citata in “The Standard American” (da Williamson–Burke, eds., A Various Language, 1971) Giudizi particolarmente negativi attraggono i dialetti del Sud (a proposito dei quali già Mark Twain – in Life on the Mississippi, 1883 – notava ‘The educated Southerner has no use for an r except at the beginning of a word.’) e il dialetto di New York, come la seguente storia, riferita da W. Labov nella metà degli anni ‘60, illustra efficacemente: Bill’s college alumni group – we have a party once a month in Philadelphia. Well, now I know them about two years and every time we’re there – at a wedding, at a party, a shower – they say, if someone new is in the group: “Listen to Jo Ann talk!” I sit there and I babble on, and they say, “Doesn’t she have a ridiculous accent!” and “It’s so New Yorkerish and all!” 2 Marco Svolacchia Questo rapido excursus di opinioni riguardo a come parlano alcuni gruppi di parlanti della propria comunità linguistica non comprende affatto casi eccezionali, ma piuttosto la norma nelle comunità linguistiche, in particolare in quelle in cui vige quel repertorio linguistico che va sotto il nome di ‘lingua cum dialectis’, in cui i parlanti si debbono barcamenare tra un dialetto nativo e una varietà standard, nazionale, a cui viene attribuito prestigio e che deve essere appresa in modo non troppo dissimile da una lingua straniera, fondamentalmente a scuola. I dialetti nativi, invece, quale più quale meno, sono oggetto di stigmatizzazione, i.e. un atteggiamento negativo, che spesso, ma non necessa- riamente, emerge in forma di opinioni esplicite. 2.1 Giudizi “estetici” Una manifestazione estremamente tipica del pregiudizio linguistico sfavorevole ai dialetti, o a specifici dialetti, sono i giudizi estetici: ‘suona male/volgare/ridicolo’, ecc. I parlanti che esprimono queste opinioni sono perfettamente convinti che il rapporto di causa-effetto sia in termini di ‘suona male’ ergo ‘ne ho una cattiva opinione’; tuttavia, anche qui, come nel caso dei pregiudizi contro lingue specifiche, è evidente che il rapporto è inverso, come Peter Trudgill, dialettologo e sociolin- guista britannico, rileva: People have strong feelings about accents. They think of them as ‘beautiful’ and ‘ugly’, ‘intelligent’ and ‘stupid’, ‘musical’ and ‘harsh’, and much more. But accents can’t be classified in this way. What one person hears as melodious, another hears as grating. And some of the accents that are felt to be unpleasant by people inside a country are considered delightful by people outside. The Birmingham accent is often given a low rating by people from England. But when I played several accents to a group of foreigners who didn’t know much English, they thought Brummie was one of the most beautiful ones. L’osservazione riguardo l’accento di Birmingham, il Brummie – che “suona” molto male in Patria, ma giudicato uno dei più gradevoli da un gruppo di stranieri – è esemplare della realtà delle cose: alla base delle sensazioni di gradevolezza/sgradevolezza associate a una certa varietà linguistica ci sono gli atteggiamenti linguistici che sono stati ereditati dalla propria comunità linguistica, spesso in gio- vanissima età. Chi non proviene dalla stessa comunità fornisce giudizi alquanto diversi. Pertanto, le sensazioni estetiche non sono la ragione del pregiudizio, ne sono il riflesso primario. Due esempi, provenienti da comunità linguistiche diverse, possono contribuire a chiarire meglio il concetto. Le comunità linguistiche britannica e americana condividono pressappoco la stessa lingua stan- dard, in particolare riguardo alla lingua scritta, meno a quella parlata (nelle parole di G.B. Shaw, ‘England and America are two countries separated by a common language‘). Un’importante diffe- renza tra i due standard è nella pronuncia di /r/ in coda di sillaba (come in car, bird): la varietà bri- tannica standard è ‘non rotica’ (r grafica non si pronuncia in questo contesto), mentre la varietà ame- ricana standard è ‘rotica’. Esistono però molti dialetti britannici rotici (p.e. lo scozzese) e dialetti americani non rotici (p.e. i dialetti del Sud: si ricordi la citazione di M. Twain). Tuttavia, i giudizi sono inversi: la pronuncia rotica è giudicata molto negativamente in Gran Bretagna, mentre la pro- nuncia non rotica è giudicata molto negativamente negli Stati Uniti. Le possibilità che questi giudizi estetici abbiano una base oggettiva sono quindi nulle. Un altro caso è la pronuncia di s in italiano prima di alcune consonanti (le ostruenti), che in alcuni dialetti (centro)meridionali è palatale (p.e., spalla viene pronunciato come sc(i)palla, in cui la nota- zione sc(i) va letta come sc in sci). La connotazione di questa pronuncia è molto