03_PatologiaClinica_Trerè_Emostasi_10.10.2024.pdf
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Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay EMOSTASI Definizione: emostasi comprende tutti i meccanismi fisologici che l’organismo mette in atto per evitare perdite di sangue. Anche l’etimologia è molto chiara: haîma = sangue e stásis = stasi/stare quindi il sangue si ferma, emorragia si interrompe. Il sistema emostatico riesce contemporaneamente a garantire due funzioni apparentemente opposte, perché quest’ultimo è quello che ci consente di mantenere fluido il sangue perché sapete che la fluidità del sangue è un elemento indispensabile per la circolazione. Allo stesso tempo garantisce interruzione di emorragia in seguito a danni. Quindi mantiene un equilibrio delicatissimo, che garantisce entrambe le funzioni: - Mantiene fluido il sangue - Interrompe il sanguinamento Quando quella componente del sistema emostatico che regola la fluidità del sangue è alterata, abbiamo come manifestazione clinica la trombosi, quando invece è alterata quella componente dell’emostasi che regola l’interruzione di un sanguinamento abbiamo l’emorragia. Emorragia e trombosi sono le due manifestazioni estreme di un’alterazione dell’emostasi. I tipi più comuni di alterazione sono le emorragie, ma non perché qualcuno ritenga essere più importanti delle trombosi, in quanto entrambe hanno la stessa rilevanza e pericolosità. Ma perché sono presenti maggiori strumenti di laboratorio per indagare quelle alterazioni dell’emostasi che producono emorragie rispetto a quelle alterazioni che comportano la trombosi. Ricorda: entrambe le complicazioni cliniche hanno la stessa importanza e rilevanza. IL PROCESSO EMOSTATICO Divisione del processo per motivi didattici, in realtà le componenti sono strettamente connesse tra loro. Ma la suddivisione è una semplificazione e consente una maggiore comprensione dell’argomento. - EMOSTASI PRIMARIA ha come protagonista le piastrine, esse gestiscono questa fase dell’emostasi. Sono in grado di riconoscere discontinuità delle cellule endoteliali. Sapete che l’endotelio è assimilabile ad un pavimento dove le piastrelle sono le cellule connesse tra loro da “fughe” inesistenti che tappezzano i nostri vasi. Quando si crea una discontinuità tra le cellule endoteliali si scopre quello che c’è sotto: il cemento per il pavimento, il connettivo (fibre di collagene) per un vaso. Le piastrine sono frammenti citoplasmatici estremamente attivi che riconoscono questa discontinuità. Si attivano andando a costituire un tappo emostatico, cioè si aggregano tra loro e vanno a localizzarsi dove c’è stato il distacco delle cellule endoteliali. Contemporaneamente abbiamo una vasocostrizione che è importante perché garantisce il flusso ridotto e quindi garantisce ai meccanismi dell’emostasi di agire con tranquillità. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay Il tappo emostatico primario riesce a interrompere l’emorragia, ma non è in grado di rimanere nel tempo con la stessa solubilità. Perché: 1. viene riparata l’ostruzione e quindi riprende il flusso 2. tende a dislegarsi - EMOSTASI SECONDARIA: è quella fase dell’emostasi in cui viene consolidato il tappo emostatico primario attraverso l’interposizione di un collante, ovvero una sostanza che va ad interporsi tra le piastrine consolidando il tappo. Quindi le piastrine sono le protagoniste dell’emostasi primaria, i fattori della coagulazione e la fibrina rappresentano i protagonisti dell’emostasi secondaria. EMOSTASI PRIMARIA Le piastrine: sono frammenti citoplasmatici dei megacariociti che contengono i granuli perché dentro di essi sono contenute sostanze che possono essere immediatamente disponibili e immediatamente liberate in circolo. Una considerazione importante che dobbiamo fare è la velocità: il processo emostatico deve essere estremamente veloce, perché interrompere l’emorragia dopo che tutto il sangue è uscito è inutile. Quindi molte delle funzioni che verranno descritte sono finalizzate ad un intervento molto rapido e veloce. Sapete che noi non abbiamo una riserva di sangue, la milza può essere considerata una riserva di sangue, noi il sangue lo dobbiamo mantenere e non perdere. Quindi il processo emostatico serve per intervenire velocemente per interrompere l’emorragia. Altra caratteristica delle piastrine è una caratteristica membrana che non è circolare, ma entra ed esce dalla piastrina formando delle invaginazioni. Questa complessa struttura ha la funzione di aumentare la superficie di contatto; quindi, le piastrine sono a contatto con il sangue e sempre per la velocità con cui deve reagire hanno questa membrana in stretto contatto con il RE che si chiama sistema tubulare denso. Altra caratteristica è il citoscheletro: risulta complesso e articolato che garantisce grande plasticità; infatti, le piastrine hanno capacità di variare la propria morfologia in dipendenza della situazione nella quale si trovano. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay L’emostasi primaria è suddivisibile in 3 sottofasi: 1. ADESIONE: è quel momento in cui la piastrina riconosce la discontinuità delle cellule endoteliali e si attacca al connettivo sottoendoteliale. Le piastrine hanno dei recettori estremamente importanti che partono tutti con due lettere: gp che sta per glicoproteina seguita da un numero. I recettori gpIa e gpIIa consentono alle piastrine di connettersi direttamente alle fibre di collagene. Come si vede nell’immagine sono saltate due/tre cellule; quindi, le fibre collagene (in viola) sono a diretto contatto con il sangue, le piastrine riconoscono queste strutture, diverse rispetto alle cellule endoteliali, e si attaccano con i recettori (gpIa e gpIIa). Normalmente le piastrine non aderirebbero all’endotelio, ma quando le fibre di collagene vengono scoperte, le piastrine vengono attratte al legame. Il gpIb si lega invece al connettivo sottoendoteliale per interposizione del fattore di Von Willebrand che è un multimero circolante prodotta sia dalle cellule endoteliali che dalle piastrine e si interpone tra gpIb e il connettivo. Quindi la piastrina aderisce: direttamente con gpIa e gpIIa e indirettamente con gpIb per interposizione di vWF. Indirettamente questi due cambiano morfologia, passano dalla forma discoidale a una forma sferica con pseudopodi che sono delle piccole braccia che con i recettori gp si attaccano al connettivo sottoendoteliale. Questo processo avviene molto velocemente. Il vWF risulta fondamentale: è una grossa glicoproteina multimerica che viene prodotta sia da cellule endoteliali che dalle piastrine e ha una duplice funzione: 1. garantire adesione delle piastrine per interposizione del recettore gpIb, quindi ha un ruolo nell’emostasi primaria 2. trasporta, veicola, solubilizza il fattore VIII, avendo quindi un ruolo nell’emostasi secondaria Deficit di adesione Se manca il recettore gpIb o il vWF la reazione che si ottiene è una sindrome emorragica, emorragie spontanee o eccessive rispetto ad una condizione normale. Una situazione classica è il sanguinamento delle gengive dopo un’igiene dentale, che se eccessivo è campanello d’allarme per un possibile problema di emostasi. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay La malattia di von Willebrand è la patologia coagulativa ereditaria più frequente al mondo con un’incidenza di 1 paziente ogni 1000 abitanti. È però meno conosciuta perché nella maggior parte dei casi è asintomatica, i casi gravi sono solamente 1 su 1.000.000 Malattia autosomica a dominanza incompleta che si manifesta con sindromi emorragiche. La sindrome di Bernard Soulier è clinicamente molto simile alla precedente perché genera un quadro sintomatico molto simile: sindrome emorragica. Però in questo caso la condizione è generata da un deficit ereditario della gpIb. In realtà la sindrome si genera per alterazione di una delle quattro subunità che la formano, i cui geni sono posti sui cromosomi (17, 22, 3) (il prof non si sofferma ulteriormente sulle mutazioni che generano la patologia). Quando manca il recettore le piastrine hanno un deficit di adesione. 2. ATTIVAZIONE: quella fase in cui le piastrine iniziano a produrre alcune sostanze ma soprattutto a liberare quelle che sono contenute nei granuli. Le sostanze che sono presenti all’interno delle piastrine sono molteplici. Per capire l’indagine di laboratorio è fondamentale che ricordiate due di questi mediatori: ADP e TROMBOSSANO. Contemporaneamente la piastrina esprime sulla sua membrana quello che viene chiamato fattore piastrinico III che fino a questo momento è rimasto nascosto. Quest’ultimo è fondamentale per garantire la cascata della coagulazione perché di esso si attivano i fattori di coagulazione, quindi l’emostasi secondaria. 1. ADP è presente nei corpi densi e viene liberata indirettamente con l’attivazione delle piastrine, essa attiva un recettore che fino a quel momento è silente ed è chiamato gpIIb/IIIa che in presenza di ADP si attiva. Questo nella forma attivata si lega al fibrinogeno. Quest’ultimo si interpone tra due recettori gpIIb/IIIa di due piastrine adiacenti. Quindi le piastrine che prima hanno aderito sul connettivo sottoendoteliale cominciano ad aggregarsi tra loro. A consolidare questo legame abbiamo la trombospondina che è un'altra sostanza contenuta nei granuli delle piastrine che consolida il legame. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay La mancanza del complesso recettoriale gpIIb/gpIIIa determina ancora una volta una sindrome emorragica. Questa è una sindrome molto rara, poche decine di pazienti sono affetti in Italia. Però risulta la patologia più frequente che si può riscontrare per deficit della glicoproteina. Viene chiamata tromboastenia di Glanzmann. 2. Trombossano è il secondo mediatore che dobbiamo considerare anche per le implicazioni patologiche. Come vedete ADP, trombina (fattore di coagulazione), collagene attivano fosfolipasi che attaccano i fosfolipidi di membrana a livello di fosfatidilcolina e il fosfatidilinositolo. 