Riassunto Commerciale PDF
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Questo documento fornisce un riassunto del diritto commerciale, che si occupa dell'attività e degli atti di impresa. Descrive l'evoluzione storica di questa branca del diritto, passando dalle corporazioni mercantili ai codici civili e commerciali. Spiega le differenze tra gli imprenditori commerciali e gli imprenditori in generale, le varie procedure e gli istituti che formano lo statuto dell'imprenditore.
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DIRITTO COMMERCIALE VOL 1 – DIRITTO DELL’IMPRESA INTRODUZIONE Il diritto commerciale Il diritto commerciale è quella branca del diritto privato che ha per oggetto e regola l’attività e gli atti d’impresa. Si tratta, dunque, di una particolare disciplina dettata appositamente per gli “imprenditor...
DIRITTO COMMERCIALE VOL 1 – DIRITTO DELL’IMPRESA INTRODUZIONE Il diritto commerciale Il diritto commerciale è quella branca del diritto privato che ha per oggetto e regola l’attività e gli atti d’impresa. Si tratta, dunque, di una particolare disciplina dettata appositamente per gli “imprenditori”, ossia per coloro che esercitano professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. La scelta di dedicare un’apposita normativa all’impresa e a coloro che la esercitano si basa sul fatto che il nostro ordinamento giuridico riconosce sia la “libertà d’iniziativa economica” (art.41 Cost.), sia la proprietà privata (art.42 Cost.), proprio per garantire la realizzazione di quel modello di sviluppo economico noto come “economia di mercato”, basato sulla libertà dei privati di soddisfare i bisogni materiali della collettività, potendo perseguire un interesse personale volto al massimo guadagno, nonché sulla presenza simultanea di vari operatori economici in competizione tra loro. I vari interventi del legislatore limitativi di tali libertà garantiscono, inoltre, la realizzazione del benessere collettivo (già l’art.42 Cost. comma 2 parla dell’impossibilità dell’iniziativa economica privata di svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o di ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana). L’aggettivo “commerciale”, dunque, non deve trarci in alcun modo in inganno, poiché il “diritto privato delle imprese” non ha a oggetto solo “commercio e commercianti”, da un lato perché riguarda tutte le imprese, anche quelle NON dedite al commercio (a tal proposito è l’art.2195 del codice a fungere da “norma delimitativa delle attività giuridicamente commerciali”), dall’altro perché tutti gli imprenditori, nessuno escluso, sono soggetti a uno statuto professionale generale, sebbene meno ampio di quello dettato per gli imprenditori commerciali. Due sono le peculiarità del diritto commerciale: è un diritto SPECIALE, perché costituito da norme diverse da quelle valevoli per la generalità dei consociati; è un diritto tendente all’UNIFORMITA’ INTERNAZIONALE, in quanto molto simile, o a tratti identico, in tutti quei Paesi a economia di mercato. L’evoluzione storica del diritto commerciale. Il diritto statuario dei mercanti Il diritto commerciale nasce nel Basso Medioevo, precisamente intorno al XII secolo, quando la popolazione europea torna a crescere, dopo i primi e oscuri secoli medievali, e inizia l’abbandono delle campagne, con conseguente ripopolamento delle città che si organizzano in Comuni. La figura che più di tutte incarna la rinascita del XII secolo è quella del “mercante”: si passa rapidamente da un’economia curtense di sussistenza, dove nei mercati sono barattati i soli prodotti locali, a una società mercantile, in cui fioriscono i commerci tra le varie città, torna a circolare la moneta come mezzo di scambio e nascono le aggregazioni in Corporazioni di Arti e Mestieri cui chi esercita la mercatura è regolarmente iscritto. A dominare il panorama giuridico in questo periodo è il diritto comune, figlio della rielaborazione del diritto romano e dell’influenza del diritto canonico, il quale si dimostra da subito inadatto al sistema mercantile, in quanto le esigenze operative dei mercanti non possono rimanere ancorate alla solennità 1 delle forme negoziali o all’atteggiamento di favore per il debitore: la soluzione delle controversie fra mercanti è pertanto affidata a organi di giustizia (i consoli) propri delle rispettive corporazioni, che decidono secondo un diritto consuetudinario all’inizio trasmesso oralmente e in seguito trascritto negli statuti delle corporazioni, dando vita allo ius mercatorum, prima vera forma di diritto commerciale nella storia d’Europa, distinto e indipendente dal ius civile. Nascono nuovi istituti destinati a rimanere, seppur con diverse variazioni, nella storia del diritto commerciale: basti pensare al contratto di assicurazione, alla disciplina della concorrenza, alle scritture contabili, al concetto di par condicio creditorum e alle prime forme di società, al fallimento, tutto al fine di agevolare i traffici commerciali. Il diritto commerciale delle origini è dunque caratterizzato dalla “specialità formale”, in quanto alla sua applicazione provvedono degli specifici organi di giustizia, e dalla “specialità sostanziale”, perché frutto di regole e principi del tutto distinti da quelli del ius civile. E’ un diritto di classe, scaturente dai mercanti, ma che non tutela solo gli “interessi di classe”, bensì favorisce lo sviluppo generale della ricchezza ed ha una “vocazione universale” in quanto uniforme a livello internazionale, pressoché identico in tutta Europa. Segue: Il diritto degli atti di commercio e dei commercianti Con la nascita dei primi embrioni di Stati moderni, intorno al XV-XVI secolo, inizia una vera e propria evoluzione del diritto commerciale: l’attività economica viene vista come uno strumento di potenziamento dello Stato e di espansione coloniale, motivo per cui il diritto commerciale inizia a essere diritto “nazionale”, dato che lo Stato comincia a intervenire in materia economica. Il periodo delle corporazioni mercantili è finito e iniziano a sorgere i primi prototipi di “società per azioni”, ossia le grandi compagnie coloniali, costituite dagli stessi monarchi, in cui vige la responsabilità limitata dei soci e la suddivisione del capitale sociale in azioni. Chiariamo subito che in questo frangente storico diritto commerciale e diritto civile sono ancora distinti, tanto che nel nostro Paese, dopo l’unificazione, vengono emanati due codici nel 1865, quello civile e quello commerciale, quest’ultimo sostituito nel 1882. La competenza giurisdizionale viene unificata solo nel 1888, quando vengono soppressi i tribunali di commercio. Il nuovo codice di commercio, però, segna un netto taglio rispetto al passato: non si ha più un’impostazione soggettiva, un diritto speciale riferito a una determinata categoria di soggetti, i commercianti, bensì una visione “oggettiva”, dove assume rilevanza l’atto di commercio, da chiunque posto in essere. Da qui emerge la distinzione tra “atti oggettivi di commercio”, elencati dal codice e riferibili anche a chi non è commerciante o a chi li compie occasionalmente, “atti soggettivi di commercio”, compiuti da un commerciante nell’esercizio della propria attività, e “atti di commercio unilaterali”, ossia quelli ritenibili come commerciali per una sola delle parti, comportanti però l’assoggettamento al codice anche dell’altra parte. Segue: Il diritto privato delle imprese Quindi alla fine del XIX secolo, in Italia, abbiamo un sistema completamente dualistico del diritto privato: da un lato il codice civile, con atti e obbligazioni civili, dall’altro il codice di commercio, con atti e obbligazioni commerciali. Con la riforma legislativa del 1942 tale dualismo cessa di esistere 2 definitivamente: dall’idea originaria di modificare e attualizzare entrambi i corpi normativi, si passa ben presto all’unificazione e all’emanazione di un unico codice, ancora oggi in vigore. Sono diverse le innovazioni di cui il “nuovo e unico” testo si fa portatore: la categoria degli atti di commercio sparisce del tutto e viene sostituita dalla disciplina dell’imprenditore commerciale, intorno alla cui figura ruota l’intera normativa a riguardo. Il codice, in tal senso, tende a riflettere la realtà del Paese, in cui a primeggiare in tutti i settori economici sono nuovi organismi complessi fondati su capitale e lavoro, le “imprese”; è per questo motivo che l’imprenditore commerciale prende il posto del vecchio commerciante. La seconda innovazione del codice è rappresentata dal superamento della storica distinzione tra industria-commercio e agricoltura-artigianato: il legislatore non si limita a dettare una disciplina apposita per l’imprenditore commerciale, ma lo rende una species del più ampio genus degli “imprenditori”, di cui fanno parte anche le imprese agricole, artigiane e pubbliche. Accanto allo “statuto SPECIALE dell’imprenditore commerciale”, contenente le norme che regolano il registro delle imprese, le scritture contabili, la rappresentanza commerciale, il fallimento e le altre procedure concorsuali (questi ultimi disciplinati con legge speciale separata), ritroviamo anche lo “statuto GENERALE dell’imprenditore”, applicabile a tutte le forme d’impresa e riguardante la disciplina dell’azienda, dei segni distintivi e della concorrenza. Quindi, chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata allo scambio o alla produzione di beni o servizi è definibile come IMPRENDITORE, mentre se tale attività rientra tra quelle elencate all’interno dell’art.2195 c.c. siamo dinanzi ad un IMPRENDITORE COMMERCIALE. La terza innovazione del codice risiede nell’unificazione della disciplina di obbligazioni e contratti: se prima esistevano obbligazioni e atti civili e commerciali, adesso la disciplina è unitaria ed è contenuta tutta all’interno del Libro IV del codice; tra l’altro la materia delle obbligazioni viene completamente “commercializzata”, nel senso che tende ad avvicinarsi maggiormente alle vecchie obbligazioni commerciali e non a quelle civili. Il diritto commerciale, nonostante la presenza di un unico codice, resta pur sempre un diritto speciale, in quanto composto da norme applicabili solo a quei soggetti definibili come imprenditori e solo nello svolgimento della propria attività. Il diritto commerciale attuale. Prospettive Diversi sono stati i cambiamenti intervenuti dal ’42 a oggi, da un lato dovuti al mutamento del quadro politico- istituzionale, basti pensare alla caduta del regime fascista e alle innovazioni introdotte dalla Carta costituzionale, dall’altro dettati dal cambiamento del sistema economico, che ha visto dapprima un interventismo pubblico esasperato e in seguito una privatizzazione di imprese pubbliche disastrose. Molti aspetti del diritto commerciale, dunque, sono notevolmente cambiati col passare del tempo: anzitutto l’istituto della società per azioni, un tempo considerata come tipo unitario, dopo la L.216/1974 tende a differenziarsi tra società quotate e società non quotate, tra l’altro con l’introduzione del modello intermedio, a partire dal D.lgs. 6/2003, delle società non quotate che fanno comunque appello al mercato del capitale di rischio; sono stati introdotti nuovi organismi di raccolta e investimento collettivo del risparmio, quali le Sicav e i fondi comuni; anche le procedure concorsuali sono state riviste, con l’introduzione dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e la 3 soppressione dell’amministrazione controllata; è stata, infine, dettata un’apposita disciplina nazionale per la concorrenza. Pian piano, all’interno del nostro ordinamento, sono entrati nuovi istituti frutto della prassi commerciale, come