Riassunti Psicologia PDF
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Summary
Questo documento riassume i capitoli 2 (Spagnoletti) e 1 (Zanobini) di Psicologia, focalizzandosi sull'evoluzione del linguaggio e dei sistemi di classificazione per la disabilità. Viene analizzato il passaggio da terminologie dispregiative a una terminologia più neutrale, mettendo in luce i cambiamenti culturali e la necessità di sistemi di classificazione più inclusivi, come l'ICF.
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20/10/2023 Capitolo 2 Spagnoletti e Capitolo 1 Zanobini Il linguaggio, espressione culturale della società, influenza molto lo stile comunicativo, causando, talvolta, problematiche specifiche. Uno dei campi che negli ultimi trent’anni ha subito modifiche nell’uso dell...
20/10/2023 Capitolo 2 Spagnoletti e Capitolo 1 Zanobini Il linguaggio, espressione culturale della società, influenza molto lo stile comunicativo, causando, talvolta, problematiche specifiche. Uno dei campi che negli ultimi trent’anni ha subito modifiche nell’uso della terminologia è quello della “disabilità”. In passato, termini come “handicappato, idiota, imbecille, deficiente” non avevano una connotazione dispregiativa, ma erano ritenuti termini scientifici, in quanto impiegati da figure professionali come medici, psicologi etc. Oggi, invece, si sono connotati di significato negativo. Di fronte a questi limiti, le espressioni con connotazione negativa sono state abolite e sostituite nel linguaggio; i cambiamenti culturali hanno implicato la ricerca da parte delle principali comunità scientifiche di vocaboli nuovi, che riflettessero lo studio sia dei nuovi metodi di classificazione che dei metodi di intervento. Attualmente, si preferisce parlare di disabilità, una parola condivisa e fondamentale per la scelta degli interventi da parte di figure professionali differenti. L’intervento psicoeducativo sotteso a questo cambiamento nell’uso delle parole aveva come obiettivo quello di offrire risposte specifiche a problemi personali particolari in contesti di normalità e non. Dunque, l’esigenza che soddisfa un sistema di classificazione è quello di condividere un linguaggio neutrale e condiviso descrittivo di una categoria di eventi, in moto tale da condividere i medesimi protocolli di intervento che coinvolgono operatori di ambiti diversi. Condividere universalmente vuol dire evitare gli errori comunicativi che ci possono essere a causa del background culturale diverso. Prima di giungere a una definizione di disabilità, è necessario comprendere cosa si intende per salute. L’OMS (fondata dall’ONU il 22 luglio 1946 ed entrata in vigore il 7 aprile 1948) rivoluziona la definizione di salute. : «stato di benessere fisico, mentale e sociale e non inteso come assenza di disabilità o infermità». (OMS, 1948) conseguenza o risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e una serie di fattori personali e ambientali che rappresentano il La salute non è più intesa come assenza di contesto di riferimento in cui la persona vive ed esprime le proprie capacità malattia, riguardante alcune parti della (OMS, 2002) persona o separata dall’ambiente. Quindi la mission dell’ONU è promuovere il «benessere globale della persona, considerata in una visione innovativa, caratterizzata dalla multidimensionalità, dall’interazione tra più variabili e fattori, legata al funzionamento umano a tutti i livelli (biologico, personale e sociale)».Per questo motivo la disabilità non è considerata malattia, disordine o disturbo. Quindi ci sono 2 grandi novità: il riferimento al funzionamento a tutti i livelli e l’inseparabilità dal contesto in cui l’individuo è inserito. Questo porterà a valutare le ricadute sociali della malattia: non interessa più solo la diagnosi ma anche le ricadute sul benessere del paziente. In questo modo viene spostato il focus dalle malattie in quanto tale alle ricadute sul benessere. Questo determinerà il passaggio dall’ICD a l’ICF. Principali sistemi di classificazione I vari sistemi di classificazione elaborati in ambito sanitario non ci forniscono informazioni su ciò che caratterizza il problema individuale, né sui vissuti, né sui livelli di disagio. I principali sistemi di classificazione utilizzati nell’ambito della “salute” mentale e fisica fanno riferimento a due importanti organizzazioni: 1. l’OMS che ha elaborato l’ICD, la “Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati”. 2. l’APA ha redatto il DSM, il “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”. Ottica biomedica e approccio classificatorio L’ICD (International Classification of Diseases 1946) è un sistema di classificazione delle malattie ancora in vigore, che in passato riguardava solo la salute fisica, ma a partire dalla sesta edizione compare una sezione dedicata alla salute mentale. È un elenco di codici alfanumerici che identificano tutte le possibili malattie dell’apparato umano, ed è lo strumento attraverso cui i medici condividono l’etichetta diagnostica. Questo sistema classifica solo la malattia e trascura la dimensione funzionale, ovvero l’impatto della malattia sul funzionamento globale della persona in relazione al suo contesto, né le ricadute della malattia sul paziente. Invece, è importante perché a parità di diagnosi, i funzionamenti possono essere diversi. Ad esempio, due bambini ADHD sono completamente diversi, sulla base della famiglia, delle esperienze fatte, sulla base di quanto il disturbo è stato intercettato. Quindi la dimensione funzionale è quasi più importante dell’etichetta diagnostica in sé. Manca, dunque, l’attenzione agli effetti disabilitanti della malattia. L’ICD è basata sulla seguente sequenza: Etiologia ® Patologia®Manifestazione clinica. In virtù della prospettiva nuova del concetto di salute, nel 1980 l’OMS associa all’ICD un nuovo sistema di classificazione che viene chiamato ICIDH, che inizialmente è un’appendice ma poi acquisirà uno stato autonomo. L’obiettivo dell’ICIDH è raccogliere dati in merito all’entità (gravità) della disabilità e degli handicap, poiché l’ICD non rende conto delle conseguenze che le malattie producono sullo svolgimento delle normali attività. Nell’ICIDH vengono proposta per la prima volta, nel linguaggio scientifico internazionale, una distinzione tra i termini di menomazione, disabilità e handicap. Questo è il modello che ha ispirato la legge 104 che utilizza il linguaggio di handicap. La definizione di questi tre termini inizia con “nell’ambito delle evenienze inerenti la salute” perché nascono per l’ambito sanitario e quindi si parte sempre dall’identificazione di un problema di tipo medico. A monte c’è sempre una diagnosi. 1. (impairment). Nell’ambito delle evenienze inerenti la salute è menomazione qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture e funzioni, in area psicologica, fisiologica o anatomica. Può avere carattere permanente o transitorio. Esempi: menomazione della capacità intellettiva, del linguaggio o della parola, menomazione auricolari o menomazione oculari. 2. (disability). Nell’ambito delle evidenze inerenti la salute si intende per disabilità qualsiasi riduzione (parziale o totale) o perdita (conseguente a menomazione) delle capacità di compiere un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano. Può essere transitoria o permanente, reversibile o irreversibile. Esempi: disabilità nella comunicazione, nella cura della propria persona, disabilità locomotorie. È l’impatto che la menomazione ha sul piano del funzionamento individuale, rispetto a ciò che è atteso normale per la persona. Ad esempio, se è atteso che nell’età adulta si è molto produttivi e si svolge una professione per essere indipendenti, e se c’è una persona che non lo riesce a fare, questa persona ha una disabilità. 3. (handicaps). Nell’ambito delle evenienze inerenti la salute, l’handicap è una condizione di svantaggio vissuto che consegue ad una menomazione o disabilità che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all’età, al sesso e ai fattori socio-culturali. È una condizione soggetta a possibili cambiamenti migliorativi o peggiorativi nell’arco di vita della persona con disabilità. Esso sottolinea la discrepanza tra lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato. Ciascuno di noi è inserito in un contesto e questo definisce aspettative in base al ruolo sociale. Se una persona non riesce ad assolvere al ruolo sociale, ha uno svantaggio e ha un handicap. Ad esempio, se è atteso che ciascuno di noi partecipi alla vita attiva del paese (votare) e una persona non riesce a partecipare, allora ci troviamo in una situazione di svantaggio nella società e questo è l’handicap. Queste nuovi definizioni sono rivoluzionarie per quel periodo perché spostano l’attenzione della definizione della disabilità come una condizione intrinseca dell’individuo a un problema che acquista una connotazione e definizione sociale. Se l’handicap dipende dalle aspettative sociale, in un contesto lo si può averlo in un altro no. Quindi si ha una doppia connotazione sociale e biologica: handicap non è la «malattia» in sé, ma la sua definizione si connota solo in relazione al contesto sociale. Ad esempio, disabilità motoria o lieve ritardo intellettivo in una società tecnologica o agraria. La disabilità diventa handicap in presenza di: a) barriere di tipo fisico b) barriere di tipo psicologico hanno a che fare con l’impatto che la disabilità ha sull’individuo e sulle persone che lo circondano. c) barriere di tipo sociale: se la società diventa barrierante una menomazione fisica può diventare una situazione di svantaggio Se dobbiamo tener conto solo della diagnosi rischiamo di fare errori perché i funzionamenti possono essere diversi. Quindi il divello di handicap che ne consegue è diverso. Ricadute per l’ambito scolastico Quello che la Legge 104/1992 – «Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate» - prevede per l’ambito scolastico è una serie di interventi che mirano ad eliminare il gap, il contesto preesistente e il soggetto portatore di limitazioni e deficit, determinato dalla condizione di disabilità. Il focus è sul soggetto, non sul contesto, ed infatti all’alunno viene dato il sostegno nell’ingresso al sostegno scolastico. Questo è il concetto di INTEGRAZIONE. Quindi la legge 104 è stata ispirata dall’ICIDH. Quindi, l’ICD e l’ICDH possono essere considerati complementari, in quanto l’ICD fornisce una diagnosi e questa informazione si arricchisce delle informazioni aggiuntive offerte dall’ICIDH riguardo al funzionamento delle persone sul piano corporeo, personale e sociale. L’associazione di informazioni sulla diagnosi e sul funzionamento fornisce un quadro più ampio e significativo. Limiti del modello proposto dall’ICIDH 1. La distinzione tra i concetti di menomazione, disabilità e handicap viene interpretata secondo il modello di causalità lineare e unidirezionale (causa ed effetto): per cui l’evento traumatico determina la menomazione, questa determina disabilità e quest’ultima determina l’handicap. Inoltre, mancano i punti di forza dell’individuo. Evento morboso Menomazione Disabilità Handicap 2. Ci si è resi conto dell’inadeguatezza del termine handicap, sia per la sua genericità che per la connotazione negativa. Difatti, tale termine nel corso del tempo è stato eliminato da qualsiasi livello di descrizione poiché si è affermata la necessità, a livello diagnostico e della progettazione degli interventi, di valorizzare le abilità e le potenzialità dell’individuo. 