3. AGGREGAZIONE: ADP, trombina, che è un fattore della coagulazione che si è contemporaneamente attivato, e collagene, attivano degli enzimi fosfolipasi che agiscono sui fosfolipidi di membrana delle cellule. Quindi sono degli enzimi che attaccano la fosfatidilcolina e il fosfatidilinositolo sulla membrana trasformandoli in acido arachidonico. L’acido arachidonico a seconda della cellula in cui si produce può avere due principali destini metabolici diversi: - In presenza di lipossigenasi dall’AA si producono i leucotrieni - In presenza di enzima ciclossigenasi dall’AA si producono le prostaglandine. La prostaglandina che ci interessa in particolar modo è il trombossano A2 (TXA2). Il trombossano è una prostaglandina che si produce nelle piastrine in quanto dotate dell’enzima ciclossigenasi. Dall’acido arachidonico le piastrine producono trombossano. Il trombossano è la sostanza naturale pro-aggregante più potente perché attiva la vasocostrizione e l’aggregazione piastrinica. Al di là del suo ruolo, deve essere ricordato perché il trombossano e l’enzima che lo produce sono il target dell’acido acetilsalicilico, o più in generale dei FANS. L’aspirina è un farmaco anti-aggregante che inibisce l’aggregazione delle piastrine, funzione svolta attraverso il blocco della ciclossigenasi, non consentendo quindi la produzione di trombossano. L’aspirina oltre ad essere un farmaco antinfiammatorio, come comunemente noto, è anche un farmaco antiaggregante. Questo significa che quando prendiamo un’aspirina come farmaco antinfiammatorio l’effetto collaterale più temibile è l’emorragia. Bisogna tenere conto che è un farmaco che ha due azioni: - a dosi adeguate con funzione antiaggregante - nei pazienti a rischio di trombosi a scopo preventivo Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay La scoperta dell’azione inibitoria dell’aspirina sulla ciclossigenasi valse al ricercatore inglese John R.Vane il premio Nobel per la medicina nel 1982 (non è colui che ha scoperto l’aspirina). È ancora presto per entrare nel dettaglio clinico ma nel frattempo vi faccio vedere quelle che sono le implicazioni terapeutiche per le quali è indicata la terapia con aspirina come farmaco antiaggregante. Non entriamo nel dettaglio però sono importanti, verranno probabilmente riprese nello studio della cardiochirurgia. EMOSTASI SECONDARIA L’emostasi secondaria è la seconda fase e ha come protagonisti i fattori della coagulazione. I fattori della coagulazione sono dei pro-enzimi inattivi che circolano continuamente nel sangue periferico e in determinate condizioni si attiva la cascata coagulativa. Si chiama cascata coagulativa perché è una sequela di attivazioni a cascata, dove un proenzima diventa attivo e attivandosi, attiva l’enzima successivo e così a domino gli altri. È estremamente importante conoscere la sequenza della cascata coagulativa per capire le patologie o sindromi emorragiche causate da un deficit di uno di questi fattori. Può essere attivata attraverso due vie: - Via intrinseca - Via estrinseca Via Intrinseca Quando si prende un campione di sangue dentro una provetta esso coagula. Questo avviene perché quando i fattori della coagulazione, e specificatamente il fattore XII, vengono a contatto con una superfice diversa dalle cellule endoteliali, si attivano. 1) Il fattore XII attivato attiva il fattore XI. 2) Il fattore XI attivato attiva il fattore IX. 3) Il fattore IX attivato attiva il fattore X in presenza del fattore VII, del calcio e del fattore piastrinico terzo. Questa reazione non avviene se le piastrine non hanno espresso questo fattore. Quindi il processo emostatico primario e secondario sono strettamente connesso tra loro. 4) Il fattore X attiva il fattore II in presenza del fattore V, del fattore piastrinico terzo e del calcio. 5) Il fattore II si chiama protrombina e nella forma attiva si chiama trombina; la trombina è l’enzima che catalizza l’ultima reazione. 6) trombina trasformazione del fibrinogeno inattivo che diventa fibrina 7) poi c’è il fattore XIII che in presenza di calcio stabilizza la fibrina. Questa era la via intrinseca che si attiva tutte le volte che il sangue viene a contatto con una superficie estranea. Via estrinseca L’altra via di attivazione è chiamata via estrinseca ed è attivata dalla liberazione in circolo di un altro fattore che si chiama fattore tissutale. Esso è presente in tutti i tessuti, e in particolare nelle cellule endoteliali. Quindi quando c’è un danno vascolare di qualsiasi entità e in qualsiasi sede il fattore tissutale si libera in circolo. 1) Il fattore tissutale attiva un altro fattore della coagulazione che è il fattore VII. 2) Il fattore VII attivato attiva il fattore X Si vede come sia la via estrinseca che intrinseca convergano sul fattore X. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay Questa è la cascata coagulativa che è attivata da: - contatto del sangue con una superficie estranea - liberazione in circolo del fattore tissutale a seguito di un qualunque danno che possa avvenire in un vaso o in un tessuto. Il risultato finale è la produzione di fibrina. La fibrina è una sostanza che va a consolidare il tappo emostatico primario rendendolo stabile. E a questo punto può venire meno la vasocostrizione, il flusso ematico può ripristinarsi normalmente. Ciò avviene perché questo tappo emostatico tiene ed è in grado di garantite l’interruzione di emorragie anche successivamente. N.B. La cascata coagulativa è da imparare a memoria. Non è una sequela numericamente ordinata perché i fattori sono stati scoperti con diverse metodologie, c’è qualche salto. Questa diapositiva non deve essere memorizzata, viene lasciata per approfondimento facoltativo individuale. Ogni fattore di coagulazione ha un numero e un nome ma è sufficiente ricordare il numero; solo per il fattore II è necessario ricordare il nome. Nella tabella sono indicati la concentrazione plasmatica, la percentuale richiesta per l’emostasi e il peso molecolare, (che non sono da memorizzare). Da ricordare questi tre spot: 1. l fattore XII, il chinogeno ad alto peso molecolare (HMWK) e la precallicreina (PK), non sono necessari per l’emostasi in vivo. Può sembrare una contraddizione visto che si è detto che è il punto di partenza della via intrinseca. (si approfondisce in seguito) 2. dei fattori della coagulazione quello più concentrato, più presente nel sangue periferico è il fibrinogeno; se l’elettroforesi delle proteine viene fatta sul plasma il fibrinogeno forma un picco in più tra la banda γ e β Quindi il fibrinogeno è il fattore di coagulazione che ha la più alta concentrazione. 3. l’emivita dei fattori di coagulazione è estremamente variabile. Il fattore che ha minore emivita è il fattore VII. Si tratta del fattore che viene meno più precocemente quando il fegato smette di produrre fattori di coagulazione. La cascata coagulativa precisissima e raffinatissima deve essere però attivata in maniera appropriata perché come tutti i meccanismi, se attivati in contesti inappropriati crea dei danni. Quindi abbiamo un sistema di regolazione naturale costituito degli inibitori della cascata coagulativa che sono essenzialmente 2: Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay - L’antitrombina III: così chiamata perché inibisce la trombina, quindi, inibisce anche il fattore X attivato e l’innesco della via intrinseca. È un inibitore naturale che però viene potenziato migliaia di volte da una sostanza che si chiama eparina. L’eparina potenzia di centinaia di migliaia di volte l’effetto inibitorio naturale dell’antitrombina III. Per cui l’eparina è una sostanza o farmaco, a seconda di come la si usi, anticoagulante. N.B. Non fare l’errore si confondere farmaci antiaggregati e anticoagulanti!! - antiaggreganti: come l’aspirina, che inibiscono l’aggregazione in piastrine. - anticoagulanti: inibiscono la cascata coagulativa. Sono farmaci diversi, che agiscono in maniera diversa e hanno indicazioni terapeutiche diverse. Non vanno confusi. Entrambi sono legati all’emostasi ma in due fasi diverse. - Proteina C attivata dalla proteina S: agisce attraverso una sorta di feedback negativo. N.B. da non confondere con la proteina C reattiva, questa si chiama proteina C attivata. La denominazione è simile ma fanno azioni diverse: proteina C è un indice di flogosi. La proteina C attivata coadiuvata dalla proteina S inibisce i fattori V e VIII. Aggrediscono la cascata coagulativa in un'altra fase. Quando si forma la trombina questa, oltre ad agire sul fibrinogeno attivandolo a fibrina, attiva allo stesso tempo una proteina presente sull’endotelio che si chiama trombomodulina, la quale attiva la proteina C che inibisce la cascata coagulativa. Questo è un classico meccanismo a feedback negativo. La trombina contemporaneamente: o Attiva la cascata coagulativa producendo la fibrina o Inibisce cascata coagulativa attraverso la trombomodulina Questo meccanismo fa sì che la cascata si accenderà o fermerà in base alle necessità. È un meccanismo molto raffinato, molto delicato la cui alterazione porterà a sindromi emorragiche. Se prendo un campione di sangue e lo metto in una provetta il sangue coagula perché, a contatto con le pareti della provetta, si attiva la via intrinseca. Se ciò avvenisse durante un esame del sangue, il campione arriverebbe in laboratorio completamente coagulato e sarebbe inutilizzabile. È necessario che il campione di sangue arrivi in laboratorio non coagulato, per questo motivo nelle provette in cui si raccoglie il sangue sono contenute sostanze anticoagulanti. Non so quanti di voi durante un prelievo si siano concentrato sulle provette, ma chi è stato attento avrà notato che il fondo delle provette non è vuoto ma contiene delle sostanze liquide ma anche delle sostanze solide che hanno la funzione di inibire la cascata coagulativa per fare in modo che il sangue arrivi in laboratorio liquido. Le strategie sono 2: 1) Sostanze chelanti del calcio: abbiamo visto come la presenza di calcio sia fondamentale per garantire la cascata di coagulazione, se si toglie il calcio la cascata si interrompe. I principali chelanti del calcio sono: a. Citrato b. Ossalato c. EDTA (acido etilendiaminico tetracetico) sottoforma di Sali di sodio e potassio 2) Eparina: sarebbe un farmaco ma può essere utilizzata anche in laboratorio per inibire la cascata coagulativa. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay Teoricamente per inibire la cascata mi basterebbe uno di questi anticoagulanti; purtroppo, però queste sostanze interferiscono con alcune analisi che facciamo in laboratorio, quindi, è stato verificato l’anticoagulante migliore per qualsiasi indagine di laboratorio. A seconda dell’analisi da fare devo usare uno specifico anticoagulante che non crei interferenza. Durante un prelievo il sangue viene raccolto in provette che hanno un tappo di colore diverso, il quale si riferisce all’anticoagulante che è contenuto proprio per evitare che l’infermiere, il medico o chiunque faccia il prelievo, compia degli errori. - Tappo azzurro: contengono sodio citrato, un chelante del calcio, utile per studiare le reazioni dell’emostasi. È l’anticoagulante di elezione se devo eseguire su un campione di sangue indagini di laboratorio relative all’emostasi. - Tappo rosso e Tappo giallo invece attivano la coagulazione e producono direttamente il siero, servono per eseguire esami da un campione di siero. - Tappo verde: contiene eparina, utilizzata per eseguire esami da plasma. - Tappo viola: EDTA anticoagulante che modifica meno la morfologia delle cellule, utilizzati per analizzare uno striscio di sangue e osservare al microscopio la cellula. - Tappo grigio: anticoagulante che inibisce la glicolisi, quindi, viene utilizzato per la valutazione della glicemia. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay VITAMINA K E FATTORI VITAMINA K-DIPENDENTI I fattori della coagulazione sono prodotti dal fegato, così come la maggior parte delle proteine in circolo. Dopo la loro sintesi nel fegato, i fattori sono tutti attivabili, tranne per quattro fattori (II, VII, IX e X). Essi sono chiamati fattori vitamina K-dipendenti, perché dipendono dalla vitamina K. Per essere attivabili, infatti, hanno bisogno di subire un’ultima reazione, ovvero una carbossilazione, a opera dell’enzima γ-glutamil-carbossilasi. È un enzima che aggiunge un gruppo carbossilico al Cγ del loro acido glutammico. In tale reazione, la vitamina K risulta fondamentale: senza di essa, la carbossilazione non avviene e i fattori II, VII, IX e X non funzionano. Infatti, FP3, espresso dalla piastrina, si lega ai fattori della coagulazione per interposizione di Ca2+ e la carbossilazione dei 4 fattori è necessaria per consentire il loro legame con Ca2+. Dunque, senza questa carbossilazione vitamina K-dipendente, questi quattro fattori non possono partecipare alla cascata coagulativa, che viene così interrotta. Lo scopritore della vitamina K fu Carl Peter Henrik Dam, vincitore del Premio Nobel per la Medicina nel 1943. Il fatto che egli fosse danese, fu in un certo senso una fortuna, perché il nome della vitamina K deriva dalla parola “coagulazione” in danese [koagulering, nds], che comincia proprio con la lettera K. Se fosse stato italiano, per esempio, sarebbe stato un problema perché il nome “vitamina C” era già occupato. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay Ciclo della vitamina K La vitamina K la prendiamo dall’esterno, con la dieta: è contenuta prevalentemente negli alimenti vegetali (frutta e verdura). Affinché possa essere attiva e consentire la carbossilazione, essa deve essere ridotta dall’enzima vitamina K reduttasi. Una volta che ha partecipato alla carbossilazione, poi, essa viene riciclata, attraverso due riduzioni successive: - Prima riduzione, che la riporta alla stessa condizione della vitamina K alimentare - Seconda riduzione, che è necessaria nuovamente per la sua attivazione In conclusione, per essere funzionale, la vitamina K - alimentare deve essere ridotta 1 volta - riciclata deve essere ridotta 2 volte Farmaci dicumarolici Una classe di farmaci estremamente importante inibisce la riduzione della vitamina K: sono i farmaci dicumarolici (tra cui il Warfarin, che porta il nome commerciale di Coumadin). Sono tra i farmaci anticoagulanti più utilizzati nella pratica clinica. Questo è un esempio dell’importanza di conoscere la funzione della vitamina K: in questo modo, possiamo agire sul suo meccanismo di funzionamento, proprio come si è fatto attraverso questi farmaci. Va ricordato che non vanno confusi i farmaci antiaggreganti, che bloccano l’aggregazione delle piastrine (come l’aspirina, che agisce inibendo la produzione di trombossani), con i farmaci anticoagulanti, che interrompono la cascata coagulativa (come l’eparina, che agisce attivando l’antitrombina III, e i farmaci dicumarolici, che agiscono sulla riduzione della vitamina K). Sono farmaci diversi, con meccanismi diversi e applicazioni terapeutiche, anche se talvolta complementari, comunque diverse. Abbiamo le piastrine, un linfocita, dei globuli rossi e in bianco la fibrina che si sta formando. La fibrina è infatti insolubile, a differenza dei fattori della coagulazione che sono tutti solubili. Dunque tutto il processo della cascata avviene in soluzione, mentre il prodotto della cascata è visibile. Tutto questo meccanismo avviene in maniera estremamente veloce: il soggetto sta perdendo sangue, quindi l’organismo deve agire velocemente per arrestare la perdita. Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay La fibrina si organizza in tralci sempre più consistenti e reticolari fino a costituire una sorta di gabbia, dove si trovano piastrine, globuli bianchi ed eritrociti. Questo è il tappo emostatico secondario, che consente l’arresto definitivo dell’emorragia. FIBRINOLISI Il processo, a questo punto, non è terminato. Una volta che le cellule endoteliali sono rigenerate, tutta questa impalcatura deve essere spazzata via: infatti, non solo non serve più, ma diventa un intralcio (man mano che questa struttura si ingrandisce può dar luogo a degli effetti emodinamici). Questo processo è detto fibrinolisi, ovvero la fase che consente, degradando la fibrina, di togliere il collante che tiene assieme il tappo emostatico secondario e di spazzarlo via, farlo defluire. L’enzima chiave per questo processo è il plasminogeno: è un enzima che circola nel sangue. Quando viene attivato a plasmina agisce sulla fibrina, degradandola. Viene quindi tolto il collante, e il vaso torna a essere esattamente come prima. Quindi a seguito di un danno endoteliale si riproduce la stessa condizione che c’era prima del danno: il vaso torna a essere esattamente come prima. Il plasminogeno può essere attivato da una via intrinseca e una via estrinseca Via intrinseca La via intrinseca la più importante, e vede coinvolti i fattori XIIa, XIa, HMWK (chininogeno ad alto peso molecolare) e callicreina. Sono tutti fattori che attivano la via intrinseca della cascata coagulativa, e contemporaneamente attivano anche la via intrinseca della fibrinolisi. Questi fattori attivano l’enzima urochinasi (chiamato così perché scoperto per la prima volta nelle vie urinarie, anche se in realtà è diffuso in tutto l’organismo). È questo che enzima che, una volta attivato, attiva a sua volta il plasminogeno. Via estrinseca L’altra via è quella estrinseca, che parte da t-PA (Attivatore tissutale del Plasminogeno). Quando l’endotelio si è rigenerato, le cellule endoteliali stesse producono t-PA, il quale attiva il plasminogeno. Inibizione La fibrinolisi è inibita dall’inibitore dell’attivatore tissutale del plasminogeno (PAI-1), dall’α2- antiplasmina e dall’α2-macroglobulina (queste ultime due le avevamo già viste nella prima lezione). È quindi sempre un gioco di attivazione e inibizione, di interazione tra emostasi primaria, secondaria e fibrinolisi. Ecco perché, pur essendo spiegati separatamente, i processi vanno messi tutti insieme perché fanno parte di un unico sistema, velocissimo ed estremamente efficace. Un approccio farmacologico per una terapia trombolitica è basata proprio sull’utilizzo del t-PA. Su un paziente che ha già fatto una trombosi, quindi ha già sviluppato dei trombi, si può agire Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay utilizzando questa sostanza naturale che noi stessi produciamo. Quindi il t-PA può essere sfruttato come farmaco, anche se di fatto è una sostanza naturale. Ancora una volta, non bisogna confondere i farmaci antiaggreganti, anticoagulanti e antifibrinolitici. EMORRAGIA Quando il sistema emostatico è deficitario in qualche sua parte, la manifestazione clinica è l’emorragia. È stata determinata una nomenclatura che consente di descrivere le manifestazioni emorragiche: - Petecchie: piccole emorragie capillari, che si presentano soprattutto dove c’è una maggiore frizione. Quindi, durante una visita al paziente, vanno cercate per esempio nell’elastico dei calzini, o della biancheria intima: qui saranno più facilmente presenti, perché vi si formano più precocemente. Sono presenti anche sul palato: infatti la lingua, a riposo, si appoggia al palato, dunque questo trauma continuo fa sì che anche qui possano svilupparsi le petecchie. Infine, sono riscontrabili anche a livello delle palpebre, poiché le sbattiamo continuamente. - Porpore: sono date dalla confluenza di più petecchie che si sono Porpore ingrandite. Si tratta quindi di emorragie più grandi, più evidenti. - Ecchimosi: sono versamenti sottocutanei, che Ecchimosi cambiano colore. Si parte dal rosso-blu, poi verde-blu, e infine giallo-oro, in relazione ai vari stadi del metabolismo dell’emoglobina che si è riversata sottocute. - Ematomi: versamenti emorragici più profondi, che vanno a dissecare le fasce muscolari, quindi sono dolorosi. In alcuni casi sono anche pericolosi, se colpiscono aree delicate (come nel caso di un versamento retroperitoneale da dissecazione di un aneurisma dell’aorta, dove viene messa a rischio la vita del paziente perché il sangue comincia a comprimere aree estremamente