il leasing, il factoring e il franchising, in seguito disciplinati anche dal legislatore ma comunque manifestanti l’autonomia del diritto commerciale come “diritto privato delle imprese”, da sempre tendente all’uniformità internazionale, il che è stato garantito anche dalla nascita dapprima delle tre Comunità e in seguito dell’Unione Europea, vera e propria organizzazione sovrannazionale con competenza esclusiva o concorrente in diversi settori. Diritto commerciale e diritto delle imprese Niente da segnalare. Piano dell’opera Il primo volume prende in considerazione le diverse figure di imprese e lo studio degli istituti che formano lo statuto generale dell’imprenditore e quello speciale dell’imprenditore commerciale, eccezion fatta per le procedure concorsuali trattate nel terzo volume, insieme ai contratti di impresa e ai titoli di credito. Il volume intermedio, ossia il secondo, tratta invece dei vari modelli di società presenti all’interno del nostro ordinamento, attuando una distinzione tra società di persone e società di capitali (le prime oggetto di Diritto commerciale 1, le seconde di Diritto commerciale 2). CAPITOLO PRIMO – L’IMPRENDITORE Il sistema legislativo. Imprenditore e imprenditore commerciale Abbiamo detto che una delle innovazioni più significative del codice del ’42 risiede nell’eliminazione del concetto di “atti di commercio”: tutto ruota, per quanto concerne la disciplina delle attività economiche, attorno alla figura dell’imprenditore, la cui definizione generale è contenuta all’interno dell’art.2082 c.c. Il codice civile distingue diversi tipi di imprenditori (e quindi di imprese) in base a tre criteri di selezione: “Imprenditore commerciale” (art.2195 c.c.) e “imprenditore agricolo” (art.2135 c.c.), prendendo in considerazione l’OGGETTO dell’impresa; “Piccolo imprenditore” (art.2083 c.c.) e “medio-grande imprenditore”, tenendo presente le DIMENSIONI dell’impresa; “Imprenditore individuale”, “società” e “impresa pubblica”, in base a quella che è la NATURA del soggetto esercente l’attività di impresa. I tre criteri discretivi, in realtà, servono cumulativamente a identificare una determinata impresa al fine di assoggettarla o meno a una specifica disciplina, quella dell’impresa commerciale. Abbiamo già anticipato, infatti, che il codice prevede uno statuto generale dell’imprenditore (figura generale), comprendente le norme sull’azienda, sui segni distintivi, sulla concorrenza e sui consorzi e uno statuto “speciale” dell’imprenditore commerciale (species del genus), inerente le norme 4 sull’iscrizione nel registro delle imprese, sulle scritture contabili, sulla rappresentanza commerciale, oltre che sul fallimento e sulle altre procedure concorsuali (disciplina, quest’ultima, contenuta in una legge apposita, il r.d.267/1942). Le poche norme riguardanti l’imprenditore agricolo, il piccolo imprenditore e la distinzione tra impresa individuale, società e impresa pubblica servono per lo più a ESCLUDERE tali imprese dall’applicazione, quantomeno integrale, dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale: l’impresa agricola e quella piccola, anche qualora sia commerciale, sono esonerate dalla tenuta delle scritture contabili e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali, così come lo erano inizialmente dall’iscrizione nel registro delle imprese, poi prevista seppur con una funzione diversa; anche gli enti pubblici commerciali sono sottratti all’applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale. Lo statuto speciale dell’imprenditore commerciale, dunque, può definirsi almeno in linea generale come “statuto dell’imprenditore privato (e non pubblico) commerciale (e non agricolo) medio-grande (e non piccolo)”. E’ doveroso, tuttavia, partire con la definizione di IMPRENDITORE contenuta nell’art.2082 del codice, in quanto l’imprenditore commerciale è prima di tutto un imprenditore. La nozione di imprenditore “E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”. E’ l’art.2082 del codice a fornire questa nozione di imprenditore, definizione giuridica molto simile a quella economica. Anche gli economisti definirebbero gli imprenditori nella medesima maniera, ma c’è una differenza sostanziale tra le due scienze in questione: quella economica analizza la funzione intermediaria e organizzativa dell’imprenditore, secondo cui quest’ultimo si trova a metà strada tra chi dispone dei fattori produttivi e chi domanda prodotti e servizi, motivo per cui dirige e organizza il processo produttivo, assumendo su di sé il rischio che i costi sopportati possano superare i ricavi (rischio di impresa) ed è legittimato, proprio per l’assunzione di tale rischio, a mirare al massimo guadagno, ossia a un’eccedenza dei ricavi rispetto ai costi (profitto). La scienza giuridica, invece, ha il compito di fissare i requisiti minimi necessari dell’imprenditore, utili per assoggettarlo a una determinata disciplina legislativa: in questa prospettiva possiamo capire che l’impresa è anzitutto ATTIVITA’, ossia insieme di atti coordinati unificati da una funzione unitaria, caratterizzata tra l’altro da uno specifico SCOPO, la produzione o lo scambio di beni o servizi, e posta in essere con particolari MODALITA’ DI SVOLGIMENTO, ossia l’organizzazione, l’economicità e la professionalità, tutte citate nell’art.2082 c.c. Oltre a ciò occorre analizzare se altri elementi non citati nell’articolo codicistico, quali lo scopo di lucro, la destinazione al mercato di beni e servizi e la liceità dell’attività svolta, siano o meno da considerarsi come “requisiti” dell’impresa (lo vedremo più avanti). Teniamo presente, inoltre, che quella dell’art.2082 è la definizione di imprenditore in campo privatistico, all’interno della disciplina commerciale facente parte, come abbiamo già detto, del diritto privato. Altri rami della scienza giuridica, basti pensare al diritto tributario o a quello comunitario, offrono dell’impresa una diversa definizione, a seconda dello scopo da raggiungere e degli interessi da 5 regolare, motivo per cui è necessario concludere che il termine impresa assume, all’interno del medesimo campo giuridico, diverse accezioni. L’attività produttiva Primo requisito che deve sussistere affinché si possa parlare di impresa è l’ATTIVITA’, ossia la serie di atti coordinati e finalizzati alla produzione o allo scambio di beni (cose che possono formare oggetto di diritti secondo quanto dispone l’art.810 del codice) o di servizi. Si deve trattare, in sostanza, di un’ATTIVITA’ PRODUTTIVA, volta cioè a produrre (direttamente) beni/servizi o a incrementarne l’utilità tramite lo scambio, lo spostamento nel tempo e nello spazio. Ovviamente affinché un’attività possa definirsi come produttiva appare del tutto irrilevante la “natura” dei beni e servizi prodotti o scambiati, in quanto essenziale è soltanto l’esistenza degli altri requisiti di cui all’art.2082 c.c. Anche l’attività di godimento di beni o di un patrimonio può essere attività produttiva: non lo è sicuramente nel momento in cui si tratta di un’attività di MERO godimento (pensiamo al proprietario di un immobile che lo cede in locazione), in quanto in tal caso non vi è la “produzione” di nuovi beni o servizi, che invece sussiste in altri casi di attività di godimento (pensiamo al proprietario che trasforma il proprio edificio in un albergo, offrendo servizi supplementari, oppure al proprietario del fondo che lo coltiva per venderne i prodotti agricoli). Addirittura il contrasto tra attività produttiva e attività di godimento non sussiste neanche nell’ipotesi di amministrazione del proprio patrimonio, qualora quest’ultima comporti “produzione”, intesa come circolazione di beni e denaro (basti pensare all’attività finanziaria o di investimento). L’organizzazione Il secondo requisito essenziale dell’imprenditore consiste nell’ORGANIZZAZIONE dell’attività produttiva posta in essere: si deve trattare, come abbiamo visto, di una serie di atti finalizzati alla produzione o allo scambio di beni e servizi, ma essi devono essere tutti PROGRAMMATI dall’imprenditore. Occorre, dunque, che l’imprenditore impieghi in maniera COORDINATA i fattori produttivi “capitale” e “lavoro”, propri o altrui non importa. Solitamente ciò avviene attraverso la creazione di un apparato produttivo stabile, formato da persone e beni strumentali (locali, macchinari ecc.); inoltre lo stesso imprenditore esercita il proprio potere di direzione, controllo e disciplinare sui propri dipendenti e organizza quel complesso di beni necessari per l’esercizio della propria attività e che prende il nome di azienda. Questo è tutto ciò che avviene normalmente nelle imprese e che manifesta l’organizzazione dell’attività produttiva da parte dell’imprenditore. Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui tutto ciò manchi si può avere organizzazione: basti pensare all’imprenditore che sfrutta soltanto il capitale (proprio o altrui) e il PROPRIO lavoro, senza avvalersi di dipendenti e collaboratori, o al caso in cui manchi del tutto un complesso aziendale materialmente percepibile, magari perché l’imprenditore gestisce soltanto il capitale finanziario (proprio o altrui) come fattore produttivo per porre in essere un’attività di investimento. 6 Possiamo concludere, riducendo il tutto ai minimi termini, dicendo che si ha ugualmente ORGANIZZAZIONE dell’attività produttiva anche quando mancano lavoro altrui e azienda, ma persiste l’etero-organizzazione dei fattori produttivi capitale e lavoro. Segue: Impresa e lavoro autonomo Etero-organizzazione significa “coordinamento di diversi fattori” e ciò appare indispensabile affinché, nel nostro ordinamento, si possa parlare di attività produttiva ORGANIZZATA. Ecco, dunque, che emerge la distinzione tra lavoratori autonomi (prestatori autonomi d’opera manuale, come gli idraulici, o di servizi, come gli agenti di commercio) e imprenditori. Anche il lavoratore autonomo gestisce il proprio lavoro, adoperando gli strumenti necessari, sia quelli che possono tornare utili per qualsiasi attività lavorativa (come il telefono o l’automobile), sia quelli indispensabili per lo svolgimento della propria (come la borsa degli attrezzi), ma in questa ipotesi è di AUTO-organizzazione che stiamo parlando, perché il soggetto organizza semplicemente il PROPRIO lavoro, senza coordinare quello di altri individui o gestire altri fattori produttivi come il capitale. L’imprenditore, invece, organizza una serie di elementi che, in connessione tra loro, permettono l’esercizio di un’attività economica finalizzata alla scambio o alla produzione di beni e servizi: egli non si limita a organizzare il proprio lavoro, ma gestisce quello degli altri, decide dove investire per ampliare o mantenere la propria attività, si occupa dell’azienda. L’art.2083 c.c. dispone che per “piccolo imprenditore” si debba intendere anche “colui che esercita un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”, ma è di PREVALENZA del lavor o proprio che si parla e non di ESCLUSIVITA’ di tale fattore: quel “prevalentemente” contenuto all’interno del dettato codicistico manifesta l’esistenza di altri elementi di secondaria importanza, ma pur sempre presenti. In conclusione di imprenditore si può parlare nel momento in cui viene superata la soglia dell’auto- organizzazione del proprio lavoro, perché al di sotto della stessa siamo dinanzi ad un lavoratore autonomo. Economicità dell’attività Un altro requisito dell’impresa, contenuto all’interno dell’art.2082 c.c., è l’ECONOMICITA’: sebbene una parte della dottrina creda che “attività economica” e “attività produttiva” siano espressioni indicanti la medesima cosa, il requisito