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Università degli Studi di Padova
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Questo documento fornisce un'introduzione al diritto commerciale, definendo le nozioni fondamentali, esaminando la sua storia e illustrando le fonti normative. Il testo si concentra sull'organizzazione delle attività produttive e sui rapporti tra le diverse figure che operano nel mondo del commercio. Vengono analizzati concetti chiave come l'impresa, l'azienda e lo statuto dell'imprenditore.
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Diritto commerciale Introduzione NOZIONE, STORIA E FONTI Il diritto commerciale è l’insieme di norme di natura privatista che si occupano di disciplinare l’organizzazione e i rapporti che ruotano attorno allo svolgimento dell’attività produttiva nella molteplicità delle forme e tipologie che essa p...
Diritto commerciale Introduzione NOZIONE, STORIA E FONTI Il diritto commerciale è l’insieme di norme di natura privatista che si occupano di disciplinare l’organizzazione e i rapporti che ruotano attorno allo svolgimento dell’attività produttiva nella molteplicità delle forme e tipologie che essa può assumere. La produzione di ricchezze e utilità, centro del fenomeno economico, è essenzialmente il fine perseguito da un complesso concatenarsi di atti giuridici organizzati: l’attività creatrice di nuova ricchezza è quella genera nuovi beni, che eroga servizi per la soddisfazione di un bisogno e che promuove la circolazione degli uni e degli altri. L’attività produttiva è un fenomeno che si colloca fondamentalmente sul piano dei rapporti interprivatistici tra le persone: il diritto commerciale regola i rapporti sia interni all’organizzazione dell’attività commerciale (collaboratori, dipendenti) sia esterni (i terzi che si interfacciano con l’imprenditore), secondo logiche capitalistiche. Questi rapporti, che ruotano attorno allo svolgimento di un’attività commerciale, sono privatistici: il diritto commerciale non ha fini di bene pubblico, in esso confluiscono esclusivamente istituti e disposizioni privatistiche. Tuttavia, il diritto commerciale costituisce un ordinamento speciale anche nella macrofamiglia del diritto civile, ispirato e retto da principi autonomi: il diritto civile si occupa di rapporti privati nel momento in cui vengono posti in essere singoli atti giuridici, mentre il diritto commerciale disciplina una serie di aspetti e interessi che entrano in gioco quando gli atti giuridici sono molteplici e coordinati fra loro per lo svolgimento di una specifica attività, perché subentrano in questo caso interessi e tutele che meritano di essere regolamentati e non trovano soddisfazione nella normale disciplina del diritto privato (p.e. diritti del consumatore, concorrenza); il diritto commerciale regola quindi l’attività produttiva nella sua interezza, integrando e derogando al diritto civile. Origine storica Il diritto commerciale è un diritto storico e non ontologico: esso si sviluppa e si adatta in base alle necessità che emergono nei vari contesti storici al mutare della realtà economica (p.e. l’attività agricola non era stata contemplata in passato mentre ad oggi si hanno produzioni sistematiche che necessitano di regolamentazione, oppure le professioni intellettuali, delle quali in passato non si pensava nemmeno l’esistenza, ad oggi sempre più organizzate). Non troviamo traccia di una disciplina organica in epoca greco-romana: le attività produttive e i traffici commerciali venivano svolti facendo testo alle norme di diritto privato. La nascita del diritto commerciale viene collocata dopo l’anno Mille, epoca in cui il continente europeo si risolleva progressivamente dal declino culturale e sociale dei secoli precedenti e l’economia perde il suo carattere rurale. È in Italia l’epoca dei comuni, nel XI-XIII secolo, quando inizia ad emergere la figura dei mercanti, una nuova classe sociale che si occupava di comprare merci dai piccoli artigiani per poi sviluppare traffici commerciali relativi alla compravendita di tali beni. A spingere la nascita del diritto commerciale non fu lo svolgimento di un’attività produttiva, ma commerciale; la scena economica era dominata infatti dall’attività di intermediazione nella circolazione delle merci, mentre l’attività di produzione era svolta ancora a livello elementare. I mercanti acquistavano nel tempo sempre più potere economico e politico, ma iniziarono ad avere difficoltà a svolgere la propria attività solamente con la disciplina del diritto privato comune: il diritto romano (corpus iuris romano) era per loro troppo rigido a causa del suo formalismo, mentre il diritto canonico, estraneo ai principi estranei alle dinamiche degli affari, vietava l’usura e perciò il prestito di denaro a fronte di un corrispettivo. I mercanti decisero allora di riunirsi in associazioni di categoria, le corporazioni delle arti e dei mestieri, in cui analizzavano gli usi e le abitudini che utilizzavano nella conclusione dei loro rapporti commerciali, iniziandoli a codificare in degli statuti, contenenti regole che dovevano essere seguite. Il diritto commerciale ha quindi origine come un diritto di classe, che nasce dai mercanti per i mercanti, e un diritto autonomo sotto il profilo delle fonti (autonomia delle fonti) in quanto ogni corporazione aveva come fonte il proprio statuto, sul piano dei destinatari, perché trovava applicazione solo per i mercati iscritti alla corporazione, e infine anche in campo giudiziario, poiché le singole corporazioni istituivano dei giudici, i consoli, ai quali veniva attribuita potestà giurisdizionale per risolvere le controversie relative allo statuto. Con il passare del tempo, le norme degli statuti cominciano a prendere piede anche nei normali traffici commerciali dei soggetti che non sono iscritti alle corporazioni: si tratta di un sistema che non risponde a interessi locali, ma territorialmente universali; così il diritto commerciale inizia ad avere tendenza sovranazionale, espandendosi in ambiti territoriali più ampi del comune, in tutta Europa. Nel XVI secolo si ha l’evoluzione: i traffici commerciali cominciano ad avere portata ampia, il centro del commercio esce dai confini del Mediterraneo per spostarsi verso il nord Europa e oltrepassare l’oceano, perciò la gestione del potere commerciale passa ad un livello nazionale, perché diventa interesse dei singoli sovrani regolare i traffici accentrando il potere legislativo e attraendo sotto il potere statale le iniziative mercantili. Nascono istituti giuridici più complessi, che si possono assimilare a delle primitive s.p.a.: sono le compagnie coloniali, come l’olandese compagnie delle indie orientali nata nel 1602, che sorgono per concessione statale; per assicurare la possibilità di mettere insieme grossi capitali, i sovrani concedono il privilegio di formare società in cui le quote di partecipazione all’affare sono costituite da titoli che possono essere scambiati (così non si immobilizza la ricchezza sino al termine dell’affare, ma può essere liquidata in ogni momento senza influire sul capitale della società) e in cui la responsabilità viene limitata a quanto si investe (i soci rischiano solo quello che hanno investito): la finalità della serializzazione e cartolarizzazione degli investimenti è quella di invogliare la partecipazione. I secoli XVIII-XIX sono l’epoca delle grandi codificazioni e rivoluzioni. Con la rivoluzione industriale, lo scenario economico muta per sempre: il commercio diventa industriale e la produzione diventa di massa, nascono nuovi interessi che stimolano il sistema legislativo. La rivoluzione francese agisce sulla concezione stessa del diritto commerciale come diritto di classe: l’impulso dato agli ideali di libertà e uguaglianza implica che lo svolgimento dell’attività commerciale non deve essere limitato solo ad alcuni soggetti; così la disciplina passa da corpus normativo che aveva un ambito di riferimento soggettivo (mercanti-commercio) ad un sistema a base oggettiva, a cardine del quale è posta l’attività commerciale e il suo svolgimento nella sua interezza: è un sistema di regole che si adatta a tutti, perché disciplina l’atto del commercio a prescindere da chi lo pone in essere. Il primo Codice del commercio fu il Code de commerce napoleonico del 1807, a esso si ispirò il primo Codice di commercio dell’Italia che affiancò il Codice Civile nel 1865, per poi essere sostituito da un secondo Codice nel 1892, entrambi a matrice oggettiva. Dopo una profonda riflessione giuridica, influenzata certamente anche dall’ideologia del regime fascista che spingeva la riconduzione ad unità sotto il segno del lavoro, nel 1942 i due codici vennero accorpati nell’unico Codice Civile, al cui interno la materia del commercio trovò posto occupando il libro V dedicato al lavoro; nello stesso anno anche i tribunali vennero unificati, anche se ad oggi c’è una tendenza a far nascere un potere giudiziario più specializzato nell’ambito delle imprese. Non si trattò di una semplice somma dei contenuti, quanto più di un’unificazione e di una pervasione dei due Codici con cui si ottenne il fenomeno della commercializzazione del diritto privato: le regole del diritto civile subirono una integrazione, una compenetrazione sistematica nel segno del diritto commerciale, i cui principi vennero generalizzati e affermati quali nuovi principi comuni privatistici. Il diritto commerciale costituisce, all’interno dell’ordinamento privatistico, un sistema giuridico speciale e separato, sebbene non autosufficiente, rispetto al diritto civile. Le fonti Innanzitutto, ha ruolo centrale nella regolamentazione delle attività produttive la disciplina generale del Codice Civile. Ad esso si affiancano leggi speciali sempre più numerose e complesse, come gli statuti e le discipline speciali per settori determinati (TU bancario, TU della finanza, Codice delle assicurazioni, Codice del consumo, normativa antitrust…). Vi è poi una sempre più intensa produzione normativa di rango secondario per parti specifiche che approfondisce le prime fonti; essa ha fonte sia governativa, sia proveniente dalle diverse autorità indipendenti anche private (come i codici di autodisciplina emanati dalla Borsa Italiana). Infine, anche l’unione europea ha ruolo come fonte: essa tenta infatti di uniformare le norme in tutto il territorio attraverso regolamenti e direttive. Sezione I LA FATTISPECIE “IMPRESA” Il Codice considera diverse attività imprenditoriali e diverse categorie di impresa, v sono una serie di norme che si applicano a tutte le categorie di imprenditori (statuto dell’imprenditore generale) e alcune solo ad alcuni (statuto dell’imprenditore commerciale medio grande) che trova applicazione solo in relazione alla tipologia di attività svolta da imprenditori non piccoli. Il titolo II del libro V del Codice Civile si apre con l’articolo 2082: ARTICOLO 2082. IMPRENDITORE. È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi La prospettiva soggettivistica che sembra emergere dall’articolo è solo apparente: le caratteristiche elencate nella definizione sono oggettive e il loro intento è quello di individuare e focalizzare il fenomeno che l’imprenditore pone in essere. Il comportamento che viene descritto in termini oggettivi si sostanzia in un’attività qualificata come produttiva, cioè volta a un determinato fine che è la produzione o lo scambio di beni o di servizi, e a sua volta caratterizzata triplicemente dai requisiti di professionalità, l’organizzazione e l’economicità. La definizione data all’interno dell’articolo inquadra quindi l’impresa, cioè l’attività imprenditoriale oggettivamente considerata. Nel linguaggio comune spesso si usa come sinonimo di impresa il termine “azienda”, sbagliando: “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555). Bisogna inoltre precisamente che quella del Codice non è l’unica definizione di attività imprenditoriale contemplata dal nostro ordinamento, ma si tratta invece di una nozione relativa: nozioni diverse, mancanti di uno o più caratteri dati dall’art. 2082, appartengono ad esempio al diritto tributario (art. 55 TUIR, manca dell’organizzazione) o comunitario (artt. 101 ss. TFUE concorrenza, assimila all’attività imprenditoriale anche le attività libero-professionali purché siano svolte con professionalità e organizzazione in forma di impresa)… La definizione del Codice ha ambito di applicazione limitato al diritto civile/privato/commerciale. Gli elementi che emergono nella nozione generale di impresa, che devono essere sempre presenti perché possa dirsi sussistere un’attività imprenditoriale, sono: ATTIVITÀ PRODUTTIVA O DI SCAMBIO connota l’attività sul piano della finalità. ECONOMICITÀ connota l’attività sul piano del metodo. PROFESSIONALITÀ connota l’attività sul piano della frequenza. ORGANIZZAZIONE connota l’attività sul piano dei mezzi impiegati. La loro presenza è di fondamentale importanza perché qualora manchi anche solo una delle caratteristiche dell’impresa vi è l’esclusione dall’ambito del diritto commerciale, perciò non è necessaria l’iscrizione al registro delle imprese, non può esserci fallimento... ATTIVITÀ PRODUTTIVA L’attività è un modello comportamentale costituito da tanti singoli comportamenti che rilevano sul piano normativo nel loro insieme, rappresentando una serie di atti collegati teleologicamente da un fine unitario, il raggiungimento di un determinato scopo. L’attività viene connotata come produttiva in vista della sua finalità: è orientata al perseguimento di un risultato socialmente riconoscibile come produttivo, produce un’utilità che prima non c’era incrementando la ricchezza. Ciò si attua attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi; si parla di attività produttiva in senso ampio: nel concetto di produzione di un bene si richiama alla manipolazione della materia per ottenerne di nuova, si tratta di quindi un’attività che produce nuova ricchezza o anche solo un incremento del valore dei beni, mentre nella produzione di un servizio si parla sia dell’impegno da parte di un soggetto di compiere un’azione in favore di un altro, sia dell’obbligo di non fare a cui si impegna. Dall’attività produttiva si distingue l’attività di mero godimento di un bene, che si ha quando un soggetto si limita a esercitare un proprio diritto soggettivo su un bene di sua proprietà, come può essere la locazione di un immobile o la cessione di esso sul mercato. Questa distinzione è agevole solo in teoria, perché nella realtà non è sempre facile distinguere il limite tra le due; comunque, in dottrina, il criterio orientativo dovrebbe essere dato dalla fornitura o meno di altri servizi oltre al mero godimento del bene in favore del terzo. Per esempio, mentre la locazione di un immobile non è di per sé un’attività che produce ricchezza, perché costituisce il semplice esercizio di un diritto soggettivo, nel momento in cui il locatore fornisce dei servizi ulteriori e crea una struttura organizzativa, iniziando a gestire così un residence, allora egli assume la qualifica di imprenditore. Qualora il comportamento si appunti su un bene produttivo, l’attività di godimento è inequivocabilmente diversa dall’attività produttiva solo quando il godimento non è diretto, cioè quando il titolare non mantiene la conduzione e non percepisce direttamente le utilità d’uso. ECONOMICITÀ Connota l’attività sul piano del metodo che deve essere seguito nel suo svolgimento. In un primo momento si riteneva in dottrina che l’attività si potesse definire economica solo se l’imprenditore la gestiva con un metodo finalizzato alla produzione di un lucro, cioè di un profitto: nella nozione di impresa rientravano perciò solo le attività lucrative, in cui l’imprenditore fissava ex ante prezzi di vendita che superassero i costi sostenuti nel corso della produzione, così che gli potessero, anche solo astrattamente, garantire il conseguimento di un guadagno (metodo lucrativo). Con il passare del tempo ci si è accorti che tale definizione rischiava di escludere una serie di attività basate non su un metodo lucrativo, ma che comunque facevano nascere interessi e tutele da parte di terzi che erano meritevoli di essere regolamentati: qualsiasi fenomeno produttivo necessita infatti degli investimenti per acquisire i fattori produttivi da impiegare ed è evidente che le pretese di tutti i finanziatori sono esposte al rischio di mercato, cioè il rischio che il mercato non assorba la produzione offerta e non si soddisfino così le aspettative (p.e. i fornitori di un albergo). Per questo motivo, ad oggi la dottrina ritiene che il metodo da impiegare nello svolgimento dell’attività, e quindi il criterio per valutare l’economicità, sia il metodo economico in senso stretto: l’economicità è propria di una attività che permette all’imprenditore, con un calcolo preventivo ed astratto, di coprire i costi sostenuti nella produzione con i ricavi, e non anche la produzione di un utile. Si distinguono in questo modo le attività di mera erogazione, fenomeni produttivi che mancano dell’economicità: definite nel linguaggio comune attività di beneficienza, rientrano nel concetto di non profit, perché si caratterizzano per cedere consapevolmente i beni o i servizi prodotti a prezzi palesemente inferiori ai costi o addirittura gratuitamente. Resta incerto se sia o meno attività di impresa quella svolta in perdita programmatica, in cui la fissazione del prezzo inferiore al servizio tiene conto di un impegno sicuro da parte di un soggetto terzo di coprire il differenziale negativo tra il prezzo e il costo sostenuto (p.e. cucine economiche popolari); in questo modo l’ente non raggiunge un equilibrio economico, ma uno finanziario, perché qualcuno copre la inferenza tra entrate e uscite, perciò in presenza di tutte le altre caratteristiche si potrebbe parlare di impresa. PROFESSIONALITÀ Il concetto di professionalità si sgancia dal linguaggio comune, ma va invece ad individuare la frequenza con cui deve svolgersi l’attività imprenditoriale: è professionale l’attività che viene svolta in modo abituale, stabile e reiterato, in definitiva non occasionale e sporadica. L’abitualità non coincide con la continuità: nonostante la sua ripetitività, in un’attività possono essere previste delle pause per la sua natura intrinseca (attività stagionale, come un albergo in una località marittima); è necessario però che le interruzioni siano causate da fattori esterni, le esigenze naturali del ciclo produttivo sottostante, e non dalla volontà dell’imprenditore. L’abitualità non è inoltre sinonimo di esclusività dell’attività: se il requisito della professionalità sussiste per diverse attività del soggetto nulla vieta che le due possano convivere, allo stesso modo l’imprenditore può gestire la sua impresa e al contempo essere un lavoratore dipendente. L’abitualità, infine, non impone la necessità di ottenere molteplici risultati: la finalità dell’impresa può anche essere il perseguimento di un unico affare, magari così complesso da richiedere moltissime operazioni coordinate. ORGANIZZAZIONE Il requisito dell’organizzazione si sofferma sui mezzi che l’imprenditore deve impiegare nello svolgimento dell’attività: affinché quest’ultima possa sussistere, deve essere esercitata non solo con la capacità lavorativa di chi la pone in essere, ma anche con l’ausilio di fattori produttivi che l’imprenditore organizza per il suo svolgimento. Con fattori produttivi ci si riferisce alle due categorie fondamentali di lavoro e capitale, non necessariamente compresenti: il fattore capitale si riferisce all’impiego di mezzi esterni a se stesso, mentre il fattore lavoro allude alla forza lavoro acquisita sul mercato del lavoro come collaboratori, entrambi in tutte le loro tipologie a prescindere dal loro titolo (i mezzi non devono essere in proprietà, i collaboratori possono essere dipendenti o meno). Si dice che l’attività imprenditoriale è caratterizzata da un concetto di eterorganizzazione: il ruolo dell’imprenditore è quello di svolgere un’opera di organizzazione, stabilendo un ordine funzionale e strutturale dei fattori produttivi ai quali fa ricorso, peraltro senza che tutto ciò si manifesti necessariamente nella realizzazione di un apparato organizzativo tangibile (internet); in estremo, l’imprenditore potrebbe potenzialmente non svolgere materialmente un’attività produttiva, limitandosi semplicemente a organizzare il fattore lavoro e il fattore capitale. Ci troviamo di fronte ad un’attività imprenditoriale quando il fattore lavoro dell’imprenditore non è necessario né sufficiente allo svolgimento dell’attività. È l’eterorganizzazione che distingue l’attività imprenditoriale dall’attività di lavoro autonomo (art. 2222): è qualificabile come lavoro autonomo l’attività produttiva caratterizzata da una autorganizzazione, in cui il fattore produttivo dato dal soggetto che pone in essere l’attività è invece necessario è sufficiente per il perseguimento del fine dell’attività, cioè svolta esclusivamente con l’intervento esecutivo del lavoratore autonomo che organizza solo il proprio lavoro. Il lavoro autonomo è il fenomeno che avviene quando la produzione di un’opera o di un servizio è posta in essere verso un corrispettivo (a titolo oneroso), in proprio (da un soggetto che opera senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente) e con il lavoro prevalentemente proprio (fattori necessari, cioè attrezzature minime ed essenziali per lo svolgimento dell’attività e fattori neutri, cioè di utilizzo comune). La completezza della nozione di impresa Il modello comportamentale descritto dall’art. 2082 è esaustivo: contiene gli elementi non solo necessari, ma anche sufficienti, che devono caratterizzare un certo “fatto” affinché esso possa considerarsi giuridicamente come “impresa”. In quest’ottica, si risolve la questione se un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa nel caso dell’impresa per conto proprio e dell’illecita. L’impresa per conto proprio si ha quando il risultato dell’attività imprenditoriale non è destinato al mercato, quindi a soggetti terzi esterni, ma sostanzialmente all’auto consumo di ciò che viene prodotto. Tale attività soddisfa tutti i requisiti dell’art. 2082, ma si sono avuti dei dubbi riguardo la caratteristica dell’economicità in senso stretto, che sembra non essere soddisfatta in quanto non vi è operazione di scambio e quindi fissazione di un prezzo. Nonostante i dubbi, si tratta comunque di un’attività che sollecita interessi esterni piuttosto rilevanti, meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento commerciale, perciò in dottrina si è arrivati a ritenere che anche l’impresa per conto proprio possa essere considerata attività imprenditoriale laddove vi siano tutti gli altri requisiti: l’economicità può essere accertata sostituendo il ricavo con il risparmio di costi che l’imprenditore ottiene lavorando in proprio. La fattispecie dell’impresa illecita è a sua volta divisibile in impresa illegale e impresa immorale. L’impresa illegale è un’attività imprenditoriale che viene svolta senza il necessario ottenimento delle autorizzazioni richieste dalla legge per la sua iniziazione (un’attività bancaria richiede l’autorizzazione della Banca nazionale). In questo caso, la disciplina del diritto commerciale trova certamente applicazione perché, se così non fosse, sarebbe come concedere all’imprenditore la scelta di assoggettarsi o meno a tali regole, attraverso appunto la richiesta dell’autorizzazione; la