3. È assente il contesto ambientale, ovvero il suo ruolo e l’influenza sul funzionamento dell’individuo, a tal punto che la persona e la sua situazione sembrano analizzati in una situazione di “vuoto” sociale. Il contesto si arricchisce di ausili ma non cambia e di fatto non migliora o peggiora la disabilità dell’individuo. 4. La classificazione proposta continua a basarsi sul modello “medico” di disabilità che viene considerata un problema personale che necessita di assistenza medica individuale. Per i limiti evidenziati, si tenta una revisione dell’ICIDH 2 ma il risultato non è soddisfacente; pertanto, nel 2001 viene rilasciato l’ICF e nel 2007 il suo adattamento per bambini e ragazzi, l’ICF-CY (CY è l’acronico di Children and Youth). L’ICF (2001) è un sistema di classificazione di tutte le possibili aree di funzionamento e serve per descrivere lo stato di salute in relazione agli ambiti esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere le difficoltà che nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità. Un primo passo in avanti è stato rivedere l’handicap come fenomeno sociale, inserito in uno specifico contesto culturale e in un ambiente, che esercitano influenze sugli individui, creando facilitatori o barriere sul funzionamento della persona. L’ICF segue un approccio bio-psico-sociale e l’ obiettivo è la lettura e la decodifica dei codici, competenza che viene richiesta ai docenti. All’interno di questo nuovo sistema ritroviamo solo il termine di disabilità, a cui viene attribuita una dimensione individuale e sociale. La viene definita come una difficoltà nel funzionamento a livello fisico, personale o sociale, in uno o più dei domini principali di vita, che una persona con una condizione di salute trova nell’interazione con i fattori contestuali (personali e ambientali). Il contesto offre facilitatori o barriere alla condizione di vita dell’individuo, pertanto, la disabilità è l’impatto di una condizione di salute con un ambiente sfavorevole. La gravità della difficoltà di funzionamento dipende dall’interazione tra una limitazione individuale e un ambiente difficoltoso. Dunque, il maggior elemento di novità è il passaggio da una visione medica di disabilità a un approccio di tipo bio-psico-sociale. La salute di una persona non viene vista solo in ottica sanitaria ma anche sociale e dipende da tre elementi: l’integrità delle funzioni e strutture corporee, la capacità di svolgere delle attività e la possibilità di partecipare alla vita sociale. Il problema non è intrinseco all’individuo, ecco perché il contesto deve cambiare e adattarsi a tutte le specificità esistenti. Questa è la grande rivoluzione. Il modello ICF ha carattere universale, interattivo e integrativo. Ha applicazione universale perché la classificazione riguarda tutte le persone, non solo quelle con disabilità, e parte dal presupposto che ognuno di noi può trovarsi in situazioni che limitano l’attività e la partecipazione. Inoltre, utilizza un linguaggio comune che migliora la comunicazione tra esperti ed utenti, e permette a livello mondiale il confronto di dati ed esperienze. Attraverso l’ICF e L’ICF-CY possiamo descrivere il funzionamento di un individuo in modo esaustivo, comprendendo gli aspetti positivi di una persona (ciò che è in A cosa grado di fare), la disabilità, gli aspetti negativi e di limitazione del funzionamento, la presenza o assenza di menomazioni riguardanti le strutture corporee e i fattori serve? contestuali. Può essere utilizzato da tutti i professionisti che entrano in contatto con persone che Chi lo usa? presentano una condizione di salute; dal singolo professionista. Tuttavia, l’impiego ideale è all’interno di una equipe multidisciplinare volta a delineare il funzionamento globale di un individuo. Non classifica le persone dal punto di vista diagnostico, ma descrive l’individuo in Linee guida relazione a una serie di dimensioni personali e ambientali. all’uso Non considera fattori non direttamente riconducibili alla condizione di salute (sesso, razza, cultura, religione). Cioè, al centro c'è la condizione di salute inteso come funzionamento globale nei diversi ambiti. Non classifica le conseguenze delle menomazioni ma le componenti della salute Non formula una diagnosi, ma descrive il funzionamento dell’individuo. Non sostituisce l’ICD-10 ma lo integra - Statistico: raccolta dati per monitoraggio della condizione di salute Applicazioni - di ricerca: standardizzare caratteristiche della popolazione di riferimento e definire dell’ICF in le variabili da valutare diversi ambiti - Clinico: supporto all'assesment e alla diagnosi, utile integrazione all'ICD (es. due persone con uguale patologia, stati funzionali diversi e contesti ambientali diversi) - di politica sociale: definizione delle condizioni di vita a cui tutti hanno diritto, es. diritto all'istruzione - Educazione: Profilo di funzionamento-> PEI e PDP La prima versione dell'ICF si presentava come strumento di valutazione del funzionamento in età adulta, presentando notevoli criticità per l'utilizzo in età evolutiva. Per questo l'OMS ha attivato uno studio specifico per adattare lo strumento all’infanzia e all’adolescenza, e nel 2007 viene elaborato l’ICF-CY, una versione che copre la fascia 0-18. Risponde all’esigenza di «cogliere le funzioni e le strutture corporee, le attività, la partecipazione e gli ambienti specifici di neonati, bambini, preadolescenti e adolescenti». L’adattamento dell’ICF all’età evolutiva parte dal presupposto che «le manifestazioni del funzionamento, della disabilità e delle condizioni di salute nell’infanzia e nell’adolescenza hanno natura e intensità diversa da quella degli adulti». L’ICF-CY presenta un modello concettuale diverso poiché centra l’interesse sulla persona e sui bisogni reali, ed è questo il principio ispiratore dell’inclusione a cui si ispira anche il decreto 107 della Buona Scuola. L’ICF-CY è un documento complementare all’ICD-10 e ad altre classificazioni, in quanto il primo fornisce un modello per descrivere la salute e gli stati a essa correlati e il secondo ha lo scopo di fornire un modello eziologico. In particolare, sono 4 i punti che lo caratterizzano come documento importante per bambini e adolescenti: 1. contesto familiare: poiché la crescita e lo sviluppo del bambino coinvolgono la famiglia, le sue funzioni non possono essere valutate isolatamente, ma si deve tener conto del contesto familiare. 2. ritardi nello sviluppo o nella manifestazione di funzioni/strutture corporee che devono essere identificati per attuare precoci interventi con possibili soggetti a rischio. Quindi, l’ICF-CY valuta la gravità e la dimensione dei problemi manifestati, riconoscendo però che il qualificatore può variare con il trascorrere del tempo. 3. partecipazione: l’ambiente sociale è una variabile determinante in quanto, con lo sviluppo, le situazioni di vita cambiano per numero e complessità 4. fattori ambientali: i cambiamenti all’interno degli ambienti fisici e sociali dipendono dal percorso di crescita e sviluppo, in quanto correlati alle competenze e all’indipendenza. Sono stati previsti 4 questionari che includono i codici maggiormente descrittivi del funzionamento in 4 fasce di età: 0-3, 4-7, 7-12, 13-18. In parallelo l’APA costruisce i suoi sistemi di classificazione in ambito psicologico e nel 1952 pubblica la prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Il DSM ha introdotto una categoria nuova: i disturbi del neurosviluppo. Questo sistema non utilizza codici alfanumerici ma delle etichette e può essere che nelle certificazioni troviamo dei codici ma anche la dicitura corrispondete al DSM. Nel DSM è stato eliminato la sindrome di Asperger (forma particolare di autismo) poiché è stata fatta rientrare nell’autismo. In realtà le ultime ricerche stanno dimostrando che questa sindrome ha una sua specificità. La classificazione ICF è divisa in due parti: 1. Prima parte si occupa di descrivere il funzionamento e della disabilità e si declina nelle seguenti componenti: ü Funzioni corporee (b): sono le funzioni fisiologiche o psicologiche dei sistemi corporei (incluse le funzioni psicologiche). ü Strutture corporee (s): sono le parti anatomiche del corpo, come gli organi, gli arti e le loro componenti. ü Attività personali e partecipazioni sociali (d): Le attività personali sono l'esecuzione di un compito o di un'azione da parte di un individuo. Le relative limitazioni dell'attività sono dunque le difficoltà che un individuo può incontrare nell'eseguire delle attività. La partecipazione sociale è il coinvolgimento attivo in una normale situazione di vita integrata, per cui le restrizioni alla partecipazione sono i problemi che un individuo può sperimentare nel coinvolgimento nelle normali situazioni di vita. Seconda parte: fattori contestuali, ambientali e sociali fuori e dentro la persona. Si declina nelle seguenti componenti: ü Fattori ambientali: sono gli atteggiamenti, l’ambiente fisico e sociale in cui le persone Determinano vivono e conducono la loro esistenza. il contesto ü Fattori Personali: aspetti psicologici, affettivi e comportamentali. È il background personale della vita dell'individuo e definiscono le sue caratteristiche individuali che non rientrano nella condizione fisica. Per quanto riguarda i fattori contestuali personali, allo stato attuale l’OMS non li ha ancora definiti in codici. Tuttavia, è accaduto che sulla base di una proposta scientifica italiana si è provato a individuale i fattori contestuali individuali che influenzano il funzionamento apprendimento-educativo. La Erikson dice che applicato al contesto scolastico il funzionamento interessa l’apprendimento e educazione. Quindi, poiché la psicologia sa quali sono i fattori che influenzano il funzionamento apprendimento- educativo, si