Corso di Storia del Cristianesimo 2024/25 PDF
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2024
Isabella Gagliardi
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These notes detail a course on the history of Christianity, specifically focusing on the historical aspects rather than religious beliefs. It explores the historical context of Jesus' life and influence on Christianity's emergence, and discusses the various perspectives and interpretations of the historical Jesus. The notes cover topics including the historical Jesus, the Gospels, and the socio-political context of Palestine during the first century CE.
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Corso di storia del cristianesimo, 2024/25 – professoressa Isabella Gagliardi Lezione 1 – 28/10 Per noi la religione è una manifestazione storica: guarderemo alla storia dei cristianesimi in prospettiva puramente storica senza riferirci alle verità delle fedi. La storia del cristianesimo esiste da...
Corso di storia del cristianesimo, 2024/25 – professoressa Isabella Gagliardi Lezione 1 – 28/10 Per noi la religione è una manifestazione storica: guarderemo alla storia dei cristianesimi in prospettiva puramente storica senza riferirci alle verità delle fedi. La storia del cristianesimo esiste da sempre ma da poco è stata sdoganata dai laici. Per tanto tempo è stata insegnata come la sorella minore della teologia. Dopo il Concilio vaticano II abbiamo avuto un cambiamento di rotta e anche in Italia è successo qualcosa che già altrove succedeva: anche i laici e le laiche hanno potuto insegnare la storia del cristianesimo, separata dalla storia delle chiese. Nel mondo sono esistiti tanti cristianesimi che hanno prodotto altrettante chiese, a volte direttamente correlate a quelle iniziali, a volte sono state altre cose. Alcune idee cristiane moriranno, saranno dichiarate eretiche e verranno a perdersi. La figura di Gesù: il Gesù storico Il Gesù storico è stato ricostruito dopo tante analisi. Il Cristo è quello della fede, dei suoi discepoli che lo vedono come il figlio di Dio: noi andremo a cercare le tracce del Gesù storico, vissuto in una determinata società in un certo momento della storia. È corretto dire che Gesù è all’origine del cristianesimo? È vero che quell’esperienza ha determinato la nascita di una certa fede che è cresciuta sull’interpretazione data su questo uomo, Yesua, ebreo, vissuto nella Palestina del I secolo. Abbiamo superato le teorie che raccontavano che i vangeli sono il racconto mitico fatto da alcune comunità primitive: furono redatte queste fonti, nel I secolo. Uno studioso importante per i Vangeli, Christian Nano, ha studiato le lettere di Paolo, e le ha retrodatate tutte agli anni 50 del I secolo: questo ha trascinato la retrodatazione dei vangeli, composti tutti, si sostiene, entro la seconda metà del I secolo, qualcuno tra la fine del Primo, inizio del Secondo. Siamo di fronte a fonti storiche redatte dai seguaci di Gesù. I Vangeli che conosciamo, quelli accettati dalle varie confessioni cristiane, che chiamiamo canonici, in quanto facenti parte di un canone biblico, una serie di testi che arrivano fino all’apocalisse di Giovanni: sono 4, che distinguiamo in vangeli sinottici, tre che si possono leggere quasi di seguito, e infine il vangelo di Giovanni. Non sono gli unici vangeli, ne esistono altri, detti apocrifi nella tradizione cattolica, deteurocanonici, che non fanno parte del canone. Sono posteriori ai vangeli del canone, vengono dopo Marco, Matteo, Luca e Giovanni, e sono di varia impostazione. Sono creati all’interno di comunità: quella che conosciamo meglio è la gnostica, che ha prodotto vangeli molto complicati, di Filippo, di Tommaso, pubblicati qualche anno fa. Gli gnostici erano un gruppo di tipo esoterico che si tramandava la conoscenza a piccoli gruppi, in maniera segreta e in codice, in quanto non ritenevano che la verità potesse essere capita da tutti, al contrario degli altri cristiani. Il metodo storico antropologico, messo a punto da Adriana Destro e Mauro Pesce, parte dalla nascita dei movimenti di Gesù nello spazio, per provare a riflettere sulla base del contesto storico di Gesù: da lì bisogna andare a cercare nei Testamenti e nei Vangeli quelle frasi che possono andare a farci capire chi fosse Gesù di Nazareth. Per noi è normale dire che Gesù è un ebreo, figlio di Maria e di Giuseppe. Per tanti secoli è statao tabu, nessuno lo diceva, e la rappresentazione di Gesù con gli occhi azzurri e capelli biondi la dicono lunga: era stato sottratto via via dall’ambiente in cui era nato. L’acquisizione di Gesù alla società ebraica è qualcosa che è accaduto prima in ambito protestante e poi in ambito cattolico. Il testo di rottura è un libro che compare in Francia negli anni 70, L’invention du Christe, di Maurice Sachot. Sachot era un sociologo, non uno storico, ebreo, che per primo volle sottolineare l’ebraicità di Gesù, come personaggio storico, immerso nel giudaismo dell’epoca. Sachot esamina l’ebraicità di Gesù, mostrandone i tratti salienti: un ebreo che viene declinato come riformatore sfortunato del giudaismo dell’epoca. Questo testo è importante in quanto mette in primo piano la storicità di Gesù come ebreo, nato in una provincia dell’Impero Romano, popolata dal popolo ebraico in un periodo storico non particolarmente calmo. Il periodo in cui Gesù nasce e cresce per i suoi primi 30 anni (le fonti raccontano soprattutto la parte pubblica) è molto complicato: la Palestina è percorsa da fermenti di ribellione fortissimi. È una regione che è stata conquistata dai romani a un prezzo: andare a svolgere funzioni di amministrazione non era facile, in quanto la situazione era incandescente. Esisteva tutta una parte della società ebraica che non tollerava l’invasione romana, soprattutto una parte della società ebraica che nutriva aspettative messianiche di rinnovamento. Fino agli anni 30 del II secolo comparivano dei personaggi che si auto predicavano Messia. Il Messia atteso dalla tradizione ebraica è un guerriero che fonda uno stato nuovo e che impone io nome di Isarele su tutti gli altri, d’altronde la Torah racconta di antichi re molti vicini a Dio, come Salomone, che conducevano il popolo in battaglia. Coerentemente a questa antica tradizione in Palestina si aspettava un Messia guerriero con una forte connotazione politica. Vi è in particolare un grippo di persone che era molto attivo nel promuovere, nel ravvisare ribellioni contro i Romani. Chi andava in Palestina si trovava in una parte di mondo che per chi era abituato a vivere in Europa era complicato: il baricentro culturale era più spostato verso oriente che occidente. Per i Romani non era bello andare quindi a prestare servizio in Palestina. La presenza umana nella zona aveva contribuito non poco a trasformare la società, e intanto i Romani avevano iniziato a costruire città. Era importante la celebrazione del potere dei romani: erano favorite alcune famiglie che dai villaggi eran invogliate a trasferirsi in città facendo una sorta di fortuna sociale e collaborava con i romani. I romani capirono subito che per governare lì era necessario usare un doppio registro, da un lato lasciare intatte le strutture antiche del potere, come tribunali e grandi sacerdoti, dall’altro si crea un sistema di governo dove si applica il diritto romano, che non può essere letto se non si ha anche una base locale. Occorreva crearsi delle alleanze, e i romani se ne creavano costruendo delle città, cercando di appaltare dei servizi a una serie di persone, tipicamente di riscossione delle tasse: Matteo si racconta che fosse uno di quelli che imponeva le tasse, odiatissimi in quanto non solo le imponevano, ma chiedevano di più per intascare i soldi. Si creavano anche dei legami con artigiani, costruttori, che venivano pagati profumatamente. Accanto alla città, i romani costruirono molte strade che erano collegate fra loro: un buon sistema di strade consentiva di movimentare l’esercito. Finivano quindi per farsi “amici” gli imprenditori a cui commissionavano questi lavori. Il resto del potere lo contrattavano con i gestori di natura ebraica che avevano lasciato. Tra l’altro i cittadini della Palestina rispondevano a due riti, il diritto ebraico, sancito dalla Torah, che non era fatto rispettare dagli ufficiali romani, e il diritto romano, che legifera su altre cose e la sua applicazione è soggetta a una negoziazione continua con le autorità ebraiche. La Palestina era percorsa da fremiti di aspettativa del Messia. Anche i vangeli lo ricordano: nei Vangeli, si presenta prima della celebrazione della Pasqua al popolo di Gerusalemme due personaggi, Gesù e Barabba. Barabba è stato fatto passare come un ladro, ma era uno zelota, uno che si era fatto passare come un Messia. Il suo nome, Bar, in aramaico vuol dire figlio (figlio del Padre). Lo stesso Gesù quando si si rivolge a Dio lo chiama bar (da cui abate, padre del monastero). Quest’uomo deve essersi accreditato come Messia o come qualcuno che stava attorno a un messia che doveva venire. La popolazione avvisa probabilmente il liberatore in Barabba: Gesù come messia è “scarso” per quelle che sono le aspettative dell’ebreo del tempo, infatti non vuole combattere, dice di amare tutti, non litiga, non è sposato etc. I vangeli ci raccontano del momento storico in cui Gerusalemme e l’intera Palestina è scossa da questi personaggi. Nel 130-135, in Egitto, in occasione di quella che sarà la terza guerra giudaica, si presenta Simon Bar Kokheba, figlio della Stella, guida i cavalli dalla Palestina all’Egitto presso il monte Sinai, nel posto dove Mosè ebbe le tavole della Legge. Questo signore si era presentato come Messia, portandosi in battaglia molta gente e fu visto salire al cielo in un carro di fuoco come Elia: dopo se ne apersero le tracce. I romani pochi anni più tardi rasero al suolo Gerusalemme, trovando una soluzione radicale. C’è da fare una distinzione tra gli ebrei rimasti in Israele e quelli che sono andati fuori: all’epoca di Gesù, intere colonie di ebrei non abitavano più in Palestina. Già nei secoli precedenti molti ebrei se ne erano andati e vivevano altrove perché tra i mestieri più redditizi vi era il mercante. Numerose comunità erano sorte un po’ in tutto il mondo, anche a Roma, dove vi era una comunità ebraica protetta dall’imperatore, che aveva preso per sé il diritto di essere protettore degli ebrei (cosa ereditata dal papa di Roma). Erano in tutta la fascia dell’Africa del nord e arrivavano fino in Spagna (detto sefardite, nome in aramaico della Spagna). Degli ebrei, tutti ellenizzati, quindi parlavano greco, (quelli di 3 e 4 generazione non parlavano più ebraico e traducevano i loro testi sacri in greco), ne abbiamo notizia a Gerusalemme, in quanto almeno una volta all’anno andava festeggiata la Pasqua, un grande evento che ricorda la liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Durante la Pesach, quindi la Pasqua, quando il tempio di Gerusalemme esisteva, il sacerdote officiava un rito importante che aveva lo scopo di liberare il popolo ebraico dai peccati (uccisione dell’agnello). Attraverso un gesto rituale, gli ebrei sapevano di essere perdonati. Per Pesach tantissime persone andavano a Gerusalemme: la Pasqua era una festa nobile, in quanto il calendario ebraico è lunare, segue i cicli di 28 giorni e più in certi cicli si arriva all’intero giorno. La Pasqua si festeggia tra marzo aprile. Gesù muore in una Pasqua nel mese che identificheremmo in aprile (il diciassettesimo giorno) Abbiamo tutta una serie di iscrizioni in greco di ebrei che arrivati a Gerusalemme facevano costruire qualcosa e scrivevano in greco per farlo sapere. Nello stesso momento convivono ebrei che hanno culture molto diverse, da una parte quelli che sono rimasti in Israele, dall’altra quelli più aperti che dialogavano col mondo greco e latino che connota il Mediterraneo. Anche in Palestina la lingua franca è il greco: il latino è la lingua d’occidente, la lingua della legge, ma il parlato è greco, infatti molti protagonisti dei vangeli parlano greco e i vangeli sono scritti in greco. Furono scritti anche in aramaico, o almeno lo si pensa ma nessuno ha mai trovato la fonte. Si voleva infatti che li leggessero tutti e si usava quindi la lingua dominante. Lo stesso Gesù è probabile che parlasse greco: nei famosi incontri con Pilato parlò greco. Secondo alcuni