importanti). - Versamenti ematici in cavità dell’organismo: un’emorragia può essere identificata anche dalla sua localizzazione, come nelle cavità o Emotorace: versamento nella cavità pleurica o Emopericardio: versamento nella cavità pericardica o Emoperitoneo: versamento nella cavità peritoneale o Emartro: versamento nella cavità articolare (presente nell’immagine: ovviamente da essa non si capisce che è un emartro, ma si capisce che c’è un versamento articolare: poi bisognerà fare un prelievo per verificare la natura del versamento). - Sanguinamenti da determinati distretti dell’organismo: un’emorragia, infine, può essere identificata anche dall’origine del sanguinamento Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay o Gengivorragia: molto importante perché è uno dei primi segnali clinici riscontrabili nei pazienti con coagulopatie o Epistassi: sangue dal naso o Ematemesi: vomito ematico o Melena ([melèna], nds): sangue nelle feci o Ematuria: sangue nelle urine o Menorragia: emorragia uterina abbondante, legata al ciclo mestruale o Metrorragia: emorragia uterina NON legata al ciclo mestruale Facciamo un esempio. Io ho un paziente che ha una di queste manifestazioni. Questo paziente non ha avuto un trauma, o al massimo ha avuto un trauma minimo: parliamo di sanguinamenti spontanei o di sanguinamenti sproporzionati alla causa che li ha generati. Per esempio, il paziente si lava semplicemente i denti e ha un sanguinamento importante. In questo caso è ovvio che il paziente o ha un problema alle gengive oppure un deficit dell’emostasi. Sulla base di quanto detto finora cerchiamo di ragionare. Perché sanguina? La prima domanda che ci dobbiamo porre è “Questo paziente ha un deficit dell’emostasi primaria o dell’emostasi secondaria?”, perché secondo la risposta data a questa domanda, l’eventuale approccio terapeutico sarà diverso. Se il problema dipende dalle piastrine allora sarà legato all’emostasi primaria, se invece dipende dai fattori della coagulazione sarà legato all’emostasi secondaria. INDAGINI DI LABORATORIO PER LA VALUTAZIONE DELL’EMOSTASI PRIMARIA Cominciamo dall’emostasi primaria. Cosa chiedereste al laboratorio per indagare emostasi primaria? Le indagini di laboratorio per la valutazione dell’emostasi primaria sono: - Tempo di sanguinamento - Conta piastrinica - Test di aggregazione piastrinica La diagnosi di una coagulopatia non può prescindere dai test di laboratorio, ma ovviamente le manifestazioni cliniche possono indirizzare il medico verso la diagnosi. Dunque in attesa che il laboratorio restituisca le informazioni richieste, posso verificare se la manifestazione clinica è associata a una alterazione dell’emostasi primaria o secondaria. Facciamo un esempio. Quanti di voi hanno avuto un intervento odontoiatrico per l’estrazione del dente del giudizio? Che cosa vi ha detto l’odontoiatra quando vi ha mandato a casa? Risposte degli studenti: Antibiotico, ghiaccio (promuove la vasocostrizione e dà più tempo al processo emostatico di attivarsi) Risposta esatta: Se la garza sanguina, chiamare immediatamente il dentista Perché dice questo? Perché potrebbe essere presente un’alterazione dell’emostasi secondaria. Se il paziente avesse un deficit dell’emostasi primaria, il problema sorgerebbe quando il paziente è ancora nello studio odontoiatrico: si avrebbe un sanguinamento eccessivo già alla prima incisione, e in quel caso il dentista chiederebbe un’analisi di laboratorio. Invece, quando il paziente ha un’alterazione dell’emostasi secondaria, l’emorragia avviene quando si toglie il ghiaccio, quindi quando il paziente è a casa. Il sanguinamento è immediato e profuso quando c’è un’alterazione dell’emostasi primaria. Invece, è ritardato e modesto quando c’è un’alterazione dell’emostasi secondaria. Dunque la clinica sicuramente può aiutare a prevedere quale può essere la causa, fermo restando che la conferma deve venire sempre dal laboratorio. Tempo di sanguinamento La determinazione del tempo di sanguinamento è molto utile. Praticamente si fa una doppia lesione al paziente, con un bisturi, e si osserva con un cronometro dopo quanto tempo la ferita smette di sanguinare. Se l’emorragia si interrompe in 7-8 min vuol dire che non c’è un’alterazione dell’emostasi primaria. Se invece l’emorragia continua dopo 7-8 min significa che c’è un’alterazione dell’emostasi primaria. Nella pratica clinica, in realtà, questo test viene contestato da qualcuno perché presenta dei difetti di standardizzazione: ci sono dei tentativi di standardizzazione (come l’utilizzo di un bisturi sempre uguale, o l’utilizzo di uno sfigmomanometro per mantenere costante la pressione venosa), ma resta comunque un test approssimativo, quindi i suoi risultati vanno comunque presi con cautela. Rimane però un test formidabile da un punto Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay didattico: se l’emorragia si interrompe in 7-8 min, vuol dire che non c’è alterazione dell’emostasi primaria; se l’emorragia prosegue oltre 7-8 min, allora si ha