è proposta una articolazione di fattori contestuali personali che includono dimensioni psicologiche, quali gli stili di attribuzione, autoefficacia, autostima, emotività, motivazione e comportamenti problema. Quindi se guardiamo l’ICF non troviamo nulla sui codici dei fattori contestuali personali. COMPONENTI Una delle parti che costituisce la struttura CAPITOLI dell’ICF. Nella prima parte del documento possono essere usate per indicare i problemi Ogni componente è (o le restrizioni della partecipazione alle articolata in diverse attività) o gli aspetti non problematici della parti, chiamate capitoli salute e contribuire a definire il termine “funzionamento”.. Per tradurre la valutazione in uno o più codici condivisibili a livello internazionale, si utilizza un sistema alfanumerico. I codici alfanumerici presenti nell’ICF sono a grappolo e riconducono a specifiche definizioni. Rispetto alla versione originari sono stati modificati alcuni codici. L’ICF in un codice standard crea un completo profilo del funzionamento delle disabilità e della salute degli individui in tutte le aree della vita. Elenca, inoltre, i fattori ambientali e le caratteristiche del mondo che possono influire sulla vita delle persone. Passaggi per effettuare una corretta codifica: identificare le informazioni disponibili per la codifica e stabilire a quale dominio appartengono; individuare il capitolo; leggere con attenzione la descrizione e prestare attenzione alle note; esaminare le inclusioni e le esclusioni relative al codice; stabilire se procedere a una descrizione più dettagliata a livello di codice a cinque o sei caratteri; passare al livello del codice che più precisamente descrive la situazione ed esaminare criteri di inclusione ed esclusione; assegnare un qualificatore universale che definisca l’entità della menomazione delle funzioni e strutture corporee, della limitazione delle attività, della restrizione alla partecipazione o della barriera ambientale e del facilitatore; assegnare il codice con il qualificatore. d) b1: funzioni mentali (primo livello) e) b167: funzioni mentali del linguaggio (secondo livello) f) b11670: recepire il linguaggio (Terzo livello) g) b16700: recepire il linguaggio verbale (quarto livello) Per le “funzioni e strutture corporee”, potremmo trovare più qualificatori fino a tre: estensione della menomazione, natura della menomazione, collocazione della menomazione. I codici dell’ICF sono seguiti da uno o più qualificatori che ne definiscono la componente e il significato. I codici sono completi QUALIFICATOR solo in presenza del qualificatore. E Per i “fattori ambientali”, Numero che definisce l’entità davanti al qualificatore si del livello di salute o la gravità del problema. I - 0: nessuna/assenza di mette il segno “+” per menomazione/barriera indicare un facilitatore, qualificatori seguono una scala numerica e sono apposti dopo il /facilitatore mentre il segno “-“ in caso - 1: lieve di barriera. codice, separati da un punto. - 2: moderato: - 3: notevole - 4: completo Per quanto riguarda le componenti “attività personali” e “partecipazione sociale”, il modello dell’ICF presuppone che il contesto deve entrare nel funzionamento in maniera barrierante o funzionante. Operativamente l’influenza del contesto rientra nei due qualificatori che si utilizzano per le attività e partecipazione. Essi sono: 1. : quello che il soggetto sa fa nel suo ambiente attuale, in un dato contesto. Dato che l'ambiente attuale introduce un contesto sociale, la prestazione registrata da questo qualificatore può essere intesa anche come «coinvolgimento in una situazione di vita» o «esperienza vissuta» delle persone nel contesto reale in cui vivono. Questo contesto include l'influenza dei fattori ambientali. ® Performance globale: quello che la persona fa realmente nel suo contesto che può essere operazionalizzata come il livello di funzionamento in presenza di sostegni e interventi da parte di persone e/o di altri facilitatori o barriere ambientali (adattamenti ambientali, ausili). È intesa come ciò che il soggetto fa con tutti i fattori ambientali compreso l'aiuto personale. La performance globale può essere qualificata anche nel caso in cui per quella attività l'aiuto personale sostituisce il soggetto. ® Performance 1: può essere operazionalizzata come il livello di funzionamento della persona in assenza di sostegni e interventi da parte di persone ma in presenza di altri (adattamenti ambientali, ausili) facilitatori o barriere ambientali. È intesa come ciò che il soggetto fa con tutti i fattori ambientali escluso l'aiuto personale. 2. : descrive l’abilità dell’individuo nell’eseguire un compito o un’azione in assenza dell’influsso positivo o negativo di fattori ambientali, del contesto. ICF e la progettazione dell’intervento psicoeducativo. L'ICF rappresenta un modo nuovo attraverso cui rileggere i bisogni dell'individuo rispetto al suo stato di salute e di funzionamento e per questo costituisce uno strumento importante per la costruzione di un intervento psicoeducativo volto a ridurre gli svantaggi presenti e a favorire uno sviluppo globale della persona. Il punto di partenza diviene dunque la costruzione di un'alleanza tra operatori e famiglia, basata sulla condivisione del progetto e degli interventi da mettere in atto, con l'obiettivo di rimuovere le barriere fisiche, psicologiche e sociali che si frappongono tra il bambino e le fasi di strutturazione della sua identità. Infatti, l'intervento psicoeducativo in generale mira ad arricchire la persona disabile sia in senso trasversale, (esteso, cioè a tutte le aree dell'azione formativa) sia longitudinale (ovvero articolato nel tempo). Il progetto pertanto dovrebbe favorire ® il consolidamento di una positiva immagine di sé; ® l'acquisizione di livelli diversificati di autonomia; ® la strutturazione di un processo di apprendimento che rispetti i ritmi individuali; ® lo sviluppo di tutte le potenzialità del soggetto; ® la partecipazione sociale all'interno di una società inclusiva; ® la visione del bambino/adolescente presente e futura, immaginando l'adulto che potrà essere. L'ICF diviene quindi un utile strumento per collaborare con gli operatori sociosanitari per: h) la costruzione della diagnosi funzionale educativa (DE), redatta secondo «i criteri del modello bio- psico-sociale». *Per DIAGNOSI FUNZIONALE oggi si intende una valutazione che descriva il funzionamento dell’individuo sia in termini di limitazioni sia di potenzialità e punti di forza e che sia utile a predisporre un piano di intervento. La formulazione della diagnosi funzionale, denominata successivamente profilo di funzionamento in base al Decreto Legislativo 66/2017 avviene a partire da una diagnosi medica, la cosiddetta "certificazione di handicap", che costituisce l'avvio del processo di integrazione nelle strutture educative e di accesso ai servizi e ai supporti previsti. Dopo gli elementi clinici (ricavati da visite mediche) e psico-sociali (dati anagrafici e caratteristiche del nucleo familiare), è necessario riportare nella diagnosi funzionale la descrizione delle difficoltà e potenzialità. Infine, sulla base di tali elementi viene redatta una scheda riepilogativa che contiene: diagnosi, eziologia, conseguenze funzionali, previsione dell'evoluzione naturale, formulazione sintetica delle principali difficoltà e delle potenzialità, descrizione delle stesse su una tabella a tre colonne (aree, potenzialità, difficoltà). i) la stesura del profilo dinamico funzionale (PDF) j) la stesura del Piano educativo individualizzato (PE1), con l'obiettivo di programmare percorsi costruiti ad hoc sul bambino disabile o con bisogni educativi speciali (Bes) e volti al miglioramento della qualità di vita e alla promozione delle pari opportunità. Così, attraverso l’ICF è possibile rilevare di ogni studente i punti di forza, ovvero le abilità che possiede in maniera adeguata (capacità) e quanto è in grado di esprimerle (performance). Gli obiettivi su cui lavora l’ICF sono: Þ A lungo termine, per stabilire in una prospettiva ideale temporale il livello di sviluppo che si ipotizza raggiungibile. Þ A medio termine, per definire l’obiettivo effettivo, cioè quello sul quale si inizia a lavorare e per il quale si deve pensare a materiali, tecniche e interventi efficace. Dall’ICF all’intervento: Profilo di funzionamento e diagnosi di sviluppo Qual è l’uso che noi possiamo fare dell’ICF nel contesto scolastico? Secondo quanto è previsto dall’inquadramento normativo di riferimento, i codici dell’ICF dovranno essere utilizzati dall’unità di valutazione multidisciplinare che lavora all’ASL, di cui fanno parte uno o più referenti della scuola (es. insegnante di sostegno o altre figure preposte alla gestione della disabilità). Alla fine, sarà la figura medica che metterà giù i codici che descrivono il profilo di funzionamento; quest’ultimo viene inviato a scuola e quello che il docente deve fare è quello di leggere e decodificare i codici, e poi utilizzare i codici nella sezione del PEI per i fattori ambientali. Dal punto di vista cronologico: ® Si fa la diagnosi che avrà un’etichetta con codice alfanumerico secondo l’ICD-11; ® Dalla diagnosi l’unità di valutazione multidisciplinare dovrà fotografare il profilo di funzionamento. La diagnosi non coincide con il funzionamento perché a parità di diagnosi i funzionamenti possono essere diversi. ® Nell’ambito dei soggetti in età evolutiva, potrebbe ricorrere anche una DIAGNOSI DI SVILUPPO, che consiste in una valutazione sistematica delle caratteristiche della persona e della loro integrazione, al fine di descrivere la situazione attuale e valutare il potenziale educativo. Fotografa il funzionamento di un bambino rispetto ai diversi domini di funzionamento tenendo conto delle età evolutive attese. Cioè, va a collocare in una prospettiva temporale ed evolutiva la fotografia di funzionamento del bambino, individuando le aree di ritardo sulle quali agire, le discrasie tra i vari domini ed eventuali ritardi nel raggiungimento di tappe miliari. È basato su un principio di comparazione. La fotografia che la diagnosi funzionale fa serve per capire cosa è nella norma e cosa nel ritardo, ma anche per fare delle previsioni: si possono individuare dei fattori precoci di rischio che potrebbero predire dei riardi successivi. Ad esempio, un bambino che pronuncia male dei suoni, questo potrebbe essere un fattore di rischio che potrebbe anticipare dei ritardi nello sviluppo del linguaggio. Quando si decide di intervenire, il piano riabilitativo deve essere multidisciplinare e interdisciplinare, ossia deve coinvolgere specialisti di più aree della