punizione della condotta illecita avverrà con l’applicazione delle relative sanzioni amministrative e penali. L’attività immorale persegue direttamente o indirettamente una finalità illecita, ha come oggetto un’attività illecita che comporta un reato per chi la svolge (raffinazione di droga, servizio di escort…). In questo caso la fattispecie è più complessa, infatti l’impresa può essere illecita per più motivi: l’attività produttiva può essere finalizzata a produrre un bene o un servizio contrario a valori basilari dell’ordinamento, oppure può trattarsi di un’impresa mafiosa, cioè un’attività di per sé regolare e lecita ma che appoggia un più ampio disegno criminoso (riciclaggio). Anche in questi casi la qualificazione del fenomeno è legata solo alla riconducibilità dello stesso al modello descritto dalla norma, altrimenti sarebbe come subordinare la fattispecie ad un giudizio di valore, elemento che ne renderebbe troppo incerta l’applicazione. Nonostante quindi tali attività si qualifichino senz’altro come imprese sul piano normativo, l’assoggettamento alle regole del diritto commerciale soffre un’importante eccezione: si applicherà la disciplina la cui finalità sia la tutela dei terzi, ma non la tutela dell’imprenditore (regolamentazione della concorrenza o del marchio), alla luce del principio generale, immanente nell’ordinamento, per cui da un comportamento illecito non possono derivare effetti favorevoli per l’autore dello stesso. Le categorie di impresa All’interno del Codice Civile del 1942, rispetto a quello del 1882, vi è una novità: nella fattispecie di impresa, definita ora come attività e non più atto di commercio, rientrano anche differenti categorie di attività imprenditoriali, cioè le piccole attività e le attività agricole. La ragione di tale ampliamento era il tentativo di assoggettare ogni iniziativa produttiva ad un nucleo di regole comuni perlopiù programmatiche dell’ordinamento corporativo: il Codice, infatti, si limitava ad enunciare definizioni generali per poi demandare alle norme corporative la disciplina specifica. Nel 1944, l’ordinamento abroga le norme corporative, lasciando in questo modo nel Codice una serie di norme sparse e disorganiche che elencano le caratteristiche principali dell’impresa e di specifiche attività imprenditoriali, e facendo venir meno le norme che prevedevano un’applicazione più specifica e mirata. Ci sono però delle parti del Codice che individuano un insieme di regole che trova applicazione per tutte le fattispecie di attività imprenditoriale, per questo si potrebbe parlare di statuto dell’impresa in generale, anche se alcune di queste si applicano anche a fattispecie diverse: Titolo II del libro V: impresa in generale, piccolo imprenditore, rapporti di lavoro, collaboratori dell’imprenditore, imprenditore agricolo, imprenditore commerciale. Titolo VIII del libro V: azienda. Titolo IX del libro V: tutela della proprietà industriale. Titolo X del libro V: concorrenza; questa disciplina, di derivazione comunitaria, si applica anche a professioni intellettuali organizzate in forma di impresa. Titolo V del libro V: impresa collettiva (società). Fin dal 1942, quando il legislatore ha delineato la fattispecie di impresa, ha focalizzato l’attenzione sull’attività di impresa commerciale medio-grande, individuando una serie di regole ben strutturate, contenute al capo III del titolo II del libro V (artt. 2188-2221), che prendono il nome di statuto dell’imprenditore commerciale e che trovano applicazione solo per gli imprenditori che svolgono attività commerciale di dimensioni non piccole; si tratta di norme che stabiliscono degli obblighi specifici indirizzate a garantire maggiore tutela ai soggetti terzi, in particolare i finanziatori rispetto al rischio di impresa: obbligo di tenuta delle scritture contabili, soggezione alle procedure concorsuali, soggezione alla disciplina speciale della rappresentanza commerciale (tre figure collaboratrici dell’imperatore a cui vengono attribuiti specifici poteri decisionali e di rappresentanza: institore, procuratore e commesso), obblighi specifici di pubblicità (registrazione nel registro delle imprese tenuto dalla camera di commercio) e capacità per l’esercizio dell’impresa. TIPOLOGIE DI IMPRENDITORI Il Codice distingue diversi tipi di imprenditori in base a tre criteri di selezione: OGGETTO impresa agricola (art. 2135) o commerciale (art. 2195) DIMENSIONI piccolo imprenditore (art. 2083) o imprenditore medio/grande NATURA DEL SOGGETTO impresa individuale o impresa costituita in forma di società L’impresa agricola ARTICOLO 2135. IMPRENDITORE AGRICOLO. È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Tradizionalmente, si distinguono attività agricole essenziali e attività agricole per connessione che, sebbene di per sé non sarebbero agricole ma commerciali, sono legate alle prime in quanto i beni provengono dall’attività agricola essenziale: se svolte in connessione oggettiva e soggettiva vengono assorbite e non fanno assumere la qualifica di imprenditore commerciale. La definizione originale fa riferimento alla realtà di un tempo, in cui l’impresa agricola aveva come elemento fondante lo sfruttamento del fondo da parte del suo proprietario, un’attività imprenditoriale che non necessitava delle regole dell’impresa medio-grande perché le sue esigenze finanziarie apparivano tendenzialmente minime e perché consentiva ai creditori di attivare forme di autotutela del diritto privato classico rappresentate perlopiù dall’ottenimento di garanzie reali. Nel 2001, in seguito alla modernizzazione del sistema agricolo, con il decreto legislativo 228/2001, la definizione viene integrata di due commi che la rendono più puntuale e ampia. ARTICOLO 2135, COMMA II. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Lo sfruttamento del fondo non è più elemento essenziale della fattispecie, ma solo potenziale: il fondo è fattore produttivo eventuale, ciò che invece diventa caratterizzante o costitutivo è solo la connessione con il ciclo biologico, la sua cura e il suo sviluppo. Rientrano così nella fattispecie attività come l’orticoltura, le coltivazioni fuori terra (serre), la floricoltura (vivai) o gli allevamenti in batteria. ARTICOLO 2135, COMMA III. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette a manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge. Le attività agricole per connessione sono attività di per sé commerciali, ma che si considerano agricole solo a condizione che sussistano contemporaneamente due requisiti: CONNESSIONE SOGGETTIVA: devono essere svolte dallo stesso soggetto (individuale o collettivo) che svolge le attività agricole essenziali in forma di impresa e coerenti con le attività connesse. Vi è una deroga meramente formale: il requisito soggettivo può mancare qualora l’attività connessa sia svolta da cooperative o consorzi di imprenditori agricoli che manipolano i prodotti provenienti dai loro associati; pur essendo la cooperativa un soggetto giuridico formalmente diverso da coloro che esercitano l’attività agricola principale, si reputa sufficiente il collegamento sostanziale e la connessione per l’oggetto dell’attività. CONNESSIONE OGGETTIVA: devono avere per oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dallo svolgimento dell’attività agricola essenziale (non dal mercato). Non può mai mancare. Il Codice non pone in questa definizione nessuna prevalenza economica dell’attività agricola essenziale rispetto a quelle per connessione: i ricavi dell’attività imprenditoriale possono anche provenire da una soltanto dell’attività; la prevalenza deve valere solo per le merci. L’articolo considera attività agricole per connessione anche le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche; il riferimento è principalmente alle attività di agriturismo. Tradizionalmente, si diceva che quella dell’imprenditore agricolo era una categoria a rilevanza negativa, da cui cioè il legislatore faceva dipendere la non applicabilità di alcune norme dettate per l’imprenditore; oggi tuttavia questa impostazione deve essere rivista, in quanto si registra nell’ordinamento una tendenza all’equiparazione dell’imprenditore agricolo a quello commerciale. All’ampliamento dell’impresa agricola sul piano della fattispecie non si è però accompagnato un contestuale adeguato ampliamento della disciplina: il legislatore continua a mantenere nel Codice una netta distinzione tra attività agricola e impresa medio-grande, continuando a escludere la prima da molte norme, per esempio dal fallimento e dal concordato preventivo. Ma che senso ha questo trattamento di favore rispetto all’impresa commerciale di fronte all’attuale ampiezza della nozione di attività agricola, che ricomprende ad oggi in sé fenomeni produttivi industrializzati? Giuridicamente, è stato fatto solo un piccolo passo riguardo l’obbligo di pubblicità a efficacia dichiarativa: anche l’imprenditore agricolo si deve iscrivere in una sezione particolare del registro delle imprese. La giurisprudenza, in particolare la Cassazione di fronte a due casi, sta prendendo posizioni diverse a seconda della rilevanza dei ricavi dell’attività connessa: qualora essi siano sproporzionati rispetto all’attività essenziale, ha dato prevalenza all’aspetto economico dell’attività connessa (fallimento dovuto a produzione energia da biomassa, fallimento agriturismo). La piccola impresa ARTICOLO 2083. PICCOLI IMPRENDITORI. Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. La definizione iniziale che specifica tre figure soggettive non deve pensarsi esaustiva, ma solo esemplificativa, perché ciò che caratterizza il piccolo imprenditore è la seconda parte dell’articolo, che accomuna i tre lavoratori, dalla quale emergono quattro requisiti: L’imprenditore deve prestare il proprio lavoro nell’impresa. Il lavoro suo e dei suoi familiari non può essere il solo fattore produttivo. Deve però essere quello prevalente su tutti gli altri fattori. La prevalenza deve essere qualitativo-funzionale (cioè deve essere un fattore essenziale, infungibile) e non economico-quantitativa. Di fronte a un’attività dove il lavoro proprio è così prevalente, il legislatore ritiene che non ci dovrebbe essere bisogno di fattori produttivi esterni dal valore significativo; perciò, trattandosi di un fenomeno produttivo nel quale le esigenze finanziare non sono significative, la piccola impresa può essere esentata da molti istituti propri dell’impresa medio-grande. La piccola impresa è pur sempre un’impresa e deve perciò soddisfare il requisito della eterorganizzazione, così come definita dall’art. 2082, di fattori produttivi esterni (capitale o lavoro altrui) che devono avere una rilevanza economica non minimale. In questo elemento risiede la differenza tra un piccolo imprenditore (art. 2083) e un lavoratore autonomo (art. 2222): il fattore produttivo rappresentato dal lavoro dell’imprenditore è sì essenziale, ma non è l’unico fattore produttivo, perciò la prevalenza non deve intendersi in senso quantitativo, di valore economico, ma deve essere una prevalenza qualitativa, cioè data dal fatto che senza il lavoro dell’imprenditore la piccola impresa non potrebbe svolgersi. Nella piccola impresa, quindi, il fattore produttivo rappresentato dall’attività del piccolo imprenditore e della sua famiglia è necessario ma non sufficiente, mentre nel lavoro autonomo il lavoro del titolare è fattore produttivo necessario e sufficiente; nell’impresa medio-grande, invece, l’attività dell’imprenditore non è né necessaria né sufficiente: l’apparato organizzativo dell’imprenditore può integralmente sostituirsi al suo apporto lavorativo nell’attività imprenditoriale, è sufficiente che egli si limiti a organizzare i fattori produttivi. La definizione di piccola impresa sembrerebbe potersi applicare solo alle figure di imprenditori individuali, escludendo così le società. In ambito dottrinale si ritiene che la definizione di piccola impresa possa anche essere abbinata allo svolgimento di attività in modo collettivo, laddove però la società sia formata da un ridotto numero di soci: in questo caso, il concetto di prevalenza dell’attività del piccolo imprenditore dovrebbe essere identificato in relazione all’attività che i soci svolgono come fattore produttivo, che deve prevalere sul lavoro altrui e sul capitale. Il Codice Civile esonera il piccolo imprenditore: Dallo statuto dell’imprenditore medio-grande. Dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili (non vale se si individuano le caratteristica di una piccola impresa in un ente collettivo perché prevalgono le regole della società). Dal sistema della pubblicità dichiarativa (per lui l’iscrizione nel registro delle imprese è obbligatoria, ma ha il solo effetto di pubblicità notizia). Dal fallimento (art. 2221, ora abrogato e sostituito dalla legge fallimentare). La valutazione della prevalenza non è sempre agevole, perciò nel 2006-2007 è stato introdotto l’art. 1 della legge fallimentare, ora art. 2 del Codice della crisi di impresa, che ha cercato di rendere chiaro ai tribunali quando dovesse assoggettare le piccole imprese alle procedure concorsuali attraverso un criterio quantitativo, di più immediata e oggettiva applicazione: Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: Aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a euro trecentomila. Aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a euro duecentomila. Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a euro cinquecentomila. Quando è stata introdotta questa definizione, contenente i tre specifici parametri quantitativi, non è stato abrogato l’art. 2221 del Codice Civile che stabiliva che il piccolo imprenditore era esonerato dalla disciplina del fallimento e quindi dalla procedura concorsuale. La conseguenza fu perciò che non si sapeva quale norma applicare, due erano le tesi: Ai fini della fallibilità conta solo l’art. 1 l. fall., con implicita abrogazione dell’art. 2221. Al di sotto dei parametri stabiliti dall’art. 1 l. fall. non si fallisce, ma non fallisce nemmeno chi, pur essendovi sopra, rientra nel parametro della prevalenza descritto all’art. 2083. La dottrina era arrivata alla conclusione che l’art. 1 l. fall. contenesse al suo interno una presunzione assoluta di piccolezza e una presunzione relativa di grandezza dell’attività imprenditoriale: se un’attività imprenditoriale non superava i tre parametri era a tutti gli effetti anche una piccola impresa ex art. 2083 (impresa minore nel Codice della crisi), mentre se superava i limiti l’imprenditore poteva comunque dimostrare l’essenzialità del suo lavoro all’interno dell’impresa chiedendo quindi l’applicazione dell’art. 2221. Con l’entrata in vigore del Codice della crisi di impresa la questione si è risolta: l’art. 2221 è stato esplicitamente abrogato e le presunzioni di piccolezza e di grandezza desumibili dalla legge fallimentare sono entrambe assolute, perciò i parametri elencati sono ad oggi gli unici per capire se assoggettare o meno un’impresa al fallimento. IMPRESA ARTIGIANA La piccola impresa viene specificata nella figura soggettiva dell’artigiano. L’impresa artigiana è definita dall’ordinamento nella legge-quadro per l'artigianato (l. 443/1985). L’art. 2 definisce l’impresa artigiana come un’attività di produzione di beni o servizi nella quale il titolare o, nel caso in cui l’impresa sia svolta nella forma giuridica di società, la maggioranza dei soci svolge in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo. La definizione sembrerebbe essere allineata a quella di piccolo imprenditore contenuta all’art. 2083, ma l’art. 3 aggiunge una specificazione: nell’impresa artigiana il lavoro manuale deve essere il fattore principale dell’attività imprenditoriale ed anche chi impiega lavoro di terzi è artigiano, purché nel processo produttivo il lavoro prevalga sul capitale (l’attività deve essere labour intensive, non capital intensive). L’art. 4, poi, stabilisce i limiti dimensionali che può assumere l'impresa artigiana, ossia i limiti di personale dipendente al di sotto dei quali l’impresa è comunque qualificata come artigiana, fissati a seconda della tipologia di iniziativa; l’impresa artigiana può servirsi di 18 unità lavorative, 32 se lavora in serie, dirette personalmente dal titolare o dai soci. Le due definizioni appaiono così incompatibili: le caratteristiche dell’impresa artigiana che emergono dalla legge-quadro comportano un’organizzazione che può sostituirsi completamente all’attività dell’imprenditore; il concetto di prevalenza, quindi, non è utilizzato con la stessa accezione. Mentre l’art. 2083 intende la prevalenza in termini qualitativi, nell’art. 2 il rifermento alla prevalenza deve essere interpretato in termini temporali: lo svolgimento dell’attività materiale deve essere quello che occupa all’artigiano o ai soci la maggior parte del tempo lavorativo, nonostante l’utilizzo di fattori esterni. Da ciò consegue che esistono artigiani a cui si applica il regime di agevolazioni previsto dalla legge-quadro, ma che non sono civilisticamente e fallimentaristicamente piccole imprese; un'impresa artigiana può essere una piccola impresa, ma può essere anche eccedente la piccola impresa. Il conflitto si risolve con la chiusura della legge-quadro, che prevede che la sua applicazione non sia a tutti gli effetti di legge, ciò vuol dire che l’applicazione dei suoi articoli si limita alla definizione che lei stessa dà, mentre essa non ha rilevanza ai fini dell’individuazione di una piccola impresa. La motivazione di ciò è che la legge-quadro ha definito l'impresa artigiana solo al fine di selezionare i fenomeni che possono beneficiare degli incentivi previsti a favore dell'artigianato e, in particolare, delle agevolazioni previdenziali e creditizie (art. 45 Costituzione). L’impresa commerciale L’articolo 2195 definisce l’impresa commerciale in maniera indiretta: la norma infatti non è definitoria, bensì di disciplina, una norma cioè che contiene il precetto comportamentale (l’obbligo di pubblicità) indirizzato a una certa categoria di soggetti che esercita: Un’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi. Un’attività intermediaria nella circolazione di beni. Un’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria. Un’attività bancaria o assicurativa. Un’attività ausiliaria alle precedenti. Sono allora queste le attività produttive che esemplificano l’impresa commerciale. I tratti caratteristici di essa sono quelli elencati dai primi due punti, mentre gli altri sono un’esemplificazione di attività riconducibili alle prime due, delle loro specificazioni. L’impresa commerciale è quindi un’attività di produzione di beni e di servizi che si qualifica come industriale e/o un’attività di circolazione di beni che si qualifica come intermediaria. I suoi tratti identificativi, che la distinguono dalla nozione generale di impresa (art. 2082), sono il carattere dell’industrialità della produzione e, in relazione allo scambio, dell’intermediazione; due requisiti la cui interpretazione è stata a lungo controversa. La prima interpretazione dottrinaria è molto restrittiva, perché ritiene che i due termini siano da intendersi in accezione strettamente letterale (o storica). L’industrialità si riferirebbe ad un’attività intesa come industriale nel senso comune, esercitata cioè attraverso l’impiego di apparati produttivi meccanizzati, industrie e macchinari nel processo produttivo, quindi si tratterebbe di attività automatizzate oppure di trasformazione della materia; l’intermediazione alluderebbe invece alle attività classicamente commerciali di acquisto per la rivendita, nel senso comune di commercio. Chi propende per questa posizione riconosce uno spazio vuoto tra le imprese commerciali e quelle agricole, colmato dalle cosiddette imprese civili, che racchiuderebbero una serie di attività che non sono né agricole né industriali: le imprese artigiane non industrializzate ma non piccole, le imprese primarie (estrazione mineraria) e le imprese di pubblici spettacoli, le imprese finanziarie (senza uso di denaro dei terzi) e le agenzie; il problema per cui questa interpretazione è stata oggetto di numerose critiche concerne l’individuazione della disciplina applicabile ad essa: chi ammette la configurabilità dell’impresa civile sostiene che a essa si applicherebbero le regole dello statuto dell’impresa in generale, come la piccola impresa e l’impresa agricola, e non quelle dell’imprenditore commerciale. Questa tesi non è la maggioritaria in primo luogo perché l’impresa civile ha fonte solo dottrinale, e poi perché un’interpretazione così restrittiva porta ad escludere dallo statuto dell’imprenditore medio grande una serie di attività imprenditoriali che, per le loro caratteristiche, possono far entrare in gioco interessi e tutele di terzi particolarmente rilevanti, attraverso un procedimento interpretativo senza fondamento legislativo: a differenza del piccolo imprenditore o dell’impresa agricola, mancano in questo caso delle valide ragioni atte a giustificare una simile rilevanza normativa all’impresa civile. La tesi prevalente è invece quella che porta a intendere la definizione di impresa commerciale come nozione residuale rispetto alle altre già esaminate, una nozione in grado di assorbire tutti i fenomeni imprenditoriali che, in ragione della loro natura, non possono qualificarsi come agricoli; vi è in questo caso una svalutazione totale dei requisiti dell’industrialità e dell’intermediazione, che vengono intesi semplicemente come non agricolo e di scambio. La struttura giuridica con cui viene svolta l’attività commerciale consente di beneficiare di alcune esenzioni dalle regole dello statuto commerciale dell’imprenditore medio grande. L’impresa commerciale può essere classificata, in relazione alla forma giuridica che riveste, nelle due macro categorie di impresa pubblica (svolta da ente pubblico) o privata (da ente privato). L’IMPRESA PUBBLICA L’espressione impresa pubblica fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale di natura commerciale esercitato da o riconducibile ad un soggetto di diritto pubblico (ente pubblico): quest’ultimo potrebbe, in determinate situazioni, decidere di svolgere il loro fine pubblico di fornire servizi pubblici essenziali attraverso un’attività che ha tutte le caratteristiche degli artt. 2082 e 2195. Si possono individuare tre categorie di enti pubblici che svolgono attività di impresa commerciale: ENTE PUBBLICO ECONOMICO svolge attività imprenditoriale commerciale in via esclusiva o prevalente (impresa-ente), persegue quindi il suo fine istituzionale principalmente attraverso un’attività commerciale. Questi enti erano molto presenti all’interno del nostro contesto economico fino agli anni ‘90, quando una serie di servizi pubblici era sotto il controllo della pubblica amministrazione (attività bancarie, fornitura di energia…), ma sono progressivamente venuti meno a seguito di un processo di privatizzazione di questi servizi: inizialmente solo formale, perché il controllo veniva mantenuto in mano a soggetti di diritto pubblico, in alcuni casi è poi diventata anche sostanziale, con il trasferimento del controllo ai privati. Tuttavia, in alcuni settori strategici lo stato si è riservato dei poteri speciali (golden power) pur avendo dato il mercato ai privati: è il caso della difesa, della sicurezza nazionale, dei trasporti, dell’energia… queste società, anche se privatizzate, non recidono completamente i rapporti con lo Stato, che può