negativa, diremmo ‘rustica’. Nel tedesco standard, invece, la stessa è sentita come neutra (p.e. Sport, pronunciato 3 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici ‘sc(i)port’), mentre, nello stesso contesto, è la pronuncia di s non palatale ad avere connotazioni ru- stiche o simili. In realtà, lo status di questa pronuncia è ancora più complesso: almeno in alcune aree d’Italia, almeno per molti parlanti, la pronuncia palatalizzata di /s/ ha una connotazione molto diversa nelle parole che hanno una connotazione negativa (p.e. ‘strano’ ‘stupido’, ‘stronzo’, ecc.); in questo caso questa pronuncia funge da rafforzativo (si noti che non è possibile farlo con parole diverse: sc(i)tupendo non suonerebbe rafforzato, ma rustico). Questo fenomeno esemplifica due aspetti degli atteggiamenti linguistici alla base dei giudizi estetici su elementi linguistici: (a) possono essere estre- mamente variegati (non semplicemente ‘suona bene, suona male); (b) essendo arbitrari, possono es- sere palesemente contraddittori. 2.2 Self hatred: autostigmatizzazione Si potrebbe immaginare che la stigmatizzazione riguardi sempre gli altri parlanti, ma non è così: un atteggiamento negativo di qualche tipo verso una varietà di lingua considerata inferiore viene spesso assunto anche da parte di chi quella va- rietà la parla. Si parla in questo caso di ‘autostigmatizzazione’ (‘self hatred’ in inglese). La confes- sione seguente, di un newyorkese, è esemplare: I’ll tell you, you see, my son is always correcting me. He speaks very well – the one that went to [two years of] college. And I’m glad that he corrects me – because it shows me that there are many times when I don’t pronounce my words correctly. Una manifestazione molto diffusa e ben conosciuta dell’autostigmatizzazione è l’‘ipercorretti- smo’, per cui un parlante cerca di correggere la propria produzione linguistica per adeguarsi allo standard. Gli esempi seguenti illustrano: SUBSTANDARD STANDARD 1. *un coccetto (di vino) goccetto *quanto (arriva)? quando 2. *palquet parquet *scialpa sciarpa Le forme in (1) ricorrono in alcuni parlanti del (centro)sud; le forme in (2) sono tipiche dei parlanti romani (e laziali in generale). Non si tratta semplicemente di dialettalismi: in queste varietà non esi- stono regole che spieghino queste pronunce. Semmai, esistono regole inverse, come gli esempi se- guenti mostrano: SUBSTANDARD STANDARD 1. *anghe anche sonorizzazione *quando (costa)? quanto (costa)? post-nasale 2. *arbergo albergo rotacizzazione *cor martello col martello La spiegazione del paradosso è che i parlanti sono consapevoli che queste pronunce abbassano l’accettabilità sociale del loro parlato e cercano di inibire le regole che le producono. Tuttavia, il tentativo non ha successo, in quanto in italiano standard ricorrono, rispettivamente, (1) dopo una nasale sia consonanti ostruenti (occlusive e fricative) sorde sia sonore (non solo sonore, come nei dialetti di tipo meridionali, né solo sorde, come nelle forme ipercorrette); (2) in coda di sillaba sia /l/ sia /r/ (non solo /r/ come in romanesco, né solo /l/ come nelle forme ipercorrette). Il prefisso ‘iper’ prima di ‘corretto’ sta a indicare che la correzione eccede la norma, che questi parlanti non padroneg- giano: non c’è modo di sapere per regola se dopo una nasale un’ostruente si debba pronunciare sorda o sonora, dipende dalla singola parola. Il problema è che nel lessico mentale di questi parlanti queste 4 Marco Svolacchia forme sono memorizzate solo con ostruenti sonore e, rispettivamente, con /r/: l’unica possibilità che hanno è di pronunciare le parole come nel loro dialetto o di invertire la regola, producendo forme ipercorrette accanto a quelle corrette. Non vanno sottovalutate le conseguenze che lo stigma sociale ha sui parlanti discriminati. Nelle parole di Halliday (1968): A speaker who is made ashamed of his own language habits suffers a basic injury as a human being; to make anyone, especially a child, feel so ashamed is as indefensible as to make him feel ashamed of the colour of his skin. 2.3 Continuum lingua-dialetto Nelle comunità linguistiche di tipo ‘lingua cum dialectis’ i parlanti difficilmente parlano o il dia- letto stretto o l’italiano standard neutro: per lo più parlano una varietà intermedia tra i due estremi, come lo schema seguente illustra: STANDARD TETTO ↑ MESOLETTO 1 ↑ MESOLETTO 2 ↑ MESOLETTO N ↑ BASE DIALETTO Se lo standard è l’apice (il ‘tetto’) della scala linguistica in termini di prestigio e il dialetto ne è il livello minimo (la ‘base’), le varietà intermedie sono i ‘mesoletti’, di numero imprecisato, da quelli più vicini allo standard fino a quelli più vicini al dialetto. Questa situazione è nota come ‘continuum lingua-dialetto’. Vi sono dei dati che mostrano due fatti interessanti: (1) la sensibilità dei parlanti va ben oltre la distinzione tra standard/dialettale, ma è in grado di distinguere tra gradi diversi di accettabilità sociale; (2) la scelta nella mescolanza di elementi della lingua standard e di quelli del dialetto non è del tutto libera. La tecnica che consente di raccogliere questi dati sono le ‘scale di implicazione’. 