disabilità e richiedere la collaborazione tra l’area medica, psicologica, sociale (per le attività di inserimento a livello sociale) e riabilitativa (ad esempio l’attività dal punto di vista fisioterapico, logopedico, psicomotricità che servono per riabilitare le funzioni perse). Intervento Intervento Intervento Intervento Intervento medico psicologico educativo sociale riabilitativo Per prevenire Nei casi in cui Le istituzioni Migliorare funzioni un'estensione problemi educative è indispensabile relazionali e/o e/o competenze in della (scuola, centri per eliminare menomazione comportamental socio-educativi) modo da consentire barriere di varia iniziale isi associano ricoprono all’individuo di alla situazione natura che funzioni utilizzare al meglio di disabilità importanti nel ostacolano il le proprie campo della godimento dei socializzazione potenzialità diritti umani all’interno della società Le caratteristiche di un intervento sono: k) STORICITÀ: un intervento deve essere collegato alla diagnosi e tener conto di eventuali percorsi riabilitativi, educativi. è importante che di ciascun progetto realizzato rimanga traccia scritta. l) GLOBALITÀ del funzionamento della persona, che coinvolge sia il versante affettivo che quello cognitivo. m) PARTECIPAZIONE ATTIVA del bambino e della famiglia al progetto. Il lavoro che si fa deve tenere conto anche dei contesti di vita. n) migliorare la QUALITÀ DELLA VITA. L’attenzione si sposta su come il soggetto percepisce gli eventi della propria vita e sul livello di soddisfazione personale. Quindi gli indicatori considerati sono l’indipendenza, la partecipazione sociale e il benessere a livello fisico, emotivo e materiale. o) PROGRAMMAZIONE PUNTUALE: perché un intervento sia efficace è importante che si ispiri a un modello teorico scientificamente fondato, sulla base del quale stabilire strategie e metodologie per raggiungere obiettivi a lungo e breve termine (il PEI a lungo temine è un progetto di vita). Capitolo 1 Spagnoletti Stiamo portando avanti il discorso sull’evoluzione del concetto di disabilità analizzato nei vari sistemi di classificazione, dall’ICIDH all’ICF, e vedremo come il modello bio-psico-sociale sia stato assimilato dalla convenzione ONU. Un altro livello di natura introduttiva che ci porterà ad affrontare le varie disabilità riguarda i principi generali della psicopatologia dello sviluppo e delle strategie di intervento che ci spiegano i processi di apprendimento. Lo scopo è quello di approfondire la conoscenza dei modelli di sviluppo, in modo da osservare come una qualunque difficoltà insorta durante lo sviluppo del bambino possa determinare, in termini di funzionamento adattivo, un ostacolo al raggiungimento di un obiettivo. Fa riferimento all’efficacia con cui i soggetti fronteggiano le esigenze comuni della vita e si adeguano agli standard di autonomia personale previsti per la loro fascia di età. Il funzionamento adattivo può essere influenzato da vari fattori, come l’istruzione, la motivazione, la personalità etc. Quindi occorre individuare il normale funzionamento adattivo e le abilità che favoriscono l’integrazione nel contesto di vita, anche in caso di disabilità. In tal senso, si può tenere in considerazione la dimensione sociale dell’ICF, nella quale rientrano differenti livelli di compiti necessari per apprendere nuove conoscenze, muoversi nell’ambiente, avere cura della propria persona. La psicopatologia dello sviluppo è una disciplina che si pone a cavallo tra la psicologia dello sviluppo e la psicologia clinica. Si occupa di studiare e monitorare nel tempo l’impatto che le traiettorie evolutive a rischio hanno sullo sviluppo infantile, sia le condizioni di rischio (nascita pretermine, livello socio economico basso, ambiente deprivato) sia i fattori di protezione (es. la sensibilità ambientale). Si tratta, cioè, di prendere in esame un “sintomo”, inteso come una difficoltà transitoria (bambino che subisce un lutto importante) o come disturbo presenti nell’età evolutiva e studiarne gli effetti in quel particolare momento e le implicazioni sullo sviluppo della persona. È la comparsa di una problematica che si verifica come stabile e poco modificabile nel tempo. nello specifico, è un’alterazione dello stato fisiologico/psicologico/ relazionale-comportamentale di una DISTURBO persona che non consentirebbe un funzionamento “normotopico” in relazione alle attese per l’età. I disturbi sono life persistent, ossia resistono per l’intero arco della vita. Sia che si tratti di difficoltà transitorie che di disturbi, si può decidere di intervenire sul qui ed ora, identificando le difficoltà del funzionamento adattivo e cercando di potenziare l’adattamento e l’autonomia. La psicopatologia dello sviluppo predilige la prospettiva evolutiva, per cui si tende a proiettare a livello storico le condizioni che nel passato hanno portato agli esiti attuali, e, dalle condizioni attuali si fanno previsioni sugli esiti del futuro. Quest’ottica evolutiva ci consente di intervenire precocemente su eventuali condizioni di rischio, prevenendo il peggioramento delle traiettorie evolutive. Il limite, tuttavia, è di non essere in grado di effettuare previsioni o delineare il percorso evolutivo del bambino nel tempo e alle diverse età. Quando dobbiamo lavorare per potenziale l’adattamento e le autonomie del ragazzino, dobbiamo utilizzare degli approcci ispirati a determinati modelli teorici: comportamentista e neo comportamentista. “Perché si predilige un approccio comportamentista e non uno più complesso?” Perché, quando dobbiamo lavorare con un ragazzo con disabilità grave e con poco potenziale cognitivo, il livello privilegiato di azione è il piano comportamentale che ci permette di lavorare sul suo potenziale. Poi se c’è una risorsa sul versante cognitivo, possiamo utilizzare degli approcci cognitivo-comportamentali, oppure si può lavorare sulla modificazione del modello comportamentale. La prospettiva teorica principale è quella del comportamentismo, teorizzata da Watson agli inizi del 1900. Questo periodo storico era caratterizzato da una forte spinta affinché la psicologia diventasse una scienza empirica e oggettiva. C’era l’idea per cui ciò che non era direttamente osservabile non potesse essere oggetto di indagine scientifica. In tal senso, Watson riteneva che la mente umana fosse una scatola nera, rispetto alla quale bisognava astenersi da un approccio di studio. Non ne negava l’esistenza ma non era direttamente osservabile e, quindi, come tale non poteva essere studiato scientificamente. L’unico livello che si può studiare è il piano del comportamento osservabile. Quindi ipotizza che l’origine dei cambiamenti evolutivi è in un processo di condizionamento stimolo (S) – risposta (R). Questo modello ritiene che gli stimoli e le risposte siano collegati da rapporti diretti e reciproci (se A allora B, ma anche se B allora A): sono gli stimoli ambientali che condizionano i nostri comportamenti e fanno in modo che si consolidino oppure si estinguano. Il meccanismo che Watson aveva messo in evidenza si basa sulle risposte comportamentali a base biologica. Si ricorda l’esperimento della salivazione del cane che riuscì a condizionare attraverso l’emissione di un suono ambientale. La prima evoluzione teorica del modello di Watson è quella proposta da Skinner, il quale distungue due tipi di comportamenti: a) Comportamenti rispondenti: comportamenti che hanno un vincolo necessario con certi stimoli per base biologica (la vista del cibo determina automaticamente una risposta di salivazione). b) Comportamenti operanti: comportanti messi in atto spontaneamente dall’ uomo, senza uno stimolo ambientale. Ad esempio, quando il telefono squilla noi potremmo rispondere oppure anche non rispondere; non c’è un vincolo biologico tra stimolo e risposta. Quindi, il livello di analisi di Watson si era fermato ai comportamenti rispondenti, quelli che hanno un vincolo biologico per lo stimolo ambientale; invece, Skinner dice che la natura umana ha più gradi di libertà nel comportamento operante, poiché ci sono alcuni comportamenti che mettiamo in atto spontaneamente, a fronte di alcuni stimoli ambientali che aumentano la probabilità che i comportamenti si manifestino. Si parla in questo caso di stimolo discriminativo: quando si vuole sollecitare un comportamento utilizziamo uno stimolo discriminativo che facilita la comparsa del comportamento ma non c’è un vincolo stabilito (es. se vogliamo lavorare sul ragazzino perché usi correttamente la posata e mangi autonomamente, noi possiamo fargli vedere la posata che aumenta la probabilità che il bambino la prenda per mangiare, ma non è detto che lo faccia). Perché un comportamento operante si consolida nel repertorio comportamentale del bambino? Skinner ci dice che dipende dalle conseguenze che vanno a variare e ad agire sulla frequenza di comparsa del comportamento operante nel futuro. Ci sono due tipi conseguenze: 1. RINFORZO: per definizione si chiama evento rinforzante qualsiasi conseguenza che aumenta la probabilità che il comportamento si presenti in futuro. Skinner, studiando il comportamento dei ratti e piccioni inseriti in una gabbia, ha osservato che, una volta stabilito il rinforzo da fornire all’animale in base alla risposta, la risposta seguita da rinforzo tende a presentarsi con sempre maggiore frequenza. Quando usiamo la parola rinforzo stiamo parlando di qualcosa che rinforza un comportamento e lo può fare attraverso: - un meccanismo positivo attraverso l’ottenimento di una gratificazione. Ad esempio, se al bambino che fa un intervento in classe facciamo una lode oppure guardiamo un bambino che sta disturbano la lezione, in entrambi i casi questo è un rinforzo positivo, perché attraverso una risposta sociale stiamo andando a consolidare un comportamento. - un meccanismo negativo che non è la punizione. L’effetto rinforzante si può ottenere anche attraverso l’evitamento di una conseguenza spiacevole. Ad esempio, se un bambino che viene chiamato alla lavagna mette in atto dei comportamenti problematici e il docente lo manda a posto. In questo modo ha rinforzato negativamente il comportamento problema: il bambino ha ottenuto di evitare una situazione spiacevole, ad esempio quella della verifica alla lavagna. Ogni volta che riusciamo ad evitare una situazione spiacevole come conseguenza di un nostro comportamento, questo rinforza il comportamento problematico bambino. Accade principalmente con i comportamenti problema, che sono funzionali ad esprimere un bisogno. PUNIZIONE: nel linguaggio comportamentale, si chiama punizione qualsiasi evento che riduce la probabilità di comparsa