apporre il veto sull’entrata nel capitale della società di determinati soggetti oppure sull’assunzione di alcune decisioni amministrative, può imporre specifiche condizioni agli acquirenti... tutti poteri che dovrebbero consentire di salvaguardare la correttezza gestoria anche in seguito alla privatizzazione, in modo che i nuovi titolari del potere gestorio non antepongano i propri interessi a quelli pubblici. ENTE PUBBLICO NON ECONOMICO lo svolgimento dell’attività imprenditoriale è solo secondario e accessorio rispetto a quello dell’attività istituzionale (impresa-organo): l’ente pubblico svolge numerose iniziative, anche produttive, con i requisiti dell’art. 2195 (anche se mancano spesso del requisito dell’economicità), ma la sua attività prevalente rimane il perseguimento di un fine istituzionale. SOCIETÀ A CONTROLLO PUBBLICO l’ente pubblico non opera direttamente nello svolgimento dell’impresa commerciale, ma crea un ente collettivo, cioè una comune società di capitali, a cui demanda l’attività da svolgere per poi mantenerne il controllo (impresa-società). L’oggetto delle attività che svolgono può consistere nell’erogazione di un servizio pubblico che può assumere le fattezze dell’attività commerciale; si distinguono servizi: SERVIZI PUBBLICI A RILEVANZA ECONOMICA nello svolgimento dell’attività, l’ente pubblico, otre all’obiettivo di garantire il servizio pubblico, si pone anche quello di guadagnare dall’attività, perché essa si presta ad ottenere remunerazione (es. vendita di energia elettrica). La gestione dei servizi a rilevanza economica non può essere effettuata direttamente dall’ente pubblico, ma deve essere svolta per mezzo di un ente di diritto privato cioè la società, di cui l’ente può comunque assumere il controllo: si parla di società in house providing, che sono sottoposte alle regole del diritto commerciale ma anche alle cosiddette regole di controllo analogo, ovvero regole che consentono all’ente di diritto pubblico che le controlla di esercitare dei poteri particolari; il motivo è che tali attività possono anche essere assoggettate a un regime di concorrenza, al fine di garantire che non ci sia una situazione di monopolio. SERVIZI PUBBLICI A RILEVANZA NON ECONOMICA l’obiettivo dell’ente pubblico non è quello di guadagnare, ma solo quelli di equiparare costi e ricavi; non ha senso in questo caso introdurre meccanismi concorrenziali. Non essendoci l’obbligo di esercitare l’attività attraverso enti di diritto privato, ritorna la triplice distinzione. INIZIATIVE NON QUALIFICABILI COME SERVIZI PUBBLICI la loro gestione è lasciata alla discrezionalità dell’ente pubblico. Nel caso in cui l’attività sia affidata a un ente privato, trovano applicazione tutte le regole dello statuto dell’impresa commerciale medio grande. Se invece sono svolte direttamente dall’ente pubblico bisogna distinguere: Per gli enti pubblici economici vige l’obbligo di pubblicità e tenuta delle scritture contabili, ma non sono assoggettati alla disciplina delle procedure concorsuali (art. 2201). Gli enti pubblici non economici non sono assoggettati all’obbligo di pubblicità né alle procedure concorsuali, ma solo all’obbligo di tenuta delle scritture contabili in relazione allo svolgimento dell’attività di impresa commerciale (art. 2221). L’IMPRESA PRIVATA L’impresa privata è un fenomeno produttivo imprenditoriale che assume la forma giuridica di diritto privato (enti del libro I del codice), cioè la forma individuale, la forma societaria o la forma di un ente privato non societario (associazioni e fondazioni). All’interno del codice non c’è alcun richiamo specifico in merito all’applicazione delle regole dell’impresa commerciale medio grande per l’ultima tipologia di attività, mentre avviene nell’ambito delle società di capitali, che sono sottoposte all’obbligo di pubblicità e di tenuta delle scritture contabili. Questa circostanza ha portato anche a dubitare che un ente non societario possa esercitare un’impresa per il perseguimento del suo fine istituzionale, ma ad ora il dibattito riguarda la disciplina del diritto dell’impresa da applicare: la teoria che vorrebbe assimilarli agli enti pubblici non è condivisa perché non si giustificherebbe il trattamento di favore senza fondamento legislativo, perciò si può considerare ormai prevalente l’idea che la disciplina dell’impresa debba trovare applicazione nella sua interezza nelle associazioni e nelle fondazioni che esercitano un’impresa commerciale.. L’IMPRESA SOCIALE La conclusione che precede è avvalorata dalla disciplina dell’impresa sociale introdotta dal decreto legislativo del 2017. Le imprese sociali sono “tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del codice civile, che, in conformità alle disposizioni del presente decreto, esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività”. Si tratta di due tipologie di fenomeni imprenditoriali: Attività la cui finalità è la produzione di beni o servizi di utilità sociale (assistenza sociale…) Attività che utilizzano nel processo produttivo fattore lavoro proveniente in misura non inferiore al 30% da soggetti svantaggiati. Inoltre, queste imprese hanno l’onere di inserire nello statuto una clausola non lucrativa, con cui si obbligano a non prevedere la distribuzione di utili che dovessero emergere dallo svolgimento. Queste iniziative sono state per lungo tempo appannaggio dell’intervento pubblico, ma è in corso una progressiva sostituzione con l’intervento privato; quest’ultimo non è però improntato solamente a logiche erogative, ma anche a logiche economiche (recuperare quantomeno i costi dei fattori produttivi), sostanziandosi così in delle vere e proprie iniziative imprenditoriali. È evidente che le imprese sociali possono essere associazioni e fondazioni, ma anche enti ecclesiastici. In base al d.lgs. 112/2017, nei riguardi delle imprese sociali trova applicazione tutta la disciplina dell’impresa commerciale medio grande. Il controllo su di esse viene esercitato da parte del ministero delle politiche sociali e non giudiziario. IMPRESA E PROFESSIONI INTELLETTUALI Le professioni intellettuali (artt. 2229 ss.) si sostanziano nella produzione di servizi professionali; si tratta di attività che rientrano nel più ampio concetto di lavoro autonomo (artt. 2222-2238), il cui esercizio è sottoposto all’ottenimento di un titolo abilitativo e all’iscrizione ad un albo tenuto da enti di ordini professionali che hanno il compito di regolare lo svolgimento dell’attività professionale. Le professioni intellettuali sono fenomeni produttivi che si presentano nella forma dell’attività produttiva, è necessario perciò verificare se presentino i tre requisiti dell’art. 2082: PROFESSIONALITÀ si realizza un’attività esercitata professionalmente quando il soggetto produce servizi professionali in maniera sistematica e continuativa, non occasionale. ECONOMICITÀ le professioni intellettuali sono senz’altro un’attività economica, lucrativa, benché quantificare il costo dell’attività intellettuale non sia agevole. ORGANIZZAZIONE le professioni intellettuali non devono, ma possono essere, delle attività organizzate: la collocazione che ne dà il Codice, come una particolare tipologia di lavoro autonomo, induce a pensare che il legislatore del ’42 facesse riferimento ad un’attività produttiva in cui il lavoro speculativo intellettuale del professionista fosse necessario e sufficiente, ma la realtà attuale suggerisce che può non essere così. Quando la professione intellettuale risulta un’attività organizzata, si può ulteriormente accertare se l’organizzazione supera il livello di piccolezza segnato dall’art. 2083 e qualificare, in tal caso, l’attività professionale come analoga all’impresa commerciale piuttosto che alla piccola impresa. Pertanto, la professione intellettuale è un’attività produttiva che ormai può presentare tutti i tre requisiti dell’art. 2082 e, in particolare, può trattarsi di un fenomeno analogo all’impresa non piccola e, in ragione della sua natura non agricola, all’impresa commerciale. Bisogna quindi capire quale sia la disciplina applicabile quando vi sia coincidenza tra i due fenomeni. Sebbene vi sia chi pensa che nel momento in cui la professione intellettuale raggiunga le dimensioni di un’impresa medio grande, passando da autorganizzazione a eterorganizzazione, dovrebbe essere assoggettata alla relativa disciplina, l’opinione prevalente milita in senso contrario. L’articolo 2238 sancisce infatti un privilegio per lo svolgimento dell’attività per professione intellettuale: “se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II (attività di impresa)”; l’interpretazione che si dà di tale disposizione è che lo svolgimento dell’attività per professione intellettuale è interamente esentato dall’applicazione delle regole per l’attività di impresa, e in particolare dallo statuto dell’imprenditore medio grande, tranne nel caso in cui l’attività professionale costituisca una componente di una più grande attività con le caratteristiche dell’attività imprenditoriale, rappresenti quindi un fattore produttivo di una più ampia attività organizzata in forma di impresa (es. medico in una clinica). È necessario operare una distinzione tra: PROFESSIONI PROTETTE sono regolate da una propria specifica disciplina e richiedono il conseguimento di un titolo abilitativo perché le si possa esercitare; PROFESSIONI NON PROTETTE non sono regolate da una propria specifica disciplina e sono liberamente esercitabili. Le attività di lavoro autonomo protette dall’ordinamento sono le professioni intellettuali. La legge non enuncia quali sono le professioni intellettuali, non ne esiste una definizione, perciò è necessario ricostruirne i confini in via interpretativa; ciò non risulta facile nella realtà economica, che presenta figure di incerta collocazione (farmacista) o del tutto innovative. Il criterio oggettivo a cui si fa ricorso per distinguere professioni protette e non protette viene ravvisato nell’utilizzo o meno di una particolare tipologia di contratto, il contratto d’opera intellettuale. La fattispecie di quest’ultimo è connotata da due requisiti essenziali sanciti agli artt. 2229 e 2232, cioè l’intellettualità della prestazione, che deve avere a che fare con la specifica attività per cui il libero professionista si è abilitato, e la personalità della prestazione, da cui consegue l’assunzione di responsabilità da parte del ibero professionista. Solo quando si manifestano questi requisiti trova applicazione l’esenzione stabilita dall’art. 2038; alla luce di ciò, il farmacista, nella cui attività viene quasi completamente meno sia la personalità che l’intellettualità, non risulta una figura protetta. Gli elementi che contraddistinguono il contratto di prestazione d’opera, in particolare la personalità e la necessità di dover superare un esame di stato, erano posti alla base dell’impossibilità giuridica di svolgere professioni intellettuali attraverso un ente societario. A partire dal 2011 è stato però trovato un escamotage, con cui le società possono soddisfare i parametri degli artt. 2229 e 2232: i soci della STP devono essere per almeno 2/3 persone fisiche che hanno superato l’esame di stato per l’abilitazione alla professione per cui si costituisce la società, inoltre ogni qual volta che la società assume un incarico istituzionale deve assegnarlo ad uno specifico professionista abilitato. Il legislatore non chiarisce esplicitamente se l’esenzione dell’art. 2038 trovi o meno applicazione anche in questo caso, ma la giurisprudenza opta per non dare prevalenza alla forma giuridica dell’attività che viene svolta quanto più alla natura di essa, che è effettivamente una prestazione intellettuale, perciò si escluderebbe l’assoggettamento al fallimento. L’INIZIO E LA