2.4 Scale di implicazione Una regola di pronuncia del romano contemporaneo consiste nel pronunciare -amo il suffisso ver- bale -iamo dell’italiano standard; un’altra regola di pronuncia consiste nell’assimilare /d/ alla nasale precedente. Gli esempi seguenti illustrano: STANDARD ROMANESCO -amo cant-iamo cant-amo nd > nn quando quanno Un parlante romano – nel pronunciare una parola come andiamo, in cui entrambe le regole del romano si possono applicare – si trova davanti a quattro possibili scelte: (i)amo nd>nn 1 – – and-iamo 2 + – and-amo 5 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici 3 + + ann-amo 4 – + *anniamo (1) consiste nel non applicare alcuna regola dialettale (andiamo); (2) nell’applicare solo la prima regola dialettale; (3) nell’applicare entrambe le regole dialettali; (4), infine, nell’applicare solo la seconda regola dialettale. Quest’ultima possibilità, però, è esclusa: anniamo non è una forma esistente nella comunità linguistica romana. Questo fenomeno si riscontra in molti casi in cui due regole di pronuncia si possono applicare a una stessa parola. Un altro esempio è il seguente, in cui le regole di pronuncia romana sono il troncamento dell’infinito (lavora’) e l’assimilazione di g(i) alla nasale precedente: STANDARD ROMANESCO are lavor-are lavor-a’ ňğ> ňň spingi spigni Il risultato è lo stesso: delle quattro possibili combinazioni una delle due “miste” è esclusa (ma- gnare non è una forma possibile nell’italiano dei romani). are ňğ>ňň 1 – – mangi-are 2 + – mangi-a’ 3 + + magn-a’ 4 – + *magn-are Qual è la ragione della lacuna? Le due regole di pronuncia dialettale non hanno lo stesso grado di accettabilità: il troncamento (lavora’) è sentito come meno marcatamente dialettale dell’assimilazione alla nasale (spigni). Lo stesso vale per gli esempi precedenti: l’elisione di /i/ in - iamo (cantamo) è sentita come meno marcata dell’assimilazione di /d/ alla nasale (quanno). Ne consegue che la forma esclusa è un mesoletto “incoerente”, in cui viene selezionata la regola di pronuncia più marcatamente dialettale senza selezionare la regola di pronuncia più debolmente dialettale. Questi fatti mostrano che i parlanti selezionano i mesoletti a partire dallo standard (dall’alto in basso) in modo coerente: non si può selezionare un elemento di un mesoletto n se non si sono selezionati anche i mesoletti n-1. Questa è la ragione per cui si parla di scale di implicazione: la scelta di una variante lungo una scala di valori graduale (una forma non è semplicemente accettabile o non accettabile) implica la scelta di una variante meno marcata dialettalmente. 2.5 Lingua vs. dialetto Ci si può chiedere a questo punto che cosa sia esattamente un dialetto, ovvero in che cosa differisca da una lingua. La risposta è che, linguisticamente par- lando, lingua e dialetto non differiscono minimamente: se a un linguista venisse chiesto di esaminare due varietà di lingua che non conosce, di cui una conside- rata lingua e l’altra dialetto, non avrebbe nessuna possibilità di discriminare tra le due. La ragione è che la differenza è solamente sociale. Nelle parole di Hau- gen: ‘Una lingua è un dialetto che ha fatto carriera’. Una variante più colorita è fornita da M. Wein- reich: ‘A language is a dialect that has an army and a navy’. Al di là degli aforismi più o meno pittoreschi, questo significa due cose: (1) la differenza tra lingua e dialetto non è ab origine (come comunemente si crede) ma secondaria; (2) non sono i dialetti che derivano dalle lingue, ma l’inverso, tutte le lingue prima di diventare tali erano un dialetto locale. In Italia il dialetto che è stato elevato a lingua nazionale è il fiorentino; nel Regno Unito è l’inglese del Sud-est; in Francia è il francese 6 Marco Svolacchia dell’Île-de-France, l’area che include Parigi; in Germania è il tedesco del centro-sud (in cui venne tradotta da Lutero la Bibbia); negli Stati Uniti era l’inglese del New England fino alla II guerra mon- diale, sostituito successivamente dall’inglese del Midwest (la parte centrale del Paese). 