di un comportamento nel futuro. Se il bambino si comporta male e il docente gli toglie la merenda, il bambino si comporterà meno male in futuro, questa è una punizione: non è tanto quello che faccio ma l’effetto che ha sul comportamento. Stiamo ragionando sull’effetto che la risposta ha sul comportamento. La risposta ambientale può essere dando un beneficio o togliendo una conseguenza negativa: in entrambi i casi se l’effetto è quello di consolidare i comportamenti abbiamo un rinforzo; invece, se l’effetto è ridurre un comportamento (il docente guarda male un bambino che si sta comportamento male, e smette di farlo, la volta successiva si comporterà male con minor frequenza perché sente l’effetto punitivo) abbiamo una punizione. I bambini che presentano disturbo oppositivo provocatorio sono poco propensi al contatto oculare e quindi quello che sembra essere alterato è la sensibilità della funzione regolatoria dello sguardo del caregiver. Sono bambini che hanno una scarsa propensione a guardare negli occhi l’adulto che è in posizione autorevole. Infatti, quando si lavora con un bambino con DOP bisogna lavorare sul contatto oculare per dargli una regola. Sulla base di questi meccanismi possiamo fare un grande lavoro per decrementare un comportamento problema. Il modello comportamentista, tuttavia, è molto semplice e non considera la dimensione psicologica, emotiva e motivazionale dell’individuo. Ecco perché il comportamentismo è stato sostituito dal neocomportamentismo, che non propone più un modello deterministico (un determinato stimolo controlla una determinata risposta) ma un modello probabilistico: è probabile che ad un determinato stimolo segue una determinata risposta ma non necessariamente. Una delle possibili applicazioni di questo approccio è quella proposta dal modello di analisi ecologico-comportamentale di Kanfer, secondo il quale per analizzare correttamente un comportamento è necessario considerare lo stimolo (S) lo stato biologico dell’organismo (O), la reazione che lo stimolo riesce a tirare fuori (R), la frequenza e la contingenza (il contesto) con cui la risposta di manifesta (K) e le conseguenze della risposta (C). Questa proposta tiene in considerazione sia l’approccio comportamentale classico sia quello del neocomportamentismo. Dagli anni Trenta agli anni Sessanta, studiosi come Tolman, Hull e Spence proposero il modello stimolo (S) - organismo (O) – risposta (R). La risposta ambientale non è così necessaria e diretta, come sosteneva Watson, ma viene filtrata da una serie di fattori psicologici, motivazionali ed emotivi più interni. Siamo verso una prospettiva cognitiva. Dai modelli comportamentista e neo comportamentista derivano una serie di applicazioni empiriche finalizzate a descrivere l’interazione tra l’individuo e il suo ambiente, a comprendere come si determinano e la probabilità di comparsa. Lo scopo dell’analisi del comportamento è, quindi, valutare come esso funziona, quali sono le regole che spiegano la regolarità di certe manifestazioni comportamentali, e le tecniche per modificarle. Per effettuare questa analisi, è necessario identificare gli che possono essere di natura differente ed esercitano una particolare funzione: p) : se la risposta del soggetto è automatica e involontaria. C’è una relazione di necessità con la risposta (la visione del cibo determina la salivazione). q) : lo stimolo che precede il comportamento aumenta la probabilità che in quell’occasione la risposta venga messo in atto ma non ha un vincolo di necessità. Se voglio lavorare sulla capacità di nutrirsi autonomamente, uno stimolo discriminante è la posata, ma non è detto che mostrare la posata determina automaticamente l’afferrare la posata e il portarla alla bocca. r) : la risposta è maggiormente frequente. Questo modello ha avuto molte applicazioni nell’ambito dell'educazione speciale, in particolare nell' intervento con persone autistiche. Gli studi dello psicologo clinico Ivar Lovaas hanno suscitato molto scalpore nella comunità scientifica per le sue conclusioni: ha infatti potuto documentare, qualora l'intervento fosse precoce e intensivo, una significativa riduzione dei sintomi del disturbo, ma anche l'aumento delle capacità intellettive di questi pazienti, una sorta di uscita dalla ricerca dell’autismo dal punto di vista sintomatico. Le applicazioni per la modificazione del comportamento in direzione più funzionale (Analisi comportamentale applicata) ci consentono di: s) aumentare comportamenti e abilità adattivi; t) facilitare l’apprendimento di nuove abilità e conoscenze u) mantenere nel tempo i comportamenti adattivi acquisiti e generalizzarli in diversi contesti di vita v) ridurre i comportamenti problematici, agendo sul bambino e sul contesto. w) ridurre la frequenza dei comportamenti problematici. Il modello ecologico-comportamentale utilizza il metodo sperimentale nello studio delle interazioni tra individuo e ambiente. È caratterizzato da alcuni principi: Il comportamento osservato come anche un evento psicologico (es. reazione emotiva) è governato e determinato da leggi generali e universali, che possono essere individuate con la ricerca. È una visione meccanicistica ma ha la sua validità. Il controllo e la spiegazione del comportamento della persona dipendono da fattori prevalentemente ambientali (ambiente inteso sia come spazio delle relazioni con figure di riferimento, cioè educatori o pari, sia come ambiente sociale, culturale e fisico. Le cause di un certo evento andrebbero cercate all’esterno dell’individuo. Cerchiamo nel qui ed ora la causa della situazione comportamentale del bambino e l’intervento da attuare. Infatti, l’efficacia sulla modificazione comportamentale è sulla contingenza, e non in contesti lontani nel tempo. Nella misura in cui affermo che il comportamento è determinato da una serie di stimoli e di risposte comportamentali e lo riduco a leggi prevedibili, sto operando una riduzione, e sto eliminando la componente delle emozioni e motivazioni. Nella misura in cui è nel contesto la possibilità di modificare il comportamento, posso trovare una soluzione immediata, pratica e applicativa. Queste assunzioni determinano le fasi del metodo ecologico-comportamentale, le stesse di quello sperimentale: 1. Identificare la variabile indipendente (condizione ambientale che causa una conseguenza) e la variabile dipendente (è la risposta). 2. Osservazione accurata e fedele della variabile dipendente (oggetto dell’osservazione) 3. Analisi funzionale del comportamento, ovvero ricerca delle variabili ambientali che in termini probabilistici influenzano il verificarsi di quel determinato comportamento 4. Analisi dei dati raccolti 5. Conferma/disconferma dell’ipotesi causale formulata A questo punto si indentificano le tecniche di intervento, ossia di procedure funzionali per facilitare nuovi apprendimento e importanti autonomie (cura della proprie persona, comportamenti sociali). Viene chiamato rinforzo qualsiasi evento che abbia la capacità di modificare la frequenza con cui comprare un determinato comportamento, incrementandolo perché il suo utilizzo rende più probabile il suo verificarsi. Invece, l’aggettivo “differenziale” fa riferimento al fatto di rinforzare sistematicamente e intenzionalmente alcuni comportamenti e ignorarne altri. Ad esempio, se voglio portare il bambino a mantenere la penna nella posizione corretta, il rinforzo differenziale consiste nel rinforzare i comportamenti vicino al mio target e nell’ignorare quei comportamenti che si allontanano dal mio target. Ogni volta che prende la penna in maniera corretta utilizzando il pollice in posizione oppositiva lo rinforzo; mentre ogni volta che lo prende in maniera sbagliata lo ignoro. Quindi aumenterò la probabilità che il bambino impugni la penna in maniera corretta. I rinforzi possono essere: 1. Rinforzi concreti ® es. i rinforzi commestibili si usano in presenza di disabilità grave. La possibilità di avere un sorso di succo di frutta o un piccolo biscotto. 2. rinforzi sensoriali ® sono sensazioni piacevoli che coinvolgono gli organi di senso (es. ascoltare la musica). 3. rinforzi simbolici ® gettoni da scambiare in seguito. Si usa nella token economy con bambini ADHD e con disturbi comportamenti. Si fa un patto comportamentale per cui per ogni comportamento rispettato il bambino guadagna un gettone, e alla fine della settimana potrà scambiare i gettoni per avere un premio. 4. rinforzo sociale ® è il più importante. Es. ricevere attenzione, un segnale di approvazione, la lode, una gratificazione verbale. Nel lavoro comportamentale si parte dai rinforzi concreti per poi portare il bambino verso il rinforzo sociale, che comincia ad essere efficace quando il docente costruisce una relazione significativa con il bambino. Più lavoriamo sulla dimensione relazionale, più il rinforzo sociale ha valore. Il concatenamento, ovvero la scomposizione di un comportamento difficile in piccole parti, è una strategia utilizzata per l’insegnamento di abilità complesse (es. vestirsi). D’altro canto, la maggior parte delle azioni che eseguiamo nella vita quotidiana sono complesse. Ad esempio, il lavarsi le mani implica una sequenza comportamentale complessa (alzarsi, mettersi in fila, andare in bagno, erogarsi il sapone sulle mani, strofinare le mani, bagnarsele, sciacquarsele, asciugarsele, tornare al posto). Quindi in maniera preliminare il docente deve: - fare una task analisi (analisi del compito) ossia scomporre la sequenza complessa in singole unità comportamentali più semplici, lavorare con i rinforzi su ogni singola unità comportamentale e, poi, lentamente concatenarle. - costruire la catena di obbiettivi per raggiungere il risultato atteso - strutturare un programma di concatenamento delle singole unità Si può procedere in due modi, anterogrado o retrogrado. 