studiosi Giuseppe non era falegname me carpentiere e probabilmente egli andò col padre, come si faceva tra le famiglie artigiane, potrebbe addirittura essere stato a Sefforis, città completamente romana, a imparare il greco. Anche Matteo, che parlava con i romani e gli ebrei per riscuotere le tasse, sapeva il greco. Gesù cresce in questo ambiente e della sua infanzia non sappiamo quasi niente. Sappiamo che ha questa nascita “scandalosa” di cui ci parlano gli evangelisti, ma chi ci trasmette le sue gesta non è interessato alla sua infanzia e vuole raccontarci il Gesù del Messaggio che hanno conosciuto, che è morto e risorto. Esiste una produzione leggendaria sull’infanzia di Gesù, ovvero un vangelo apocrifo, L’infanzia di Gesù, redatto nel III secolo dove si racconta del piccolo dio che era Gesù bambino. Questo Vangelo circolava e ritorna in tante iconografie, tra cui quella di Gesù con gli uccellini di fango. Abbiamo delle attestazioni molto antiche del fratto che numerose comunità cristiane primitive scelsero i testi canonici. La prima risale forse al 160-70-80, è il canone muratoniano, trovato da Ludovico Antonio Muratori, canonico di Modena, che frugava tra le biblioteche, e cominciò la pubblicazione delle antiche fonti italiane. Questo documento attestava come i capi di numerose comunità cristiane avessero scelto come canonici alcuni vangeli, il corpus epistolare di Paolo con l’aggiunta di alcune lettere, gli atti degli apostoli e l’Apocalisse di Giovanni. Si scelgono probabilmente per autori, i più vicini ai soggetti di cui si parla. Secondo alcuni storici, sono 4 i vangeli perché secondo la procedura del tribunale ebraico dell’epoca potevi avere dalla tua 4 testimoni. Gli autori erano sicuramente riconosciuti o come persone che avevano conosciuto direttamente Gesù o persone vicine a coloro che lo avevano conosciuto direttamente. Questa fu l’idea che mosse coloro che scelsero i vangeli. Tra l’altro in quest’epoca è attiva la chiesa di Gerusalemme. Marcione, cristiano di Roma, a un certo punto della sua esistenza decise che l’insieme dei testi sacri utilizzati non andava bene, erano troppo ebrei, per chi decise di togliere il Vecchio testamento, e anche i Vangeli, ritenne, avevano troppa ebraicità. Il Dio cristiano per lui non è quello dell’antico testamento, ma quello di Gesù. Si riconoscono questi vangeli canonici come quelli veri, ma gli altri non sono bruciati o condannati: sono continuati a circolare e hanno dato vita a delle iconografie, come Giuseppe con gli attrezzi del falegname e Maria che fila la lana. Non è detto che si usassero dappertutto gli stessi vangeli, alcune comunità potevano essere più affezionate ad alcuni vangeli rispetto a altri. Gesù irrompe nella scena pubblica da adulto. Per gli standard ebraici dell’epoca è una persona particolare, non ha un lavoro fisso, non è neanche sposato, non ha neanche una casa fissa, abita “in giro”. Sono degli atteggiamenti che non sono “la norma” dell’epoca: uno di 30 anni non sposato o è malato o è un esseno, e lui non lo è. Gesù non lavora e lo chiamano infatti robboì, ovvero maestro, rabbino. Esistono già le sinagoghe, centri sociali piuttosto importanti. Il rabbino è un uomo colto, un esperto della legge a cui ci si riferisce quando si hanno problemi sociali: è un esperto della parola di Dio. In realtà Gesù non è un rabbino, non lavora, vive di carità e soprattutto vive dell’aiuto che alcuni seguaci mettono a disposizione, Per quanto i vangeli siano diversi tra loro, una cosa è certa: Gesù si sposta continuamente. Alcuni studiosi hanno tracciato sulla base delle fonti evangeliche il suo percorso. Ogni giorno faceva dai 17 ai 30-35 km a piedi toccando in media due templi ebraici, incontrando le persone, anche quelle di cattiva reputazione. Ha quindi un rapporto con le persone a 360 gradi. Gesù preferisce i villaggi alle città e i sentieri alle strade, è come se scegliesse di non andare in città (a volte è andato, va a Gerusalemme per il suo batmitzvah, per la Pasqua, ma tendenzialmente non ci va). Preferisce i villaggi, dove incontra persone attratte dal suo modo di fare, passando attraverso sentieri. Lo sappiamo da tutta una serie di particolari: piedi da lavare, piedi incrostati etc. Perché Gesù fa questi viaggi, perché va presso il lago Tiberiade, sta con i pescatori etc.? Probabilmente è una scelta che lo porta a contatto col cuore di Israele. Sta con le persone che di fatto tengono su la società, le persone che lavorano che fanno funzionare le piccole sinagoghe, dà da mangiare a chi ne ha bisogno, crea le condizioni affinché le ragazze povere abbiano quel poco di dote per sposarsi. La vita di città è più vicina a standard non tipicamente israelitici. Si potrebbe dire che la vita pubblica di Gesù è quasi tutta vissuta in zone rurali, dove ci sono tantissimi spazi in cui incontra tantissime persone. I romani lo trovano sospetto perché si porta dietro troppa gente: un tizio che si presenta con un gruppo di fedelissimi e crea folle è sospetto. È chiaro che ha un forte impatto sulle persone, è un leader carismatico. Insegna e iscrive i suoi insegnamenti nel tipico stile ebraico. Le parabole sono quell’evoluzione del racconto, un tipico modo attraverso il quale nel mondo ebraico si insega alle persone. Gesù fa così e lo fa in quanto da grande moderatore qual è, dice delle cose che possono essere interpretabili a più livelli, anche dalle persone meno acculturate. Gesù fa degli esempi, racconta delle storie che consegnano delle massime. Ha un atteggiamento un po’ peculiare: esperto conoscitore della legge, dà una lettura molto personale della legge, una lettura molto attenta alla sostanza, più che alla forma. La regola di per sé non gli interessa, non c’è un atteggiamento di legalismo, è la regola che va conformata agli umani: famosa è la risposta che Gesù dà al fariseo quando questo gli chiede perché sta lavorando il sabato, e egli risponde che se deve salva una vita. Gli evangelisti ci raccontano cose anche scomode, come quando Gesù inizia a frustare i mercanti al tempio o quando perdona l’adultera. In questo suo girovagare, entra in casa della gente: ha un amico, Lazzaro, che non fa parte del gruppo. Un giorno Lazzaro non c’è, lui entra in casa e insegna alle sorelle, Marta e Maria, la scrittura. L’ebraismo ha una dimensione molto domestica e una serie di riti che si fanno a casa: Gesù va lì e insegna alle due. Nei sinottici, c’è una scena significativa: Maria si mette lì e ascolta Gesù, Marta intanto sistema la casa. Gesù la rimprovera e le dice di venire ad ascoltare Ci troviamo di fronte a una personalità non solo molto carismatica, ma anche non perfettamente allineata a quelli che sono gli standard dell’epoca. È un uomo pio, conosce la scrittura, ma la interpreta in modo suo. Non è un sacerdote, non è un rabbino, ma afferma di essere Figlio dell’Uomo, un’espressione di marca pazzescamente profetica, che rimanda a una mercata vicinanza tra Gesù e il Padre. Si intende il figlio di un’Umanità creata da Dio, non di una persona, non c’è l’idea di generazione, ma un’idea quasi creativa. Si fa portavoce di un messaggio che va verso un modello sociale diverso. Gesù ci espone un modo di relazionarsi tra umani che costruisce relazioni diverse, che si basano su sostegno reciproco, dono e perdono. Non è completamente distaccato dalla tradizione. L’ebraicità della società ha vari gruppi e momenti: ci sono gli zeloti, gli esseni, i rabbini che enfatizzano l’amore di Dio. Anche la preghiera che Gesù insegna ai discepoli, ovvero il Padre nostro, evoca una preghiera ebraica, Taddish, che parla dell’amore di Dio. Egli si richiama alla tradizione ebraica, ma la rivisita in maniera personale e quasi rivoluzionaria per l’epoca. A un certo punto compare il cugino Giovanni Battista. Secondo le consuetudini semitiche, il cugino di sangue è come il fratello: hanno un rapporto come ci può essere tra fratelli. Sappiamo che tra di suoi seguaci ci fu un tale Giacomo, che si definì il fratello di Gesù, a capo della comunità di Gerusalemme. Quando gli evangelisti scrivono in greco, usano un greco molto semplice: queste persone scrivono in greco ma pensano nella loro lingua. La parola “fratello” la usano a volte per intendere il fratello a volte il cugino. A volte sono i fratelli spirituali. Gesù capovolge la mentalità ebraica dove la famiglia è fondamentale, egli rispondo solo al Padre suo, non importandosene del legame di sangue. C’è anche chi pensa che questi “fratelli” siano altri figli di Maria, o figli di Giuseppe. All’epoca erano le famiglie che combinavano i matrimoni ed era facile che intercorressero vari anni tra marito e moglie. storicamente sono plausibili un po’ tutte. In un altro momento, Gesù mostra un distacco dalla famiglia, durante il miracolo delle nozze di Cana. Si racconta che Gesù va al matrimonio con la mamma: mentre festeggiano finisce il vino. Il matrimonio nella tradizione ebraica è importante, è il punto di approdo di un percorso che nasce molti anni prima, c’è l’accordo tra le famiglie degli sposi, si ha poi il contratto totale, il marito porta soldi alla moglie, la moglie porta qualcos’altro e si costituisce una sorta di fondo per i figli. Il fidanzamento tra i due si rompe è un disastro, e il lavoro impegna loro due, le loro famiglie, fino a quando non si arriva alle nozze. Ci si accorge a un certo punto che il vino è finito, e Maria chiede di trasformare l’acqua in vino: nella traduzione italiana Gesù dice “Donna cosa c’è tra me e te”, ma in aramaico è come se negasse l’autorità di Maria, un modo un po’ strano per rivolgersi alla madre, anche se si è grandi (uno dei comandamenti riguarda proprio i genitori). Maria gli sta chiedendo qualcosa che secondo lui è un’infrazione dei tempi scelti dal Padre. Sono tanti gli elementi di originalità, di non conformità che quest’uomo esprime. Siamo di fronte a un personaggio molto particolare che per certi versi può incarnare quanto a saggezza e autorevolezza l’idea messianica, dall’altra la tradisce, ha un atteggiamento non violento in ogni occasione, rimandando alla logica del perdono e non ha intenzione di intervenire (“date a Cesare quel che è di Cesare…”). Gesù non è attento alla politica, pone le basi per un rapporto nuovo: si auto accredita come messia, ma un messia un po’ particolare. Secondo un’interpretazione, Giuda vede Gesù per i denari, ma è uno zelota, deluso dal fatto che Gesù non sembra rivelarsi mai, non arriva mai alla Rivelazione, per cui crea le condizioni per farlo reagire. Gesù si muove in un mondo ostile ai romani, quello delle campagne: chi sta nelle campagne è il cuore pulsante della produzione dell’economia di Israele. Questa gente viene continuamente danneggiata dalle tasse, tra cui anche quelle romane, che costruiscono strade e città per governarli. Un predicatore che passa il suo tempo fra questa gente effettivamente può dare l’impressione del Messia atteso, poco importa che lui dica il contrario. Siamo di fronte a un personaggio che si pone in una situazione spesso anche ambigua, problematica. Nel vangelo di Matteo, si racconta del momento supremo, in cui Gesù, catturato e massacrato viene crocifisso, la peggiore forma di pena di morte, che si usa per gli schiavi, la cui forma, richiama l’effrazione dalla casa del padrone. La parte orizzontale, legata alle spalle, del condannato, richiama il fatto che lo schiavo perfido ha metaforicamente infranto la casa del padrone, alzando l’asta. Gesù è in croce e si svolgono delle scene attorno a lui. Matteo riferisce della scena da un certo punto di vista, annotando una serie di cose che solo una persona che era lì presente può vedere. A un certo punto racconta che Gesù sta per morire e dice “Dio mio perché mi hai abbandonato” e tutti pensano che stia richiamando Elia. Questa cosa la può riferire solo qualcuno che davvero c’era, che guardava. Gesù è di Nazareth, dove si parla l’aramaico con un forte accento: a Gerusalemme quando ci sono coloro di Nazareth che leggono la Torah, che va letta bene, le parole devono essere pronunciate bene; infatti, chi viene da Nazareth non è amato. È un uomo che sta morendo e la parola Dio somiglia a Elia, se pronunciata male. Chi era intorno evidentemente davvero aveva capito male. Erano parole di Gesù, che sono state ricopiate e tramandante. Quello che Matteo dice è un dato di assoluta storicità, solo un ebreo, che conosce bene il suono