2.5.1 Regolarità Un altro mito da sfatare è che i dialetti non seguano regole precise o comunque che non lo facciano in modo coerente (a differenza delle lingue, ovviamente). Al limite, in una certa misura, può essere vero il contrario. La ragione è che le lingue nazionali vengono adottate da (o imposte a, in alcuni casi) moltissimi parlanti che non la parlano come lingua madre. In questo processo il dialetto materno si aggancia alla lingua standard producendo quel continuum lingua–dialetto già visto. Questo fa sì che gli enunciati di un parlante di una comunità del tipo lingua cum dialectis produrrà enunciati apparen- temente contraddittori, in cui vengono applicate regole appartenenti a due varietà diverse. A lungo andare, questo può determinare la formazione di mesoletti con caratteristiche miste, i.e. che applicano una regola in modo non del tutto coerente. Un esempio è dato dal Raddoppiamento Inverso, una regola di pronuncia dell’italiano, presente anche nei dialetti del Centro Sud, assente però nei dialetti del Nord. Il raddoppiamento interessa le parole monosillabiche che terminano in consonante, come negli esempi seguenti (in realtà, non è ancora chiara la specificazione della regola, che si applica anche in altri contesti): stop stopp-are click clicc-are La regola è completamente produttiva e non presenta eccezioni nei dialetti del Centro Sud, come mostrano anche i neologismi (come, oltre che cliccare, bloggare, taggare, ecc.). Tuttavia, nell’uso di non pochi italiani, con l’avallo di alcuni dizionari, si trovano forme come le seguenti, senza raddop- piamento (II colonna), invece delle forme con raddoppiamento (III colonna): zoom zoom-are zoomm-are snob snob-are snobb-are sud sud-ista sudd-ista La ragione è che molti di questi parlanti del Nord non hanno le consonanti doppie nei loro dialetti, meno che mai questi fenomeni di raddoppiamento automatico; pertanto, il loro italiano presenta una pronuncia ortografica delle doppie: tenderanno a pronunciare le doppie solo quando sono scritte, i.e. quando sono distintive (come, p.e., in cane vs. canne), ma non quando derivano da una regola (come in gas asfissiante o metà torta), che non esiste nel loro italiano (cf. gasato vs. la forma italiana gas- sato). Il risultato è che l’italiano di questi parlanti (forse per qualcuno addirittura l’italiano tout court) presenta delle irregolarità assenti nei dialetti da cui l’italiano deriva. È possibile che qualcuno consi- deri addirittura errate ortografie come quelle nella 3a colonna della tabella sopra, sulla base delle ortografie avallate da alcuni dizionari (‘C’è scritto snob-are sul dizionario’, come se i dizionari esi- stessero in qualche mondo platonico delle idee, invece di essere compilati da persone, che magari parlano varietà diverse di italiano, che possono operare più o meno bene, più o meno coerentemente). La conclusione è che l’uso comune di ‘dialetto’ (o equivalenti in altre lingue) nel senso di una varietà linguistica inferiore (i.e., sgrammaticata, illogica, approssimativa) alla lingua, da cui deriva per corruzione, è completamente infondata. È per questa ragione che nell’uso puramente linguistico il termine viene utilizzato in senso neutro per riferirsi a una delle varietà simili che rientrano in una lingua, senza valutazioni di ordine sociale. Da questo punto di vista si può parlare dell’italiano stan- dard come di uno dei dialetti in cui si raggruppa l’italiano. Parlando di dialetti italiani, è utile operare una distinzione tra dialetti primari e secondari: 7 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici PRIMARI SECONDARI italoromanzi dell’italiano (toscano) veneto, campano, ecc. dialetti toscani, romano I dialetti primari sono le varietà italo-romanze sorelle del dialetto toscano, che è diventato l’italiano standard; i dialetti secondari sono i dialetti del toscano stesso (romano moderno compreso, a seguito della sua toscanizzazione). La differenza tra i due gruppi non è solo di principio, ma psicologica: mentre un parlante di uno dei dialetti primari ha piena coscienza della differenza tra il suo dialetto e l’italiano (che può alternare consapevolmente se li conosce entrambi), un parlante toscano (e romano, ma in misura leggermente inferiore) non ha consapevolezza della differenza tra il suo dialetto e l’ita- liano e non riesce ad alternare consapevolmente tra i due; quello che può fare, a seconda del contesto, è di inibire o meno delle varianti substandard (p.e., un parlante romano cercherà di evitare la rotaciz- zazione, i.e. di pronunciare /r/ per /l/ in coda di sillaba: (rom.) cortello vs. (it.) coltello). 