1. Concatenamento anterogrado (da azione 1 ad azione 5): si parte dalla prima unità comportamentale e poi si lavora sulla seconda, terza fino all’ultima. Se il comportamento meta è quello di lavarsi le mani, si apre il rubinetto, si utilizza il sapone, si sfregano le mani, si risciacquano le mani. Molto spesso questo concatenamento è demotivamene per il bambino perché l’obiettivo finale si raggiunge dopo una sequenza complessa. Quindi si prediligere un concatenamento retrogrado 2. Concatenamento retrogrado (da azione 5, la più rinforzante, ad azione 1): si lascia che il bambino sperimenti il successo del raggiungimento della tappa finale. Quindi, il docente lo aiuta negli step precedenti e lo lascia fare da solo nell’ultimo step (asciugarsi le mani) e poi lo rinforza (con la lode o un rinforzo commestibile). Di volta in volta vado all’indietro, sino a quando completerà da solo l’intera sequenza. Il docente aiuta il bambino a svolgere una determinata Il fading rappresenta l’insieme delle azione con un supporto che può essere: procedure che portano a ridurre gli aiuti e le facilitazioni che sono state necessarie per il a) fisico. Ad esempio, se il bambino si deve lavare le conseguimento del compito. mani, il docente gli sorregge le mani, gliele muove quando deve insaponarle. Questo intervento si usa in presenza di un livello di autonomia molto basso. Il prompting fisico rischia però di rendere il bambino passivo, quindi, quando il bambino incomincia a fare Prompting e fading sono due tecniche da solo, il docente deve retrocedere riducendo il complementari e propedeutiche al chaining. Nella prompting fisico attraverso un processo di fading. tecnica del concatenamento si combinano tutte le b) gestuale. Dopo l’intervento fisico, il docente può tecniche utilizzate per lavorare sulle singole unità. usare il gesto per accompagnare il bambino in bagno. Questa tecnica consiste nello sfruttare il risultato del Il prompting gestuale si riduce attraverso il fading, comportamento precedente come stimolo discriminativo per il comportamento successivo. ossia riduco progressivamente i gesti che utilizzo. Ossia, se insegno al bambino che dopo essersi Passo dal gesto dell’indicare all’uso dello sguardo erogato il sapone sulle mani deve strofinarle, io c) verbale. Rappresenta il grado di aiuto più basso: ci si attiro la sua attenzione sull’esito limita a ricordare l’esecuzione di alcuni passi. Il comportamentale dell’azione che ha appena fading sul piano verbale singifica ridurre i appreso (le mani sono insaponate). Il fatto che le suggerimenti verbali e la quantità di informazioni, mani sono insaponante diventa lo stimolo come anche il tono della voce. Quindi si passa dal discriminate per la sequenza successiva “Matteo vai in bagno a lavarti le mani” al “Matteo (sciacquare le mani). Si aiuta il bambino a fare lava le mani” oppure “Matteo, le mani” un’associazione tra l’esito del comportamento precedente che diventa stimolo per sollecitare il Un uso spropositato di facilitazioni può portare il comportamento successivo. bambino a dipendere dall’adulto o a regredire sul piano evolutivo. Per questo motivo, bisogna ridurre gradualmente il prompting per rendere il bambino autonomo. È la sequenza complessiva del rinforzo differenziale. Nel rinforzo differenziale si ignorano i comportamenti lontani dal target mentre si rinforzano quelli vicini al target. Questo lavoro è il modellaggio: shaping (to shape) singifica dare forma; quindi, si dà forma al comportamento del bambino verso un obiettivo target. Il comportamento dell’utente è modellato fino ad eseguire il comportamento previsto. Consiste nell’esporre il bambino ad un modello, ossia nel favorire l’apprendimento di comportamenti nuovi solo attraverso l’osservazione. In questa tecnica non si lavora più solo sul piano comportamentale ma si fa leva sulle capacità cognitive (prestare attenzione, imitazione). Ad esempio, se devo guidare il bambino a lavarsi le mani, possiamo accompagnarlo fisicamente nello sciacquare le mani sotto l’acqua oppure posso mostrargli come si fa. Sappiamo che esiste una tendenza innata all’imitazione perché è una forma di responsività sociale, che è gravemente impattata nei bambini dello spettro autistico. Quello che dobbiamo fare, quindi, è rinforzare e incrementare le tendenze imitative del bambino, per poi lavorare su un nuovo comportamento. Bandura propone tre passaggi per favorire l’utilizzo del modellamento: x) la facilitazione dei processi attentivi e di ritenzione y) il supporto nella riproduzione motoria z) l’incremento della componente motivazionale tramite il rinforzo. Gli approcci che utilizziamo per lo studio e la modificazione del comportamento sono soprattutto ispirati al comportamentismo. La psicologia poi ha lavorato sul recupero della dimensione cognitiva che gioca un ruolo fondamentale nei processi di apprendimento e, nell’ambito di queste prospettive, la teoria di Tolman ha una sua importanza. Mentre negli esperimenti di Watson e Skinner la valutazione dell’apprendimento avveniva sulla base delle risposte emesse dall’animale, Tolman mette in crisi il rapporto “prestazione= apprendimento” (non si può osservare tutto ciò che una persona sa fare), ipotizzando l’esistenza di un apprendimento latente, ossia un apprendimento che non si estrinseca attraverso una prestazione. Quindi, un individuo apprende delle cose pur non esplicitandole attraverso una prestazione. Tolman arriva a questa conclusione dopo aver compiuto un esperimento in cui confrontava la prestazione di 3 gruppi di topolini che dovevano apprendere il percorso di un labirinto per raggiungere del cibo. ® 1° gruppo: viene rinforzato con il cibo sin dal primo giorno e apprende il percorso del labirinto in pochi giorni. ® 2° gruppo: non viene rinforzato con il cibo e neppure dopo venti giorni raggiunge la prestazione desiderata. ® 3° gruppo: viene rinforzato a partire dall’undicesimo giorno e dal dodicesimo manifesta di conoscere e percorrere il labirinto. Raggiunge subito le stesse prestazioni del primo gruppo. Tolman interpretò questi dati ritenendo che gli animali di questo gruppo avessero appreso il percorso anche in assenza di rinforzo e, che una volta che questo era stato fornito, si manifestava la prestazione corretta. Assenza di prestazione, quindi, non significa assenza di apprendimento, ma vi può essere un apprendimento latente che in condizioni adeguate può trovare modo di manifestarsi. Gli animali si sarebbero formati delle “mappe cognitive” del percorso che essi avrebbero utilizzato appena rinforzati. Quindi l’animale è orientato da uno “scopo” (il cibo) e da una “mappa cognitiva” (una serie di tentativi fatti dall’animale). Questa prospettiva di Tolman ha dato via alla costruzione di mappe spaziali, rappresentazioni mentali che possono avvenire anche in assenza di rinforzo. Anche Bandura si è allontanato da una spiegazione del comportamento esclusivamente in termini visibili e dipendenti dal rinforzo, e ha interpretato il comportamento come risultato di un processo più generale di acquisizione delle informazioni visive e verbali provenienti da altri soggetti. La sua teoria dell’apprendimento sociale va ad integrare il cognitivismo con una serie di nozioni riferiti alla dimensione sociale e riconosce ai meccanismi sociali la funzione di promuovere l’apprendimento anche in assenza di rinforzo. I punti per cui questa teoria si discosta dal comportamentismo e invece influisce nel cognitivismo sono: a) non è necessario che ci sia un comportamento rinforzato perché si verifichi l’apprendimento nel soggetto: è sufficiente che vi sia l’osservazione di un modello. L’apprendimento tramite l’osservazione (modellamento) è, infatti, uno dei concetti chiave del modello di Bandura. Egli fece un esperimento sull’aggressività: mise in una stanza i bambini a guardare un cartone violento rispetto ad un gruppo di bambini che non vide il cartone. Poi registrò il numero di comportamenti aggressivi che questi bambini adottavano rispetto ad una bambola di gomma, osservando che i bambini del primo gruppo mettevano in atto più comportamenti aggressivi rispetto ai secondi, imitando il cartone. b) l’apprendimento osservativo spiega l’acquisizione di comportamenti complessi in tempi brevi, senza che essi siano scomposti in sotto unità. c) Bandura evidenzia il ruolo correttivo del feedback, ossia un’informazione sul comportamento che contribuisce a modificarlo. La risposta ambientale non ha solo il valore di consolidare o estinguere il comportamento (rinforzo o punizione), ma può avere anche una valenza informativa, di feedback. Questo tipo di risposta ambientale va a modificare la performance del bambino. In tal senso, l’errore non è da evitare ma è utile perché diviene fonte d’informazione sul proprio operato. d) Nella teoria dell’apprendimento sociale si parla di “determinismo reciproco”, in cui i fattori della persona, il suo comportamento e il contesto ambientale dipendono l’uno dall’altro. L’ambiente dell’individuo costituisce un agente attivo in grado di modellare il comportamento attraverso le conseguenze prodotte. e) Si riconosce un ruolo attivo dell’individuo nell’influenzare il contesto, quindi non è soltanto l’ambiente che determina il comportamento individuale ma anche l’individuo che si seleziona gli ambienti di vita. f) È necessario esaminare i processi cognitivi che sottostanno all’apprendimento osservativo. Dunque, nella teoria di Bandura ritroviamo molti temi tipici del cognitivismo, in particolare lo spostamento dell’attenzione dal comportamento osservabile ai processi psichici. La teoria dell’apprendimento sociale porta con sé numerose conseguenze sul piano educativo: Effetto modellante® molti apprendimenti si costruiscono attraverso processi di osservazione e imitazione (es. rapporti interpersonali, utilizzo di alcuni strumenti) Effetto inibitorio ® se si osserva un modello il cui comportamento viene represso o punito, questo indurrà un effetto inibitorio nell’osservazione: colui che osserva eviterà di mettere in atto lo stesso comportamento. Effetto alone: adottare comportamenti simili e non identici a quelli del modello anche in ambiti diversi. Ad esempio, se Carlo è impegnato in attività di volontariato, è probabile che anche un amico di carlo partecipi a iniziative di solidarietà. Questi sono alcune forme di apprendimento vicario, ossia l’individuo apprende attraverso l’esperienza degli altri compagni. Comprendere il funzionamento cognitivo, sociale ed emotivo all’interno delle diverse fasi evolutive è un compito gravoso e dati neurobiologici; possibili vulnerabilità; complesso perché le influenze sul comportamento sono esperienze personali del numerose. soggetto Un approccio con il quale si interviene per studiare il funzionamento cognitivo, sociale ed emotivo dei bambini è l’Approccio della psicologia dello sviluppo alla clinica, per mezzo del quale si vogliono comprendere le relazioni tra caratteristiche individuali (nature), esposizione alle esperienze (nurture) e ambientali cure ricevute, con lo scopo di prevedere comportamenti e reazioni emotivo-relazionali nelle varie fasi di vita. Ricercatori: Carlson, Sroufe ed Egeland Studio: Studio longitudinale per approfondire le relazioni tra le prime esperienze di adattamento al contesto e il funzionamento sociale in adolescenza. Campione: 185 bambini tra i 12 e i 18 mesi e le loro madri185 bambini tra i 12 e i 18 mesi e le loro madri Fasi di sviluppo considerate nella 4-5 anni, 8 anni, 12 e 19 anni ricerca Sviluppo della ricerca: Ciò che i ricercatori hanno fatto è stato raccogliere informazioni sulla relazione genitore-bambino, misure comportamentali di abilità sociali e valutazione della salute emotiva. Risultati: I risultati dicono che esiste una relazione tra tutti questi fattori nelle varie fasi dello sviluppo e che concorrono a definire una sorta di traiettoria dello sviluppo all’interno della quale ogni evento rappresenta un dato che potrebbe influenzare l’esito. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un incremento di ricerche che hanno come obiettivo quello di identificare le variabili che caratterizzano lo sviluppo della persona, generalmente fin dai primi anni di vita, e che ne condizionano le acquisizioni sul piano cognitivo, affettivo e relazionale. I fattori che possono condizionare lo sviluppo di una persona sono numerosi e concorrono a definire una sorta di traiettoria dello sviluppo (Sroufe), all’interno della quale ogni evento rappresenta un dato probabilistico in grado di condizionarne l’esito. Si possono identificare almeno tre gruppi principali di fattori che influenzano l’evoluzione normale o patologica di una persona: FATTORI SPECIFICI* (o predisponenti): si possono identificare aa) Temperamento, ovvero l’insieme delle tendenze innate dell’individuo a reagire agli stimoli ambientali in un determinato modo. I bambini con temperamento “difficile” sono bambini capricciosi, polemici e pronti a discutere ogni regola data dai genitori; hanno difficoltà a inserirsi nel gruppo dei coetanei e spesso sono descritti dai docenti come problematici. Invece, i bambini con temperamento “facile” sono bambini tranquilli, curiosi verso la novità, socievoli, allegri e affettuosi. bb) Saper essere flessibile in situazioni di tensione o stress cc) Presenza/assenza di deficit sensoriali o ritardi nello sviluppo dd) Assetto neurobiologico ee) Fattori genetici e fisiologici FATTORI AMBIENTALI: esperienze o situazioni a cui il bambino viene esposto nelle diverse fasi della crescita. Ricercatori: Werner e Smith Studio: Utile a definire le componenti all’interno dei fattori ambientali che possono concorrere a incrementare la probabilità di insorgenza di gravi problemi in adolescenza o in età adulta. Campione: 698 bambini nati nel 1955 nell’isola di Kauai, ne hanno seguito la crescita per 30 anni Cosa hanno notato: 201 bambini presentavano severi rischi per il futuro a causa di una nascita difficile e da situazioni familiari problematiche. A 10 anni, due terzi di questi presentavano seri problemi di inserimento sociale e a 18 molti di loro avevano commesso già atti delinquenziali. Però, 72 ragazzi sui 201 a rischio crescevano senza difficoltà ed erano in grado di instaurare reazioni stabili e di aiutare gli altri. Constatazioni: I fattori protettivi che possono aiutare il bambino nello sviluppo riguardano: - Presenza di un adulto di riferimento - Contesto che favorisce l’acquisizione di radicate convinzioni morali e religiose - Presenza di uno stile attributivo interno Ricercatori: Quinton e Rutter Campione: Gruppo di bambine studiate per 30 anni e istituzionalizzate nella prima infanzia. Obiettivo della ricerca: Documentare i fattori che consentono a queste bambine, una volta adulte, di saper fare la madre. Tra i fattori ambientali protettivi ritroviamo l’incontro con figure di riferimento positive. Molto spesso queste ricerche in psicopatologia dello sviluppo non hanno tenuto conto delle normali tappe evolutive, della multifattorialità all’origine di un problema (non daremo mai una spiegazione uni causale a un problema infantile, ma cercheremo sempre una molteplicità di cause), della loro variabilità in tempi e modalità di acquisizione, adottando categorie diagnostiche così come si conoscono in età adulta. I limiti di questa modalità di approccio risiedono nella caratterizzazione del disturbo in termini statici; in ogni caso contribuiscono ugualmente a identificare la natura del problema oggetto di intervento, di studiarne le manifestazioni nelle fasi di sviluppo e le traiettorie negative. Moffit, per esempio, in questa linea di studio, pone l’attenzione sul concetto di continuità/discontinuità del problema piuttosto che sul suo esordio: egli considera la continuità come la caratteristica principale di coloro che presentano comportamenti persistenti nel tempo e la discontinuità come la caratteristica di coloro che hanno comportamenti limitati a una fase dello sviluppo. ESPERIENZE EFFETTUATE NEI PERIODI “SENSIBILI” DELLO SVILUPPO: ad esempio, l’attaccamento nelle prime fasi di vita, lo sviluppo del linguaggio, la socializzazione nella scuola dell’infanzia, l’apprendimento nella primaria. Quindi, tirando le somme, l’approccio attuale della psicopatologia dello sviluppo sembra orientarsi verso il modello BIO-PSICO-SOCIALE, costituito dai seguenti presupposti: 1. PRINCIPIO DI CAUSALITÀ IN BIOLOGIA: non esiste una causa unica nella determinazione di un disturbo 2. PRINCIPIO DELL’EQUIFINALITÀ: diversi fattori di rischio possono determinare uno stesso disturbo e l’effetto di ogni singolo fattore di rischio dipenderà dal momento in cui interviene e dalla combinazione con altri fattori 3. Esiste una discreta variabilità individuale dello sviluppo della persona: in questo caso comprendere le anomalie significa comprendere il caso anomalo dei cambiamenti attesi perché il bambino fallisce nell’acquisire una determinata abilità/competenza in relazione all’età 4. Fattori di rischio ambientale possono concorrere in modo diverso in base al periodo dello sviluppo. 5. Fattori di rischio possono avere un ruolo particolare a seconda della cultura di appartenenza e del genere. Esiste una sorta di causalità tra: ® eziologia-biologia del disturbo, ® sviluppo delle strutture del sistema nervoso centrale, ® funzionamento cognitivo e comportamento. In quest'ottica l’esperienza può modificare, a ritroso, lo sviluppo cerebrale e le cause naturali del problema. È utile sottolineare che la mancanza di cure e l’assenza di reciprocità affettiva costituiscono un fattore di rischio importante nello sviluppo del bambino; al contrario le condizioni favorevoli possono contrastare la condizione di vulnerabilità biologica. Quindi: se la condizione di vulnerabilità in condizione di stress può portare allo sviluppo di un disturbo, si legge ora una nuova prospettiva per cui esistono diverse variabili che possono portare al disturbo. Secondo il modello di Greenberg esistono almeno quattro dimensioni principali dei fattori di rischio che possono concorrere a sviluppare un disturbo dello sviluppo: Vulnerabilità biologica Le avversità che deve affrontare la (caratteristiche interne del bambino: famiglia (eventi vitali critici, traumi, predisposizione genetica, disabilità, rete sociale) deficit specifici) Fattori implicati nello sviluppo di una persona Lo stile educativo genitoriale e Legame con i genitori o figure di strategie di socializzazione adottati attaccamento Ricercatori: Morton e Frith Constatazioni: I livelli che spiegano un disturbo o un deficit che insorge in età evolutiva sono 3: Biologico, cognitivo, comportamentale. E in ciascun livello sottostanno i processi di interazione con l’ambiente Applicazioni di questo modello: Disturbi specifici dell’apparato - Disturbi di linguaggio, compreso l’autismo - Disturbi della condotta Ricercatori: Vilding e Frith Studio: Aggressività intesa come atto predatorio, deliberato, rispetto alla reazione violenta ma di origine impulsiva Constatazioni: Gli studi biologici su gemelli e bambini adottati hanno messo in evidenza che comportamenti antisociali e aggressivi possono essere ereditabili. Inoltre, aree differenti del sistema nervoso centrale possono essere poco attive o troppo reattive e la vulnerabilità biologica si attiverebbe solo in coincidenza con esperienze negative. Risultati Anche il livello comportamentale influisce a sua volta su quello cognitivo e biologico Per identificare l'intervento psicoeducativo più adeguato nei confronti del principali disturbi che possono insorgere durante lo sviluppo, è necessario: - descrivere accuratamente il problema e la situazione concreta in cui esso si manifesta; - identificare un modello di funzionamento che spieghi la presenza dei segni e dei sintomi psicopatologici e i meccanismi di mantenimento. - osservare come il soggetto reagisce alle proposte di aiuto. Lo schema operativo dell'intervento psicoeducativo è costruito su quattro fasi: 1. 1° FASE: Realizzare una rete di alleanza tra operatori e famiglia con la quale costruire un programma che espliciti i tempi e le modalità di lavoro. Poi, si definiscono e condividono gli obiettivi da raggiungere, in relazione al disturbo, ai bisogni e alle aspettative familiari. 2. 2° FASE: Esame delle abilità del bambino previste dalla fase di sviluppo e interventi per l’acquisizione delle stesse; 3. 3° FASE: Interventi specifici ricavati dalla conoscenza del problema. 4. 4° FASE: Predisporre un ambiente facilitante in grado di favorire l’acquisizione di senso di sicurezza e di benessere. Per valutare approfonditamente le abilità adattive si utilizzano due strumenti: Sono le più utilizzate in ambito clinico e di ricerca, costruite allo scopo di valutare abilità personali e sociali di una persona nell’ambito di contesti di vita quotidiani e di programmare interventi individuali educativi o riabilitativi. Indaga 4 aspetti di vita quotidiana: comunicazione verbale, abilità quotidiane, socializzazione, abilità motorie. È uno strumento più agile ed esiste tradotto in italiano in una versione a cura di Mugno. La scala valuta lo sviluppo globale dei soggetti nelle arie di: cura della persona, comunicazione, comportamento sociale, performance accademiche e ambiente. Inoltre, la scala consente di valutare la coerenza o l’incoerenza tra i vari ambienti (scuola, casa e comunità); quindi, occorrerà identificare le caratteristiche individuali sulle quali intervenire, quelle familiari, i fattori di rischio sociale e la reattività del soggetto al contesto ambientale. Le problematiche della persona affetta da più disturbi non vengono considerate semplicemente in relazione alla loro combinazione, ma l’interazione determina un quadro complesso, articolato, che si esprime in modo più severo rispetto alle singole manifestazioni-problema. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Capitolo 10 di Zanobini La scolarizzazione degli studenti con disabilità nelle classi comuni è un processo che iniziò a consolidarsi in Italia dall’inizio degli anni ’70, collocandosi all’interno dell’attuazione del diritto allo studio, come sancito dalla Costituzione della repubblica italiana. INTEGRAZIONE O INCLUSIONE? Nel corso del tempo, molti termini non sono sembrati più politically correct e quindi vennero trasformati in modo tale da trasmettere un significato diverso per un concetto che si amplia nel tempo. Ad esempio, il termine handicap (usato dai primi anni ’70 e ancora presente in molte leggi) è stato sostituito dal termine disabilità. Stessa cosa è accaduta per il termine integrazione e oggi si preferisce parlare di inclusione. I due termini non sono sinonimi poiché veicolano significati differenti. Indica l’assimilazione di un individuo o di un gruppo etnico in un ambiente INTEGRAZIONE sociale. L'idea di integrazione rimanda all'individuo che deve modificare i propri comportamenti per aderire al sistema dominante. Quindi il termine assume significato più vicino ad assimilazione. Manca il concetto dello scambio reciproco. L’atto di includere, di inserire, di comprendere in una serie. Questo termine – entrato nel linguaggio della scuola italiana con la convenzione ONU 2006, le linee INCLUSIONE guida ministeriali 2009 e la normativa sui BES – richiama un rapporto simmetrico e reciproco fra la persone e l’ambiente. Nonostante, la normativa italiana ha progressivamente abbandonato il termine integrazione sostituendolo con quello di inclusione, nella prassi scolastica si unizzano ancora entrambi i termini poiché si arricchiscono reciprocamente: a) L'inclusione porta l'attenzione sul contesto, su ostacoli e facilitatori. b) Sono necessarie buone prassi di integrazione che consentano a ciascuno di realizzare il proprio apprendimento, con strumenti differenti, senza tuttavia differenziare i contenuti dell’apprendimento stesso. Dalla costituzione alla legge 517/1977 Nella prima metà del ‘900 normalità (inteso come riferimento standard del comportamento sociale) e uniformità sono stati i riferimenti dominanti in campo antropologico e pedagogico; tutte le forme di disturbo sono state invece assimilate alla follia e malattia mentale. Si perseguiva la necessità da parte della società dei normodotati di allontanare da sé la presenza della diversità. Si ricorda, inoltre, che decine di migliaia di persone con disabilità sono state eliminate nei campi di stermino nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Il disprezzo verso la diversità si ritrova anche nel linguaggio clinico (“cretino, subnormale”) e ancora oggi sopravvivono come insulti nel linguaggio comune. In questo periodo in Italia soltanto ai bambini con minoranze sensoriali (sordi e ciechi) era garantita la scolarizzazione in scuole speciali. L’articolo 3 della Costituzione afferma i principi di rimozione di ostacoli; universalità della scuola e diritto allo studio a prescindere dalle condizioni di partenza; diritto all’educazione di inabili e minorati. Ma dall’affermazione all’esecuzione concreta dei diritti il processo è stato molto lungo. ANNI ’60 del ‘900 ® Dopo l’istituzione della scuola media unica (1962)e la scolarizzazione di massa, vi furono enormi ritardi e ostacoli all’istruzione a causa di una scuola di matrice culturale e intellettualistica. La scuola, infatti, non fu in grado di rispondere ai bisogni formativi di una nuova utenza scolastica disomogenea e caratterizzata da gravi forme di disadattamento ambientale. Nelle scuole elementari speciali soggetti minorati completavano la scuola dell'obbligo con deroghe sull'età d'iscrizione fino a 18/20 anni. ® Con la Legge 1859/1962 venivano istituite le classi differenziali per ragazzi con disagi di vario genere. In esse si realizzava un programma di studi parallelo ma con tempi distesi rispetto alla scuola comune. Questo impianto avrebbe dovuto garantire, agli alunni con difficoltà, di conseguire gli apprendimenti di base per poi rientrare nel canale formativo ordinario. Di fatto, si strutturò un canale formativo separato per quella fascia di alunni non disabili che però avevano importanti difficoltà sul piano della comunicazione linguistica. Si trattava prevalentemente di ragazzi disadattati con problemi comportamentali. Dalla deprivazione socio-culturale all’handicap vero e proprio il passo fu breve. ANNI ‘70 del ‘900: furono gli anni della democratizzazione della società e della scuola. 1. Dpr 416/417 del 74. Decreti delegati sugli organi collegiali della scuola e sul nuovo statuto giuridico dei docenti. 2. Legge 118 del 1971. Assicurava la frequenza scolastica a invalidi civili e mutilati. L'interpretazione estensiva di questa legge consentì l'integrazione di alunni con disabilità, anche con disturbi psichici nelle classi comuni. Ciò avvenne soprattutto al Nord. Dal 1975 la graduale chiusura delle scuole speciali fu causata dal comprovato fallimento degli interventi educativi realizzati in contesti separati ed emarginati. I docenti, infatti, avevano formazione obsoleta e scarsa motivazione professionale. Le classi erano numerose, composte da alunni con età diverse e con svariate tipologie di disabilità. Non vi erano obiettivi formativi funzionali ad una vita autonoma per i ragazzi. Le scuole speciali nacquero inseguito alle innovative ricerche sull’educabilità di bambini con handicap (Montessori) e in esse si svilupparono esperienze di grande umanità e professionalità, ma sempre in un contesto di segregazione. Fu la pressione sociale esercitata dalle famiglie e dalle associazioni a consentire l'entrata in vigore della legge 517/77 che modificò il sistema di valutazione nella scuola d'obbligo, formalizzò l'assegnazione di insegnanti specializzati (insegnante di sostegno) nella scuola elementare e media per sostenere l'integrazione degli alunni con handicap. La legge 419 del 1974 abolì le classi differenziali: le scuole speciali venivano svuotate, ma nessun testo legislativo le abrogò. Legge quadro 104/92. L’integrazione come processo interistituzionale Tra il 1977 e il 1992 nessuna nuova legge intervenne a disciplinare il processo di integrazione scolastica. Di rilevante importanza fu la sentenza della Corte costituzionale (cfr. Cm n. 215/1989) con cui vennero estese anche alla scuola secondaria di secondo grado le norme sul diritto allo studio per gli alunni portatori di handicap. Fu la Legge-quadro n. 104 del 5 febbraio 1992 a regolamentare tutte le problematiche inerenti la vita della persona con handicap (accertamento, prevenzione, riabilitazione, cura, inserimento scolastico e lavorativo, tutela delle situazioni di gravità, ecc.). In essa si specifica: a) il diritto all’integrazione scolastica della persona handicappata attraverso azioni per lo sviluppo delle potenzialità nell’apprendimento; b) l’importanza della cooperazione tra scuola, servizi sociosanitari e istituzioni politiche. Oltre agli specialisti delle Asl, in campo riabilitativo operano associazioni e centri convenzionati con il Servizio sanitario nazionale in base all'art. 26 della legge 833/78. Tali centri si occupano di specifiche tipologie di disabilità sul piano del trattamento e della riabilitazione e collaborano con la scuola per le parti di loro competenza nell'elaborazione dei documenti previsti dalla legge 104/92, per l'assegnazione dei docenti di sostegno e per il monitoraggio del Piano educativo individualizzato (PEI). I documenti DF, PDF, PEI sono stati citati in questa legge per la prima volta. Decreto del Presidente della Repubblica 24 febbraio 1994: "Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap", pubblicato la prima volta nella G.U 6 aprile 1994, n. 79. Il D.P.R. è stato ripubblicato, dopo la registrazione alla Corte dei conti, sulla G.U. 15 aprile 1994, n. 87 ARTICOLO 1. Garanzia di intervento medico cognitivo sull'alunno in situazione di handicap, necessario per le finalità di cui agli articoli 12 e 13 della legge n. 104 del 1992, da articolarsi nella compilazione: a) di una diagnosi funzionale del soggetto; b) di un profilo dinamico funzionale dello stesso; c) per quanto di competenza, di un piano educativo individualizzato, destinato allo stesso alunno in situazione di handicap. ARTICOLO 4. La diagnosi funzionale, essendo finalizzata al recupero del soggetto portatore di handicap, deve tenere particolarmente conto delle potenzialità registrabili in ordine ai seguenti aspetti: a) cognitivo, esaminato nelle componenti: livello di sviluppo raggiunto e capacità di integrazione delle competenze; ICF: fattori b) affettivo-relazionale, esaminato nelle componenti: livello di contestuali personali autostima e rapporto con gli altri; c) linguistico, esaminato nelle componenti: comprensione, produzione e linguaggi alternativi; ICF: funzioni d) sensoriale esaminato nella componente: tipo e grado di deficit mentali con particolare riferimento alla vista, all'udito e al tatto; ICF: attività e) motorio-prassico, esaminato nelle componenti: motricità personali globale e motricità fine; f) neuropsicologico, esaminato nelle componenti: memoria, attenzione e organizzazione spazio temporale. g) autonomia personale e sociale. Quindi, tutte le aree contemplate per legge nella diagnosi funzionale sono incluse nel modello ICF. Intesa Stato-Regione del 20 marzo 2008 In materia di modalità e criteri per l'accoglienza scolastica e la presa in carico dell'alunno con disabilità. In questo documento si sottolinea che l’ICF non è una opzione, ma diventa un obbligo di legge («la diagnosi funzionale è redatta secondo i criteri del modello bio-psico-sociale dell'ICF dell'OMS»). La legge 107/2015 e il decreto 66/2012 Decreto Legislativo n. 66/2017 «Norme per la promozione dell'inclusione scolastica degli studenti con disabilità» (Decreto attuativo dell'articolo 1 della legge 13 luglio 2015, n. 107 «Buona Scuola»). Alla legge 5 febbraio 1992, n. 104 sono apportate le seguenti modificazioni: - all'articolo 12, il comma 5 è sostituito dal seguente: «5. Successivamente all'accertamento della condizione di disabilità delle bambine e dei bambini, delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti ai sensi dell'articolo 3, è redatto un profilo di funzionamento secondo i criteri del modello bio-psico-sociale della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) adottata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ai fini della formulazione del progetto individuale di cui all'articolo 14 della legge 8 novembre 2000, n. 328, nonché per la predisposizione del Piano Educativo Individualizzato (PEI).» In questo progetto di inclusione, l’Azienda sanitaria locale (ASL) è chiamata a garantire per le persone con disabilità interventi di prevenzione, riabilitazione e cura, attraverso le strutture Cosa fa ospedaliere e i poliambulatori. Inoltre, attiva le competenze professionali specifiche per l’ASL? accertamento della disabilità (tram