delle parole poteva riportare qualcosa di simile, è un particolare che nessuno poteva ricordare. I vangeli, infatti, nel corso del tempo sono stati interpretati come fonti storiche, anche da questi dettagli “che non servono”. Ulteriore elemento è il principio di contraddizione: vi sono delle differenze tra i vangeli. Queste contraddizioni depongono a favore della storicità. Queste persone hanno dato un ricordo fortemente personale; sulla base di questo, un altro elemento interessante, è che a volte non capiamo benissimo perché chi scrive pensa in aramaico e scrive in greco, se facciamo l’esercizio di ritradurre in aramaico alcuni passaggi tornano. Tutti questi elementi vanno a deporre a favore di una storicità dei vangeli. Elemento un po’ a parte è il vangelo di Giovanni, il meno interessato a raccontarci i fatti ma più interessato a farci capire le cose. Lezione 2 – 29/10 I discepoli di Gesù sono convinti di averlo visto risorto. Noi storici ci asteniamo di commentare questo dato di fede, certo è che si registra un cambiamento forte nell’atteggiamento dei suoi discepoli, queste persone che ha chiamato attorno a sé. Li abbiamo visti nascondere e scappare quando Gesù ha problemi: nei vangeli troviamo scene “scomode”; Pietro fa la figura del traditore, ma anche gli altri lasciano solo Gesù quando sul monte degli Ulivi soffre. Quando lui viene catturato ed esposto pubblicamente, non abbiamo notizia di particolare sostegno. Il fatto che Matteo ci tenga a dire che c’era durante la crocifissione, utilizzando una serie di preposizioni di luogo che fanno capire che ha una determinata posizione. C’era la mamma, c’era Miriam, l’altra Maria, c’era Giovanni, colui che Gesù amava, forse il più giovane tra i compagni, quello con cui forse aveva un rapporto da fratello maggiore. Degli altri non sappiamo nulla, segno evidente che si nascondono. Erano stati identificati come un gruppo di rivoltosi il cui capo veniva ammazzato. Successivamente iniziano a predicare in nome di Gesù, andando in giro fomentando la folla perché si riconosca nel messaggio evangelico. È evidente che siamo di fronte a un gruppo che ha identificato una missione. Si sono decisi e hanno sposato un’idea che li porta a non avere più questo bisogno di nascondersi, a esporsi e in alcuni casi a farsi ammazzare: Pietro, Paolo (che conosce Gesù in seguito) etc. Questa gente viene fatta fuori perché sta portando avanti in mezzo alle folle un Messaggio che è quello del Cristo. Il Christos, l’Unto: nell’Antico Testamento abbiamo esempi molto importanti di re che sono anche profeti, unti in quanto scelti da Dio e lo spirito di Dio è entrato in loro. Non sono semplici re, ma sono dei re che imperano sul popolo. Sono ad esempio scrittori di poesia che è preghiera, come i Salmi di Davide, o che fanno riforme come Salomone. Fino a Salomone non esisteva nell’ebraismo un unico tempio, ma ne esistevano tanti. Lo sappiamo perché quando l’Etiopia fu conquistata dagli italiani durante l’epoca coloniale, i soldati dell’esercito si accorsero che in Etiopia esistevano gruppi di ebrei neri. Gli intellettuali, gli antropologi e gli etnologi che giravano il mondo si interessarono tantissimo di queste persone, lasciandoci relazioni che testimoniano l’esistenza di ebrei falasha. Si tratta di ebrei neri che dicono di discendere dalla regina di Saba, la moglie di Salomone. Si racconta che quando la regina fu messa nelle condizioni di tornare in Africa da Salomone, portò la dottrina dell’ebraicità con sé e i maestri delle leggi fecero sì che l’ebraismo si diffondesse in Etiopia. Nacquero queste comunità ebraiche in Etiopia che poi, anche a causa della conformazione dell’Etiopia che non dialoga direttamente con la Palestina, ma dialoga anche con altre realtà, rimasero a una conoscenza dell’ebraismo molto antico, così com’è antico il cristianesimo etiope, fortemente giudaizzante. Rimanendo isolati, come una sorta di arcipelago all’interno dell’Africa, hanno conservato tradizioni antichissime. Questi falascià continuarono a fare sacrifici, crearono piccoli templi facendo un cerchio con un ramo di legno, ci testimoniavano dei massi, crearono l’altare come fece il padre Abramo e sacrificarono su quell’altare, e lo facevano ancora negli anni 30. Ora non c’è quasi più nessuno, con l’istituzione dello stato d’Israele, sono partiti degli ebrei che hanno colonizzato i falascia (termine che oggi assume anche un significato negativo). La testimonianza della loro memoria per noi è una testimonianza ricchissima, di un mondo a qualche secolo prima di Cristo. Salomone si muoveva in una situazione dove c’erano tanti piccoli templi e tanti sacerdoti che appartengono a una determinata tribù (tendenzialmente sono 12). Egli afferma che Dio gli ha detto che vuole essere adorato in un unico luogo e c’è quindi la costruzione del tempio di Gerusalemme. Salomone dà delle istruzioni alla virgola, quanto deve essere largo, lungo, quanti gradini devono esserci etc. Egli, quindi, dice al suo popolo di essere tramite di Dio e profeta. In questo tempio si nascondono le tavole della legge, che si racconta siano pervenute oggi in Etiopia. Si racconta che per non farli rubare, ciascuna chiesa fece delle copie, e quando nel giorno dell’epifania, festa enorme della chiesa etiope, a Adis Abeba dalle chiese escono in processione i fedeli, ogni chiesa manda in processione le tavole e le loro arche dell’alleanza: oggi non si sa più quali siano le originali. Del tempio oggi non è rimasto più nulla dopo la distruzione fatta dai soldati romani. Da qualche anno in Israele ci sono scavi archeologici che hanno portato al recupero di suppellettili usate nel tempio, a volte frammenti che gli archeologi hanno ricostruito, e a Gerusalemme è stato fatto un museo dedicato al tempio. È stato possibile ricostruire tutta una serie di immagini molto fedeli alle suppellettili ma dell’arca in realtà non è stato trovato nulla. Se questa è la mentalità sugli antichi re, è chiara l’idea di un Messia unto. La Torah per loro è la legge: se leggiamo il Pentateuco (denominazione della prima parte della Bibbia, che nella versione greca detta dei LXX è divisa in cinque libri, designati con gli speciali nomi di Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Gli Ebrei la chiamano con il nome complessivo tōrāh "legge") troviamo storie e genealogie che servono a definire Israele, ma ci sono anche norme e precetti. Dio ha parlato attraverso la legge, e il Corano è molto simile, in questo, alla Torah. Il Levitico è pieno di queste leggi: trattandosi di una legge santa, il ruolo di chi amministra la giustizia è sacrale. È facile pensare a un re santo e profeta, come David, come Salomone. Anche oggi l’oggetto, che non è medievale ma è più recente, tipico del riconoscimento degli ebrei, la stella di David, lo scudo di David, è un oggetto identitario e sacro. Gesù il Cristo è un calco di una parola greca (tanti sono gli ebrei ellenizzati) che rimanda a tutto questo. Nella tradizione cristiana non è più il messia che fa l’uomo politico, ma che ama, perdona, si fa ammazzare e risorge. Si prende dunque questa parola, che non rimanda più a un messia guerriero. I primi cristiani sono tutti ebrei, ragionano come ebrei e ci mettono un po’ a capire cosa ha detto quest’uomo. Accettano qualcosa che per un ebreo è inaccettabile, ovvero che Gesù sia figlio di Dio. Nei vangeli quando si racconta dell’incontro di Gesù con i sacerdoti del tempio: quando lui si incontra con il sommo sacerdote, alla domanda “Sei figlio di Dio?”, e alla risposta “Tu l’hai detto”, il sommo sacerdote si strappa le vesti, un gesto rituale, un gesto dell’abominio della disperazione. Lo stesso squarcio, che le nostre fonti evangeliche ci raccontano, tornerà quando Gesù muore. Il pio ebreo non pensa che Dio possa avere figli. Pensiamo quindi a quale cambiamento sia stato fatto per accogliere un messaggio del genere: le chiese più antiche hanno forti venature di giudaismo. Gesù Cristo è un messia riconosciuto come tale di segno completamente diverso rispetto al messia della tradizione ebraica. Grazie a Christian Nano, questo studioso americano di Paolo, ebreo, sappiamo che le lettere di Paolo sono state retrodatate e questo ha portato con sé la retrodatazione degli atti degli apostoli, vangeli etc. Queste persone che scrivono di Gesù, in greco, forse agivano su una fonte, la fonte Q (da Qellen, in tedesco), studiata dagli esegeti tedeschi, che per primi, grazie alla Riforma protestante, hanno fatto degli studi. I vangeli discenderebbero tutti da un’unica fonte in aramaico, non ebraico, lingua morta ai tempi di Gesù, un po’ come l’italiano e il latino oggi. L’ebraico è quello biblico, ma le persone parlano in aramaico. Per non dimenticarsi nulla, i seguaci di Gesù scrissero un riassunto che forse funzionò anche da guida per coloro che scrissero in greco, una specie di riassunto delle azioni di Gesù e soprattutto dei suoi detti, quelli che noi oggi identifichiamo con la parola greca logia, il plurale di logos, che vuol dire tante cose: i logia di Cristo sono parole che chi scrisse riferiva a Cristo. La modalità di scrittura è un po’ come il cantiere dell’archeologo, in cui si scava e si hanno gli strati. Dentro i testi greci ci sono come incastonati dei pezzettini che sono evidentemente pezzettini kehcmatici, da khecma, κέκραγμα, il grido in greco, che gli apostoli facevano per richiamare l’attenzione delle folle. Per farlo, urlavano delle cose, come “Credo in Gesù Cristo, crocifisso e poi risorto”. Questo era l’urlo che emettevano per le strade che chiamiamo kherigma. Nella bibbia ce ne sono tantissimi di questi gridi, così come ci sono delle parti che si capisce che siano orali. E sono parti che sono parole di Gesù. Le forme di preghiera siamo sicuro siano quelle che si sono sentiti dire. In parte in questi kehrigmna c’è la loro voce, in parte quella di Gesù. Gesù è un personaggio strano: non ha scritto nulla, pur sapendo leggere e scrivere. Durante il batmitzvah discute con i dottori del tempio: sappiamo che scrive perché a un certo punto gli evangelisti ce lo dicono, ovvero quando salva l’adultera che sta per essere lapidata, secondo la legge mosaica. In questa scena, si racconta che questa donna pescata nel fragrante è condannata e deve essere ammazzata. Qualcuno dei costudì della legge, i farisei, va a chiamare Gesù, che dice “chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”. Chi scrive ritrae Gesù in una posa quasi distante, Gesù è accovacciato a terra, seduto e scrive dei segni alfabetici sulla sabbia probabilmente con un bastoncino. Siamo di fronte poi a una persona colta, chi lo incontra e non lo conosce dopo averci parlato lo chiama rabbino, maestro: quindi perché Gesù non scrive e usa il racconto, che affida a questi discepoli? Una risposta non l’abbiamo. Antropologicamente sono tante le interpretazioni: c’è una grande, grandissima distanza tra l’oralità e la scrittura. Socrate, un grande effrattore, qualcuno che innovava, utilizzava l’insegnamento che si passa oralmente perché crea comunità, perché c’è un passaggio di conoscenze maestro-discepolo, discepolo-discepoli. Gesù ha sempre questa idea di comunità: in lui esplode il concetto di famiglia e fa diventare famiglia tutti gli esseri umani. L’oralità è molto adattiva, non prescrittiva. Gesù è uno che ha risposto, quando hanno chiesto cosa gli fossero le leggi, “ama il prossimo tuo come te stesso”, quindi la legge dell’amore e capiamo come depotenzi al massimo il male. È una legge che lascia molta libertà, complessa da applicare, ma sostanzialmente non è una legge. L’oralità è fortemente adattiva, non costruttiva, inclusiva etc. Antropologicamente parlando funziona in questo modo, e consente, con la creazione della comunità, la creazione di un patrimonio condiviso in comune, a cui tutti un po’ partecipano. La scrittura invece è fissativa ed è costituzionale. Sostanzialmente se la inventano le istituzioni. La scrittura fissa la legge e in questo modo diventa prescrittiva, la parola diventa legge, resta, e restare, al di là delle epoche storiche, significa creare un canone fisso, suscettibile di interpretazioni, cosa che aveva capito Paolo, quando, parlando ai Romani, scriveva “Ora è il tempo della libertà, e il tempo della grazia non è il tempo della legge”. Delle leggi quindi non gliene importava, perché il suo sguardo e quello dei fedeli era verso l’eternità e