alterazione dell’emostasi primaria Conteggio delle piastrine Adesso arriviamo al risultato dell’emocromo, in particolare la conta delle piastrine. I valori di riferimento delle piastrine sono 150.000-400.000/µL. Fino a 100.000/µL non c’è nessun sintomo e non c’è nessun allungamento del tempo di sanguinamento. Tra 50.000-100.000/µL non c’è nessun sintomo, ma il tempo di sanguinamento è lievemente allungato. I sintomi compaiono solo sotto 50.000/µL. Quindi, occorre una riduzione significativa delle piastrine per avere i sintomi: abbiamo una riserva funzionale importante. Sotto 20.000/µL non si deve mai arrivare, perché a questo livello si ha un notevole rischio di emorragie spontanee in sedi interne, che possono mettere seriamente in pericolo la vita del paziente. C’è quindi una relazione tra la conta piastrinica e il tempo di sanguinamento: - Sopra le 100.000 piastrine/µL il tempo di sanguinamento non si allunga - Mano a mano che si scende sotto le 100.000, aumenta il tempo di sanguinamento in maniera proporzionale Il rapporto tra il tempo di sanguinamento e la conta piastrinica consente di differenziare le piastrinopatie dalle piastrinopenie. - Se c’è correlazione tra l’allungamento del tempo di sanguinamento e la diminuzione del numero delle piastrine, allora quel paziente ha una piastrinopenia. - Se il numero delle piastrine è normale, ma il tempo di sanguinamento è aumentato, il paziente ha una sindrome emorragica dovuta a una piastrinopatia. Quindi, semplicemente dal risultato di questi due test (tempo di sanguinamento e conta piastrinica) e dal loro incrocio è possibile fare questa prima considerazione, ovvero capire se c’è un’alterazione dell’emostasi primaria e, in tal caso, se c’è un’alterazione qualitativa o quantitativa delle piastrine. Test di aggregazione con ADP A questo punto, si chiama l’ematologo, che identificherà la causa della piastrinopatia o della piastrinopenia. Per le piastrinopatie, si può fare il test di aggregazione piastrinica. Si prende il plasma del paziente arricchito di piastrine e si aggiunge una sostanza proaggregante, ovvero ADP. Quando si aggiunge a una sospensione piastrinica una sostanza aggregante, le piastrine si aggregano. Se si aggregano, tendono a precipitare. Il campione, che inizialmente era torbido, diventa limpido (aumenta la trasmittanza) e la luce passa attraverso la provetta, colpendo un fotometro. Dunque, l’aggregazione piastrinica può essere misurata misurando la limpidezza della soluzione. Se, invece, all’aggiunta di ADP la torbidità rimane costante, significa che le piastrine non si sono aggregate. Quali possono essere le cause della mancata aggregazione piastrinica? - Sindrome di Glanzmann (mancano recettori di aggregazione GpIIb/GpIIIa) - Ipofibrinogemia (deficit di fibrinogeno) - Trattamento con farmaci antiaggreganti (es. Aspirina): quindi se il paziente normalmente prende l’aspirina, bisogna interrompere tale trattamento ed eseguire il test una settimana dopo l’interruzione Giulia Dal Negro 10/10/24 Gaia De Marchi Patologia Clinica, lezione 03 Ettore De Munari Prof. Davide Treré Irem Balbay Una variante del test di aggregazione può essere fatta con la ristocetina. La ristocetina è un antibiotico che non si usa più in quanto tale (perché ora ne abbiamo di più efficaci), ma si usa per eseguire questo test, perché attiva in vitro i recettori piastrinici di adesione GpIb, che si legano al fattore di von Willebrand. Questo è un test di aggregazione che misura la capacità di adesione: si ha un’aggregazione piastrinica che presuppone la presenza sia del vWF sia della GpIb. Se dopo l’aggiunta della ristocetina non si ha aggregazione, o manca il fattore di von Willebrand (malattia di von Willebrand) oppure manca il recettore (malattia di Bernard-Soulier). Quindi, riassumendo: prima, si fanno il tempo di sanguinamento e la conta piastrinica per capire se il paziente ha un’alterazione dell’emostasi primaria o secondaria. Incrociando il tempo di sanguinamento e la conta piastrinica capisco se il paziente ha una piastrinopatia o una piastrinopenia. Per approfondire la causa della piastrinopatia posso eseguire il test di aggregazione con ADP. Se l’aggregazione è alterata, il paziente presenta la malattia di Glanzmann, ipofibrinogemia o è in trattamento con farmaci antiaggreganti. Sarà invece normale nella malattia di von Willebrand e nella malattia di Bernard-Soulier, dove si hanno alterazioni dell’adesione e non dell’aggregazione. Compiendo lo stesso test, ma con la ristocetina, esso risulterà normale nelle prime tre condizioni, mentre risulta alterato nella malattia di von Willebrand e nella malattia di Bernard-Soulier. Indipendentemente dalla vostra scelta di specialità dovete essere in grado di arrivare autonomamente a questo punto, ovvero sapere che c’è un’alterazione dell’emostasi primaria, capire che c’è un deficit qualitativa o quantitativa delle piastrine, e applicando questi test capire se l’alterazione qualitativa è legata all’incapacità di aggregazione o di adesione.