dell’economicità è elencato separatamente all’interno del dettato legislativo e pertanto gode di una propria autonomia. Sebbene l’attività economica debba avere un fine produttivo, quindi volto alla produzione o allo scambio di beni e servizi, è altrettanto vero che determinante è il metodo con cui tale attività viene svolta: il METODO ECONOMICO. Un’attività produttiva può dirsi condotta con metodo economico quando mira al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi utilizzati, motivo per cui non è configurabile come imprenditore chiunque eroghi beni o servii gratuitamente, così come chi gestisce attività a prezzo simbolico: in questi casi, infatti, è evidente che i costi non verranno coperti in alcun modo dai ricavi e 7 pertanto si può parlare di attività produttiva, ma svolta SENZA metodo economico, escludendo di fatto l’esistenza di un imprenditore. La professionalità L’ultimo requisito affinché si possa parlare di impresa è quello della PROFESSIONALITA’: l’attività produttiva si può configurare come imprenditoriale nel momento in cui l’esercizio della stessa appare “professionale”, ossia ABITUALE e NON OCCASIONALE. Pertanto non si può parlare di impresa nel momento in cui viene compiuta una singola operazione di compravendita, così come non si ha impresa nell’ipotesi di atti economici coordinati (attività) quando è evidente che si tratti di attività sporadica (organizzazione di una singola manifestazione). Occorre sottolineare che la professionalità non comporta né l’unicità/esclusività dell’attività svolta, né tanto meno la continuità della stessa: anche il professore o l’impiegato che gestiscono un albergo contemporaneamente alla propria attività di lavoro dipendente sono configurabili come imprenditori; stessa cosa per quanto concerne le attività stagionali, come gli stabilimenti balneari. Abbiamo appena precisato che occorre un’attività abituale e non occasionale. Questo non significa, però, che essa manchi del tutto nello svolgimento di un UNICO AFFARE: se vi è una serie di atti economici coordinati e un apparato produttivo tale da escludere il carattere occasionale dell’attività produttiva, allora si può parlare di impresa (è l’ipotesi della realizzazione, da parte di un costruttore, di un singolo edificio). Attività di impresa e scopo di lucro Esaurita la trattazione dei requisiti tipici dell’imprenditore (attività produttiva, organizzazione, professionalità ed economicità), in quanto citati all’interno della definizione codicistica, occorre prendere in considerazione quelli che una parte della dottrina ritiene essere altri elementi necessari, sebbene l’art.2082 c.c. non faccia alcun riferimento agli stessi. Partiamo con lo “scopo di lucro”, ritenuto da alcuni studiosi come essenziale per qualsivoglia impresa: ovviamente qualsiasi imprenditore tende a realizzare il maggior profitto grazie alla propria attività, ma una cosa è parlare di ciò che normalmente avviene, altro è individuare un requisito senza il quale non si potrebbe parlare di impresa. Abbiamo avuto modo di vedere come l’imprenditore debba svolgere l’attività produttiva con metodo economico, ossia con quel particolare metodo che mira quantomeno al pareggio tra costi e ricavi; il metodo lucrativo, invece, prevede la tendenza alla realizzazione di ricavi eccedenti i costi (lucro oggettivo), da dividere tra i soci in presenza di un contratto di società (lucro soggettivo). Secondo l’autore Campobasso è da escludere che lo scopo di lucro sia presupposto dell’impresa: gli elementi distintivi dell’imprenditore, infatti, debbono potersi applicare a tutte le imprese e noi sappiamo che le imprese pubbliche non devono mirare alla realizzazione di un profitto, né necessariamente né di regola; potremmo osservare, inoltre, che le società mirano al lucro oggettivo e soggettivo, ma che tra le stesse figurano le cooperative, che perseguono uno scopo mutualistico che nulla ha a che vedere con la realizzazione di ricavi eccedenti i costi; infine si potrebbe citare l’impresa 8 sociale di cui al D.lgs.155/2006, cui è fatto esplicito divieto di distribuzione degli utili, sebbene sia prevista l’attività d’impresa. Volendo concludere, possiamo affermare con certezza che non potendo essere classificato come presupposto di tutte le imprese, ma solo di talune di esse, lo scopo di lucro non sia in alcun modo da annoverarsi tra i requisiti dell’impresa. Anche in assenza dello stesso, pertanto, si applica la disciplina legislativa a riguardo. Il problema dell’impresa per conto proprio Un altro elemento che dovrebbe essere considerato, secondo parte della dottrina, come un requisito essenziale affinché si possa parlare di impresa, benché non citato all’interno dell’art.2082, è la DESTINAZIONE AL MERCATO DI BENI E SERVIZI PRODOTTI: abbiamo già avuto modo di vedere come la nozione giuridica e quella economica di imprenditore coincidano e di come la seconda scienza guardi a quest’ultimo come un intermediario tra chi possiede i fattori produttivi e chi consuma. Secondo questo ragionamento sarebbe impossibile parlare di imprenditore in assenza di un rapporto con terzi, ossia di una mancata destinazione al mercato di beni e servizi prodotti, dinanzi a quella che viene solitamente definita come IMPRESA PER CONTO PROPRIO. Partiamo col dire che non sempre si può parlare di impresa per conto proprio solo perché manca il rapporto con terzi: la cooperativa che produce esclusivamente per i propri soci, ad esempio quella edilizia, fa si che gli stessi fruiscano di beni generati dalla società in forza di un rapporto di scambio interno alla cooperativa stessa e pertanto non si è in presenza di un’impresa per conto proprio; stessa cosa per quanto riguarda gli enti pubblici che producono beni e servizi che, dietro corrispettivo, vengono forniti esclusivamente all’ente di pertinenza, perché vi è uno scambio tra strutture del medesimo ente pubblico. Al massimo, come impresa per conto proprio, potremo considerare la “coltivazione diretta del fondo mirata al soddisfacimento dei bisogni dell’agricoltore e della propria famiglia” e la costruzione di appartamenti NON destinati alla rivendita (costruzione in economica): qui manca totalmente la destinazione al mercato di beni prodotti, ma questo non significa che non si possa parlare di impresa: la verità è che tale destinazione non può in alcun modo configurarsi come un requisito dell’imprenditore, in quanto da un lato vi è la destinazione POTENZIALE (l’agricoltore, per esempio, potrebbe in qualsiasi momento decidere di alienare a terzi i propri prodotti) e dall’altro è impossibile indagare ab origine quelle che sono le intenzioni di un soggetto senza poterlo definire, da subito, come imprenditore (è impossibile sospendere l’applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale nei confronti del costruttore in economia, aspettando il momento in cui egli deciderà di vendere l’immobile o di tenerlo per se). La verità è che nei due casi di impresa per conto proprio che abbiamo citato ricorrono ugualmente tutti i requisiti di cui all’art.2082 c.c. e pertanto dovremo parlare di imprenditori in tutto e per tutto, dando luogo all’applicazione dell’apposita disciplina. Il problema dell’impresa illecita Ultimo elemento da analizzare tra i tre non citati nell’art.2082 ma considerati da parte della dottrina necessari per parlare di impresa è la LICEITA’ dell’attività svolta. 9 Partiamo col dire che per impresa illecita si intende quella esercente un’attività in contrasto con norme imperative di legge, col buon costume o con l’ordine pubblico: basti pensare al contrabbando di droga, allo sfruttamento della prostituzione o anche allo svolgimento di vendita al dettaglio senza licenza amministrativa o all’esercizio di attività bancaria di fatto, ossia non autorizzata dalla Banca d’Italia. La domanda che dobbiamo porci è la seguente: l’illiceità dell’attività preclude l’esistenza dell’impresa? E’ ovvio capire che l’illecito, di qualsivoglia tipo, andrà sempre represso e sanzionato, oltre che non tutelato in alcun modo; sotto un diverso profilo, però, è utile osservare come l’impresa ILLEGALE, ossia quella che opera senza le autorizzazioni e le concessioni richieste dalla legge, così come l’impresa IMMORALE, quella in cui illecito è lo stesso oggetto dell’attività, sono portate a stringere accordi, a stipulare contratti e a intrattenere rapporti con terzi ignari di tali violazioni di legge e che pertanto il legislatore non può ignorare o evitare di tutelare. Quindi anche l’impresa illecita, qualora rispetti i requisiti tipici di cui all’art.2082 del codice, si configurerà come impresa a tutti gli effetti: la liceità dell’attività svolta, dunque, NON è in alcun modo requisito dell’impresa. Una parte della dottrina temeva che assicurando la qualità di imprenditore al contrabbandiere di droga o a chi sfrutta la prostituzione si potesse applicare anche una disciplina di favore nei confronti di questi soggetti, oltre che apprestare una tutela verso i terzi ignari dell’illecito: così non è, in quanto l’autore dell’illecito non riceverà alcuna protezione in merito alla disciplina della concorrenza o dell’azienda o dei segni distintivi. Vige la regola della “non invocabilità della qualificazione per la non invocabilità del proprio illecito”: chi ha svolto attività d’impresa illecita sarà soggetto alla disciplina dell’impresa, ma non riceverà tutela di alcun tipo. E questo anche nell’ipotesi in cui l’attività sia lecita ma miri comunque alla realizzazione di un disegno criminoso, come il riciclaggio di denaro sporco (pensiamo all’impresa mafiosa). Impresa e professioni intellettuali Durante tutta la trattazione di questo primo capitolo abbiamo avuto modo di vedere come si possa parlare di imprenditore SOLO in presenza dei requisiti dettati dall’art.2082 c.c. (esercizio professionale di attività economica finalizzata allo scambio o alla produzione di beni e servizi) e di come l’assenza di altri elementi (scopo di lucro, destinazione al mercato di beni e servizi, liceità dell’attività svolta) non determini l’esclusione della qualità di imprenditore. Tuttavia, è lo stesso legislatore a prevedere un singolo caso in cui la disciplina dell’impresa non si applica, benché possano sussisterne i requisiti: stiamo parlando delle PROFESSIONI INTELLETTUALI. Esse non vanno considerate come esercizio di attività di impresa per “libera opzione del legislatore”, neanche nell’ipotesi in cui ricorrano tutti gli elementi dell’art.2082 c.c. e neanche nel caso in cui il professionista si avvalga di una schiera di collaboratori e/o di un complesso di beni strumentali alla propria attività. La medesima regola vale per gli artisti e gli inventori. L’art.2238 comma 1 del codice, infatti, prevede che la disciplina dell’impresa vada applicata ai professionisti intellettuali “SOLO se l’esercizio della professione diventa elemento di un’attività organizzata in forma di impresa”: la professione, in questo caso, diviene particella di una più ampia attività, quella imprenditoriale e a tal proposito basti pensare al medico che esercita nella propria clinica, al professore che insegna nella propria scuola privata o al cantante che organizza i propri 10 concerti. In tutti questi esempi si applica sia la disciplina dettata dal codice per l’imprenditore, sia quella per la specifica professione intellettuale. E’ lo stesso art.2238, al comma 2, a prevedere che l’impiego di ausiliari o sostituti comporti semplicemente, per il professionista intellettuale, l’assoggettamento alla disciplina del lavoro nell’impresa, ma non a tutto il resto: ciò significa che il professionista non sarà soggetto in alcun modo a fallimento, ma non potrà d’altro canto beneficiare della disciplina dell’azienda o dei segni distintivi. Un’ultima precisazione è doverosa: si è in presenza di professione intellettuale nel momento in cui lo svolgimento della stessa si può evincere dai servizi prestati e non dalla sola etichetta legislativa dettata dall’iscrizione a un albo: il farmacista, per esempio, è un imprenditore commerciale benché figuri tra i professionisti intellettuali, in quanto la sua attività prevalente è quella di intermediario tra case farmaceutiche che realizzano i farmaci e clienti che ne necessitano e pertanto li acquistano, non quella di fornire consulenze circa la salute dei suoi clienti. CAPITOLO SECONDO – LE CATEGORIE DI IMPRENDITORI A. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE Il ruolo della distinzione Abbiamo già detto che gli imprenditori possono essere distinti in base a tre criteri ed è opportuno adesso approfondire le diverse definizioni. Il primo criterio discretivo che prendiamo in considerazione riguarda l’OGGETTO dell’impresa: in base ad esso ritroviamo all’interno del codice la distinzione tra imprenditore COMMERCIALE (art.2195 c.c.), al quale si applica uno “statuto speciale” contenente le norme sull’iscrizione nel registro delle imprese con la funzione di pubblicità legale, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili e l’assoggettamento alle procedure concorsuali, e imprenditore AGRICOLO (art.2135 c.c.), soggetto solo allo “statuto generale dell’impresa”. Ciò significa che l’individuazione dell’imprenditore agricolo serve soltanto a escluderlo dalla disciplina dell’impresa commerciale e a restringere il campo di applicazione delle norme su di essa: l’imprenditore agricolo, infatti, è esonerato dalla tenuta delle scritture contabili (art.2214 c.c.) e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali (art.2221 c.c.), così come lo era inizialmente dall’iscrizione nel registro delle imprese, poi prevista a partire dalla l.580/1993 con la sola funzione di pubblicità notizia e successivamente anche con funzione di pubblicità legale grazie al D.lgs.228/2001, che ha anche modificato l’originaria nozione di imprenditore agricolo. Una parte della dottrina ritiene, inoltre, che accanto all’imprenditore agricolo e a quello commerciale, sempre in base all’oggetto dell’impresa, dovrebbe figurare l’imprenditore CIVILE, non rientrante in nessuna delle due categorie suddette, soggetto solo allo statuto generale dell’imprenditore. L’imprenditore agricolo. Le attività agricole essenziali. 11 La definizione di imprenditore agricolo la troviamo all’interno dell’art.2135 del codice, ma è stato il D.lgs.228/2001, come già anticipato, a modificarla rispetto al testo originario, il quale aveva creato non pochi dubbi in merito alla distinzione tra attività agricole e attività ritenibili come commerciali. Spieghiamoci meglio. Il testo originario recitava: “E’ imprenditore agricolo chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla selvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura”. Questa definizione poteva ritenersi adeguata nel 1942, ma con l’evolversi dell’agricoltura “industrializzata e meccanizzata” e col progresso tecnologico che ha portato ad avere prodotti agricoli tramite coltivazioni “artificiali o fuori terra”, oltre ad “allevamenti in batteria” (condotti in capannoni industriali e con mangimi chimici), è diventato particolarmente difficile capire se per “impresa agricola” dovesse intendersi quella volta alla produzione di specie vegetali o animali, indipendentemente dalle modalità, oppure quella comportante lo “sfruttamento della terra e delle sue risorse”, ritenendo pertanto commerciali gli imprenditori produttori di specie vegetali o animali in modo svincolato dal fondo agricolo. E’ per questo motivo che nel 2001 il legislatore ha rivisto la nozione di imprenditore agricolo: “È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano a oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione e ospitalità come definite dalla legge.” Come possiamo notare la nuova nozione mantiene la distinzione tra ATTIVITA’ AGRICOLE ESSENZIALI e ATTIVITA’ AGRICOLE PER CONNESSIONE, ma si spinge oltre, in quanto specifica cosa debba intendersi per attività agricole essenziali, eliminando qualsiasi dubbio a riguardo: è sufficiente la produzione di specie vegetali e animali, indipendentemente dal legame reale con il fondo agricolo. Anche la coltivazione in serra o in vivaio, la floricoltura e l’orticoltura, l’allevamento in batteria e quello di animali da corsa o da pelliccia, persino la cinotecnica (volta all’allevamento e alla selezione di razze canine), sono da considerarsi come attività agricole. All’imprenditore agricolo, infine, è stato equiparato in tutto e per tutto quello “ittico”, ossia quello che pone in essere un’attività di pesca professionale. 12 Segue: Le attività agricole per connessione Abbiamo anticipato che imprenditore agricolo non è solo chi pone in essere un’attività agricola essenziale tra quelle elencate dal comma 1 dell’art.2135 c.c., ma anche chi da luogo a un’attività agricola PER CONNESSIONE, la cui definizione è mutata in forza del D.lgs.228/2001. Andavano intese come attività agricole per connessione, nel testo originario del codice, tutte le “attività dirette alla trasformazione o all’alienazione di prodotti agricoli se rientranti nell’esercizio normale dell’agricoltura”. Oggi, invece, il comma 3 dell’art.2135 c.c. ritiene che si debbano reputare come attività agricole per connessione quelle “dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti PREVALENTEMENTE da una delle attività agricole essenziali (coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali) ovvero quelle dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione PREVALENTE di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata”. Quindi, affinché si possa parlare di attività agricola per connessione occorre: Che a esercitarla sia un imprenditore agricolo e che ci sia COERENZA tra l’attività agricola essenziale e quella per connessione (CONNESSIONE SOGGETTIVA): è imprenditore agricolo, per esempio, il viticoltore che produce vino, perché esiste un legame tra la produzione di uva e quella vino; al contrario, non è ritenibile come attività agricola per connessione la produzione di formaggio da parte del viticoltore, perché manca una connessione tra l’attività essenziale, la produzione di uva, e quella che dovrebbe configurarsi come “connessa”, ossia la produzione di formaggio. In tal caso il soggetto viene ritenuto come imprenditore agricolo per la prima attività e come imprenditore commerciale per la seconda. Fanno eccezione le cooperative e i consorzi di imprenditori agricoli, i quali sfruttando i rapporti di scambio interni producono beni differenti dall’attività agricola essenziale: essi sono da ritenersi ugualmente come imprenditori “agricoli”; Che vi sia una connessione non solo tra il soggetto esercente e l’attività in questione, ma anche tra le due attività che egli esercita (CONNESSIONE OGGETTIVA). Il criterio adoperato è quello della PREVALENZA: l’attività connessa deve sfruttare prodotti provenienti per lo più dall’attività agricola essenziale o beni e servizi forniti maggiormente grazie all’utilizzazione di attrezzature o risorse dell’azienda agricola. In poche parole, l’attività agricola essenziale deve essere PREPONDERANTE (prevalere) rispetto quella secondaria/per connessione. L’imprenditore commerciale E’ IMPRENDITORE COMMERCIALE secondo l’art.2195 c.c. colui che esercita una delle seguenti attività: 1. Attività INDUSTRIALE diretta alla produzione di beni o servizi (settore INDUSTRIALE); 2. Attività INTERMEDIARIA nella circolazione dei beni (settore del COMMERCIO); 3. Attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4. Attività bancaria o assicurativa; 5. Altre attività AUSILIARIE delle precedenti. 13 Se analizziamo bene l’articolo menzionato, possiamo renderci conto di come la definizione delle attività ritenibili come giuridicamente commerciali sia contenuta all’interno dei primi due numeri: l’attività industriale realizza quella “produzione di beni di beni e servizi” di cui si parla all’interno dell’art.2082 c.c. inerente la definizione di imprenditore; l’attività intermediaria realizza, altresì, quello “scambio di beni e servizi” previsto sempre nello stesso articolo. Praticamente è sufficiente realizzare lo SCOPO dell’impresa affinché si possa parlare di imprenditore commerciale, eliminando ovviamente i casi in cui si tratta di impresa agricola. Nei numeri 3 e 4 dell’art.2195, invece, vengono semplicemente citate “l’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria”, la quale non è altro che un’attività produttiva di servizi e pertanto inglobata all’interno del numero 1 dell’articolo, e “l’attività bancaria o assicurativa”, l’una definibile come attività di intermediazione nella circolazione del denaro e pertanto rientrante nel numero 2 dell’art.2195 e l’altra (quella assicurativa) ritenibile come produttiva di un servizio e quindi abbracciata dal numero 1. Il numero 5, infine, prevede che siano attività commerciali anche quelle AUSILIARIE alle altre attività commerciali di produzione o scambio (ossia a quelle industriali o intermediarie). E’ su due termini, però, che dobbiamo porre l’attenzione per comprendere bene le imprese giuridicamente commerciali: gli aggettivi “INDUSTRIALE” e “INTERMEDIARIA”, anche perché è solo grazie a questi che possiamo capire se vi è spazio, nel nostro ordinamento, per le imprese civili cui abbiamo accennato all’inizio del capitolo. Il problema dell’impresa civile Le imprese CIVILI dovrebbero essere, secondo coloro che ne suppongono l’esistenza, delle imprese non qualificabili né come agricole, perché non inquadrabili all’interno dell’art.2135 c.c., né commerciali, in quanto non rientranti in una delle caselle di cui all’art.2195 c.c. Il dibattito dottrinale inerente l’esistenza delle imprese civili, dunque, ruota tutto attorno alle definizioni di “attività INDUSTRIALE” e “attività INTERMEDIARIA”: chi ne ammette l’esistenza, infatti, sostiene che per attività industriale dovrebbe intendersi qualsiasi attività di “trasformazione di materie prime, grazie all’opera dell’uomo, in nuovi beni” e che sarebbe da ritenersi come attività intermediaria “SOLO quella comportante l’acquisto e la successiva vendita di beni”, non quella riguardante la vendita di beni propri. Secondo questa tesi, quindi, andrebbe preso in considerazione il significato tecnico dell’aggettivo “industriale”, motivo per cui non sarebbero imprese commerciali, ma civili, quelle minerarie, data la mancanza della successiva trasformazione, e quelle produttive di servizi, data l’assenza di materie prime; allo stesso modo, attività intermediaria e attività di scambio non dovrebbero intendersi come sinonimi e pertanto le imprese finanziarie che erogano credito con mezzi propri dovrebbero ritenersi come imprese civili. La dottrina prevalente, però, non abbraccia in alcun modo questa tesi ed esclude l’esistenza delle imprese civili: il legislatore ha utilizzato l’aggettivo industriale per identificare tutte quelle attività NON agricole, così come ha utilizzato la definizione di “attività intermediaria” come equivalente di “attività di scambio”. Le definizioni contenute nell’articolo 2195, dunque, non vanno in alcun modo 14 sopravvalutate o smisuratamente interpretate, in quanto volte ad accentuare la sola bipartizione che il codice conosce, quella tra imprese commerciali e imprese agricole. B. PICCOLO IMPRENDIOTORE. IMPRESA FAMILIARE. Il secondo criterio che adoperiamo per attuare una differenziazione di disciplina