dunque ci si comportava secondo un’eticità superiore, ma non codificata, scritta invece nel cuore. Il testo “Gesù e il suo corpo” di Achim Buckenmaier spiega del corpo di Gesù come pubblico, un corpo che lui stesso offre agli altri, pensiamo a quanti rituali di religione avvengono grazie a lui: pensiamo a chi tocca il suo mantello e al miracolo della donna che sanguina continuamente e che Gesù guarisce (il sangue per gli ebrei è un tabu, è fortemente impuro). Lei si nasconde nella folla, gli tocca il mantello, Gesù avverte questo tocco. Destro e Pesce fotografano bene questa dimensione: il suo corpo è dato agli altri, è un corpo donato agli altri. Anche in questo senso si capisce la coerenza delle parole dell’Ultima cena. È coerente che Gesù dica di mangiare il suo copro, il corpo che lui sa che sarà distretto, è qualcosa condiviso fino all’ultimo, fino alla forma più naturale e umana. Una persona che si dà continuamente non può scrivere, come ha conservato il suo corpo, conserva la sua memoria. Lui non ha voluto tenere per sé niente, nemmeno il suo corpo, che ha affidato e condiviso come un vettore di santificazione e guarigione, così affida sé stesso alla memoria, arrivando a avere un carico di fiducia nell’altro che rasenta la fede. Saremmo di fronte quindi a una coerenza totale del proprio messaggio: dare il corpo, dare il Messaggio, donare le parole. Gesù è uno dei pochi da cui comincia una religione così importante ma che non ha scritto nulla. Dopo di lui, quello che accade ce lo raccontano gli atti e le lettere, specie di Paolo. I suoi discepoli sono convinti che lui sia risorto. La prima persona che lo incontra è la donna Maria, a cui lascia questo annuncio: in epoca medievale si riconobbe in Maria la prima apostola. La Legenda Aurea di Jacopo da Varazze parla di Maria Maddalena e afferma che arriva a Marsiglia come apostola. In Matteo 5, Gesù parla della distruzione del Tempio, facendo una specie di collage del ricordo dei suoi discepoli e parla sia della distruzione del tempio che della profezia della sua resurrezione e sulla fine dei tempi. Quando si scrivono gli atti degli apostoli, chi scrive è convinto che Gesù abbia lasciato a chi rimaneva il Vangelo e la buona notizia, ovvero che tutti gli uomini sono salvati. Nel mondo ebraico la testimonianza di una donna non avrebbe valore in tribunale, ci vuole sempre un appoggio maschile. Vede quindi il sepolcro vuoto e scambia Gesù per qualcun altro, il giardiniere, e lo dice agli altri. Negli atti si capisce che si è creato un gruppo di fedelissimi, coloro che hanno condiviso con Gesù quando lui era in vita e hanno condiviso con lui la predicazione, quindi i suoi compagni. Accanto a loro ci sono anche altre persone che si sono unite al gruppo e che magari non hanno fatto parte del gruppo storico, di cui per tanti anni si è esaltata la semplicità. Siamo di fronte a un gruppo composito, dove alcuni sono probabilmente più ignoranti, ma altri non lo sono, tra cui Matteo, sicuramente una persona dalla cultura diversa. Secondo studi di tipo antropologico, il fatto che ci siano individui non coltissimi è anche garanzia di una memorizzazione più corretta delle parole di Gesù: più sei colto più tendi a interpretare, e ricordi non esattamente le parole, ma ricordi più l’interpretazione, ciò che hai capito. Il bambino invece tende a imparare più in fretta e a trasmettere le cose come sono. Chi ha studiato poco tende a cristallizzare il ricordo, e in questo gruppo c’è chi assolve di più alle funzioni di scrigno della memoria, ma non tutti ovviamente sono ignoranti. A questo gruppo composito si aggiungono altre persone, alcuni si convertono, il caso più eclatante è Saul di Tarso. gentile2 s. m. e agg. [dal lat. tardo, eccles., gentilis agg., gentiles s. m. pl., formato, come il sinon. gentes, sul gr. τὰ ἔϑνη «i popoli (pagani)», che è ricalcato a sua volta sull’ebr. göyīm «i popoli (non ebrei)»]. – 1. s. m. Appellativo, per lo più usato al plur., con cui, nei primi secoli del cristianesimo, furono designate le genti non giudaiche (e quindi pagane) partecipi dei costumi e della cultura greca nel mondo romano: l’apostolo dei g. (più comunem. l’apostolo delle genti), san Paolo. Saul è un fariseo, conoscitore della legge, coltissimo, uno zelante custode della legge, della parola di Dio. Fa parte di quei gruppi di “integralisti” che perseguitano i cristiani, i quali sono ebrei che nella percezione di un ultraortodosso come Saulo sono eretici, poiché dicono che Gesù è il figlio di Dio. Si racconta che egli sia intervenuto nella lapidazione di Stefano, detto anche il protomartire, un testimone prima degli altri testimoni. Interessante il fatto che si chiami Stefano, un nome greco: ci sono tantissimi ebrei ellenizzati, forse anche più permeabili all’insegnamento di Gesù, più ricettivi, proprio perché si è maturata una certa lontananza dagli schemi interpretativi israelitici. Saulo ci racconta che mentre andava a Damasco è protagonista di un fatto straordinario: dice di aver visto una grande luce abbagliarlo, cade dal cavallo, diventa cieco, sta in questo stato di cecità da luce per circa 3 giorni, a quel punto gli si staccano delle escrescenze carnee dagli occhi e vede. È interessante il fatto che siamo di fonte a un incontro non fisico. Paolo a un certo punto cambia quindi completamente strada: nelle lettere, quando parla della conversione in realtà usa una una parola greca, composta da due parole, ovvero meta, proposizione avverbiale che indica quando qualcosa cade e si rovescia, o anche un movimento di rovesciamento, e noia, che vuol dire mente, conoscenza, schema interpretativo della realtà. Il greco è una lingua ricca di vocaboli. Paolo intende indicare la sua conversione come ribaltamento della mente, come se ci lanciasse un’immagine, il vedere le cose al contrario. Per lui tutto ciò che prima andava bene, a quel punto non gli funziona più, e gli dispiace di aver ucciso Stefano, diventando un fedele propagatore. Qualcosa di simile lo si ritrova in Francesco d’Assisi nel Testamento, scoperto negli anni 20 del 900 da uno studioso tedesco. Francesco descrive la sua conversione e come si accorse di essersi convertito, provando amore per i lebbrosi: quello che gli faceva orrore gli provoca amore. Paolo inizia a diventare un fervente propagatore della buona novella. Gli altri discepoli sono i compagni di Gesù e in particolare c’è un compagno che si chiama Giacomo, e che si definisce “fratello di Gesù” (non è il figlio di Zebedeo). È evidentemente una persona che esercita un certo carisma, tant’è che attorno a lui si crea un gruppo che fonda la chiesa, l’ecclesìa, di Gerusalemme. L’ecclesia è un gruppo, movimento di persone, non la chiesa odierna, che si riconoscono in quanto hanno la medesima fede, ma non c’è quell’istituzione che avremo nel 4/5 secolo. Sono gruppi di credenti che si organizzano tra di loro, e più il gruppo è grande più si specializzano al loro interno. È una dimensione comunitaria dove si vive molto in comune e ci si fa carico dei bisogni altrui. Ci sono subito delle persone che si occupano delle persone più deboli: dal punto di vista del diritto ben presto queste comunità prevedono delle specializzazioni. Ci sono delle persone che hanno più prestigio per la fede, e che le comunità tendono a considerare le loro guide, quelli che diventano gli episkopoi, i vescovi. A Gerusalemme si radunano attorno a Giacomo. Giacomo ha una sua visione che condivide con i personaggi più influenti della chiesa di Gerusalemme, tra cui Pietro, molto connotata. Sono tutti adulti, questi della chiesa, strutturati dal punto di vista di fede e cultura, e cambiano il loro modo di credete in quanto hanno riconosciuto in Gesù il messia. Fin dall’inizio però si pongono un problema grave, ovvero a chi predicare Gesù. La risposta di Giacomo e di Pietro è chiara: Israele è la sposa del signore, è il popolo di Dio, e quindi prima si convertiranno gli ebrei e poi il resto del mondo. Una visione molto interna all’ebraismo, coerente con la tradizione della Torah, dove Israele è appunto la sposa adultera di Dio, che lo fa arrabbiare, ma lui la raccoglie sempre. Israele è il popolo eletto, il popolo di Israele si considera figlio di Dio, perché è la progenie del figlio del miracolo, Isacco. Abramo aveva una moglie anziana, non avevano figli: gli angeli di Dio visitarono lui e Sara assicurando il miracolo. Da questi due anziani nasce Isacco, il progenitore di Israele, quell’Isacco che doveva essere sacrificato e che Abramo aveva messo sull’altare che stava sulla stessa altura dove avevano costruito il tempio, lì dove c’è la moschea di Al-Aqsa. Israele percepisce quindi sé stesso come un miracolo. Il passaggio dal nuovo al vecchio, da ciò che non è tradizionale, ma sacrale, è l’insegnamento di Gesù, ma per chi appartiene al mondo ebraico non è facile accettare questa identità dimenticando le proprie radici. Per chi è molto osservante l’ebraicità pervade tutta la vita. È una dimensione molto totalizzante. Specialmente per le comunità di chi si converte inizialmente è quasi naturale portarsi una scansione del tempo e della ritualità. L’esempio, la vita, i detti di Gesù ebbero una forza talmente impattante che riuscirono a far cambiare le cose. I gentili, in aramaico chiamati “non ebrei”, non riceveranno prima la salvezza, secondo loro. Ecco perché Giacomo e i suoi continuano a fare la circoncisione e continuano a non mangiare certe cose, osservano i comandamenti della legge e tutta una serie di rituali, ammettono ad esempio il levirato. Hanno quindi un po’ cristianizzato la legge, ma sono decisi a fare prima un’azione interna a Israele. Sappiamo che anche Pietro la pensa come loro perché l’ha fatto scrivere. In una delle sue lettere, Pietro racconta che pensava alcune cose, ma poi Dio gli rivela che può mangiare ciò che gli pare. Una tradizione antichissima parla del martirio di Pietro a Roma, di cui troviamo traccia anche nel II secolo. Che sia qualcosa di inventato sembrerebbe strano, perché nel secondo secolo c’è ancora memoria. Paolo non la pensa affatto così. È un uomo colto, che maneggia bene il credo, in grado di sostenere anche una esposizione pubblica di fonte ai filosofi della scuola di Atene. Sceglie questo nome per sancire la distanza da Saulo, e per sancire la rinascita in Cristo. Paolo afferma che bisogna predicare a tutti: Gesù Cristo è venuto per tutti, come dice chiaramente in una lettera ai romani: egli ha sposato completamente l’idea di Gesù. Paolo prima che Pietro cambia idea e si trova molto solo con qualcuno dei suoi, quasi tutti ebrei ellenizzati, tanto che se ne vanno da Gerusalemme perché in totale disaccordo. Vanno in comunità ebraiche di altre nazioni (che sono in tutta la zona medio orientale, europea e nordafricana). Egli si reca ad Antiochia, una città importantissima, multietnica, multilingue, multirazziale, dove c’è una grande comunità ebraica, molto ricca e organizzata che ha un impatto molto forte. Abbiamo addirittura notizie dei timorati di dio, non ebrei, ma interessati alla cultura ebraica che ruotano intorno ai gruppi delle sinagoghe. Amano stare con quelle comunità pur non facendone parte. Paolo va lì insieme a alcuni amici, tra cui uno, Barnaba, e predicano un Cristo “per tutti”. Gli apostoli prima predicano dentro la comunità ebraica, poi iniziano sempre di più a andare fuori. Paolo lavora, fa molti mestieri, e attraverso il lavoro entra in altre comunità e le usa come punto di appoggio: Paolo lo dice in una delle sue lettere. Oltre a sostentare sé stesso riesce a entrare anche in luoghi altrimenti preclusi, dove parla, predica e ottiene conversioni. A Gerusalemme però si viene sapere cosa fa Paolo, e Giacomo si arrabbia, perché secondo lui sta distruggendo la giusta interpretazione del Messaggio e soprattutto taglia le radici ebraiche. Gli manda quindi dei missionari e Paolo, quindi, scappa e va a Roma. Arriva lì incalzato da Giacomo, che avendo un certo ruolo e prestigio gli complica il cammino. A Roma trova una comunità molto grande, strutturata, di antichissima fondazione. Sappiamo molto della comunità ebraica romana perché oltre alle opere scritte, abbiamo tantissimi reperti archeologici, soprattutto necropoli e corredi funerari, che grazie a iscrizioni su pietra, ci hanno fatto capire che questa comunità era molto grande, aveva al suo interno molte funzioni, era molto strutturata e