2.5.2 Diglossia Sebbene il tipo ‘lingua cum dialectis’ è ricorrente nelle comunità linguistiche del mondo, non è l’unico repertorio attestato. In alcuni Paesi vige la diglossia (Ferguson), un tipo di repertorio linguistico in cui anche vi sono due varietà lin- guistiche compresenti, di cui una prestigiosa (A.lta) e una poco considerata (B.assa), ma che si trovano in distribuzione complementare (= dove viene utiliz- zata l’una non viene utilizzata l’altra, e viceversa): A B Il caso paradigmatico è rappresentato dai Paesi arabi, in cui la lingua A è sostanzialmente una varietà antica di B (l’arabo standard è una forma normalizzata e semplificata dell’arabo classico, la lingua del Corano) e B sono i vari dialetti – nazionali, regionali, cittadini e di villaggio – che si sono evoluti a partire dall’arabo classico o da una lingua simile: fuSHa cammijjaat La lingua alta viene utilizzata principalmente per scrivere, in secondo luogo per gli usi formali; la lingua bassa per gli usi orali informali. Si noti l’etimo dei due termini: fuSHa significa ‘eloquente’, i.e. ‘la lingua dell’eloquenza’; cammijaat significa ‘popolari’, che corrisponde perfettamente a ‘vol- gari’ (da vulgus ‘popolo’), il termine con cui venivano denominati i dialetti italiani rispetto al latino. Infatti, la diglossia è stato il repertorio dell’Italia – prima, durante il Medioevo (e oltre, in alcuni settori e casi), col latino lingua colta e scritta e i vari dialetti per gli usi orali e ordinari – poi, dopo l’unificazione fino ad almeno la I guerra mondiale, quando la grandissima parte degli italiani parla- vano un dialetto e scrivevano – quelli che, e nella misura in cui, erano andati a scuola – in italiano (toscano). La corrispondenza tra la diglossia dell’Italia medievale e quella dei Paesi arabi è pressoché perfetta, con latino e arabo classico lingue di immenso prestigio, specialmente per questioni religiose, artificialmente mantenute pressoché immutate, in quanto lingue non più native, come tali apprese solo per via formale, attraverso l’istruzione. Si noti, infine, un’altra asimmetria tra i due elementi in gioco: mentre A è una costante, una lingua uniforme tra tutti i Paesi arabi (come il latino tra tutti i Paesi della Romània), B è una variabile, a cui corrisponde un numero indefinito di dialetti, in funzione del Paese e della località specifica. 8 Marco Svolacchia La differenza fondamentale tra una comunità lingua cum dialectis e una diglossica sta nel fatto che in quest’ultima le due varietà sono in distribuzione complementare: non solo è inaccettabile usare la varietà bassa nello scritto e negli usi formali, è anche inaccettabile usare la varietà alta negli usi informali (pena dare un’impressione strana o di essere straniero: due arabi colti che non capiscono i dialetti reciproci utilizzeranno l’arabo fuSHa per comunicare, un po’ come succedeva in Europa col latino quando i parlanti, specie chierici, non condividevano una lingua; ma si tratta di extrema ratio). Nelle comunità lingua cum dialectis non esiste questa complementarità: l’uso di A o B dipende più dal livello socio-culturale del parlante che dalla situazione comunicativa (p.e., non ci si aspetta che una persona colta tenga una conferenza in italiano e parli in dialetto al bar). Per meglio capire la differenza si può pensare all’uso (italiano, ma non solo) della forma di rispetto: il ‘lei’ (o il ‘voi’, più spesso nel Meridione) è sì una forma di rispetto ma sarebbe inaccettabile usarlo in molti contesti (in famiglia, coi parenti, gli amici, i coetanei, se si è giovani, con i colleghi), in quanto non sarebbe sentito come cortesia, ma come estraneità, freddezza o simili. Altre comunità linguistiche diglossiche sono le seguenti: A B Svizzera tedesca Hochdeutch Schwyzertütsch Haiti francese standard creolo francese Si noti la differenza tra diglossia monolingue, diglossia in senso stretto, e diglossia bilingue. Nella Svizzera tedesca le due varietà in gioco sono due varietà di tedesco, lo Hochdeutch ‘alto tedesco’ come lingua A (molto simile al tedesco standard di Austria e Germania) e lo Schwyzertütsch ‘tedesco svizzero’, come lingua B. Ad Haiti le due varietà complementari sono il francese standard (A) e il creolo locale a base francese (B). La diglossia bilingue caratterizza invece molte ex colonie, in cui la lingua A è una lingua di importazione, la lingua del Paese coloniale (inglese, francese, spagnolo, ecc.), non una varietà antica delle lingue locali. Un esempio è l’India, dove accanto alle lingue e ai dialetti locali si parla lo Hindi come lingua A, che è tuttavia la lingua madre di una parte solo degli indiani; per alcuni usi alti, specie tecnico-scientifici, e come lingua franca tra gli indiani che non condividono alcuna lingua indiana, l’inglese è tuttora molto usato, anche da persone di modesta o nessuna scolarizzazione. È chiaro che in una situazione di varietà linguistiche molto diverse, a volte appartenenti a famiglie diverse e persino molto lontane, non si crea il già visto continuum lingua- dialetto. Un