tra imprenditori è quello riguardante le DIMENSIONI dell’impresa e in tal senso occorre attuare una distinzione tra PICCOLO IMPRENDITORE e medio- grande impresa. Anche la disciplina dettata dal codice per il piccolo imprenditore, al pari di quella dell’impresa agricola, non serve ad altro che a restringere il campo di applicazione dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale: la piccola impresa, infatti, non è soggetta a procedure concorsuali (art.2221) ed è esonerata dalla tenuta di scritture contabili (art.2214 comma 3), mentre è prevista l’iscrizione nel registro delle imprese ma con la sola funzione di pubblicità notizia. E tutto ciò anche se si tratta di impresa commerciale. Una definizione diversa di piccolo imprenditore, però, è stata per lungo tempo contenuta all’interno della legge fallimentare, il che ha dato luogo a notevoli difficoltà nell’individuazione delle piccole imprese. Il problema è stato risolto solo ultimamente, ma è opportuno comunque analizzare le diverse discipline. Il piccolo imprenditore nel codice civile L’art.2083 del codice, che ci fornisce la definizione di piccolo imprenditore, recita: “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Sebbene da una prima lettura l’articolo sembrerebbe individuare tre tipologie di piccoli imprenditori (coltivatori diretti, artigiani e piccoli commercianti), per poi inserire una categoria residuale, ossia quella di tutti gli altri imprenditori esercenti un’attività caratterizzata dalla prevalenza del lavoro proprio o di quello dei familiari, la situazione non è realmente così: la prevalenza del fattore lavoro (proprio o della famiglia) rispetto agli altri fattori produttivi, ossia il lavoro altrui e il capitale (proprio o altrui), è determinante affinché si possa parlare di piccolo imprenditore, in tutti i casi, anche in quelli espressamente citati. Tale non è, per esempio, il gioielliere che investe ingenti capitali nell’impresa, in quanto il fattore capitale, anche se proprio, è evidentemente preponderante rispetto al suo lavoro. Occorre, dunque, sottolineare il concetto di PREVALENZA sotto il profilo qualitativo-funzionale e leggere l’articolo come se recitasse: “La prevalenza del lavoro proprio o familiare costituisce carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori”. Il piccolo imprenditore nella legge fallimentare Oltre alla definizione contenuta all’interno dell’art.2083 del codice, un’altra nozione di piccolo imprenditore era un tempo contenuta all’interno della legge fallimentare, il cui art.1 comma 2 recitava: “Sono considerati piccoli imprenditori quelli esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, 15 sono considerati piccoli imprenditori quelli esercenti un’attività commerciale nella cui azienda è stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila”. La stessa norma prevedeva l’impossibilità di considerare piccoli imprenditori le società commerciali, pertanto sempre soggette al fallimento. I parametri presi in considerazione nella legge fallimentare, in sostanza, erano solo e solamente monetari (reddito di ricchezza mobile accertato o, in mancanza, capitale investito), del tutto diversi da quello di “prevalenza del lavoro familiare” fissato dal codice, motivo per cui si rischiava di riconoscere un imprenditore come “piccolo” seguendo il dettato codicistico per poi escluderne tale dimensione e assoggettarlo al fallimento in forza del r.d.267/1942, semplicemente perché titolare di un reddito superiore a 480.000 lire, che era il minimo imponibile nel 1973. Nel ’74, tra l’altro, l’imposto di ricchezza mobile venne sostituita dall’Irpef, rendendo tale criterio non più applicabile e lasciando in piedi solo quello inerente il capitale investito, poi a sua volta dichiarato incostituzionale nel ’89, in quanto divenuto ridicolo a causa della svalutazione monetaria, oltre che inutile per fare una distinzione tra imprenditori soggetti al fallimento o meno. Venuti meno entrambi i criteri della legge fallimentare, però, non si poteva far dipendere l’assoggettamento al fallimento dal solo requisito codicistico dei piccoli imprenditori (quello della prevalenza del lavoro proprio o familiare), in quanto troppo sfuggente. Ecco perché la riforma del diritto fallimentare del 2006 e il decreto correttivo del 2007 hanno rivisto l’art.1 comma 2 del r.d.267, introducendo nuovi parametri per l’assoggettamento al fallimento MA evitando di dare una nuova definizione di piccolo imprenditore. In forza dell’odierna disciplina NON è soggetto al fallimento: Chi ha avuto nei tre esercizi precedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo INFERIORE a euro trecentomila; Chi ha realizzato, nei tre esercizi precedenti (o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore), ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo INFERIORE a euro duecentomila; Chi possiede un ammontare di debiti, anche non scaduti, INFERIORE a euro cinquecentomila. Il superamento di uno dei limiti suddetti espone automaticamente al fallimento e l’onere della prova, ossia di dimostrare il possesso congiunto dei tre requisiti, grava sul debitore. Anche le società commerciali, un tempo escluse dall’applicazione di tale disciplina, possono ottenere oggi l’esonero dal fallimento, ammesso che rispettino anche esse tali limiti. L’impresa artigiana Il nostro legislatore, al fine di agevolare lo sviluppo dell’agricoltura e dell’artigianato, è più volte intervenuto nel corso del tempo in materia tributaria, creditizia, lavoristica, proprio per tutelare le piccole imprese e spingerle verso la crescita. Tutte le leggi speciali a riguardo, però, non hanno in alcun modo intaccato il concetto civilistico di piccolo imprenditore, utile per l’esonero dall’applicazione dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale, né tanto meno sono entrate in contrasto con la disciplina della legge fallimentare. Una sola eccezione si è avuta, per lungo tempo, in materia di IMPRESA ARTIGIANA. La legge sull’artigianato n°860 del 1956 prevedeva, infatti, che l’impresa rispondente ai “requisiti fondamentali” 16 nella stessa fissati fosse da ritenersi artigiana “A TUTTI GLI EFFETTI DI LEGGE” (art.1 comma 1) e pertanto anche in materia civilistica e fallimentare. La nozione speciale, dunque, non andava ad affiancare quella generale per agevolare l’artigianato in un determinato settore giuridico, ma sostituiva del tutto quella contenuta all’interno dell’art.2083 e quella del r.d.267/1942. La legge 860, infatti, dopo aver sottolineato il carattere “artistico o usuale” dei beni/servizi prodotti e il rispetto di alcuni limiti per il personale dipendente, riteneva l’impresa SEMPRE artigiana e pertanto sottratta al fallimento, anche nell’ipotesi in cui capitali e lavoro altrui fossero preponderanti rispetto al lavoro dell’imprenditore. Inoltre le SOCIETA’ ARTIGIANE, purché cooperative o in nome collettivo, composte da una maggioranza di soci lavoratori e all’ulteriore condizione che il lavoro fosse prevalente rispetto al capitale, erano da considerarsi SEMPRE come artigiane, sfuggendo in qualsiasi ipotesi al fallimento. La situazione ha creato problemi per lungo tempo fino a che la l.860 è stata sostituita dalla l.443/1985, la quale non solo ha fornito una nuova definizione di imprenditore artigiano, ma si è limitata a fungere da legge speciale, valevole solo per agevolare lo sviluppo dell’artigianato e in alcun modo applicabile ai fini civilistici o fallimentari. In sostanza, la nuova definizione di imprenditore non vale “a tutti gli effetti di legge”. La nuova definizione di impresa artigiana non prende in alcun modo in considerazione il carattere usuale o artistico dei beni e servizi prodotti, ma semplicemente l’OGGETTO dell’impresa, che consiste nella produzione di beni e nella prestazione di servizi, escluse le attività agricole e i servizi commerciali di intermediazione, e nel RUOLO dell’artigiano, il quale deve svolgere il proprio lavoro nel processo produttivo, sebbene NON in misura prevalente rispetto agli altri fattori (capitale e lavoro altrui). Permane il limite al numero massimo di dipendenti e la necessità che essi siano diretti dall’artigiano, il quale può essere titolare di una sola impresa artigiana. La qualifica artigiana spetta anche alle società cooperative o in nome collettivo in cui la maggioranza dei soci svolge il proprio lavoro e in cui il lavoro ha funzione prevalente rispetto al capitale (“il lavoro in genere e non quello dei soci”, sottolinea il Campobasso).Tale qualifica è stata estesa anche alle s.r.l. unipersonali e alle s.a.s., purché siano rispettati i requisiti dell’imprenditore artigiano da parte del socio unico e dei soci accomandatari, i quali non devono essere contemporaneamente soci di altri s.r.l. o s.a.s. Stessa qualifica spetta alle s.r.l. pluripersonali nel caso in cui la maggioranza dei soci svolga il proprio lavoro nel processo produttivo e detenga la maggioranza del capitale del capitale sociale. Ribadiamo il punto essenziale della nuova legge-quadro sull’artigianato: essa non detta una definizione valevole a tutti gli effetti di legge, ma solo dei principi direttivi ai quali le regioni devono attenersi per emanare la normativa di dettaglio. Questo significa che essere “artigiano” per l’imprenditore non equivale a essere un piccolo imprenditore, il che spiega perché possa essere assoggettato allo statuto speciale dell’impresa commerciale; stessa cosa per il fallimento, l’assoggettamento al quale dipende da limiti dimensionali di cui all’art.1 comma 2 della legge fallimentare. L’impresa familiare La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha avuto il merito, tra le tante innovazioni, di introdurre all’interno del codice l’art.230-bis, il quale disciplina la cosiddetta IMPRESA FAMILIARE, ossia quella 17 particolare impresa in cui i familiari dell’imprenditore lavorano continuativamente, senza intrattenere con lo stesso alcun rapporto di lavoro subordinato o di collaborazione autonoma. I familiari che ne possono far parte sono i parenti entro il terzo grado (fino ai nipoti) e gli affini entro il secondo (fino ai cognati), praticamente la famiglia “nucleare” (una gran parte della dottrina è propensa a includere anche il convivente more uxorio). Chiariamo da subito che l’intervento del legislatore del ’75 non è in alcun modo connesso alla nozione di piccolo imprenditore: l’’impresa familiare può essere anche medio-grande, così come la piccola impresa non è detto che sia familiare. La riforma ha voluto semplicemente tutelare tutti quei soggetti che prestano le proprie energie lavorative, in maniera continuativa, all’interno dell’impresa di famiglia e che un tempo non erano in alcun modo protetti, in quanto le prestazioni in questione venivano considerate come eseguite a titolo gratuito. Oggi, invece, i familiari hanno diritti di tipo patrimoniale e diritti amministrativi: sotto il primo profilo spetta il diritto al mantenimento, alla partecipazione agli utili conseguiti con il proprio lavoro, il diritto sui beni acquistati con tali utili, in proporzione sempre al lavoro prestato, e il diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento della stessa, oltre ad una liquidazione in denaro per il lavoro eseguito da erogare al momento della cessazione del rapporto; sul piano gestorio spetta altresì ai familiari prendere a maggioranza le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell’impresa, tanto che se l’imprenditore non si adegua è tenuto a pagare il risarcimento del danno. Dobbiamo, però, sottolineare un aspetto fondamentale dell’impresa familiare: non si tratta in alcun modo di un’impresa collettiva, ma sempre e comunque