sembrava molto ricca. Paolo va da loro e trova praticamente già i cristiani. Paolo, nella lettera ai romani, scrive di alcuni di loro, fa i nomi di due coppie, due uomini e due donne, che si sono convertiti a Gesù. Tuttavia, la comunità conosce il Gesù ebraizzato di Gerusalemme. Molto spesso gli ebrei ellenizzati che parlano greco vanno a Gerusalemme almeno una volta all’anno, per la Pesach. In quell’occasione sicuramente qualcuno ha incontrato Giacomo, convertendosi, e portano a casa la credenza. Se leggiamo la Lettera ai romani, su cui tanti si sono arrovellati nei secoli, commentata anche da Martin Lutero, pensando a chi si sta rivolgendo, la capiamo perfettamente: in sostanza dice che i tempi sono cambiati e si ha un nuovo orizzonte, quello della grazia. Non ci salva la legge ma l’amore. Il distacco tra Pietro e Giacomo si ha sicuramente già quando Giacomo muore. Questa visione di Giacomo rimane interna della comunità di Gerusalemme e se passa alle comunità ebraica, è ben presto superata dagli eventi. La lezione di Paolo vince in quanto il messaggio di Gesù viene dato anche a chi non è ebreo e questi diventano subito maggioritari. Paolo si trova di fronte a qualcuno che è rimasto giudeo, ma anche a quei cristiani profondamente giudeizzanti. C’è un’attenzione a ritualità è legge che per Paolo non va assolutamente bene. Egli enuclea quelli che sono i punti più caldi e importanti degli insegnamenti che ha ricevuto. Giacomo intanto muore, martirizzato. La sua interpretazione è legata a un grippo di seguaci che però non ha più modo di agire tanto profondamente e in qualche maniera la versione di Paolo finisce per diventare, anche con la adesione di Pietro, la versione che più facilmente troverà ascolto nelle varie comunità. Anche Paolo sarà poi ucciso. Paolo in sostanza de-ebraizzò i romani, tolse quel rispetto secondo lui toppo formale, della legge giudaica. Se andiamo leggere uno dei più bei Commentari latini del Vangeli, quello dell’Ambrosiaster, seguace di Sant’Ambrogio, egli lo dice chiaramente: Paolo loda i primi cristiani che non hanno visto niente ma hanno creduto. (Gesù gli disse: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Gv 20,26-29)). Sul finire del II secolo si diffuse l’idea che la comunità romana fosse stata fondata da Pietro che aveva creato una norma organizzativa stabile: lui vescovo avrebbe creato i vescovi successivi. Ci si dimentica e si passa sopra a un momento così importante per la comunità romana che fu l’arrivo di paolo. Questa visione si è poi consolidata: Roma, dopo la riforma, è capo della chiesa romana di derivazione pietrina. Ci sono anche fonti collaterali che ci raccontano di questi spostamenti di Paolo: è accertato oggi che la Lettera agli Ebrei non sia di Paolo, ma di qualcuno vicino all’ambiente paolino, e fa parte di questa schiera apostolica di una generazione successiva. Alcuni provvedimenti sono presi da Claudio nei confronti dei Giudei: in epoca augustea c’è uno scrittore ebreo, Giuseppe Flavio, che produce una storia degli ebrei in cui ci sono vari riferimenti molto interessanti a questa epoca apostolica. Sul Testimonium flavoianum, una mano cristiana successiva appose delle correzioni. Ad esempio, scrive “Gesù Cristo, figlio di Dio benedetto”, cosa che di certo Giuseppe non ha scritto. Queste fonti ci consentono di ricostruire questi passaggi, ma le date sono un po’ incerte. Alcune fonti esterne al canone ci parlano dei cristiani: era un problema capire chi fosse ebreo e chi fosse cristiano. I Romani erano abituati alle varie correnti interne all’ebraismo: i cristiani potevano essere gli zeloti, i sadducei di turno. All’inizio per loro sono tutti ebrei, in quanto non ne vedono la differenza. Siamo di fronti a conoscenze che si apprendono se si è all’interno della comunità. In alcune fonti classiche si capisce che non si sta parlando degli ebrei, ma si sta parlando degli ebrei cristianizzati. Lezione 3 – 5/11 Il termine Canone deriva dal sumero ma per noi è interessante che passi in greco con un termine di misurazione. È un po’ un sistema, un metro di valutazione: ciò che diventa Canone è ciò che è stato misurato e scelto e va a formare un sistema concluso. Nel mondo antico prima siamo di fronte a testi che nascono oralmente, poi questi testi tramandati oralmente sono messi per iscritto, in una fase successiva: il gruppo tende a chiudere questi testi all’interno di qualcosa di definito. Questo processo non è mai pacifico, porta a una serie di esclusioni, tali da far succedere liti e secessioni. È un processo che riguarda le letterature di tipo religioso. La tradizione ebraica e poi quella islamica conosce realtà simili a quelle che sono avvenute nel cristianesimo. Questa parola, Canone, la troviamo nel mondo cristiano a partire dal IV-V secolo. Il fatto che la parola non compaia nelle tradizioni non vuol dire che il canone non esista. Per quanto riguarda il Corano, si narra che fu consegnato nelle mani di Maometto dall’Arcangelo: sappiamo che è esistito un momento di oralità e poi lo scritto è divenuto canonico, e si è imposto come modello anche linguistico. Non esisteva un arabo parlato in tutto il mondo musulmano almeno fino a qualche anno fa e ciascuna popolazione parlava il siriano, l’egiziano etc., si leggeva però l’arabo in cui era scritto il Corano che era divenuto il metro della letteratura. Se cerchiamo le poesie del mondo islamico, vediamo come sono scritte in arabo classico, la lingua nobile per eccellenza. Accanto al Corano troviamo anche altri testi, i più celebri sono i detti del profeta in cui si raccolgono testimonianze antiche e molto presto sono usati come base per prendere decisioni legali. In questo caso nei detti del profeta abbiamo tante tradizioni diverse. Ci si pone il problema di quali siano i detti giusti: se prendiamo una qualsiasi edizione dei detti, sulla base della trasmissione di questi detti sono identificati quelli sicuri, “canonici”. Ne circolano anche altri ma non sono ritenuti canonici, tramandati da maestri definiti non affidabili. Si crea anche qui una sorta di canone. Tutto questi esiste anche nel mondo ebraico: non si usa questa parola ma concettualmente funziona così e ne esiste uno già ai tempi di Gesù, cioè un gruppo di libri che si considerano tradizionali, ispirati da Dio, sono quelli e non altri. Giuseppe Flavio ci lascia molto di interessante sui giudei del tempo: siamo nel I secolo. (il libro di Mosè di cui parla è il Pentateuco) La Bibbia ebraica canonizzata è la Bibbia farisaica, la Bibbia dei dottori della legge e noi sappiamo che è composta da tre sezioni. La prima è Torah, la legge, e ha questi libri: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. La Torah non è da sottoscrivere completamente all’Antico Testamento dei Cristiani, perché quest’ultimo ha delle diversità. La tradizione del mondo cristiano è diversa da quella di questo momento. La Bibbia ebraica è scritta in ebraico e ha qualche parte successiva in aramaico: è stata canonizzata dai farisei. Sono detti profeti minori in quanto considerati meno tradizionali rispetto agli altri profeti. I profeti anteriori sono quelli meno recenti, i più antichi. Vediamo ora i libri che vengono aggiunti a questo corpus: Ci sono alcuni libri che hanno un uso più di altri. Nei libri storici c’è la memoria di Israele e la sua storia: c’è tutta una genealogia del popolo. Chiaramente tutto questo è stato molto discusso e quello che vediamo è il risultato di tanti secoli di discussione. Se andiamo a mettere le mani nei singoli libri si apre un mondo di discussone, di opposizione etc. Per i Cristiani vale la Bibbia dei 70, una traduzione greca della Bibbia ebraica, di cui ci parla la lettera di Aristea a Filocrate e la rielaborazione della Lettera Presente nelle Antiquitates Iudaicae di Flavio Giuseppe. Quando abbiamo parlato degli ebrei ellenizzati, che tornano a Pesach e fanno i doni, questi uomini e queste donne dopo un po’ perdono la lingua ebraica, ma non il culto, in quanto si sentivano ebrei. Non parlavano aramaico o ebraico e non avevano neanche il rabbino in grado di leggere l’aramaico, perché spesso proveniva dalla loro comunità e lo sapeva male; non era in grado di fare l’omelia, e aveva bisogno anche lui della traduzione in greco. La torah, quindi, veniva tradotta e questa abitudine va avanti per tantissimi secoli: anni fa è stata scoperta una Torah del 14 secolo con delle decorazioni meravigliose per donne ebree catalane in Spagna. Nel mondo ebraico anche la donna ha dei compiti rituali di famiglia che deve conoscere: queste donne non sapevano l’ebraico, per cui avevano bisogno della traduzione in catalano in questo caso, ma ne abbiamo anche in giudeo arabo per gli ebrei di Sicilia. Ad Alessandria c’era un’importante comunità ebraica molto forte ma poco convenzionale e si faceva uso delle bibbie tradotte. Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che le comunità cristiane abbiano preso la traduzione greca da Alessandria, quindi, hanno avuto una traduzione del corpo biblico che non è esattamente quello della bibbia farisea. Durante gli anni di questa traduzione non c’era ancora stata la canonizzazione della Bibbia farisaica. La traduzione che arriva in mano cristiani era stata tradotta tra il III secolo AC e il 130 AC (data certa per via del prologo nel Siracide dove ci sono dei riferimenti storici che datiamo con assoluta certezza). Siamo prima di Cristo: le comunità cristiane tra la fine del I e inizio II secolo prendono un corpus di scritti di antica traduzione che non è quella farisaica. C’è una tradizione sulla Bibbia dei 70, una leggenda interessante dove sono inseriti dei ricordi storici: secondo questa leggenda si racconta che 70 rabbini (in alcune versioni 72) avrebbero tradotto per conto proprio la bibbia e se ne sarebbero avute 70 traduzioni uguali. In primis le comunità cristiane non partono mai da una loro traduzione di una bibbia che hanno in ebraico, ma prendono subito una traduzione greca. In secondo luogo, non è una traduzione da un autore, ma è una catena: c’è dietro effettivamente una tradizione biblica che sta nel rabbinato, probabilmente quello alessandrino. La traduzione è precedente ai cristiani, per cui anche le difformità appartengono a un periodo precedente al cristianesimo. Specie Isaia e Daniele sono tra i profeti più enfatizzati e c’è un motivo: il dolore di cui ci parla Isaia è il Cristo secondo i cristiani e altre eco si vedono in Daniele. C’è la volontà da parte dei cristiani di non togliere dei testi perché si rispettano come sacrali: gran parte delle comunità antiche sono fatte da ebrei convertiti che sentono la sacralità della Tanakh (acronimo delle tre sezioni della bibbia ebraica), al punto che viene tenuto dentro anche un libro imbarazzante, potremmo dire, come il Cantico dei Cantici, in cui si narra poeticamente dell’amore fisico e realistico dello sposo e della sposa. Nel nucleo ebraico il sesso non è peccato se è dentro il matrimonio, è una specie di dono che Dio fa agli uomini: come Dio crea dal niente, così gli esseri umani dai loro corpi creano altri esseri umani. In alcuni contratti di dote di epoca medievale il marito giura che si occuperà della soddisfazione sessuale della moglie. Nel Cantico dei Cantici ci sono dei riferimenti alla sessualità molto forti. È stato spesso visto come l’amore di Dio per la sua sposa (la Chiesa) (inizialmente interpretato come il suo popolo). Lo si tiene nel canone perché in primis le condanne al piacere non sono così chiare e un po’ perché fa parte di libri che si considerano sacri. I cristiani prendono questi libri quindi dai rabbini e le comunità di lingua greca e si uniscono al Canone testamentario. Sappiamo che tra tutti i vangeli che vengono prodotti ne vengono scelti 4, che sono appunti i sinottici, Marco, Luca, Matteo, Giovanni, le lettere apostoliche, gli Atti degli apostoli e l’Apocalisse di Giovanni. Anche di Apocalissi ce ne sono molte: l’apoccalisse non c’è nella Tanakh, ma le apocalissi circolano e a volte nella cultura ebraica sono accolte, altre meno. Le più importanti sono quelle di ambiente nordafricano. In Nordafrica si scrivono apocalissi fino a tutta l’epoca di d’islamizzazione: le più antiche sono del 7-8 secolo e sono tipiche della cultura ebraica. Di queste apocalissi alcune vengono tradotte in greco e poi in latino: una famosissima è la Visio Paoli (sono tradotte in latino con la