FINE DELL’IMPRESA Per definire l’arco temporale durante il quale trovano applicazione le regole dell’attività imprenditoriale, bisogna individuare l’inizio e la fine dell’impresa. All’interno del Codice, però, non è presente una definizione chiara né dell’uno né dell’altra, perciò il principio generale valevole per determinare i termini iniziale e finale è il principio dell’effettività. L’attività imprenditoriale può dirsi cominciata nel momento in cui nella realtà concreta si verifica un fenomeno produttivo qualificabile come impresa. Ai fini di tale individuazione non bisogna tener conto di alcun tipo di adempimento formale (requisiti amministrativi o burocratici) che si associ allo svolgimento dell’impresa e che sono richiesti ad un imprenditore per iniziare la sua attività, come l’iscrizione al registro delle imprese o autorizzazioni e licenze. Il riferimento ad un aspetto sostanziale e non formale è necessario perché basarsi su elementi non oggettivi significherebbe di fatto consentire all’imprenditore di decidere a sua discrezione se assoggettarsi o meno alle regole di una determinata disciplina. Nel momento prodromico all’esercizio di impresa, che spesso è proprio il momento che necessita di maggiori tutele, si distinguono: ATTI DI ORGANIZZAZIONE atti meramente progettuali che l’imprenditore fa prima di assumere effettivamente la decisione di dare vita all’attività imprenditoriale. ATTI DELL’ORGANIZZAZIONE atti funzionali allo svolgimento dell’attività di impresa, danno concretezza allo sviluppo progettuale dell’imprenditore. I semplici atti di organizzazione non segnano l’inizio di un’impresa, perché sono solamente progettuali, mentre rientrano nel concetto di svolgimento gli atti dell’organizzazione, cioè una serie di atti coordinati tra loro che l’imprenditore compie per dare concretezza al progetto di inizio dell’attività, anche perché meritevoli di tutela. Non sembra che il discorso possa differenziarsi nel caso di una società o altro ente collettivo: nonostante per dare vita ad una società sia necessario concretizzare un accordo tra soci (contratto di società) e poi iscriverla al registro delle imprese, non si ritiene che l’inizio dell’impresa societaria debba essere anticipato al momento di inizio della costituzione della società. A conferma del fatto che questa formalizzazione non è necessaria, il nostro ordinamento conosce istituti giuridici che prevedono l’individuazione di un ente collettivo società anche in assenza di una reale formalizzazione dell’accordo da parte dei soci: in particolare, la società occulta, che sorge in tutti quei casi in cui i soggetti non formalizzano nulla però nei rapporti fra di loro e con i terzi sono perfettamente individuabili tutti i parametri del contratto di società (conto cointestato, presentazione come entità singola…), può anche venire dichiarata fallita; anche alla cosiddetta società irregolare, che si ha nel caso in cui i soci formalizzano un accordo scritto ma non iscrivono poi l’atto costitutivo della società nel registro delle imprese, si applicano tutte le regole dello statuto commerciale medio grande. Anche per quanto riguarda la fine dello svolgimento di un’attività di impresa bisogna ricorrere ad un criterio di effettività, per cui essa si identifica nel momento in cui viene meno il fenomeno qualificabile come impresa. La liquidazione del patrimonio è una fase di disgregazione del complesso produttivo, durante la quale si monetizzano tutti i beni costituenti il complesso aziendale e si risolvono tutti i rapporti pendenti (sia con creditori che con debitori); in caso di contratto di società è una fase obbligatoria che porta infine al suo scioglimento e alla sua cancellazione dal registro delle imprese. La fase di liquidazione, in dottrina, non è considerata attività di impresa, perciò non bisogna attendere la sua fine perché vi sia l’effettiva cessazione dell’impresa. A sostegno di questa tesi vi è il fatto che la liquidazione non è un requisito formale obbligatorio dell’impresa, in quanto essa potrebbe cessare anche a prescindere da tale fase, ma solamente delle società di capitali: ciò si può desumere dalle regole che disciplinano lo svolgimento dell’attività nell’ambito delle società di capitali, che stabiliscono che l’organo amministrativo della società e poi i liquidatori non possono più compiere nuove operazioni sociali quando in una società si manifesta una causa di scioglimento. È quindi evidente che la fine dell’impresa e la fine dell’ente che esercita attività di impresa riposano su piani diversi: l’impresa di una società può cessare anche prima della fine di una società; se l’imprenditore scorda di cancellarsi dal registro delle imprese, per il principio di effettività l’attività si considera finita quando è effettivamente cessata, senza guardare alla formalità. Nel concreto, ci sono dei casi in cui non è banale dare applicazione al principio dell’effettività. Una significativa eccezione riguarda un istituto della disciplina dell’impresa, le procedure concorsuali: all’interno della legge fallimentare (art. 10), ora art. 33 del CCI, la fine dell’impresa viene individuata da un parametro formale, cioè la cancellazione dal registro delle imprese, entro un anno dalla quale un’attività imprenditoriale può comunque essere dichiarata fallita a condizione che l’insolvenza si sia manifestata anteriormente alla cancellazione o entro l’anno successivo; il soggetto può quindi essere dichiarato fallito entro un anno dalla cancellazione. La ragione di questa prorogatio è impedire di sfuggire alla soluzione concorsuale dell’insolvenza mediante una cessazione ex abrupto dell’impresa; per questo motivo, in caso di impresa individuale o cancellazione d’ufficio di imprenditori collettivi, è nel contempo data la possibilità al creditore o al PM di dimostrare che l’attività imprenditoriale non è cessata con la cancellazione ma in un momento ad essa successivo, dal quale inizia a decorrere l’anno entro il quale l’imprenditore può essere dichiarato fallito. Questa disciplina impone all’imprenditore di fare particolarmente attenzione alla cancellazione formale, perché non c’è nessuna norma che gli permette di dimostrare che la sua attività era finita prima della cancellazione; si tratta quindi di una presunzione relativa per i terzi, che possono dimostrare che l’attività imprenditoriale è proseguita (es. atti con data successiva alla cancellazione), ma è assoluta per l’imprenditore. La legge fallimentare ancorava l’assoggettamento a fallimento alla cancellazione dal registro delle imprese, senza fare riferimento al caso in cui un soggetto non si fosse proprio iscritto, ma ora il codice di crisi di impresa risolve la situazione: per gli imprenditori, la cessazione dell’attività coincide con la cancellazione dal registro delle imprese e, se non iscritti, dal momento in cui i terzi hanno conoscenza della cessazione stessa (pubblicità con mezzi idonei, es. PEC, raccomandata); paradossalmente, quindi, ciò vale per u imprenditore non iscritto ma non per uno iscritto, che non può in alcun modo dimostrare un termine precedente alla cancellazione. IMPUTAZIONE DELL’IMPRESA L’impresa necessita di essere ricondotta ad una sfera giuridica soggettiva, perciò bisogna individuare il soggetto al quale si imputa lo svolgimento dell’attività imprenditoriale e in capo al quale ricadono tutti gli obblighi stabiliti dalla disciplina dell’impresa. Il referente soggettivo dell’impresa è l’imprenditore in senso giuridico. Tuttavia, nel nostro ordinamento manca un criterio di imputazione specifico ed espresso, che deve perciò essere ricavato in via interpretativa: si scontrano il criterio formale della spendita del nome e il criterio sostanziale dell’interesse perseguito. L’imputazione appare risolta nel caso in cui l’impresa venga svolta in nome e per conto di uno stesso soggetto, cioè quando l’elemento formale della spendita del nome e l’elemento sostanziale dell’interesse perseguito nello svolgimento dell’attività convergono sulla stessa sfera soggettiva; questa conclusione prescinde dalla circostanza che tale soggetto eserciti materialmente l’impresa: l’imprenditore può affidare l’esercizio dell’impresa ad uno o più altri soggetti, i quali comunque eseguono tale incarico in nome e per conto del primo. L’imputazione diventa problematica quando la spendita del nome e l’interesse perseguito si riscontrano in capo a soggetti diversi. IL CRITERIO FORMALISTA: LA SPENDITA DEL NOME L’orientamento formalista è dell’avviso che l’elemento decisivo ai fini dell’imputazione dell’impresa debba individuarsi nella spendita del nome, ritenendo che l’impresa si imputa al soggetto il cui nome viene speso nello svolgimento della stessa. In mancanza di una regola specifica per l’impresa, tale conclusione si basa sul ricorso al criterio generale previsto dal nostro ordinamento per l’imputazione degli atti giuridici nel diritto privato (artt. 1704-1705), posto che l’attività imprenditoriale, in fin dei conti, è proprio un insieme di atti giuridici, seppur teleologicamente orientati a un risultato: il criterio è rappresentato dalla spendita del nome, risultando invece irrilevante l’interesse perseguito. ARTICOLO 1704 in caso di mandato con rappresentanza, trova applicazione la disciplina della rappresentanza prevista agli artt. 1387 ss., in particolare l’art. 1388 in base al quale il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitogli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato. ARTICOLO 1705 in caso di mandato senza rappresentanza, il mandatario che agisce in proprio nome acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato. Il criterio formale ha certamente il pregio della semplicità e dell’immediatezza, ma ha dei limiti che lo espongono a critiche: innanzitutto, l’attività imprenditoriale rileva nel diritto commerciale come fenomeno unitario mentre non rilevano i singoli atti giuridici, inoltre tale conclusione rende agevoli alcune forme di abuso. Ci sono infatti situazioni in cui si crea un distacco tra la figura del soggetto che materialmente esercita l’attività imprenditoriale e il soggetto nel cui interesse essa viene esercitata: non certo infrequenti sono le eventualità in cui l’imprenditore (dominus nascosto), che finanzia, organizza, garantisce e trae beneficio dallo svolgimento dell’attività imprenditoriale, si serve di un prestanome (cd. testa di legno), cioè un soggetto che spende il suo nome, scelto appositamente nullatenente così che non sia attaccabile dai creditori, in modo che né il patrimonio dell’uno né il patrimonio dell’altro sia a rischio. In questo modo, il dominus nascosto riesce a sfuggire all’applicazione dell’articolo 2740, che stabilisce che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri: se un imprenditore individuale ha dei debiti verso i fornitori, per l’estinzione di essi i creditori possono rivalersi non solo sui beni che ha destinato allo svolgimento dell’attività imprenditoriale, ma su tutti i suoi beni presenti e futuri. A questo stato di cose, la giurisprudenza ha cercato di porre rimedio attraverso la teoria dell’impresa fiancheggiatrice. Nel momento in cui il dominus impone delle direttive al prestanome, lo finanzia e poi trae utilità dalla sua attività, il coordinamento che da lui viene posto in essere, se fatto in modo sistematico, ha tutte le caratteristiche per essere considerato in sé come attività imprenditoriale; si concludeva perciò che il fallimento dell’impresa principale, cioè quella del prestanome, comportava anche il fallimento dell’attività fiancheggiatrice, svolta dal dominus. Tuttavia, anche la figura dell’impresa fiancheggiatrice non risolve le cose, perché la soluzione che dà è quella di un fallimento solo accessorio, perciò gli eventuali