di un’impresa individuale. L’imprenditore resta uno e uno soltanto, tanto che la gestione “ordinaria” spetta allo stesso, così come nell’ipotesi in cui non si adegui alle decisioni dei familiari inerenti la gestione straordinaria, gli atti posti in essere restano comunque validi e vincolanti verso terzi (è dovuto solo il risarcimento ai familiari). Esposto al fallimento, pertanto, è il familiare-imprenditore e NON ogni soggetto che fa parte dell’impresa in questione. C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA. L’impresa societaria Il terzio criterio distintivo delle imprese che andiamo ad analizzare riguarda la NATURA GIURIDICA del soggetto esercente l’attività di impresa: a tal proposito il codice distingue l’impresa INDIVIDUALE, l’impresa SOCIETARIA e quella PUBBLICA. Anche tale differenziazione, al pari delle altre, comporta l’assoggettamento, più o meno ampio, allo statuto dell’imprenditore commerciale. L’imprenditore commerciale non piccolo “persona fisica” (impresa individuale) è sempre esposto all’intero statuto dell’impresa commerciale e, pertanto, alle norme in materia di iscrizione nel registro delle imprese con funzione di pubblicità legale, alle norme inerenti le scritture contabili e a quelle riguardanti l’assoggettamento alle procedure concorsuali. Diversa è la situazione nel caso delle società, le forme associative TIPICHE MA NON ESCLUSIVE di esercizio collettivo dell’attività di impresa (non esclusive perché l’attività di impresa può essere svolta anche da associazioni e fondazioni, consorzi tra imprenditori con attività esterna e gruppo europeo di 18 interesse economico). In questa sede è utile soltanto anticipare che all’interno del nostro ordinamento esiste una netta distinzione tra la società semplice, utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciale, e le altre società, definite sempre come “commerciali”, ma tra le quali viene comunque attuata una seconda divisione in società di tipo commerciale con OGGETTO AGRICOLO (pensiamo alla società che porta avanti l’allevamento del bestiame) e società di tipo commerciale con OGGETTO COMMERCIALE (pensiamo alle società per la fabbricazione di utensili). Venendo all’aspetto che più ci interessa, ossia l’applicazione dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale, dobbiamo dire che le norme sull’iscrizione nel registro delle imprese e sulla tenuta delle scritture contabili si applicano a qualsiasi società commerciali, indipendentemente dall’attività svolta, mentre le norme sul fallimento e sulle altre procedure concorsuali si applicano SOLO alle società commerciali con oggetto commerciale. Inoltre, per quanto concerne le società in nome collettivo e quelle in accomandita semplice la disciplina dell’imprenditore commerciale si applica soltanto nei confronti dei soci a responsabilità ILLIMITATA, ossia verso tutti nella prima e verso gli accomandatari nella seconda. Le imprese pubbliche Anche lo Stato e gli altri enti pubblici possono svolgere attività d’impresa, ma l’assoggettamento allo statuto speciale dell’imprenditore commerciale non è scontato in tutti i casi. Anzitutto partiamo col distinguere tra: IMPRESE ORGANO: si tratta di tutte quelle ipotesi in cui lo Stato o gli altri enti territoriali svolgono attività di impresa direttamente, ma tale attività deve configurarsi ovviamente come secondaria e accessoria, in quanto primaria e principale è sicuramente l’attività istituzionale; ENTI PUBBLICI ECONOMICI: si tratta di enti di diritto pubblico istituiti con il fine “esclusivo e principale” di porre in essere attività di impresa. Le imprese pubbliche, sino agli anni ’90, assumevano per lo più questa veste (pensiamo a Enel, Eni, Banco di Napoli ecc.), sino a che il legislatore non ha avviato una “privatizzazione formale”, trasformandole in società per azioni a partecipazione statale, per poi attuare una “privatizzazione sostanziale”, comportante la dismissione delle partecipazioni pubbliche; SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA: sono società appositamente costituite per l’esercizio di attività di impresa, in cui lo Stato o altri enti pubblici hanno partecipazioni di maggioranza, di minoranza o totalitarie. Nel caso delle società a partecipazione pubblica lo statuto speciale dell’imprenditore commerciale si applica nei casi che abbiamo già analizzato nel paragrafo precedente per le società. Nell’ipotesi di enti pubblici economici, invece, vi è l’assoggettamento allo statuto generale dell’imprenditore e a quello speciale dell’imprenditore commerciale nella sola ipotesi di attività “commerciale”, ma con un’eccezione: essi non sono soggetti a fallimento e concordato preventivo, bensì alla liquidazione coatta amministrativa e alle altre procedure previste in leggi speciali. Il caso delle “imprese organo”, invece, è più complicato, dato che l’art.2093 comma 2 c.c. prevede che le disposizioni del libro V, ossia quello relativo al lavoro e in cui è contenuta la disciplina dell’impresa, si applichino alle imprese organo (il codice parla di enti pubblici NON INQUADRATI), ma il comma 3 19 dispone allo stesso tempo che siano fatte salve le diverse disposizioni di legge. Ciò significa che le imprese organo, avendo l’attività di impresa scopo solamente accessorio e secondario, non sono soggette a iscrizione nel registro delle imprese (prevista solo per enti pubblici con oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale dall’art.2201 c.c.), oltre ad essere esonerati dalle procedure concorsuali (art.2221 c.c.). La maggioranza della dottrina è quindi concorde nell’affermare che le imprese organo, oltre ad essere soggette allo statuto generale dell’imprenditore, debbano esserlo anche a tutte le norme dettate per gli imprenditori commerciali, escluse quelle da cui sono esonerate (l’altra parte della dottrina le esclude, invece, integralmente dalla disciplina dell’imprenditore commerciale). Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni Noi sappiamo che le associazioni, riconosciute e non, e le fondazioni altro non sono che enti privati con fini ideali o altruistici, di cui si occupa il libro I del codice. A essi, in passato, veniva negata la possibilità di esercitare attività d’impresa, partendo dal presupposto che l’impresa stessa fosse caratterizzata dallo scopo di lucro, assente in tali enti. Abbiamo visto, però, che per potersi parlare di “impresa” non occorre lo scopo di lucro, ma solo l’osservanza del metodo economico nell’esercizio dell’attività produttiva, il che permette oggi agli enti privati di poter esercitare tale attività. Non esiste tra l’altro alcuna differenza di disciplina per ciò che concerne gli enti il cui oggetto esclusivo o principale è costituito dall’esercizio di attività commerciale e quelli in cui tale attività è solo accessoria: in entrambi i casi l’ente acquista la qualità di imprenditore commerciale, rimanendo assoggettato a tutta la disciplina dell’impresa commerciale, anche perché non esistono norme di esonero a riguardo. L’unica puntualizzazione che occorre fare riguarda il fallimento: se fallisce un’associazione non riconosciuta ciò non comporta, in alcun modo, il fallimento degli associati illimitatamente responsabili. Segue: l’impresa sociale Si definisce IMPRESA SOCIALE quella particolare organizzazione privata che esercita professionalmente un’attività economica organizzata finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi di UTILITA’ SOCIALE, per tali intendendosi quelli tassativamente elencati dal D.lgs.155/2006 che regola la materia. L’impresa sociale non è un nuovo tipo di ente, bensì una qualifica che gli enti di diritto privato (associazioni, società, fondazioni ecc.) possono assumere rispettando determinate condizioni. Anzitutto, oltre all’oggetto particolare (produzione/scambio di beni e servizi di utilità sociale), per le imprese sociali è fondamentale l’ASSENZA dello scopo di lucro: l’impresa sociale è prima di tutto un’impresa, motivo per cui occorre che operi con “metodo economico”, ma questo non significa che non possa produrre un avanzo di gestione, ossia ricavi superiori ai costi; vietata è solo l’AUTODESTINAZIONE DEI RISULTATI DELLA GESTIONE, in quanto utili e avanzi devono essere destinati all’attività 20 statutaria o all’incremento del patrimonio dell’ente, patrimonio su cui comunque grava un vincolo di indisponibilità, dato che esso non può formare oggetto di divisione tra coloro che fanno parte dell’organizzazione, né durante la vita dell’ente né al momento dello scioglimento dello stesso. Alle imprese sociali è concesso un privilegio civilistico notevole, ossia quello di poter adottare qualsiasi tipo societario, sebbene manchi lo scopo di lucro. Non possono essere imprese sociali le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni che erogano beni e servizi solo a favore dei propri soci, associati o partecipi. Un altro privilegio riguarda la possibilità dell’impresa sociale di poter LIMITARE LA RESPONSABILITA’ PATRIMONIALE DEI PARTECIPANTI, anche qualora il modello societario impiegato preveda la responsabilità illimitata di tutti i soggetti che ne fanno parte: se l’impresa ha un patrimonio di ALMENO 20.000 euro delle obbligazioni sociali risponderà, in qualsiasi caso, SOLO l’organizzazione con il proprio patrimonio; se, però, si ha una riduzione per perdite di oltre un terzo al di sotto di tale limite (quindi se il patrimonio scende a meno di 13.333 euro), delle obbligazioni sociali rispondono coloro che hanno agito in nome e per conto dell’impresa, ma non gli altri soci, indipendentemente (lo ripetiamo) dal modello societario utilizzato. Indipendentemente dalla natura agricola o commerciale dell’impresa sociale, essa deve iscriversi in un’apposita sezione del registro delle imprese e deve redigere le scritture contabili. E’ sempre soggetta, in caso di insolvenza, alla liquidazione coatta amministrativa e NON al fallimento. L’atto costitutivo deve rispettare la forma dell’atto pubblico e deve individuare l’oggetto sociale, rientrando nelle attività previste dal D.lgs.155/2006, indicare la denominazione dell’ente con l’aggiunta della dicitura “impresa sociale”, enunciare l’assenza dello scopo di lucro, fissare i requisiti per la nomina delle cariche sociali, disciplina le modalità di ammissione ed esclusione dei soci e prevedere forme di coinvolgimento dei lavoratori e dei destinatari dell’attività sociale, che possono andare dalla semplice consultazione a forme attive di partecipazione all’attività decisionale. L’impresa sociale, inoltre, è soggetta al: “Controllo contabile” da parte di uno o più revisori contabili iscritti nel registro tenuto presso il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti; “Controllo di legalità della gestione e del rispetto dei principi di corretta amministrazione” da parte di uno o più sindaci, che possono dar luogo anche a ispezioni; “Controllo esterno” del Ministero del lavoro, che può disporre la perdita della qualifica di “impresa sociale” se difetta una delle condizioni per il riconoscimento (natura privata dell’ente, settore di attività sociale ecc.) o se gli organi direttivi non hanno posto fine a comportamenti illegittimi dopo aver ricevuto una diffida per violazioni della disciplina legislativa. Ne consegue la cancellazione dal registro e l’obbligo di devolvere il patrimonio a enti non lucrativi previsti dallo statuto. CAPITOLO TERZO – L’ACQUISTO DELLA QUALITA’ DI IMPRENDITORE Premessa 21 Affinché si possa applicare l’intera disciplina dell’impresa occorre prima che il soggetto possa definirsi “imprenditore” e per far si che ciò avvenga occorre che l’attività in questione sia a lui giuridicamente imputabile. E’ per tal motivo che il capitolo va ad analizzare l’acquisto della qualità di imprenditore, partendo dall’imputazione dell’attività di impresa, analizzando quando può dirsi “iniziata” tale attività e quando cessa del tutto, concludendo con la disciplina dell’esercizio dell’attività da parte di soggetti totalmente o parzialmente privi della capacità d’agire. A. L’IMPUTAZIONE DELL’ATTIVITA’ DI IMPRESA Noi sappiamo che l’attività di impresa consta di una serie di singoli atti giuridici, coordinati tra loro e posti in essere dall’imprenditore. Nel nostro ordinamento per l’imputazione degli effetti attivi e passi di atti negoziali vige il principio della SPENDITA DEL NOME, in forza del quale gli effetti di un atto ricadono sul soggetto il cui nome è stato “speso” (ossia fatto) nel traffico giuridico. Questa regola emerge chiaramente nella disciplina del “mandato”: se il mandato è SENZA rappresentanza e il mandatario agisce in nome proprio (anche se per conto del mandante) gli effetti degli atti posti in essere ricadranno su di lui e occorrerà un nuovo negozio giuridico per girarli al mandante, in quanto è il mandatario ad acquistare i diritti e ad assumere gli obblighi derivanti dagli atti compiuti; se il mandato, invece, è CON rappresentanza, il mandatario è autorizzato, nei rapporti con terzi, a “spendere” il nome del mandante, ossia ad agire in nome di un altro soggetto (il mandante appunto), motivo per cui gli effetti degli atti posti in essere ricadranno da subito nella sfera giuridica del mandante. La regola della spendita del nome, ovviamente, vale anche in tema di attività di impresa: imprenditore è chi esercita personalmente l’attività di impresa, compiendo in nome proprio i relativi atti. Se gli atti vengono compiuti da un rappresentante volontario o legale (pensiamo a un genitore autorizzato dal tribunale a gestire l’impresa del figlio minore), l’imprenditore resta pur sempre il rappresentato di cui si è speso il nome (il minore nel nostro esempio). Esercizio indiretto dell’attività d’impresa. La teoria dell’imprenditore occulto Ma che succede nel momento in cui il soggetto che pone in essere gli atti d’impresa, spendendo il proprio nome e acquistando la qualità di imprenditore, differisce dal reale interessato, ossia da colui che somministra i mezzi finanziari, dirige l’impresa e fa propri i guadagni? In questa ipotesi occorre distinguere l’imprenditore PALESE o PRESTANOME, ossia colui che spende il proprio nome nel traffico giuridico, dall’imprenditore INDIRETTO o OCCULTO, il soggetto realmente interessato all’attività posta in essere. Il problema non si pone sino a che gli affari vanno bene e i creditori vengono regolarmente pagati, ma si presenta nel caso in cui gli affari vadano male, in quanto il più delle volte l’imprenditore è una persona fisica nullatenente o una società per azioni o a responsabilità limitata di comodo (o etichetta), avente un capitale irrisorio. Secondo il criterio della “spendita del nome” è l’imprenditore a dover fallire, quindi il prestanome e non il “dominus” dell’impresa, ossia chi sta dietro le quinte: è certo che i creditori potranno rifarsi sull’imprenditore, ma è altrettanto ovvio che essi rimarranno insoddisfatti proprio 22 perché non potranno aggredire il patrimonio del dominus, non potendo provocare il fallimento di quest’ultimo che imprenditore NON è. Secondo una parte della dottrina occorre superare il principio della spendita del nome, andare oltre, sottolineando la responsabilità CUMULATIVA dell’imprenditore palese e del dominus, in forza della TEORIA DELL’IMPRENDITORE OCCULTO: chi gestisce di fatto l’impresa, investendo il proprio capitale e facendo propri i profitti, deve rimanere esposto al fallimento al pari di chi spende il proprio nome risultando imprenditore. Il controllo e la gestione dell’impresa, dunque, renderebbero il dominus imprenditore, nonostante lo stesso non agisca e non figuri nei rapporti con terzi. Tale teoria sarebbe giustificata, secondo i suoi sostenitori, da una norma della legge fallimentare contenuta nel vecchio testo dell’art.147 comma 2, oggi confluita nel comma 4. Già il comma 1 dell’art.147 prevede che il fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata comporti il fallimento anche di tali soci; il comma 4 (ripetiamo: nel vecchio testo era il comma 2) prevede che il fallimento si estenda anche ai soci la cui esistenza venga scoperta in un secondo momento (FALLIMENTO DEL SOCIO OCCULTO DI SOCIETA’ PALESE). Proseguendo su questa linea logica, il comma 5 prevede che falliscano anche i soci occulti dell’imprenditore individuale con cui lo stesso ha creato una società occulta, ossia la cui esistenza non è stata esteriorizzata. La teoria dell’imprenditore occulto estende per analogia questo ragionamento all’ipotesi che a noi interessa, ossia al caso in cui il dominus gestisca l’impresa indirettamente, avvalendosi di un imprenditore palese di cui viene speso il nome: il primo dovrebbe pertanto fallire insieme al secondo, dato che è suo il controllo dell’attività posta in essere. Segue: critica. L’imputazione dei debiti di impresa La teoria dell’imprenditore occulto, però, non può essere condivisa, dato che le tre situazioni esaminate (socio occulto di società palese, socio occulto di società occulta e imprenditore occulto) sono totalmente diverse tra loro. Nell’ipotesi di socio occulto di società palese, l’esistenza della società non è in alcun modo i n dubbio, ma semplicemente è stata scoperta in seguito la partecipazione di un dato soggetto alla stessa, che pertanto deve fallire al pari di tutti gli altri. Nel caso del socio occulto di società occulta, invece, i soci hanno cercato di aggirare le norme inerenti la responsabilità illimitata prevista nelle s.n.c., al fine di sfuggire al fallimento, imputando l’attività di impresa a un imprenditore individuale, mentre avrebbero dovuto optare per uno dei modelli societari che prevedono la responsabilità limitata dei soci: qui il legislatore intende colpire l’uso distorto della forma societaria (quella della società in nome collettivo) ed è per questo che prevede il fallimento di tutti gli altri soci occulti. Tuttavia, neanche in questo caso si può negare che una società esista una società tra determinati soggetti, sebbene occulta. Veniamo ora all’imprenditore occulto e al suo rapporto con il prestanome. Tra questi due soggetti non esiste alcuna società perché essi non provvedono a dividere gli utili e non pongono in essere un’attività in comune. Né tantomeno il potere di gestione del dominus può giustificare da solo l’acquisto della qualità di imprenditore, dato che occorre sempre che vengano rispettati dei requisiti formali e 23 oggettivi (come la spendita del nome). Quindi l’imprenditore occulto non è responsabile e non può fallire, diversamente da ciò che avviene per l’imprenditore palese. Segue: una tecnica per reprimere gli abusi Concludendo possiamo dire che il dominio di fatto su un’impresa individuale o societaria, imputabile formalmente ad altro soggetto, non comporta in alcun modo la responsabilità per i debiti di impresa: il dominio di fatto, in sostanza, non implica la responsabilità e il fallimento di un soggetto che sfrutta, per i propri fini, le vie d’uscita messe a disposizione dall’ordinamento, muovendosi nei margini della legalità. Diversa, invece, è la situazione di chi abusa del proprio dominio all’interno di un gruppo di società o di una società di capitali: tipico è l’esempio del socio tiranno, colui che disprezza le regole del diritto societario e agisce come se la società fosse cosa proprio, confondendo i patrimoni, dando luogo a una direzione di fatto, finanziando la società con continui prestiti ecc. In questa ipotesi la giurisprudenza ha ipotizzato che tale attività possa configurarsi come un’ impresa autonoma del socio, definita come impresa FIANCHEGGIATRICE, di finanziamento e/o gestione a latere della o delle società di capitali dominate e che pertanto possa fallire in caso di insolvenza. B. INIZIO E FINE DELL’IMPRESA L’inizio dell’impresa La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività di impresa da parte del soggetto interessato. La sola intenzione, così come l’insieme di tutti gli atti preparatori, non sono in alcun modo condizioni sufficienti affinché si possa parlare di imprenditore, essendo necessario lo svolgimento dell’attività produttiva di cui all’art.2082 c.c. Il principio di effettività non subisce alcuna deroga, neanche nell’ipotesi delle società: una parte della dottrina aveva sottolineato come le società, diversamente dalle persone fisiche che possono svolgere qualsivoglia attività oltre a quella di impresa, siano costituite appositamente per l’esercizio di attività imprenditoriale, motivo per cui la verifica delle condizioni di organizzazione e professionalità di cui all’art.2082 c.c., al pari dell’effettivo inizio dello svolgimento dell’attività di impresa non dovrebbero essere condizioni necessarie per l’acquisto della qualità di imprenditore. In realtà il dettato dell’articolo 2082 è abbastanza chiaro quando parla di “esercizio” e NON di mera intenzione di esercitare attività di impresa: la costituzione della società altro non è che una dichiarazione di voler avviare un’attività imprenditoriale, del tutto vana se non si da luogo alla fase attuativa. Segue: Attività di organizzazione e attività di esercizio Ma quando si ha l’effettivo inizio dell’attività di impresa? Occorre fare una distinzione tra i casi in cui gli atti di produzione o scambio di beni o servizi sono preceduti da una fase “organizzativa” oggettivamente percepibile e i casi in cui tale fase preparatoria manca: nella prima ipotesi, essendoci una stabile organizzazione aziendale, è sufficiente un solo atto di impresa affinché l’attività possa ritenersi iniziata; nella seconda, invece, è necessaria la ripetizione nel tempo di atti di impresa omogenei e funzionalmente coordinati, ossia occorre il rispetto del requisito di 24 professionalità dell’attività produttiva, il quale prevede (ricordiamolo) che essa sia abituale e non occasionale. La dottrina si è poi interrogata sulla possibilità che l’attività di impresa possa o meno iniziare ancor prima di compiere un atto di GESTIONE: in sostanza, si può essere imprenditore compiendo solamente atti di ORGANIZZAZIONE? Anche l’organizzazione della produzione è attività tipicamente imprenditoriale, che pone esigenze di tutela del credito, diretta a un fine produttivo e che pertanto espone al fallimento: sarà sufficiente che tali atti di organizzativi manifestino lo stabile orientamento dell’attività verso un determinato fine produttivo, sia pure non ancora realizzato, affinché si possa già parlare di “imprenditore”. In breve, gli atti di organizzazione devono manifestare quella professionalità necessaria dell’impresa: questo vuol dire che alla persona fisica non basterà porre in essere un singolo atto preparativo (pensiamo all’affitto di un locale) o anche più atti non funzionalmente coordinati (pensiamo all’affitto di un locale e all’acquisto di un camion), mentre ciò sarà sicuramente sufficiente per una società, già di per sé organismo costituito per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale (pensiamo all’acquisto di un suolo da parte di una società alberghiera). La fine dell’impresa Un altro punto controverso e su cui si dibattuto a lungo, specialmente in passato, è quello inerente la FINE dell’impresa: se per gli imprenditori individuali continuava ad applicarsi, secondo la dottrina, il principio di effettività, essendo necessaria l’effettiva cessazione dell’attività, per le società la questione era totalmente diversa, in