diverso tipo di comunità linguistica è quella in cui non esistono due varietà differenziate per prestigio e uso. Si tratta di comunità (o ‘dialetti’, nell’accezione puramente linguistica) senza lingua tetto, i.e. una lingua considerata superiore. In Italia, varietà senza lingua tetto sono i dialetti gitani, in quanto non esiste una lingua gitana standard, e i dialetti italoalbanesi, di cui esiste, naturalmente, una varietà standard in Albania, ma che non è considerata un riferimento per gli italiani di madre lingua albanese, in cui essa ha funzione solo vernacolare (viene parlato in famiglia e tra compaesani), ma che non viene utilizzato come lingua A, per esempio a scuola, funzione assolta dall’italiano. 2.5.3 Differenze lingua-dialetto Se non esistono differenze propriamente linguistiche tra di essi, in che cosa si distinguono esatta- mente lingua e dialetto? Come la tabella seguente sintetizza, le differenze sono soprattutto di uso, in secundis di prestigio: DIALETTO LINGUA oralità scrittura locale nazionale 9 Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici informale formale basso prestigio alto prestigio associato agli strati bassi associato agli strati alti Una differenza derivativa tra lingue e dialetti è il loro grado relativo di elaborazione: quando un dialetto viene elevato a lingua subisce una serie di interventi da cui i dialetti vengono esclusi, o che ricevono in misura molto inferiore. Tipicamente, le lingue sono scritte, i dialetti sono solo orali, o scritti molto limitatamente, per lo più per veicolare contenuti vernacolari (poesia vernacolare, lette- ratura popolare e tradizioni locali). Le lingue, e non i dialetti, vengono codificate e assoggettate a interventi normativi, tramite grammatiche di riferimento, dizionari e manuali di stile. Le lingue ten- dono ad assumere un carattere enciclopedico, i.e. il lessico si espande al di là delle necessità locali per veicolare qualsiasi contenuto disciplinare, in particolare con la formazione dei lessici settoriali (p.e., non ci si aspetta che in un dialetto italiano ci sia una parola equivalente a bradipo o termodiffu- sore). Il grado di elaborazione di una varietà linguistica è stato parametrizzato da Kloss nel modo seguente: ARGOMENTI LIVELLI DI SVILUPPO – Storia e tradizione locale Scuola Elementare Cultura generale Scuola Secondaria + Scientifici e tecnologici Università Tipicamente, i dialetti raggiungono solo il primo livello di elaborazione; molte lingue nazionali moderne l’ultimo: possono veicolare qualsiasi contenuto a qualsiasi livello. Va detto, però, che at- tualmente la lingua col più alto grado di elaborazione è l’inglese, in cui le possibilità di non trovare un termine tecnico sono estremamente ridotte, se non nulle: se un termine tecnico-scientifico non c’è in inglese, probabilmente non esiste in nessuna altra lingua del mondo. La ragione è non solo nel predominio scientifico-tecnologico degli Stati Uniti, ma anche, e di conseguenza, nel fatto che tutti i Paesi tecnologicamente avanzati utilizzano l’inglese come lingua di riferimento, in prima o seconda battuta. 2.5.4 Comportamento linguistico L’incidenza del dialetto, specie nelle comunità linguistiche metropolitane, può essere estrema- mente variabile, come gli studi basati sulle variabili sociolinguistiche hanno mostrato chiaramente. Una variabile sociolinguistica è un elemento linguistico variabile in una comunità linguistica. Quello che segue è un grafico che riporta i risultati di uno studio (di Nora Galli de’ Paratesi) sulla variabile (r:) nei diciannovenni di Roma (in romanesco a /r:/ dell’italiano corrisponde /r/; p.e., carro e caro sono pronunciati in modo identico): Si noti che il grafico rileva l’incidenza statistica delle pronunce substandard (‘ere’ invece di ‘erre’) tra tre diverse categorie di diciannovenni, a seconda del grado di scolarizzazione e della situazione 10 Marco Svolacchia comunicativa (formale o spontanea); sull’asse verticale non è indicata la cifra precisa: si va da 0% alla base al 100% all’apice (con i gradi intermedi a vista). Risulta che il comportamento linguistico riguardo alla variabile considerata è molto diversificato (l’incidenza della ‘ere’ è quasi nulla tra i giovani con una maturità classica o scientifica, molto alta tra i giovani con solo una licenza media; anche lo stile informale determina un aumento della presenza della ‘ere’, sebbene, e questo è tipico, di molto tra i giovani con un grado modesto di scolarizzazione, di pochissimo tra i giovani con la maturità scientifica, risultato tipico in una comunità di tipo lingua cum dialectis, poco tollerante verso il dialetto, a prescindere dalla situazione comunicativa. 