creditori dell’impresa principale si dovrebbero comunque continuare a rivalere solo sul prestanome e non sul dominus, mentre è necessario che il dominus sia coinvolto nel fallimento dell’impresa principale. IL CRITERIO SOSTANZIALISTA: L’INTERESSE PERSEGUITO Esiste anche una posizione che sostiene che non si debba dare rilievo all’aspetto formale, quanto piuttosto al punto di vista sostanziale, ponendosi la domanda su chi realmente svolge e trae beneficio dall’attività; in particolare si guarderanno tre elementi: interessi, finanziamenti, benefici. In ragione delle perplessità lasciate dal criterio formalista, riguardante i singoli atti in cui il fenomeno dell’impresa si scompone, sono state proposte diverse alternative, volte a dimostrare che l’impresa si deve imputare a prescindere dal nome speso nel suo svolgimento. Il presupposto di fondo è l’assunto che nell’ordinamento vi sia una inscindibile relazione biunivoca tra potere e rischio, per cui chi ha la direzione di un’attività imprenditoriale non può sottrarsi alle relative conseguenze sul piano patrimoniale e non essere quindi responsabile delle obbligazioni che sorgono nello svolgimento. Particolare importanza assume la teoria dell’imprenditore occulto elaborata da Walter Bigiavi negli anni ’60 per rispondere al problema dei prestanome. Il primo passaggio della teoria è rappresentato proprio dalla conclusione a cui si è arrivati per cui il dominus di un’iniziativa economica deve risponderne sul piano economico. Il secondo passaggio muove dall’articolo 147, in particolare dai commi IV-V, della legge fallimentare, dal quale sarebbe stato possibile cogliere il principio generale secondo il quale l’impresa si imputa a prescindere dal nome speso nello svolgimento della stessa ma in funzione dell’interesse perseguito. L’art. 147 stabiliva (come è pure oggi) che il fallimento di una società con soci illimitatamente responsabili comportava automaticamente il fallimento personale in proprio di questi soggetti: la loro responsabilità trovava attuazione attraverso il fallimento in estensione. Il IV comma disciplinava il caso specifico di una società palese che avesse nella sua compagine sociale uno o più soci occulti: se dopo la sentenza di fallimento emerge dalle indagini fatte dal curatore la presenza di un socio occulto (che ne facevano parte sostanzialmente, ma non apparivano nella forma come soci), il fallimento della società palese viene esteso anche nei confronti di quest’ultimo, che così viene equiparato sul piano normativo ai soci palesi. Da questa disposizione, Bigiavi afferma che il trattamento normativo riservato alla società palese con socio occulto non possa non essere replicato anche alla società occulta: ritiene infatti che sia insensato limitare la portata di tale regola solo in ragione di un elemento quantitativo, ossia il numero dei soci che costituiscono le rispettive compagini sociali (nella società palese con socio occulto ci sono almeno due soci palesi e uno occulto, mentre nella società occulta c’è un socio palese e un socio occulto); bisogna infatti ricordare che alla società occulta si applicano le regole della società in nome collettivo, della quale si può dichiarare il fallimento e in cui tutti i soci sono illimitatamente responsabili, compreso quindi anche il dominus, che è considerabile come socio occulto del prestanome nella creazione di una società occulta. Da ciò discende che la società occulta assume la qualifica di imprenditore con conseguente assoggettamento alla disciplina dell’impresa, pertanto risulta evidente che l’imputazione dell’impresa prescinde dalla spendita del nome ed è piuttosto legata all’interesse perseguito. Questa teoria, inizialmente dottrinale, inizia ad essere applicata nei tribunali fallimentari, perché in favore dei creditori. L’articolo è stato poi integrato nel 2006 con un V comma che sugella ciò che già prima era stato dedotto in via interpretativa, dando rilevanza giuridica alla teoria della società occulta: espressamente stabilisce che, se dopo la dichiarazione di insolvenza (e quindi fallimento) di un’impresa individuale, risulti che l’impresa è riferibile in realtà ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile, allora gli effetti della dichiarazione di insolvenza (e quindi, eventualmente, il fallimento) devono estendersi alla società di fatto e a tutti i suoi soci: il fallimento viene dichiarato anche nei confronti del soggetto che è successivamente stato scoperto essere legato al primo, dichiarato insolvente, da un rapporto di società (occulta) in cui entrambi sono illimitatamente responsabili. A questo punto, è confermato che un’impresa esercitata per conto di una società occulta debba imputarsi proprio ad essa, restando irrilevante il fatto che l’attività fosse stata svolta senza spenderne il nome. Tuttavia, l’art. 147 disciplina espressamente solo le ipotesi di socio palese di società palese, socio occulto di società palese (comma IV) e società occulta (comma V); non si occupa invece dell’imprenditore individuale occulto, cioè tutte quelle situazioni in cui non siano riscontrabili gli elementi essenziali del contratto di società tra dominus e prestanome, perché quest’ultimo si limita solo a prestare il nome senza alcun tipo di contributo economico: il prestanome esercita l’impresa solo (e non anche, altrimenti si torna alla società occulta) nell’interesse di un altro soggetto che resta sconosciuto ai terzi, è quindi solo un rapporto di interposizione fittizia senza alcun contratto. Ci si chiede quindi se l’evoluzione della teoria dell’imprenditore occulto può portare a considerare ciò che emerge dall’articolo 147 come un principio generale, che può trovare applicazione anche nei casi non previsti, o solamente come una norma eccezionale applicabile solo alle fattispecie contemplate. In realtà, sostenere che essa sia applicabile solo quando vi sia un rapporto di società vorrebbe dire sostenere che l’applicazione della norma dipende dal tipo di rapporto (contratto di società o di interposizione) che i soggetti decidono instaurare fra loro, ma ciò porterebbe alla conclusione inaccettabile per cui i soggetti possono discrezionalmente decidere se sottoporsi o meno alla norma. Il diritto societario mette a disposizione dei privati due figure nuove attraverso le quali è possibile esercitare, anche individualmente, un’impresa in regime di limitazione di rischio, in modo che l’eventuale fallimento non intacchi il suo patrimonio perché risponde dei debiti solamente il patrimonio della società: la società a responsabilità limitata e la società per azioni. Impresa e capacità La disciplina generale che regola gli atti giuridici compiuti da un incapace si trova all’articolo 320 del Codice e stabilisce che l’incapace totale (minore o interdetto) non può curare da solo i propri interessi patrimoniali, ma deve farsi coadiuvare dal rappresentante legale, un tutore nominato dal tribunale: in particolare, la gestione del suo patrimonio, che si sostanzia nel compimento di atti di ordinaria amministrazione, è affidata interamente al tutore, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione, che possono intaccare il patrimonio dell’incapace, deve prima ottenere un specifica autorizzazione da parte del tribunale (sistema di autorizzazione atto per atto). Risulta chiaro che la gestione del patrimonio dell’incapace è conservativa, in quanto l’obiettivo del tutore è mantenerne l’integrità non recando danno. Il V comma dell’art. 320 vieta al minore di iniziare lo svolgimento di una attività imprenditoriale e ciò risulta chiaro dall’ottica conservativa a cui è improntata la gestione del patrimonio dell’incapace: l’impresa non è certo un’attività che ha come obiettivo la conservazione, quanto più assumere dei rischi nel prendere le decisioni in ottica di ricevere dei benefici utili, risultano quindi incompatibili. Tuttavia, il legislatore è consapevole che il minore può trovarsi a diventare titolare di un’impresa da lui non iniziata (successione ereditaria, donazione), perciò stabilisce che la continuazione dell’impresa debba essere autorizzata dal tribunale su parere del giudice tutelare, alla condizione che il suo mantenimento sia evidentemente utile per l’interesse dell’incapace, e che l’attività venga gestita da un tutore, il quale avrà in questo caso la possibilità di prendere tutte le decisioni relative a essa, che siano di ordinaria o straordinaria amministrazione, a causa della celerità richiesta da un’impresa; si dovrà fare autorizzare solo per compiere qualcosa che esula da una normale gestione (alienazione). Sezioni II-VII Le regole comportamentali che costituiscono lo statuto Unitario del fenomeno produttivo organizzata in forma d’impresa investono l’attività sotto molteplici profili: OBBLIGHI DI PUBBLICITÀ assicurano trasparenza e informazione degli elementi minimi identificativi con l’obiettivo di assecondare l’interesse conoscitivo degli operatori di mercato e l’interesse dell’imprenditore a che le relative informazioni siano conosciute. ORGANIZZAZIONE DI IMPRESA il diritto dell’impresa disciplina la struttura decisionale che caratterizza tipicamente un’impresa, nella quale i poteri decisori e di rappresentanza sono attribuiti a collaboratori dell’imprenditore, agenti a diversi livelli della gerarchia organizzativa. Vi sono poi alcune regole comportamentali a protezione di interessi superiori: il principio di adeguatezza della struttura organizzativa (funzionale ad assicurarne una gestione sana e consapevole), l’obbligo di tenuta delle scritture contabili, il diritto delle società (forme di esercizio collettivo dell’impresa). L’IMPRESA NEL MERCATO è necessario tutelare la genuinità della competizione economica e l’adozione di pratiche e politiche contrattuali sane ed equilibrate nei rapporti con i terzi, per questo l’impresa viene guardata nella sua dimensione relazionale e troviamo disposizioni riguardanti: concorrenza, privative industriali, contrattazione di impresa, strumenti di circolazione del denaro e dei rapporti finanziari, cooperazioni e integrazioni tra imprese. VICENDE DELL’IMPRESA si collocano su questo piano le disposizioni relative alla circolazione dell’impresa e alla regolazione della crisi di impresa; per la realizzazione di queste finalità sono predisposte le speciali procedure concorsuali dirette al recupero della continuità aziendale, se possibile, o alla liquidazione del patrimonio dell’imprenditore. Questo statuto venne in origine pensato fondamentalmente per l’impresa commerciale non piccola, ma questa figura va sempre più sfumando nella realtà economica, tanto da assistere ad una progressiva estensione della disciplina della prima alle altre attività, a testimonianza di un percorso di evoluzione e ammodernamento del diritto di impresa. LA PUBBLICITÀ DI IMPRESA Il registro delle imprese La disciplina dell’impresa contempla un obbligo di pubblicità minimo, finalizzato ad assicurare un minimo di trasparenza informativa su alcuni fatti o atti che riguardano l'organizzazione di impresa. Già dal 1942, il legislatore aveva previsto la creazione del registro delle imprese, un registro pubblico con la funzione di fungere da collettore dei fatti e degli atti di impresa per i quali è prescritto un obbligo di pubblicità, che tuttavia è stato effettivamente istituito solo nel 1993 con la legge 580/1993. Il registro è pubblico, quindi chiunque vuole, seppur a pagamento, può avere accesso alle informazioni in esso contenute; è inoltre consultabile online sul portale della camera di commercio. Il registro è tenuto su base provinciale: la sua gestione è affidata alle camere di commercio di ogni provincia, che disciplinano le iscrizioni e le modifiche delle informazioni; ogni camera individua al suo interno uno