quanto occorreva la cancellazione dal registro delle imprese. Il tutto, comunque, ruotava intorno all’applicazione dell’art.10 della legge fallimentare, il quale prevedeva che “l’imprenditore commerciale potesse essere dichiarato fallito entro un anno dalla cessazione dell’impresa”. La cessazione è sempre preceduta dalla liquidazione, durante la quale vengono definiti tutti i rapporti pendenti, licenziati i dipendenti, vendute le giacenze ecc., fase in cui vengono poste in essere le stesse operazioni attuate durante l’esercizio dell’impresa. Solo con la chiusura della liquidazione e la completa disgregazione del complesso aziendale, poteva considerarsi definitiva la cessazione dell’attività di impresa. In realtà, per l’imprenditore individuale non occorreva definire tutti i rapporti pendenti, ossia riscuotere tutti i crediti e pagare tutti i debiti, altrimenti ciò avrebbe comportato l’esistenza dell’impresa sino al completo pagamento delle passività e, di conseguenza, l’impossibilità di applicare l’art.10 l.fall. Pensateci bene: se l’impresa cessasse di esistere solo con il pagamento di tutti i debiti, allora l’anno che decorre dalla cessazione dell’impresa, entro il quale dichiarare il fallimento e di cui parla l’art.10 l.fall., sarebbe divenuto inutile. Quindi, all’imprenditore individuale l’art.10 si applicava senza problemi, essendo possibile provocar il fallimento dell’imprenditore che, al momento della cessazione dell’impresa, aveva ancora dei debiti. Per le società, invece, la situazione appariva completamente diversa: occorreva la cancellazione dal registro delle imprese per perdere la qualità di imprenditore e decretare in tal modo la fine dell’impresa. La cancellazione, a sua volta, presupponeva la disgregazione del complesso aziendale e 25 l’INTEGRALE PAGAMENTO DELLE PASSIVITA’ ad opera dei liquidatori. In conclusione, essendo pagati tutti i debiti al momento della cancellazione dal registro delle imprese, l’art.10 della legge fallimentare diveniva inapplicabile alle società. La conseguenza di tutto questo ragionamento era particolarmente pesante: se emergevano creditori dopo la cancellazione dal registro delle imprese, la giurisprudenza riconosceva le società come esposte al fallimento, fino al pagamento dell’ultimo debito e senza rispettare l’annualità di cui parlava la legge fallimentare (potevano passare anni dalla cancellazione dal registro delle imprese e dalla cessazione di ogni attività imprenditoriale, eppure le società rimanevano esposte al fallimento). Ovviamente la disparità di trattamento tra imprenditori individuali e società ha determinato la dichiarazione di incostituzionalità dell’art.10 e l’intervento del legislatore, con le riforme del 2006 e del 2007. Il nuovo testo dell’art.10 l.fall. recita: “Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo. In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del primo comma.”. Dopo la modifica, dunque, non solo la cancellazione dal registro delle imprese è divenuta condizione necessaria per beneficiare del termine annuale per la dichiarazione di fallimento, sia che si tratti di imprenditore individuale che di imprenditore collettivo, ma il debitore non può neanche dimostrare di aver cessato la propria attività prima della cancellazione per anticipare il decorso del termine, neanche nell’ipotesi di persona fisica. Società irregolari (non iscritte nel registro delle imprese) e società occulte, di conseguenza, rimangono esposte al fallimento senza limiti di tempo finché hanno debiti insoluti, data la mancanza del decorso del termine annuale. Tuttavia, la sola cancellazione dal registro, pur essendo condizione necessaria per beneficiare del termine annuale, non è altrettanto sufficiente nel caso di “imprenditori persone fisiche e società cancellate d’ufficio”, in quanto occorre anche la disgregazione del complesso aziendale e l’effettiva cessazione dell’attività d’impresa (quindi continua a valere il principio di effettività). C. CAPACITA’ E IMPRESA Incapacità e incompatibilità La CAPACITA’ all’esercizio dell’attività di impresa si acquista, nel nostro ordinamento, con la piena capacità d’agire, a sua volta conseguita al compimento del diciottesimo anno di età. Si perde, invece, con l’interdizione o l’inabilitazione, due degli istituti previsti dalla legge a tutela delle persone prive in tutto o in parte di autonomia. Ricordiamo che per “capacità di agire” si intende l’idoneità di un soggetto a porre in essere in proprio atti negoziali con effetti nella propria sfera giuridico-patrimoniale. L’esercizio di attività imprenditoriale in violazione delle norme di tutela degli incapaci non determina l’acquisto della qualità di imprenditore, ma solo l’applicazione delle norme inerenti i singoli atti compiuti. 26 I divieti di esercizio di impresa commerciale posti a carico di chi ricopre determinati uffici o esercita determinate professioni, invece, costituiscono semplici INCOMPATIBILITA’, che non vanno a intaccare la capacità d’agire: violando tali divieti si acquista ugualmente la qualità di imprenditore commerciale, ma ci si espone a sanzioni amministrative e a un aggravamento delle sanzioni penali per bancarotta in caso di fallimento. L’impresa commerciale dell’incapace Nel nostro ordinamento l’esercizio di attività d’impresa per conto e nell’interesse di un incapace (interdetto o minore) o da parte di un limitatamente capace (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno) è consentita purché vengano rispettate le norme appositamente previste per l’attività commerciale, mentre per quella agricola si applicano le norme di diritto comune inerenti il compimento di atti giuridici da parte di tali soggetti. Noi sappiamo che in linea generale l’interdetto e il minore, essendo privi della capacità d’agire, vengono sostituiti in tutto e per tutto da un rappresentante legale (genitore o tutore), legittimato a compiere gli atti di ordinaria amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione è necessaria l’autorizzazione, atto per atto, da parte dell’autorità giudiziaria, chiamata a valutare la necessità e l’utilità degli stessi. La medesima cosa vale per i soggetti limitatamente capaci (inabilitato, minore emancipato, beneficiario di amministrazione di sostegno), i quali però agiscono in prima persona sebbene con l’assistenza di un curatore. E’ evidente che l’attività commerciale si configura come un’attività anzitutto rischiosa e che non può essere inquadrata nello schema di ordinaria o straordinaria amministrazione e soggiacere, per la rapidità di decisioni necessaria, all’autorizzazione atto per atto: è per tal motivo che l’autorità giudiziaria autorizza all’esercizio dell’impresa il rappresentante legale o il soggetto con l’assistenza del curatore una sola volta, senza intervenire per i singoli atti posti in essere. E’ possibile, inoltre, autorizzare la sola CONTINUAZIONE dell’esercizio di impresa commerciale preesistente e non l’INIZIO dell’esercizio di tale attività da parte dell’interdetto, dell’inabilitato e del minore (quindi fatta eccezione per il minore emancipato). Analizziamo le varie situazione nel dettaglio. Il MINORE non può in alcun modo iniziare una nuova attività d’impresa commerciale e non può farlo neanche il suo rappresentante legale in nome del minore stesso. Quindi, il minore può soltanto ricevere in eredità o per donazione un’azienda commerciale e il rappresentante legale (genitore o tutore) deve essere autorizzato dal tribunale a gestire l’attività d’impresa nel nome e nell’interesse del rappresentato. Intervenuta l’autorizzazione il rappresentante può compiere tutti gli atti che rientrano nell’esercizio dell’impresa, di ordinaria quanto di straordinaria amministrazione, fatta eccezione per quelli che non sono in rapporto di mezzo a fine per la gestione (esempio: vendita dell’immobile in cui ha sede l’impresa). Le medesime regole analizzate per il minore valgono anche per l’INTERDETTO. L’INABILITATO, invece, è un soggetto la cui capacità d’agire è limitata agli atti di ordinaria amministrazione, ma per l’esercizio di impresa commerciale è del tutto parificato a minore e interdetto: 27 ciò significa che non può avviare alcuna impresa, ma solo proseguirla, sebbene con regole diverse rispetto ai casi già analizzati. Se autorizzato alla continuazione dell’impresa, infatti, l’inabilitato la gestisce in prima persona con l’assistenza del curatore e con il consenso di quest’ultimo per gli atti di straordinaria amministrazione. Il tribunale può anche prevedere la nomina di un INSTITORE (direttore generale), fatta dallo stesso inabilitato col consenso del curatore. Il MINORE EMANCIPATO, invece, può sia iniziare che continuare l’impresa commerciale se autorizzato dal tribunale. In caso di autorizzazione, inoltre, egli può compiere autonomamente anche gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione che esulano dall’esercizio dell’impresa, oltre a gestire la stessa SENZA l’assistenza del curatore. Quella del BENEFICIARIO dell’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO, infine, è una situazione particolare: è il giudice tutelare, nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, a decidere quali atti il beneficiario possa compiere autonomamente e per cui conserva capacità d’agire e quali siano, invece, quelli per cui occorre la rappresentanza esclusiva o quantomeno l’assistenza dell’amministratore. Quindi la possibilità di iniziare o proseguire un’attività commerciale dipende dalla decisione del giudice e dal caso specifico. In tutti i casi analizzati i provvedimenti di autorizzazione e quelli di revoca della stessa sono soggetti a iscrizione nel registro delle imprese. E’ importante precisare che ad acquistare la qualità di IMPRENDITORE è SEMPRE il soggetto rappresentato o assistito, che si espone pertanto al fallimento in caso di insolvenza e su cui ricadono gli effetti patrimoniali dello stesso. Per quanto concerne il minore e l’interdetto la dottrina e la giurisprudenza cercano da lungo tempo di trovare un modo per non far ricadere su tali soggetti incapacità personali e sanzioni penali in caso di fallimento, in quanto gli stessi risponderebbero sotto un profilo diverso da quello patrimoniale per qualcosa indipendente dalla loro volontà e frutto dell’operato di un genitore o di un tutore, comunque non ritenibili come imprenditori. Se per le sanzioni penali del fallimento, grazie ad un ragionamento volto a non dare rilievo al diverso nomen giuridico, è possibile applicare la disciplina dell’institore paragonandolo in tutto e per tutto al rappresentante legale, estremamente difficile risulta sottrarre il minore o l’interdetto alle incapacità personali (esempio: esclusione dalla professione di notaio, commercialista, avvocato ecc.) derivanti dal fallimento. CAPITOLO QUARTO – LO STATUTO DELL’IMPRENDITORE COMMERCIALE Premessa Abbiamo già anticipato che nel nostro ordinamento esiste uno statuto generale dell’imprenditore, applicabile a tutte le imprese indipendentemente dall’oggetto delle stesse, e uno statuto speciale dell’imprenditore commerciale, valevole solo per chi esercita una delle attività di cui all’art.2195 c.c. In questo capitolo viene analizzata una parte dello statuto speciale dell’imprenditore commerciale, ossia quella riguardante la pubblicità legale, le scritture contabili e la rappresentanza commerciale, mentre il fallimento e le procedure concorsuali verranno analizzate nel terzo volume (nella terza dispensa). A. LA PUBBLICITA’ LEGALE La pubblicità delle imprese commerciali 28 Per chi opera sul mercato è fondamentale rapportarsi, nei propri affari, con imprese di cui, tramite una semplice ricerca, è poss