2.5.5 Dialetti sociali? Esistono dialetti sociali in Italia, cioè dialetti non determinati dalla provenienza geografica ma dallo strato sociale, così come sembrano trovarsi in altre comunità linguistiche? Qualcuno ha soste- nuto di sì. De Mauro, in particolare, ha parlato di ‘italiano popolare’, tipico delle classi sociali più basse. La proposta è stata criticata, in quanto in Italia la stigmatizzazione linguistica è direttamente proporzionale alla marcatezza dialettale, in due sensi diversi: (1) più una forma è dialettale, più è stigmatizzata; (2) più un dialetto è stigmatizzato, più è substandard. Questo rimanda a una differenza di status tra dialetti: + GRADO DI STIGMATIZZAZIONE – meridionali centrosettentrionali toscani? I dialetti meridionali sono quelli che godono di minore prestigio, seguono quelli centrosettentrio- nali, infine, forse, quelli toscani, che mantengono tuttora presso molti l’aura del ‘vero italiano’. Per- tanto, l’idea di un dialetto sociale in Italia non è difendibile. Tuttavia, esistono alcune varianti che potrebbero rientrare a buon diritto nell’italiano popolare, tipiche dei parlanti poco scolarizzati, a pre- scindere dalla zona di provenienza. Si tratta di semplificazioni di tratti dell’italiano, specialmente scritto, piuttosto complessi. La tabella seguente illustra (nella colonna di destra compare la forma equivalente in italiano standard): SUBSTANDARD STANDARD RELATIVE OBLIQUE Il tavolo che c’è sopra un vaso. Il tavolo su cui c’è un vaso. CONDIZIONALE Se ero ricco non stavo qui. Se fossi ricco non starei qui. CONGIUNTIVO Sembra che lo vuole. Sembra che lo voglia. CLITICI A Maria non gli ho detto niente. A Maria non le ho detto niente. Fondamentalmente, la scelta tra queste varianti, substandard e standard, dipende dal livello di sco- larizzazione del parlante. 11 4 Le lingue stanno peggiorando? 1. L’età dell’oro della lingua? Un fenomeno ricorrente sono le grida di dolore contro il degrado linguistico, a causa del quale le lingue, normalmente la propria lingua, si starebbero 'cor- rompendo', 'imbarbarendo' et similia. Una frase ricorrente nei Paesi di lingua inglese è "Children can't speak or write properly anymore". Le lagnanze, però, non sono solo recenti; lo scrittore britannico Thomas Lounsbury nel 1908 lan- ciava addirittura un appello per salvare la lingua inglese dalla 'distruzione': "There seems to have been in every period of the past, as there is now, a distinct apprehension in the minds of very many worthy persons that the English tongue is always in the condition approaching collapse, and that ar- duous efforts must be put forth, and put forth persistently, in order to save it from destruction." Uno dei principali indiziati della decadenza della lingua inglese sarebbero i mass media, spesso accusati di anarchia linguistica. Quella che segue è una lettera di un lettore a un giornale britannico ('Engloid' è un gioco di parole, una parola macedonia composta da English e tabloid, i noti giornali scandalistici britan- nici): "What I find hard to stomach these days is the pidgin being served up more and more by television and radio as well as the press... But the increasingly rapid spread of what I can only describe as Engloid throughout the all- pervasive communications media foreshadows an anarchy that must eventually defeat the whole object of com- munication – to understand and be understood..." Le lamentele possono essere molto specifiche, tanto che al di fuori della comunità linguistica in oggetto ci si può meravigliare di come minuzie linguistiche possano attrarre tanta attenzione e indignazione (salvo poi comportarsi nello stesso modo per i fatti linguistici della propria comunità linguistica). J. Aitchison, una linguista britannica, riferisce di una conversazione radiofonica con un ascoltatore, chiaramente indi- gnato per una variante accentuale di una parola (la vocale in maiuscolo indica qui la posizione dell'accen- to principale): In a recent radio talk, the speaker referred to kilOmetres, a pronunciation which attracted angry letters, such as: "I was astonished to hear you pronounce kIlometre as kilOmetre... Surely, even if it is argued that language has no rights or wrongs, but merely usage, there IS sense and nonsense. The pronunciation kilOmetre is in the latter category, kIlometre in the former." Con tutta probabilità, l'ascoltatore non sarebbe minimamente confortato dal sapere che la parola kilometre è pronunciata da circa metà dei britanni con l'accentazione che tanto sembra detestare. Considerazioni analoghe valgono per altre parole inglesi, di accento variabile; ancora Aitchison rileva: The main pronunciation grumble in David Crystal's 'Top Twenty' complaints was about the stress on words such as