parola Visione). Si tratta dei viaggi che qualche santo fa nel mondo ultraterreno e raccontano come sono fatti i mondi dell’aldilà. Circolano tantissimo e le troviamo nelle iconografie. Si tratta di un frammento databile al II secolo (alcuni studiosi lo datano al 170-180, altri anticipano), scoperto da Ludovico Antonio Muratori, in cui si dice che questi sono i testi del Canone cristiano. Abbiamo anche altre prove indirette. Nel 144 Marcione, che vive nella comunità romana dei cristiani di Roma, crea un movimento di dissenso molto forte che vuole debraizzare il cristianesimo. Marcione pensa che il giudaismo non c’entri nulla con il Dio di Gesù, iquello degli ebrei è un Dio vendicativo che ha come moglie Israele. Nei Vangeli abbiamo tanto di ebraizzato e egli vuole rimuovere tutto. Ciò vuol dire che in quell’epoca storica c’è già un corpus di vangeli: nel 144 Marcione è espulso dalla comunità. Visto che aveva tantissimi seguaci (tanti non ebrei si erano riuniti e erano d’accordo con lui) ci fu uno strappo pazzesco nella comunità. Dopodiché la comunità si assestò. II secolo d.C.: gli Gnostici considerava anche l’esistenza di rivelazioni segrete di Gesù NON presenti nei Vangeli canonici Arriviamo ai vangeli apocrifi, i deuterocanonici (come dicono i protestanti) o extra canonici, come dicono gli studiosi. Sono creati per dare delle informazioni su Gesù: i vangeli sull’infanzia parlano della vita di Gesù e Maria, ad esempio. Tutti colori che studiano la chiesa apostolica e quella post- apostolica attingono alle notizie di contesto che altrimenti non sapremo. Ritrovamento straordinario è quello dei Rotoli del Mar Morto negli anni subito alla fine della Seconda guerra mondiale, in Giordania. Per motivi anche legati ai movimenti bellici vengono fuori questi giacimenti straordinari. Sono stati conservati bene perché stavano in giare di coccio coperte dalla sabbia e si trovavano in un clima secco. Sono scritti in ebraico e con delle parti anche in greco. È stato trovato anche un frammento su cui si è molto discusso che secondo alcuni era un pezzetto di Marco. L’Ul Marcus, se è veramente quel pezzetto, si daterebbe al 50 DC: si tratterebbe di pochissime righe. Questo ritrovamento ci aiuta molto con la bibbia. Sono stati trovati anche i codici Nag Hammadi, in Egitto, che come vedremo ci saranno molto utili: in parte tutto ciò è finito nel mercato privato. Vangeli gnostici La parola gnosticismo è moderna, le fonti antiche parlano di gnosi. Gnosi viene da una parola di radice greca, dal verbo “conoscere”. Questi testi sono scritti in copto, quindi l’egiziano antico che non è quello pre-cristianizzazione. Lingua Copta: Lingua di cultura e d’uso attestata nel millennio che va dal sec. III al sec. XII d.C., il copto fu idioma dell’elemento autoctono di fede cristiana dell’Egitto accanto al greco e, a partire dal sec. VII, all’arabo. Ultima fase della lingua egiziana, il copto era scritto tramite l’alfabeto greco arricchito di alcuni segni supplementari derivati dalla scrittura demotica. In primis grazie a questi testi sappiamo che non esisteva una sola gnosi: si sviluppano delle idee un po’ diverse in base alle comunità. Dietro a questa parola si cela una pluralità di fonti e di visioni. In primis sappiamo che queste comunità credevano all’esistenza di un principio dualistico. Secondo loro quindi il bene e il male erano in perenne lotta tra di loro ma non avevano, a differenza delle altre comunità cristiane un’idea precisa sulla sconfitta del male: c’era una lotta contro cui bisognava combattere. Credevano fortemente nella predestinazione e ritenevano che Dio avesse scelto i suoi slavati e che molti erano destinati alla non salvezza. Altra cosa che sappiamo con chiarezza è che erano molto critici nei confronti del Pentateuco. Infatti, troviamo spesso nei loro testi la distanza da Mosè. È fortissimo questo dissenso quando si parla di Adamo e Eva: l’aver mangiato dall’Albero della conoscenza non è il male per loro. Sono quindi distanti da altre comunità e sono convinti che la dottrina non sia destinata a tutti. Si pensa quindi a un passaggio reale di conoscenza, quasi all’orecchio dei discepoli, un passaggio vincolato a passaggi etici. Se sei in grado di sopportare la verità il maestro te la dice: la verità è pericolosa, è un’arma e puoi fare cose cattive con essa. Il maestro quindi non solo si limita il discepolo ma lo mette anche alla prova. Tendenzialmente questi insegnamenti non si scrivono e se si scrivono lo si fa con un linguaggio da iniziati. Gli studiosi delle comunità gnostiche si scervellano in quanto gli manca tutta la loro conoscenza. I vangeli gnostici sono oggetto di grande interesse, non solo scientifico, nella cultura odierna. Il vangelo più conosciuto tra questi è il Vangelo secondo Tommaso, una collezione di parole segrete di Gesù, amato negli ambienti monastici, l’altro è l’apocrifo di Giovanni. Di quest’ultimo conosciamo ben 3 copie, è un testo classico della gnosi; il vangelo di Filippo, reso famoso da Dan Brown, in cui si dice che Gesù amava Maddalena e la baciava più volte e lei sarebbe stata la compagna del Signore. Ci sono tutta una serie di racconti sapienziali e tutta una serie di testi filosofici: il pensiero platonico è molto forte in quest’epoca. Vi sono poi scritti ermetici. Dell’esistenza della gnosi ne sappiamo anche da fonti esterne, perché ce ne parlano Celso e Plotino ad esempio. Sappiamo quindi che esistevano davvero. A differenza dei vangeli, il testo la Preghiera dell’Apostolo Paolo, veniva recitato durante le funzioni. Proviene da Nag Hammadi: per essere un linguaggio liturgico è veramente coltissimo. Nella traduzione ella gnosi di Giacomo, a differenza della tradizione del mondo romano, Giacomo è più importante di Pietro e non il contrario. Giacomo viene nominato per primo, a lui Gesù si manifesta prima di essere riconosciuto dagli altri. Giacomo interviene più volte nel dialogo mentre Pietro parla due volte sole. Si pensa che Giacomo e Pietro siano la rappresentazione di qualcosa: Giacomo rappresenterebbe gli eletti, i salvati, coloro che hanno accesso a quel livello superiore, mentre Pietro sarebbe la Grande Chiesa, quelli che non capiscono davvero tutto perché l’insegnamento del signore è paradossale, non capiscono ma hanno l’illusione di farlo. Come si dice in questo vangelo, hanno l’illusione di essere riempiti ma in realtà sono vuoti. Si fa capire che Giacomo è colui che davvero ha la verità cristiana. Sembra che gli argomenti trattati non siano in ordine logico, ma in ordine sparso ma non è così: probabilmente per chi conosceva le altre dottrine aveva un suo senso. Per quanto attiene alla cristologia, sono allineati con gli altri, si situano in una concezione del solco del cristianesimo maggioritario. Per esempio, Gesù lo chiamano “figlio dello Spirito Santo”: nel cristianesimo di lingua aramaico e siriaca la parola spirito è di genere femminile e quindi i credenti erano portati a pensare che lo Spirito fosse la parte femminile di Dio. Lo presentavano quindi anche come Figlio dello Spirito Santo, e parlavano di maternità di Dio. Questi credenti tra l’altro, di lingua aramaica, erano quelli che erano vicini a Giacomo, il fratello di Gesù, colui che si autodefiniva così. Nel vangelo di Giacomo si dice che nel mondo opera il male e i credenti sono destinati a grandi prove e grandi sofferenze: quindi vi sono violenze, maltrattamenti, accuse ingiuste. Tra l’altro ci sono una serie di tratti molto rudi in cui chi scrive rimugina sulle sofferenze anche disonorevoli del maestro e cosa succederà ai discepoli. Ma queste cose vanno cercate, perché martirio e morte sono criterio di salvezza e bisogna correre verso essi. C’è un linguaggio molto paradossale: si dice che la salvezza è molto difficile da raggiungere ed è per pochi. È vista imperante e riservata solo alcuni. Si insiste sul fatto che è necessario pregare per chiedere e intercedere, ma Dio dà soltanto ciò che vuole, in un continuo paradosso. Quello che si capisce in questo vangelo è che è forte polemica col cristianesimo maggioritario. Nella comunità del cristianesimo maggioritario si accolgono persone che fanno da mediatori con Dio e la comunità, come dei profeti, che parlano al posto di Dio: ma in questo vangelo si dice che ciascuno conquista da solo la propria salvezza, e i profeti di fatto non parlano per nessuno. Si discute riguardo questi ministeri di mediazione, perché di fatto non abbiamo ancora un clero: qui sono definiti carismi, degli uomini di Dio. Si pensa che chi ha scritto questo vangelo sia molto legato alla figura di Giacomo e al gruppo di Gerusalemme perché si richiama continuamente alla sua persona come garante dell’ordine. Riguardo Giacomo, c’è un miscuglio di tradizioni su se sia figlio di Zebedeo o fratello di Gesù. Chi scrive tra l’altro a un certo punto racconta del gruppo dei 12 che scrive le memorie e evoca alcune parabole e quindi chi scrive ha presente i vangeli della tradizione: siamo nel II secolo, forse agli inizi del III secolo, secondo gli studiosi italiani. In Giacomo compare la parola “apocrifo” nel senso di segreto. dice che scrive ma non vuole mettere in chiaro apertamente quello che dice; quindi, usa i caratteri ebraici per traslitterali nelle altre lingue. Non si vuole divulgare questo spirito a molte persone per volontà di Gesù. Giacomo dice che mentre una volta tutti e dodici i discepoli stavano insieme e richiamavano la memoria del Salvatore e organizzavano questa materia in libro e Giacomo per parte sua metteva per iscritto quello che figura nel suo libro. A proposito di linguaggi un po’ paradossali, Giacomo a un certo punto dice che se Cristo lo vuole egli lo seguirà ma doveva fare in modo di non farsi tentare dal diavolo: Cristo risponde che Satana deve metterli alla prova perché se si è perseguitati da Satana e si fa comunque la volontà del Padre, questo si ricorderà di loro. Sempre Gesù dice a un certo punto che bisogna affrettarsi a salvarsi perché in questo modo il Padre li amerà, ed è il pensiero malvagio che getta nell’ipocrisia. Arriviamo al vangelo di Verità: di questo scritto possediamo due codici, ma uno solo è quello di riferimento perché l’altro è molto corrotto. Nel 1945 è stato ritrovato tra i Codici di Nag Hammâdi. I codici stanno in rapporto complicato ma secondo le ultime acquisizioni della filologia, sembra che siano due versioni individuali della stessa opera. Questo vangelo è citato da un autore del II secolo della Grande Chiesa, Ireneo di Lione, che parla di un eretico di nome Valentino, gnostico, che fa circolare il vangelo della Verità, che si sarebbero fatti gli gnostici da soli. Secondo alcuni studiosi alcuni passi di questo Vangelo sono da attribuire al Vangelo della Verità, non di verità, e secondo altri quelli che vedremo sono passi attribuibili al IV secolo. In realtà il suo titolo è fuorviante, perché più che un vangelo è un’omelia ed è complicato determinare esattamente il genere letterario. Di sicuro chi l’ha scritto era vicino a questo Valentino, di origine egiziana, che muore dopo il 160. Di lui ci parla molto Clemente Alessandrino che scrive alla fine del II secolo (altra data in cui lo collochiamo). La parola di Dio diventa Gesù e chi cerca il Padre lo trova. Il contenuto del Vangelo della Verità rappresenta rigorosamente la dottrina gnostica: la dottrina dell'emanazione, la caduta delle anime nelle tenebre della materia, il prevalere dell'Errore e la dimenticanza di Dio, la necessità della conoscenza (gnosi) per riconquistare la salvezza ed il ritorno a Dio. È evidente che si riferisce a un livello di conoscenza che salva ma esattamente cosa voglia dire non lo si capisce. Questo vangelo è uno dei più complicati, è lungo e molto complesso. Un altro pezzo parla della Resurrezione e attesta una forma del nome di Cristo che troveremo nelle fonti pagano, Chrestos, invece che Christos. Già nel II secolo siamo di fronte a due grossi modi di vedere l’insegnamento diversi: da una parte l’insegnamento di Gesù, da dare a tutti, che tutti possono capire, non importa la cultura o l’educazione, perché Dio salva tutti, lo scrive Paolo nelle sue lettere. Dall’altra un mondo che inizia a mettere insieme un po’ le visioni di stampo platonico e antiche suggestioni giudaiche con il cristianesimo, creando una versione molto elitaria e esoterica dove ci sono non molti salvati, martiri, sofferenza, ed è