specifico soggetto referente con funzioni dirigenziali, che funge da conservatore del registro, inoltre ogni tribunale individua un giudice delegato, il giudice del registro, che funge da organo giudiziale competente di risolvere le controversie concernenti i procedimenti di iscrizione e/o cancellazione e di deposito. Il registro delle imprese è suddiviso in una sezione ordinaria, dove trovano collocazione le iscrizioni relative alle imprese commerciali medio-grandi, e poi in molteplici sezioni speciali (attualmente sei), dove sono chiamati ad iscriversi altri imprenditori diversi; a seconda di dove viene scritta una determinata informazione, il legislatore ha previsto diversi effetti delle iscrizioni. Il registro è tenuto sulla base di alcuni principi: PRINCIPIO DI TIPICITÀ DELLE ISCRIZIONI (art. 2188) le informazioni da sottoporre a pubblicità sono tutte e soltanto quelle per le quali la legge impone siffatto obbligo pubblicitario. Questo principio risponde alla necessità di contemperare due diverse esigenze: da un lato, l'esigenza dell'imprenditore di poter contare sulla certezza legale che talune informazioni possano considerarsi conosciute da parte dei terzi con i quali entra in contatto e di non poter essere obbligato a iscrivere altre, dall'altro, l'esigenza dei terzi e, più in generale, del mercato di poter fruire concretamente di talune informazioni inerenti l'impresa, senza che l’imprenditore approfitti del meccanismo di conoscenza per iscrivere nel registro molteplici informazioni prive di utilità. OBBLIGATORIETÀ DELLE ISCRIZIONI (art. 2194) se l’iscrizione è prevista per legge, vige l’obbligo per l’imprenditore di procedere, pena altrimenti delle sanzioni amministrative in capo all’imprenditore: l’obbligo deve sere adempiuto entro 30 giorni dal momento in cui si è verificato l’atto che origina l’obbligo di iscrizione (es. cambio sede dell’attività); da una decina di anni è stato introdotto un meccanismo di comunicazione unica, grazie al quale, con la sola comunicazione dell’informazione al registro delle imprese, quest’ultimo procederà allo smistamento dei dati tra i vari enti (es. INPS se ha dei dipendenti, agenzia delle entrate se ha partita iva): perché questo meccanismo funzioni entro 30 giorni, sono ovviamente necessarie delle tempistiche più rapide. SANZIONI Le sanzioni ricadono in capo agli imprenditori o agli amministratori delle società, quindi il soggetti che deve dare le informazioni sono loro, ma se non procedono entro il termine previsto c’è la possibilità di attivare un procedimento di iscrizione d’ufficio: qualsiasi soggetto terzo che sia interessato all’iscrizione (es. un socio recesso dal contratto di società), può in un primo momento sollecitare l’obbligato affinché vi provveda, altrimenti può lui stesso inoltrare una specifica inchiesta alle camere di commercio affinché si attivi l’iscrizione d’ufficio dell’informazione, il giudice di ufficio dovrà verificare che l’informazione soddisfi il principio di tipicità e che il soggetto obbligatosi a inadempiente oltre i termini anche dopo le sollecitazioni, e a quel punto ordina l’iscrizione. CONTROLLO FORMALE (art. 2189) Il conservatore del registro deve fare un controllo meramente formale della domanda e dell’informazione di cui si richiede l’iscrizione: il controllo si sostanzia nella verifica del rispetto del principio di tipicità e della regolarità formale della domanda con cui si chiede l’iscrizione, è diretto quindi ad accertare in primo luogo la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l'iscrizione e poi la presenza di eventuali documenti allegati necessari. A differenza di quanto alcuni affermano, la dottrina prevalente esclude che quello dell’ufficio del registro debba essere un controllo di legalità formale e sostanziale, in quanto quest’ultimo è assicurato già dalle verifiche effettuate dal notaio. Ad oggi tutto ciò è automatizzato, perciò i formulari telematici sono composti da caselle da selezione che a priori non consentono di inviare informazioni che non rispondano al principio di tipicità, perciò il ruolo del conservatore è ulteriormente ristretto. Nel caso della società di capitali, al controllo formale del conservatore si aggiunge un controllo di legalità in capo al notaio chiamato a redigere l’atto della società nella forma dell’atto pubblico di cui si richiede l’iscrizione al registro delle imprese: in questo caso il controllo del conservatore sarà ancora più superficiale. LA SEZIONE ORDINARIA Nella sezione ordinaria sono obbligati ad iscriversi: Imprenditori commerciali non piccoli (art. 2195). Società commerciali e cooperative (art. 2200). Enti pubblici economici (art. 2201). Consorzi con attività esterna (art. 2612). Società straniere con sede amministrativa o oggetto principale dell’attività in Italia. G.E.I.E. con sede in Italia. Reti di impresa che istituiscono un fondo comune acquistando quindi la personalità giuridica. Oggetto della pubblicità sono una serie di informazioni minime e necessarie, quelle relative all’assetto organizzativo strutturale dell’impresa stabilite dall’art. 2196, cioè gli elementi identificativi e organizzativi dell’attività in generale: generalità dell’imprenditore, sede dell’impresa, eventuali institori e procuratori, amministratori, capitale sociale, oggetto dell’attività… a questi si è recentemente aggiunto il domicilio digitale. Nel corso dello svolgimento dell’attività, il principio di tipicità prevede che si proceda all’iscrizione di altre informazioni che variano (es. variazioni degli elementi identificativi e organizzativi, ma anche l'eventuale autorizzazione alla continuazione dell'impresa di un incapace). Nel caso in cui le informazioni iscritte siano errate, invalide o in realtà inesistenti si può porre rimedio attraverso la cancellazione d’ufficio: esattamente come per l’iscrizione d’ufficio, anche in questo caso l’iter non è automatico, ma è necessario che, su richiesta dell’interessato, il conservatore solleciti il soggetto obbligato all’adempimento a porre rimedio e, solo se non procede, il giudice stabilisce la cancellazione d’ufficio. Un altro tipo di cancellazione d’ufficio è stabilita per far venir meno un'iscrizione avvenuta regolarmente, ma con riferimento alla quale sono venute meno le condizioni di permanenza: si tratta della cancellazione che può essere disposta all'indirizzo di imprese e società delle quali si ha una presunzione di inattività, il cui obiettivo è quello di eliminare dal registro delle imprese iniziative non più operanti. Per esempio, la disciplina della società di capitali prevede l’obbligo di depositare il bilancio di esercizio ogni anno; se per oltre tre anni ciò non accade, il conservatore può richiedere la cancellazione perché presume che l’attività sia cessata, perciò, dopo aver verificato l’esistenza della società, eventualmente si sollecita il giudice d’ufficio. Il legislatore associa all’iscrizione di una determinata informazione al registro delle imprese nella sezione ordinaria una efficacia dichiarativa (art. 2193). Una volta che una determinata informazione viene iscritta nel registro, questa si presume conosciuta a tutti a prescindere dal fatto che i soggetti terzi ne abbiano avuto effettiva conoscenza; si tratta di una presunzione di conoscenza assoluta, perché il terzo non ha nessun modo di dimostrare che non ne aveva concreta conoscenza. È da escludersi che all'iscrizione possa associarsi la presunzione di conoscenza nel caso in cui la stessa sia stata disposta in un registro territorialmente non competente o per errore in una sezione speciale dello stesso registro. Il diritto europeo ha imposto una deroga alla presunzione assoluta: in riferimento all’efficacia di atti o fatti relativi alla disciplina delle società di capitali, per i primi 15 giorni dall’iscrizione la presunzione è solo relativa (art. 2448). Per contro, se il fatto o l’atto in relazione al quale la legge impone l’iscrizione non viene iscritto, nonostante l’informazione dovesse essere iscritta, esso non sarò opponibile ai terzi, a meno che l’imprenditore non provi che questi ne avevano comunque avuto effettiva coscienza; si tratta quindi di una presunzione relativa di ignoranza dell’informazione. Vi sono poi altre due tipologie di efficacia che possono trovare applicazione oltre quella dichiarativa, eccezionalmente (art. 2193 comma III): EFFICACIA COSTITUTIVA riguarda esclusivamente gli atti relativi alla disciplina delle società di capitali e prevede che l’atto costitutivo, di cui si chiede l’iscrizione al registro delle imprese, non produca alcun effetto finché non viene iscritto al registro delle imprese. Non si tratta quindi solo di una presunzione di conoscenza, ma di un’efficacia giuridica dell’atto legata all’iscrizione, che produce effetti solo con l’iscrizione, non è quindi dal momento della conclusione dell’atto costitutivo redatto dal notaio che la società viene effettivamente all’esistenza. Per la società di persone, invece, non è prevista l‘efficacia costitutiva, perciò da quando i soggetti formalizzano l’atto costitutivo presso un notaio alla società è attribuita piena efficacia giuridica. EFFICACIA NORMATIVA l’obbligo pubblicitario comporta l’applicazione di un determinato regime giuridico (es. alla società in nome collettivo si applica una disciplina differente in base all’iscrizione o meno, rispettivamente quella della società regolare o irregolare). LE SEZIONI SPECIALI Le sezioni speciali nascono con l'obiettivo di farvi confluire le imprese e le forme giuridiche che trovavano collocazione in queste differenti forme di pubblicità, che non potevano transitare nella sezione ordinaria. In un primo momento, il legislatore aveva istituito tante sezioni speciali quanti erano i soggetti speciali diversi dalle imprese medio-grandi obbligati ad iscriversi in tali sezioni, perciò quattro: imprese agricole, piccole imprese, società semplici e imprese artigiane (anche se si tratta di annotazione). Nel 1999, queste sezioni vengono riunite in un’unica sezione speciale, ma nel corso degli anni si sono aggiunte sei specifiche sezioni apposite per: Società tra avvocati, generalizzata poi a tutte le società tra professionisti. Società ed enti che esercitano o sono soggetti a direzione e coordinamento altrui. Enti titolari di imprese sociali. Società di capitali già iscritte nella sezione ordinaria, ma è una replicazione con traduzione giurata in altra lingua. Start-Up innovative, che fanno attività di ricerca altamente specializzata fin dall’inizio della loro costituzione. PMI (piccole e medie imprese) innovative. L‘iscrizione nelle sezioni speciali attribuisce solamente efficacia di pubblicità notizia: l’iscrizione dell’informazione consente di portare a conoscenza dei terzi una determinata informazione, ma non genera nessuna presunzione di conoscenza, perciò per rendere la conoscenza opponibile ai terzi è necessario provare la loro effettiva conoscenza, e quindi che l’imprenditore ha utilizzato i mezzi idonei per informarli. Anche in questo caso esistono delle deroghe rappresentate da alcune leggi speciali che riconducono altri effetti all’iscrizione nelle sezioni speciali, per esempio: Nonostante l’imprenditore agricolo sia comunque obbligato a iscriversi nel registro, il legislatore attribuisce a tale iscrizione una efficacia dichiarativa, come se si fosse iscritto nella sezione ordinaria; il motivo di tale attribuzione risiede nell’avvicinamento dell’impresa agricola alla fattispecie dell’impresa commerciale, soprattutto per quanto riguarda la caratteristica dell’organizzazione, che fa entrare in gioco interessi dei terzi. L’iscrizione delle start-up innovative in questa sezione ha anche efficacia normativa: solo una volta eseguita tale formalità, le start-up innovative e