controversy. The survey found that 44 per cent preferred cOntrovErsy, and 56 per cent contrOversy, indicat- ing that both are acceptable. Qui il casus belli accentuale è, nomen omen, 'controversy', di cui alcuni britannici trovano offensiva la pronuncia con l'accento sulla 2a sillaba, a parte il fatto – come ha appurato Crystal, un altro linguista bri- tannico – che è la pronuncia maggioritaria tra i britannici. Questa preoccupazione linguistica non è certo confinata al Regno Unito, ma si ritrova in molte comu- Lingue e linguaggio tra mito e realtà. Corso di sopravvivenza contro miti e pregiudizi linguistici nità linguistiche e in ogni tempo (un esempio ben noto è quello della comunità greca nel periodo alessan- drino); merita quindi di essere esaminata attentamente. È fondata? Se non lo è, da che cosa origina? Una prima ragione di ordine deduttivo per dubitare della convinzione da parte di alcuni membri di una comunità linguistica (si noti, fatto interessante, specie da parte di quelli più attenti all'uso della propria lingua) è che essa rimanda logicamente a un periodo diverso da quello contemporaneo, una sorta di età dell'oro in cui la propria lingua era rispettosa delle regole, ben utilizzata, pienamente significativa e simi- li. Il problema è che ogni epoca, quando più quando meno, è stata caratterizzata dallo stesso rimpianto. La domanda d’obbligo diventa allora: quando esattamente si è avuta quest'età dell'oro del linguaggio? Come mai la lingua tanto sdegnata da una generazione diventa il modello da rimpiangere di una successiva? 2. Dal mito alla realtà È interessante il fatto che esistono anche voci discordanti, almeno su aspetti puntuali del problema, che riportano la questione su di un piano di realtà. La lettera seguente è di un lettore di un noto quotidiano bri- tannico, 'The Observer' (4 aprile 1993), che racconta di memorie personali, che risalgono ai primi anni '50, e che riguardano le prestazioni di lettura, scrittura e parlato degli scolari: "For some time I have been wondering if I was suffering from an acute shortage of memory. I remember many children in my primary school who were unable to read, and remember being shocked when called up for na- tional service to find myself in a platoon in which the majority of members were illiterate... How consoling therefore to read... of Dirk Bogarde's experience: 'The great majority of what was called the "Intake" at Catter- ick Camp was, to my astonishment, illiterate.' When exactly was the time that we hear so much about, when children could all read and write and do everything so much better than today's pupils?" Il sarcasmo finale – con cui il lettore si interroga riguardo a quando ci sarebbe stato il tanto decantato pe- riodo in cui gli scolari erano tanto più bravi di quelli contemporanei nelle capacità di lettura e scrittura – è di rara efficacia. J. Milroy, un sociolinguista britannico, contribuisce alla discussione con dei ricordi per- sonali della sua esperienza nella scuola elementare (Primary School) – essendo la Scuola uno dei princi- pali, forse il principale, indiziato della decadenza della lingua in molte società avanzate: "I attended primary school in the 1940s in a rural area of Scotland. The headmistress believed in the good old methods. Almost every day we had a spelling test (having been given twenty spellings to learn). When the tests were marked, the teacher drew a chalk line on the floor and invited those who had twenty correct spellings to come forward. Those who got one wrong and two wrong were also invited to stand on chalk lines. When it got to three wrong, however, she would loudly announce 'And now the failures!' A large group of sheepish children would come forward, and the teacher would then strap them on the hand – one by one – with perhaps two or three blows for the worst spellers. It was virtually always the same children who got the strap, and there is no reason to believe that these 'good old methods' were effective at all, except to punish and demoralize dyslexics and slow learners." Come si vede, il ricordo dei 'vecchi bei metodi di una volta' di insegnamento non regge all'esame dei fatti, in questo come in molti altri casi. Appurato che quello dell'età dell'oro della lingua, parlata o scritta indifferentemente, è solo un mito, rimane aperta la domanda: come origina questo mito così ricorrente in ogni tempo e in ogni sponda? 3. Come origina il mito? Non è nostra intenzione addentrarci in campi che esulano dalle competenze linguisti- che; ci limiteremo qui a ricordare che dietro il mito dell'età dell'oro, di qualunque ambito, ci sono verosimilmente anche ragioni non linguistiche che agiscono da rin- 2 Marco Svolacchia forzo: psican