fortemente ascetico. Già nel II secolo ci sono posizioni diverse: di Valentino, di Marcione sappiamo ben poco. Marcione forse era più vicino alla gnosi che alla chiesa secondo alcuni studiosi, ma abbiamo troppe poche notizie per dirlo. È importante capire che fin dall’inizio abbiamo tante comunità e visioni diverse nell’insegnamento di Cristo. Lezione 4 – 7/11 Come Gesù girava nelle strade di campagna, villaggi e zone remote, distanti dalle città, così i suoi discepoli porteranno il cristianesimo attraverso le città. Le strade che loro percorreranno per comunicare la buona notizia passano attraverso le vie cittadine. In primis ricordiamo che i primi cristiani sono ebrei convertiti. I seguaci di Giacomo sono piuttosto giudaizzanti, mentre un’altra parte, che identificheremmo come i seguaci di Paolo sono convinti di includere tutti, che tutti sono quindi salvati. Queste persone, che procederanno a convertire il mondo, saranno più legate alla visione paolina: Giacomo muore negli anni 50 e nessun altro nella comunità aveva il suo carisma. Per il popolo israeliano ci saranno anni durissimi: verrà distrutto il Tempio nel 70, dopo 80 anni viene distrutta Gerusalemme etc. L’Impero Romano opprimerà ogni forma religiosa, sia giudei sia cristiani, anche perché i romani non ne capivano bene la differenza. Consideravano i cristiani una sorta di setta giudaica. La scuola di Giacomo, essendo limitata da Israele non trovò una grande platea di seguaci. È soprattutto la visione di Poalo, più accogliente, che trova diffusione. Nella lora testa i seguaci di Gesù come scelgono le città, perché vanno ad Antiochia, a Corinto, a Tessalonica, a Roma e non altrove? Perché fondamentalmente il movimento che si sceglie è quello che ci porta nelle altre comunità ebraiche. Noi siamo a conoscenza di tante comunità ebraiche che sono presenti già da molto prima della distruzione del Tempio: a Roma già dal II secolo AC c’è una bellissima comunità ebraica, ma ce ne sono ad Alessandria e anche altrove. Questo perché molto giudei fanno i Mercanti e hanno seguito i grandi flussi commerciali: sono andati nelle zone più vivaci dal punto di vista dei commerci. Sono presenti quindi lì dove ci sono i grandi porti. Un’altra via che si segue è quella dei fiumi e gradi laghi: troveremo tante comunità che arrivano nel cuore della Russia, passando per quel sistema di mari, proprio perché i fiumi dell’antichità erano tutti navigabili, c’erano tanti piccoli porti e grandi fiumi. Troviamo tante comunità presso luoghi marittimi e laghi dove arrivano fiumi importanti. Le comunità sono più o meno grandi a seconda della grandezza del luogo. Come sempre accade, le persone tenderanno a vivere abbastanza vicine. Gli ebrei vendevano in strade piuttosto vicine, anche per ragioni di comodo, di utilizzo di risorse e per loro usanze. Nel mondo ebraico è importante il bagno purificatore, che si deve fare con l’acqua corrente. Lo si fa quado si diventa impuri e quanto ci si contamina con il sangue: ogni 28 giorni le donne devono fare, dopo il ciclo, un bagno purificatore. È bene non andare a dormire senza che ci si sia purificati. La notte essendo un momento particolare potrebbe essere un momento in cui “Dio dorme”. È meglio andare a dormire nella migliore condizione possibile, perché se qualcuno muore, durate la notte, muore in pace. Occorre andare vicino a una falda acquifera, creare un ambiente preferibilmente riscaldato. Ecco perché gli ebrei tendevano a vivere insieme, in quanto se la comunità viveva insieme, si potevano fare bagni comuni. Era necessario abitare in una stessa zona per le sepolture. Quando la comunità prendeva accordi con la città, pretendeva un ciminiere in una zona che fosse in città: un ebreo non poteva avere contatti con la morte, perché lo rende impuro. Quando Gesù muore durante la Pesach, la mamma di Gesù, una buona ebrea, non può toccarlo, se lo tocca diventa impura, e non può fare Pesach. Tendenzialmente i servitori dovrebbero essere ebrei, ma spesso sono schiavi, e quindi si può tollerare che diventino impuri. Non si può nemmeno passare sopra le tombe. Se si cammina in un cimitero e si ha contatto con una tomba si diventa impuri. Ci sono tanti motivi per cui si diventa impuri e bisogna pulirsi per cui si necessitano determinate strutture in breve tempo. Pensiamo poi al cibo: ci sono elementi di vita vissuta che condizionavano la vita. La carne doveva essere kosher, che era un cero tipo di carne specifica: la carne viene dissanguata, la bestia è sgozzata e poi il sangue è defluito completamente perché l’ebraismo ha il tabu del sangue. Vi sono tante parti dell’animale che non sono mangiate, come le interiora, i calli, i nervi. Il macellaio (a volte sono anche donne) fa qualcosa di semireligioso, perché l’operazione di scindere i pezzi è importante, in quanto in questo modo la carne è pura, non fa del male a chi la mangia. C’è quindi bisogno di creare un ambiente piuttosto importante per quanto riguarda l’uso dell’acqua e si deve preparare la carne in un certo modo. Stessa cosa per il vino. Per questo motivo gli ebrei tendono a stare insieme: il dovere dell’ospitalità è poi sacro, e lo è ancora di più nei confronti del connazionale. Quando gli apostoli partono e vanno in giro per il mondo, non hanno chi li sovvenziona, devono andare in un posto e lavorare. Loro, quindi, vanno nelle città dove sono sicuri che troveranno una comunità ebraica. Chiederanno ospitalità e la riceveranno e chiederanno aiuto per il lavoro; Paolo dice che ha intrecciato le tende, ha fatto “tutto con tutti”, e non intende solo il fatto che ha cercato di parlare con tutti, ma intende anche il fatto che ha fatto lavori anche di bassissimo livello perché comunque aveva il modo di parlare quando entrava in contatto con piccole comunità con cui lavorava. Ecco perché si scelgono certe città invece che altre. Noi non abbiamo la mappatura completa di tutte le città, anche di piccola dimensione che ospitavano gli ebrei, ma abbiamo delle idee. Delle fonti magari vengono trovate facendo degli scavi. Il melograno è un frutto che porta fortuna, e quando lo si trova è facile che si registri una presenza ebraica, ma non è loro uso esclusivo. Abbiamo una guida a riguardo, il Libro dei Viaggi, molto tardo, scritto nel XII secolo, da un ebreo spagnolo che si chiama Beniamino da Tudela. Scrive questo libro per fare una sorta di guida dei mercati ebrei. Egli voleva aiutare i suoi connazionali con il sistema usato dagli apostoli. In questo Libro parla di tantissime città, qualcuna che non esisteva all’epoca di Gesù, come Costantinopoli, dove c’è una grande comunità ebraica, ma anche di tante che esistevano già. Questo libro ci è stato molto utile per capire come questi ebrei si muovevano. Altro elemento da tenere presente quando parliamo di questi spostamenti: gli ebrei hanno fin dall’età antichissima una fascia di popolazione abituata a muoversi grazie ai commerci. Nelle varie civiltà c’è l’abitudine non a stare isolati, ma a muoversi tra le varie comunità. Tendenzialmente le donne erano fatte sposare con uomini di altre comunità. La famiglia trovava uno sposo che stava altrove, almeno tra gli ebrei mediterranei della prima diaspora, della zona che dal Sinai corre per la fascia del Nord e dell’Africa, ci porta poi in Spagna, Francia e Italia. Si chiamano ebrei “sefarditi”, ebrei del sud, A un certo punto della storia incontreremo quelli che sono gli ebrei delle comunità del centro Europa (Russia, Polonia, Ungheria, Prussia). Gli askenaziti, questo è il loro nome, hanno usi e costumi diversi dai sefarditi e molti dei sefarditi non amano mischiarsi con loro. Abbiamo notizie di donne i cui padri preferivano mandare la figlia lontano pur di farla sposare con un sefardita, perché gli askenaziti non furono sempre ben apprezzati. Alcuni sefarditi parlavano, in Sicilia ad esempio, il giudeo arabo: l’isola infatti era stata islamizzata. In Francia si parla il franco-giudeo, un miscuglio tra antiche parole aramaiche e parole franche. Gli askenaziti parlavano quasi tutti lo yiddish, quello dei canti, ovvero una lingua molto particolare dove si vedono unite lingue diverse e che li accumunava tutti, rispetto ai sefarditi. L’ebraismo non è una religione solitaria, diversamente ha poco senso: d’altronde il popolo nasce da Abramo e dalla discendenza adi Abramo. Anche questa visione dell’importanza dei figli è fondamentale. Gli apostoli si muovono entrando dentro le comunità ebraiche e gli ebrei ellenizzati sono tantissimi. Questi convertiti ebrei attirano anche altri che ebrei non sono. A un certo punto, capiamo che succede qualcosa, cioè una parte dei cristiani, probabilmente quella parte che tra gli ebrei ha mantenuto sempre più la memora dell’origine e si è infittita di persone non ebraiche, comincia a nutrire un atteggiamento ostile nei confronti di quei cristiani ebrei troppo giudaizzanti, che continuavano a fare cose che ormai non erano considerate cristiane. Agli inizi del II-III secolo abbiamo una serie di dispute, nel mondo cristiano, contro chi aveva atteggiamenti troppo ebrei, al punto da non essere considerati cristiani. Alcuni non si distaccavano dalla radice ebraica, continuavano a mangiare in una certa maniera, a fare circoncidere i figli; un attaccamento molto forte era con la tradizione. Abbiamo dunque una presa di distanza da una parte dei cristiani. In un primo momento c’era in Roma una sorta di collaborazione con gli ebrei: per un lungo periodo il cristiano non di origine ebraica non festeggiava la Pasqua, perché coincideva con la Pesach, durante la quale Gesù era risorto. Il calendario ebraico è lunare, è sempre metà: il mese di Nissan, mese in cui Gesù è morto, è marzo-aprile, è mobile, non è fisso. Nel nostro calendario si prende un giorno ogni 4 anni a febbraio. I cristiani quindi che non avevano radice ebraica o si era completamente dimenticata e andavano nella comunità degli ebrei a collaborare per quanto riguarda la Pesach. Nel VI secolo nell’attuale Spagna si celebravano molto concili, specie a Toledo (non era ancora islamizzata). Il concilio è quel momento in cui i vari vescovi si riuniscono per normalizzare la vita di tutti. In questi concili si decide che si deve smettere di andare a sentire gli ebrei per capire quando è la Pasqua e preferibilmente non dovrebbe cadere nello stesso periodo degli ebrei. La liturgia per le chiese ufficiali è una forma identitaria molo importante: le feste liturgiche, l’organizzazione degli eventi liturgici in comune è il cuore dell’identità; quindi, è anche una questione di differenziazione per mantenere una identità diversa: ne mondo ortodosso è importantissima ad esempio l’epifania. Questo momento di differenziazione comincia proprio in questo momento, qui si respira la prima differenziazione con gli ebrei. Gli ebrei, per i cristiani, sono rimasti a un livello inferiore e non sono veramente “salvati”. Si comincia poi a abolire i divieti: si può mangiare tutto e si può bere tutto. Si toglie via il levirato: la vedova può sposare il fratello del marito se il primo marito è morto, qualcosa che non si fa nel mondo ebraico. C’è questa volontà di distaccarsi. Il caso spagnolo è particolare: i visigoti penseranno di fare un Chiesa cristiana nazionale. Tutta queste decisioni di Toledo avranno delle influenze nei secoli successivi. Già in epoca a antichissima, si comincia a diffondere il cristianesimo: si vede una importante differenza tra ebrei che si convertono, quelli che mantengono radici ebraiche, quelli che si allontanano etc. Oltre a questo bisogna considerare quale sia l’effetto che queste comunità procurano negli altri. Giancarlo Rinaldi racconta dei pagani, parola che identifica chi non diventa cristiano, e quindi poteva appartenere sia alle religioni greco-romane ma anche a altre forme filosofico religiose, gli stoici, i cinici, che hanno comunità in cui è talmente forte l’attaccamento agli ideali filosofici che hanno quasi un risvolto religioso. I pagani inizialmente non vedono i cristiani, perché li confondono con ebrei. Chi non apparteneva al circuito cristiano tendeva a confondere i cristiani con gli ebrei. Parlavano un linguaggio poco comprensibile, di un Dio morto e risorto, che faceva i miracoli etc. Piano piano si riesce a identificarli, ma li si identifica perché ci sono delle fazioni interne; a Roma sono identificati da Nerone, anche perché nella comunità romana si stava originando una certa fazione, che noi oggi non sappiamo ricostruire ma intanto sappiamo che la comunità romana, nata prima dell’arrivo di Paolo, era una comunità legata alla Gerusalemme di Giacomo. Da Paolo viene riconvertita. Solo 20 anni dopo con Nerone avremo tutta una serie di fazioni interne. In situazioni di dissidio interno, è più facile per l’esterno capire che sono i cristiani. Anche lì però ci sono due livelli di attenzione nei loro confronti, da un lato un’attenzione popolare, la stessa del Gesù con la testa d’asino, o la diceria che i cristiani fossero antropofagi, in quanto mangiavano il “corpo di Cristo”. Nel mondo antico, l’antropofagia non era qualcosa di incredibile: poteva accadere. Sappiamo che alcune popolazioni lo facevano come rituale della battaglia: mangiavano il cuore del nemico o usavano parti del corpo del nemico per banchettarci, e utilizzarle come stoviglie. Di questo sappiamo qualcosa anche perché alcuni popoli avevano mantenuto queste tradizioni. Non era qualcosa di incredibile quindi. A livello più alto, negli intellettuali c’era un atteggiamento quasi di critica: qual era il motivo per cui i pagani, i non cristiani, avevano così in odio non solo gli ebrei, visti come integralisti religiosi che fanno danni, ma anche appunto i cristiani? Cosa li rende sospetti al mondo non cristiano, e soprattutto perché tra le accuse si trova che i cristiani sono degli antisociali? Abbiamo parlato di comunità, dello stare insieme, com’è che agli oppositori viene in mente che i cristiani siano asociali? Quest’accusa è vera, ma va calibrata sul contesto dell’epoca. Oggi un antisociale vuole stare solo per conto suo, all’epoca chi usava queste parole le usava in un altro senso. Tutta la religione, così antropomorfica, era qualcosa di buono per chi era ai livelli culturali più bassi: ma quindi perché gli intellettuali accettavano la religione di Giove e Giunone? C’era un’altra realtà più importante, ovvero la religio di Roma, un legame culturale e sociale, l’identità romana. Non pensiamo che Seneca credesse davvero che l’imperatore fosse un dio: tutto questo non era tanto una credenza degli intellettuali, al massimo potevano credere ai penati, le anime dei defunti che vengono in nostro aiuto, ma quella dei racconti era qualcosa che teneva tutti uniti e piegava tutti all’imperatore. È la religione di Roma che rende il momento storico un coacervo di popoli e culture pazzesco. Il greco è la lingua di comunicazione che tutti conoscono, ma Roma riunisce tutti. Tutto ciò che veniva fatto pubblicamente, il sacrificio, il banchetto, sacrificare all’imperatore, era la vera identità romana: i diritti di cittadinanza in questo momento sono molto estesi. I cristiani non volevano sacrificare a altri dei: non volevano sacrificare all’imperatore e quindi dichiararsi fedeli all’imperatore. Torna anche quindi l’insistenza dei romani: per loro bastava sacrificare e poi tornare al proprio dio. Il significato sacrale era anche un po’ “statale”; quella era la grande religione di tutti. Ecco perché erano considerati antisociali, perché rifiutavano di stare nella società che li accoglieva. Questo atteggiamento era percepito come ostile, antimperiale: erano potenziali traditori. In un impero così esteso, dove scoppiano ribellioni in continuazione, questi mezzi ebrei che si riallacciano al mondo palestinese, che è una spina nel fianco di Roma, erano percepiti come nemici. I cristiani sono visti come potenziali fondamentalisti che da un momento all’altro potevano fare disastri. Ecco perché c’era un atteggiamento di forte negazione. I romani non avevano questo atteggiamento nei confronti di alcuna religione: potevano avere atteggiamenti violenti, truculenti, contro chi attaccava Roma, uccidendo anche in modo brutale, ma tendenzialmente non c’era atteggiamenti ostili per motivi religiosi: la pericolosità dei cristiani nasce da questo. Dietro il gesto crudele di Nerone, non c’è solo la follia dell’imperatore, ma c’è dietro una cultura di odio che nasce su questi presupposti: hanno paura di questi cristiani, potenziali nemici che non si integrano. Il tentativo di comunicare con le comunità va avanti per molto tempi: lo sguardo spaziale ci può essere utile per capire la vita delle prime comunità cristiane. Una definizione di luogo molto bella è coniata da Jacques Lévuy “un luogo è uno spazio in cui la distanza non è considerata rilevante”.. Questa definizione è molto bella in quanti fa capire subito che spazio e tempo non sono realtà oggettive. Il luogo però è così importante per glie esseri umani, così come è importantissimo per le prime comunità cristiane. I loro luoghi sono le città, ma dentro le città ci sono una serie di luoghi che sono la loro casa e comunità. La Prima lettera ai Tessalonicesi fu forse addirittura scritta prima delle lettere di Paolo e spiega come hanno fatto Paolo, e probabilmente anche gli altri, a parlare di Gesù e convertire al cristianesimo. In questo momento storico, siamo attorno la seconda metà degli anni 40, Gesù è morto da forse 10 anni, forse meno, e già gli apostoli sono considerati da tutti più autorevoli di altri. Esiste nella percezione comune una specie di élite della fede, un’élite carismatica, gli apostoli. Il loro modello di comportamento apostolico è un modello amorevole. Inoltre, lavoravano, non erano di peso a nessuno: questa cosa è importantissima e la troveremo quando parleremo di monachesimo e la troveremo anche come forma di accusa alla chiesa quando sarà istituzione. Molte di quelle che chiamiamo eresie rimproveravano ai preti, ai frati e ai monaci il fatto di essere degli approfittatori sociali. Gli apostoli lavoravano, Paolo lavorava etc. Nessun pastore di alcune di queste eresie evita il lavoro, che è contemplato segue il modello apostolico. Ritorna anche la metafora familiare, alla madre e al padre. C’è già quindi un’idea della comunità come luogo di famiglia, un luogo materiale. La comunità è la famiglia, il leader è padre e madre, il comportamento da assumere è quello amorevole. Chi arriva nella città per predicare e si sente investito di un’autorità importante, chiede aiuto e viene aiutato dagli altri, magari trovando lavoro. Mamhemal, studioso statunitense del Nuovo Testamento, in una sua opera pubblicata nel 2000, The New testament, an historical introduction, afferma che Paolo e i suoi compagni arrivando in città ha affittato una stanza in una piccola insula del centro. L’insula è un antico equivalente del condominio. Vanno quindi a abitare in un luogo dove si fanno tanti incontri. Queste insule avevano al piano terra delle stanze che si affacciavano sulla strada con delle botteghe (tra cui anche quelle degli scrivani): magari non si scriveva ma qualcuno scriveva per loro. I piani superiori servivano come alloggio. I negozi erano loghi non solo di commercio ma anche di interazione sociale, in quanto clienti, amici e vicini si fermavano a parlare. Il luogo di lavoro era molto di più di un’area di rapporti, più di quanto lo siano oggi le arene di azioni commerciali. Il mondo antico è un mondo che nei luoghi di lavoro fa tanta socialità: si parla e attraverso i commercianti, attraverso gli uomini che portano le merci prodotte da un luogo a un altro, si muovono anche le idee religiose. È concreto il fatto che sulle strade delle merci, così come nelle botteghe, si diffondono anche delle idee. I primi cristiani beneficiano di questo mondo. La comunità diventa luogo della casa comune. Il luogo di lavoro è un luogo dove si acquistano nuove conversioni. Questa dimensione porta delle idee a contatto con le persone. C’è una predicazione che non è soltanto aulica, ma ci immaginiamo e vediamo un Paolo che lavora e che racconta ai suoi colleghi di Cristo, c’è uno scambio molto forte, affettuoso, empatico, di esperienze. Ciò però non basta a spiegarci perché il cristianesimo ebbe tutto il successo che ebbe. La capacità di entrare in contatto con gli esseri umani è importante ma alla fine i cristiani partivano “male”: Gesù si era fatto ammazzare con una morte nemmeno onorevole (gli schiavi che avevano infranto la sacralità domestica morivano in croce), era poi andato in cielo, era asceso. Il rapporto col Padre era ambiguo: erano uno, due o tre? Com’è che quindi il cristianesimo funziona a livello sociale se i cristiani erano antisociali? Non abbiamo una risposta, ma solo ipotesi. Uno studioso che ha formulato una risposta è Peter Brown. Brown scrisse negli anni 70-80 vari testi, tra cui il testo Povertà e leadership nel tardo Impero Romano. In questo testo, Brown (che ha ben evidenziato l’importanza del tardoantico) riflette sui problemi della povertà nel mondo antico. Paradossalmente le città sono il luogo dove ci sono più poveri. Nelle campagne, nei villaggi, non si moriva di fame, in città sì. Si stima che nelle città nel tardoantico soltanto il 6-7% della popolazione vivesse sotto il livello di sussistenza e a cui era destinato il grano pubblico, mentre intorno al 40% degli abitanti non moriva di fame ma non stava benissimo. C’era poi una fascia media e poi una piccola percentuale, dall’11 al 22% che era parte dell’élite. Nel mondo antico e nel linguaggio giuridico, il povero di mezzi è qualificato come egemus, da egastas, che indica un povero che muore di fame. Le fonti non cristiane usano spesso il termine pauper con questa declinazione. I cristiani no, nelle fonti cristiani si usa il termine pauper in modo diverso: l’egemus non è il pauper, il pauper è qualcosa di più. Secondo Brown si metterebbero insieme delle persone che hanno “bisogno” e la categoria di persone che hanno bisogno è molto ampia. Nel mondo antico la vedova che non si risposava non era vista bene: il suo patrimonio se ce lo avesse avuto, non avrebbe potuto amministrarsi da solo. Era in una condizione di bisogno e fragilità. Se si fosse risposata avrebbe riacquistato una dignità che altrimenti non aveva. La vedova che non si sposava era in una condizione di oggettiva debolezza specie se non aveva la famiglia a sostenerla: la comunità se l’accollava. C’erano poi dei bambini orfani che sono non poveri, hanno qualcosa, un piccolo patrimonio che qualcuno amministra, ma sono soli: essi sono i minores, i bambini in difficoltà. Chi si ammala o si fa male è in un’altra condizione di bisogno. A parte alcuni pregiudizi che possono esserci sulle malattie, si andava a avere problemi molto grossi perché non c’era un’assistenza al malato: non per forza erano poveri ma vivono in maniera così difficile, che erano bisognosi. La comunità rispondeva a tutta una serie di bisogni che erano i più vari e potevano anche sparire nel tempo. I paupers sono i poveri di Gesù Cristo, quelli che “hanno fame e sete della giustizia, che saranno saziati” (Matteo). Da un punto di vista sociale, in una società dove i bisogni sono molteplici e non c’è una struttura che aiuta, trovare una comunità che assiste le persone che hanno bisogno significa avere un successo straordinario, che ci aiuta capire com’è che una credenza così complicata abbia avuto successo. Gli apostoli portavano nella vita di tutti i giorni il credo e lo portavano con le loro idee in maniera semplice, accogliendo e facendosi carico dei bisogni degli altri. Questo ci fa capire anche il successo trasversale, che va dai ceti più umili a quelli più alti. Tra l’altro questa condizione di aiuto e bisogno favorisce una strutturazione della comunità che tendeva a fare cassa comune: si versa la decima nell’ebraismo, ad esempio, per fare misericordia etc. In queste comunità si tende a realizzare una casa comune da cui si prelevano i soldi. Già all’epoca ci sono state delle persone che si sono comportante male pendendo soldi dalla cassa comune, che non sempre bastava. Se la comunità era grande e se c’erano molti casi di bisogno, la comunità non ce la faceva e si finiva per scegliere come persone a cui affidars, i leader della comunità, che chiameremo vescovi, dal greco episkopos, persone che avevano soldi e che mettevano di tasca loro ciò che mancava alla comunità, impegnandosi in prima persona. Questa struttura rende necessarie le figure episcopali, perché ci vuole chi garantisce con i suoi beni per una comunità bisognose. Si capisce anche perché queste persone inizialmente non erano sole: delle persone mettevano a disposizione tutto quello che avevano per aiutare. La spiegazione che ha dati Brown torna molto, è calzante: