Storia delle istituzioni politiche PDF
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Lorenzo Scotti, Giada Parise e Luigi Cicale
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Questo documento analizza le istituzioni politiche dall'antico regime al dopoguerra. Esamina diverse epoche storiche e le caratteristiche delle relative istituzioni, dalle società antiche fino alle istituzioni globalizzate del mondo contemporaneo. Il testo esplora i concetti di potere, di stato e di costituzione attraverso gli sviluppi storico-politici.
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Storia delle istituzioni Politiche Realizzato da Lorenzo Scotti, Giada Parise e Luigi Cicale 1 Indice: Capitolo I - Le istituzioni politiche dell’antico regime pag. 3 Capitolo II - Le istituzioni asia...
Storia delle istituzioni Politiche Realizzato da Lorenzo Scotti, Giada Parise e Luigi Cicale 1 Indice: Capitolo I - Le istituzioni politiche dell’antico regime pag. 3 Capitolo II - Le istituzioni asiatiche in età moderna pag. 8 Capitolo III - Le istituzioni delle rivoluzioni: Ameria e Francia pag. 13 Capitolo IV - Le istituzioni dell’età napoleonica pag. 16 Capitolo V - Le istituzioni politiche della restaurazione pag. 21 Capitolo VI - Dal liberalismo alla democrazia pag. 28 Capitolo VII - Le istituzioni politiche coloniali pag. 31 Capitolo VIII - Le istituzioni del welfare pag. 37 Capitolo IX - Le istituzioni politiche del totalitarismo: Italia, Germania, Unione Sovietica pag. 41 Capitolo X - Le istituzioni politiche del dopoguerra pag. 45 Capitolo XI - Le istituzioni internazionali: Nazioni Unite e Unione Europea pag. 51 Capitolo XII - Lo stato nella società globalizzata pag. 54 2 Capitolo I Le istituzioni politiche dell’antico regime 1 La natura del problema sintetizzare in breve ciò che furono le istituzioni politiche dell’antico regime è impossibile, d'altronde l’espressione “istituzioni politiche” evoca più ambiti d’esperienza che un oggetto definito, infatti per quasi tutta l’età moderna tale parola rimase estranea dal vocabolario. “Istituzioni politiche” erano due termini molto difficile da accostare all’epoca, infatti “istituzioni” era usato spesso in ambito giuridico, usato per intende l’atto di istituire (erede, cariche, fondazione, ecc.), mentre “politico” è stato a lungo relegato all’ambito filosofico, si limitava a esprimere la vocazione degli uomini a riunirsi in una società stabile. Nella cultura della prima età moderna non esisteva alcuna differenza qualitativa tra i vari generi di autorità, il potere del padre di famiglia sui servi e quello del principe sui sudditi erano percepiti come forme diverse di una stessa sostanza (ordine fissato dalla natura). Di istituzioni si comincia a parlare quando si fa strada la sensazione che una parte dei rapporti sociali non sia qualcosa di naturale e di immutabile, sensazione che fa tutt’uno con il primo incrinarsi dell’antico regime, il quale venne battezzato “antico” dai rivoluzionari in quanto basato su una fede nella naturalità di tutto il reale. Così il filosofo Jean de Barbeyrac, trovandosi a tradurre un’opera del contrattualista tedesco Samuel von Pufendorf, ricorse al vocabolo “istitution” per rendere la differente origine degli “enti morali” rispetto a quelli puramente “fisici”. “cosi come gli esseri fisici sono prodotti dalla creazione, non si riuscirebbe ad esprimere meglio il modo in cui si formano gli enti morali che attraverso il termine istituzione”. La crescente fortuna del vocabolo si salda con questa nuova coscienza: che sono solo storia, abitudini e decisioni politiche a plasmare gli assetti della convivenza. Siamo cosi a un passo dalla concezione contemporanea della politica come capacità di ridefinire continuamente il profilo della convivenza; ma siamo anche fuori della civiltà che erea esistita fino ad allora e di cui dobbiamo occuparci. Dovendo viaggiare nel mondo dei poteri premoderni, più che far perno sulla categoria “istituzioni politiche” si è ritenuto preferibile adottare per guida un’altra nozione, quella di Stato. Anche questa scelta comporta rischi di anacronismi e distorsioni: indotti in primo luogo dalla tendenza a considerare lo stato d’antico regime come una forma embrionale dello stato moderno. Lo sforzo sarà quello di valorizzare al massimo l’autonomia di questa forma di stato. 2 Una costituzione plurale La definizione di Stato data da Jean Bodin, che parla di un "governo giusto esercitato con un potere sovrano su più famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune fra di loro", introduce due elementi chiave: il "governo giusto" e le "famiglie" come costituenti dell'ordine politico. Bodin si colloca in una tradizione di pensiero che vede lo Stato come il risultato della progressiva integrazione di molte comunità minori, con il potere centrale incaricato di garantire la convivenza tra esse. Secondo Bodin, l'origine della società umana risiede nella famiglia, intesa come il "mesnage" o la "casa", il nucleo politico primordiale governato dal padre. Le famiglie si uniscono in villaggi, i villaggi in città, e così via fino a formare lo Stato. Questo processo di formazione dello Stato non implica la soppressione delle comunità minori, ma la loro integrazione in un sistema più ampio, in 3 cui lo Stato non ha interesse a eliminare questi corpi e collegi, che rimangono parti essenziali dell'ordine politico. Per Bodin, queste "amicizie" particolari tra comunità rappresentano il fondamento stesso dell'ordine statale. Questa visione presenta lo Stato come un mosaico di territori, ciascuno dei quali mantiene la sua identità anche dopo l'assoggettamento. Due esempi storici illustrano questo modello di Stato: 1. Monterotondo Marittimo e Siena (1359): Quando la comunità di Monterotondo Marittimo si sottomette alla Repubblica di Siena, pur perdendo la sua sovranità, non viene dissolta nel nuovo Stato. Mantiene alcuni diritti, come la possibilità di esigere gabelle, di non essere tassata da Siena e di conservare i propri statuti. Questo la rende, di fatto, un piccolo Stato all'interno di uno Stato più grande. Questa configurazione si ripete anche per le altre comunità che compongono il territorio dello Stato senese e rimane invariata quando Siena stessa viene inglobata nel dominio dei Medici di Firenze. 2. Trattato d'Unione tra Bretagna e Francia (1532): Anche su una scala più ampia, la Bretagna, unendosi al Regno di Francia, mantiene i propri diritti, libertà e privilegi. Francesco I di Valois si impegna a rispettare le "lodevoli e antiche consuetudini" della Bretagna e a non imporre tasse forzose ai bretoni. Questo accordo mostra come lo Stato francese, pur includendo diversi territori sotto la sua sovranità, li consideri ancora come entità distinte con i propri diritti. Questi esempi ci aiutano a capire che la "Costituzione" di uno Stato in questo periodo non era un documento unico e universale, ma piuttosto una serie di "contratti di signoria" che definivano i rapporti tra ogni corpo territoriale e il potere centrale. Questo complesso di accordi ha rappresentato ciò che più si avvicina a una costituzione statale in Europa per secoli, e la loro lunga durata fornisce un criterio univoco per stabilire il termine dello Stato d'antico regime. 3 Il potere come giurisdizione Capire la natura contrattuale e multilaterale del potere è fondamentale per comprendere come esso si esercitasse. Nei moderni ordinamenti, l'autorità statale si manifesta come produttrice di leggi e decisioni per conformare la società a un progetto specifico, traendo legittimazione dalla sua capacità di comando. Nel contesto storico che stiamo esaminando, invece, il potere centrale raramente appariva ai sudditi come un'entità intenzionata a imporre la propria volontà; funzionava piuttosto come un mediatore e un garante dell'equilibrio. Lo Stato, collocato al centro di uno spazio politico affollato, aveva il compito principale di proteggere i diritti e i privilegi dei vari corpi collettivi che lo avevano incaricato di garantire giustizia e sicurezza. I monarchi erano rappresentati come giudici, incaricati dalla Provvidenza divina di mantenere e fare giustizia, come affermava Claude de Seyssel, giurista francese. Nel pensiero giuridico del XIII e XIV secolo, non si concepiva un potere di comando autonomo e slegato dalla iurisdictio: l'autorità di dichiarare e applicare una legge preesistente. Bartolo da Sassoferrato sosteneva che giurisdizione e potere sono la stessa cosa, indicando che anche quando il principe sembrava esercitare liberamente il proprio potere, stava in realtà solo specificando e riaffermando un precetto naturale. Jean Domat, nel regno di Luigi XIV, ribadiva questa idea, indicando che il diritto di amministrare la giustizia includeva anche la facoltà di emanare leggi e regolamenti per il bene pubblico. Nella pratica quotidiana degli Stati d'Ancien 4 Régime, l'attività giudiziaria era preminente rispetto ad altre forme di esercizio dell'autorità. Il potere centrale non era tanto un luogo di decisioni autonome, ma piuttosto la sede a cui i sudditi si rivolgevano per risolvere conflitti o ottenere conferme e ampliamenti dei loro privilegi. I principi, pur non amministrando direttamente la giustizia, erano più produttori di rescritti che di leggi. L’osmosi tra autorità di comando e autorità giudicante implicava che anche gli atti costituzionali seguissero certi vincoli di natura "processuale", come la regola quod omnes tangit, ab omnibus audiri et approbari debet (ciò che riguarda tutti, deve essere ascoltato e approvato da tutti). Questa regola imponeva al principe di consultare tutti i soggetti potenzialmente interessati prima di prendere decisioni generali che potessero incidere sui loro diritti. Se il potere consisteva più nel "dichiarare il diritto" che nel crearlo, era necessario disporre di un’istituzione per verificare la conformità tra il diritto dichiarato e quello originario. Proprio su questa necessità si basava l'esistenza delle istituzioni rappresentative di base centuale, presenti in gran parte dell'Europa tardomedievale e protomoderna, che affiancavano i monarchi nella gestione del potere. 4 Rappresentanze territoriali e “Stato per ceti” Un tratto comune a molti Stati d’Antico Regime era che il principe esercitava il potere solo con il concorso di assemblee specifiche. Queste assemblee, chiamate Assise, États e Stati nell'area franco- italiana; Cortes in quella iberica; Landtagen nei principati tedeschi; e Parliaments nelle isole britanniche, nacquero tra il XII e il XIV secolo per due scopi principali: rendere opponibili le decisioni dei sovrani ai destinatari e abilitare i sovrani stessi a emettere atti straordinari con il consenso dei sudditi. Sebbene la distinzione tra queste due funzioni di partecipazione fosse sfumata nella pratica, si riconosceva che, quando il monarca esercitava la propria giurisdizione, le assemblee intervenivano per assistere e constatare; ma se il monarca chiedeva qualcosa per sé, era necessario un consenso più formale. Come osservava un dignitario del ‘400, rivolgendosi al re di Francia: “Può darsi che nella giustizia voi siate sovrano e che la giurisdizione spetti a voi, ma per quanto riguarda la proprietà, ogni privato ha la sua". Questo significava che solo una precisa manifestazione di volontà da parte del popolo poteva legittimare l’introduzione di nuove imposte. Le istituzioni rappresentative erano viste come necessarie per completare la personalità del re e permettere alla sua autorità di raggiungere piena efficacia. Ad esempio, Enrico VIII, in un discorso parlamentare, affermava che mai la regalità era così alta come durante i lavori del parlamento; un'idea ribadita anche dal giurista Thomas Smith, che vedeva il "supremo e assoluto potere del reame d’Inghilterra" nel parlamento. Queste testimonianze mostrano una visione diversa dello Stato: non come un collage di territori disparati, ma come un'entità organica con una volontà propria, manifestata attraverso un sistema istituzionale che assisteva il principe nella ricerca del “diritto giusto e buono”. Questa visione si sviluppò attraverso le consultazioni generali, in cui i sudditi scoprirono di appartenere a gruppi sociali trasversali presenti in tutto il regno. Questi gruppi, chiamati "ceti", erano definiti non dalla funzione economica, ma dalla titolarità di diritti e privilegi comuni. È fondamentale non assimilare queste rappresentanze a parlamenti moderni. Le rappresentanze ceto non esprimevano interessi generali, ma corporativi; si riunivano solo su iniziativa del principe, l'unico interprete delle esigenze del territorio. Inoltre, le rappresentanze ceto comprendevano componenti nobiliari, cittadine ed ecclesiastiche, ognuna con un voto unitario, mentre il modello bicamerale era tipico del mondo anglosassone e del Nord Europa. La differenza tra questi modelli non era rigida; ci furono 5 assemblee che cambiarono configurazione nel tempo. Il modello bicamerale, con i suoi due “bracci”, tendeva a rafforzare il peso politico dell'assemblea. In Francia, ad esempio, al di sotto degli Stati generali esistevano Stati locali a carattere regionale, mentre nell’Impero tedesco esisteva una struttura a due livelli: le diete dei singoli principati e la dieta generale dell’Impero. La diffusione di tali strutture stimolò la riflessione giuridica-politica dell'epoca a teorizzare il loro ruolo costituzionale attraverso il concetto di “governo misto”, ripreso da autori classici come Aristotele, Polibio e Cicerone. Il “governo misto” mirava a frenare la degenerazione delle tre forme pure di governo creando una forma che combinasse i pregi di ciascuna e bilanciasse i rispettivi poteri. Questa concezione suggeriva che le rappresentanze dei “tre Stati” del regno fossero necessarie per la produzione di qualsiasi legge. Lo "Stato per ceti" è la forma tipica dello Stato protomoderno, ma non bisogna immaginare un'Europa dell’Antico Regime con un’omogeneità costituzionale come quella odierna. Le rappresentanze ceto, infatti, variavano in peso istituzionale da Stato a Stato e non ebbero mai un rilievo paragonabile alle rappresentanze politiche moderne. 5 Apparati pubblici e governo per magistrature Un altro aspetto importante da considerare è la struttura e il funzionamento dell'apparato statale, ossia l'insieme degli uffici a cui i poteri centrali si affidavano. Secondo un'opinione diffusa, la caratteristica distintiva dello Stato rispetto alle forme di dominio precedenti, oltre al territorio definito e al governo riconosciuto, era la presenza di un apparato di collaboratori legati da un rapporto d'ufficio. Negli ordinamenti statali dell'età moderna, esistevano apparati ampi e articolati che gestivano una parte dell’autorità regale delegata dal sovrano. Pur sembrando simili alle moderne burocrazie statali, questi apparati differivano da esse in almeno due aspetti fondamentali. Primo aspetto: l'organizzazione di questi apparati non distingueva tra "amministrare" e "giudicare". Gli uffici dell'epoca, infatti, non seguivano una chiara separazione tra potere esecutivo e giudiziario, ma concentravano entrambi i poteri nelle mani delle stesse persone. Secondo aspetto: il nucleo di questi apparati era reclutato all'interno di élite sociali ristrette. Queste élite gestivano l'accesso alla carriera pubblica attraverso pratiche come la venalità degli uffici o la riserva di posti per categorie particolari di sudditi, conferendo agli apparati un carattere “autocefalo” (autonomo). Anche se derivavano formalmente dal principe, questi uffici tendevano a sfuggire al suo controllo diretto. Questo fenomeno, che sarebbe considerato patologico in uno Stato moderno, era invece meno problematico nel contesto dell'Antico Regime. In questo sistema, l'indipendenza dal vertice politico era considerata una condizione fondamentale di legittimità per ogni ufficiale subordinato. La fedeltà al re non era percepita come in conflitto con il dovere che ogni magistrato aveva verso la propria missione, il "minister legum" (servizio alla legge). Anzi, il senso stesso delle grandi magistrature era spesso opposto a quello dell’amministrazione esecutiva moderna: non si trattava di rendere effettiva la volontà del monarca, ma piuttosto di limitarla. In sintesi, gli apparati statali dell'età moderna non erano semplici strumenti esecutivi del potere sovrano, ma istituzioni con un'autonomia significativa che spesso serviva a bilanciare e moderare l’autorità del re, garantendo un equilibrio tra il potere centrale e le prerogative dei funzionari e delle élite locali. 6 6 La forma di governo: sistemi misti, sistemi assoluti Il testo analizza l'evoluzione delle forme di governo degli Stati europei tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, concentrandosi sulle trasformazioni che hanno portato dal concetto di condivisione del potere tra il monarca e le assemblee rappresentative (o assemblee cetuali) al consolidamento del potere monarchico. All'inizio dell'età moderna, il governo degli Stati era generalmente caratterizzato dalla condivisione dell'autorità normativa tra il principe e le rappresentanze locali. Tuttavia, con il tempo, questo equilibrio si spezza a favore del monarca, che progressivamente ottiene il diritto di imporre una tassa militare permanente senza dover ottenere il consenso delle assemblee cetuali. Questo segna un cambiamento fondamentale negli equilibri di potere: il sovrano acquisisce una forza armata regolare e la possibilità di far rispettare la sua autorità all'interno del suo territorio. La fine dell'unità religiosa dell'Occidente, con la Riforma e le guerre di religione, contribuisce ulteriormente a ridurre il ruolo delle assemblee cetuali, che vengono convocate sempre meno frequentemente o continuano a esistere in forme molto indebolite. In questo contesto emerge il nuovo concetto di "potere sovrano", inteso come un potere esclusivo detenuto da un unico soggetto. Tuttavia, questo non implica ancora un'autorità assoluta o svincolata dalle "leggi di Dio e di natura". Anche nel XVII secolo, i limiti giuridici al potere del re rimangono, e le leggi fondamentali di natura consuetudinaria continuano a vietare al monarca di disporre liberamente della corona o di alienare il territorio dello Stato. Man mano che ci si inoltra nel XVII secolo, il numero delle assemblee cetuali si riduce drasticamente e diventa sempre più comune che i sovrani governino senza il loro coinvolgimento. Tuttavia, anche nel XVIII secolo, in molte regioni europee, le rappresentanze cetuali mantengono un certo grado di vitalità. Nessun governo "assoluto" arriva a eliminare completamente i fondamenti costituzionali dello "Stato di corpi", cioè quell'insieme di comunità intermedie che formano il tessuto connettivo dell'organismo statale. Queste comunità intermedie, infatti, mantengono un potere significativo in termini di autogoverno quotidiano e di resistenza passiva alle direttive del potere centrale. Sono queste comunità che raccolgono le tasse, mantengono le strade, formano i soldati e assicurano l'ordine pubblico. La relazione tra potere centrale e ceti periferici è quindi più una collaborazione che una rivalità: solo il passaggio da una gestione giudiziaria dello Stato a una di carattere esecutivo potrà effettivamente sciogliere questo legame. Fino a quel momento, le modifiche alla forma di governo incidono poco sulla "forma di Stato" degli ordinamenti protomoderni. Il sovrano della prima età moderna, inoltre, deve impegnarsi a fondo in uno sforzo regolativo continuo di tutti gli aspetti della vita collettiva, specialmente dopo la Riforma e le guerre di religione. Diventa evidente che la funzione di governo non può più limitarsi alla semplice mediazione dei conflitti, ma deve intervenire sulle abitudini e sulle mentalità dei sudditi, richiamandoli all'osservanza dei propri doveri naturali e al rispetto dei limiti imposti. Un'importante eccezione a questo modello è rappresentata dall'Inghilterra, dove il confronto politico tra monarca e parlamento, iniziato nel XVI secolo, esplode in maniera aperta e violenta nel secolo successivo, portando all'affermazione del "governo misto". Questa forma di governo viene solennemente confermata nel Bill of Rights del 1689, che ribadisce la natura pattizia della costituzione statale, basata su un accordo di governo tra la casa regnante e la società rappresentata. 7 Tuttavia, anche la forma di governo inglese evolve, passando da un "governo misto" a un "governo bilanciato", caratterizzato dalla separazione dei poteri. Nel nuovo sistema, il parlamento è l'unico titolare del potere legislativo, mentre al re è riservata la funzione esecutiva. Secondo John Locke, il potere supremo è quello legislativo, mentre il re assume un ruolo subordinato. Questo passaggio riflette una trasformazione fondamentale: dalla condivisione del potere alla separazione dei poteri. 7 Verso la crisi Nella prima età moderna, si assiste a un indebolimento generale degli equilibri di potere tradizionali, ma senza grandi cambiamenti nelle strutture profonde delle istituzioni. Il vero segno di cambiamento non è la nuova idea di sovranità, ma il modo diverso in cui la società stratificata viene vista da molti europei. Prima, questa complessa gerarchia era considerata un ordine immutabile, che assegnava a ciascuno il suo ruolo. A partire da Hobbes, però, si comincia a pensare che molti aspetti della vita sociale non siano naturali, ma creati da vari fattori "artificiali". Questo nuovo modo di vedere le cose include anche l'idea stessa di "istituzione". Tuttavia, questa nuova visione del mondo non porta subito a una delegittimazione della società basata sui corpi intermedi, che continua fino alla fine del Settecento. Alla fine del Seicento, il giurista francese Jean Domat rielabora la distinzione tra “leggi immutabili” (naturali) e “leggi arbitrarie”. Le prime riguardano solo il diritto "privato", cioè i rapporti tra individui in base a caratteristiche come sesso, età, capacità di intendere e volere. Tutto il resto del diritto dipende invece dalla volontà del sovrano. Via via che più persone adottano questa nuova visione, l'antico regime, fondato sulla conservazione delle differenze sociali, appare sempre più debole e meno credibile. Il primo emergere di un pubblico critico porterà in breve tempo a cambiamenti significativi. Capitolo II Le istituzioni asiatiche in età moderna 1 Dispotismo orientale: genesi e aporie di un concetto Nel primo capitolo viene descritta l'Europa dell'antico regime come un territorio caratterizzato dalla combinazione tra istituzioni di potere verticale e istituzioni di partecipazione sociale. Da una parte, questo equilibrio si manifesta nel dualismo tra Stato e rappresentanze locali; dall'altra, emerge nella rete di privilegi e immunità che coinvolge non solo l'aristocrazia e il clero, ma anche le comunità urbane. Nonostante i desideri dei teorici dell’assolutismo, il potere dei sovrani europei è stato limitato fino al tramonto dell'antico regime da una complessa trama di istituzioni, legittimata da un diritto che Montesquieu descrive come un deposito di leggi custodito dai corpi politici, i quali ne garantiscono l’applicazione e la memoria. Montesquieu distingue chiaramente tra il governo occidentale e quello orientale: mentre il primo richiede un equilibrio tra leggi e istituzioni, il secondo, rappresentato dall'Asia, è caratterizzato da un potere dispotico che richiede un'obbedienza estrema. L'idea di questa netta separazione tra Occidente e Oriente non è originale di Montesquieu, ma egli la declina attraverso esempi specifici, come l'assenza di leggi civili nei paesi dispotici, dove tuttavia la religione o le consuetudini possono sostituire le leggi. Secondo Mauro Barberis, questa differenza rimane evidente: il diritto vero e proprio è una prerogativa occidentale, distinto dalla religione, dalla morale e dalla politica. In altre culture, come quella islamica o hindu, il diritto appare integrato con 8 la religione e altre forme di sapere. In Cina, invece, il diritto è visto come un ultimo rimedio, utilizzato solo in caso di gravi disordini. Questa visione evidenzia come in società diverse da quelle occidentali, il rapporto tra popolazione e legge non richieda necessariamente un protocollo istituzionale di definizione delle norme. In tali contesti, l'obiettivo delle norme non è la protezione dell'individuo, ma piuttosto il benessere della comunità. In queste società, la funzione delle leggi e delle istituzioni in Occidente è sostituita da un insieme di norme sociali basate su religione, morale e consuetudine, che mirano a salvaguardare valori condivisi. Pertanto, la nozione di "positivismo orientale" si concilia con l'idea di comunità capaci di autoregolarsi e autogovernarsi grazie a una sorta di "costituzione sociale" che non necessita di un'organizzazione giuridica separata dalla società. 2 Proprietà, feudalesimo, aristocrazia: una comparazione transcontinentale La questione della proprietà nelle società islamiche di età moderna è complessa e non può essere affrontata con la nozione occidentale di proprietà. In queste società, il concetto di proprietà era diverso da quello del diritto privato occidentale, e non implicava il monopolio della terra da parte dello Stato. Perry Anderson osserva che, nel sistema ottomano, lo Stato esercitava un monopolio sulla terra solo in modo approssimativo e incompleto. Le grandi porzioni di terra erano distribuite ai sipahi, membri delle dinastie guerriere, con diritti di sfruttamento e di prelievo fiscale, rendendoli un ceto privilegiato. Questi diritti potevano essere venduti e acquistati, ma non erano trasmissibili in eredità, il che impediva la formazione di una nobiltà ereditaria come in Europa. Nel contesto islamico, l’idea di proprietà era più simile a un "fascio di diritti" piuttosto che a una condizione unitaria. La proprietà della terra era quindi transitoria e legata al servizio prestato allo Stato, piuttosto che a una condizione nobiliare stabile ed ereditaria. In assenza di una proprietà fondiaria privata e ereditaria, non c’era una vera aristocrazia con poteri intermedi capaci di negoziare con le autorità superiori, come accadeva in Europa, dove la nobiltà poteva frammentare la sovranità e creare un sistema giuridico-istituzionale dualistico che limitava il potere del sovrano. Marx ed Engels offrono un'interpretazione diversa rispetto all'assenza di proprietà privata nelle società orientali, collegandola alla necessità di gestire grandi opere di irrigazione, realizzabili solo attraverso una gestione centralizzata da parte dello Stato. Tuttavia, questa teoria risulta problematica quando applicata alle realtà dell'Impero ottomano o Moghul, dove lo Stato non agiva come un macro-imprenditore idraulico, ma aveva tratti prevalentemente militari. Solo l’Impero cinese, con una tradizione di governo "idraulico-burocratico", si avvicinava a questa descrizione, ma conosceva anche la proprietà privata e un’aristocrazia rurale ereditaria. Infine, il caso giapponese, caratterizzato da un feudalesimo prolungato fino all'Ottocento, mostra ulteriormente l'eterogeneità dei modelli asiatici. Il Giappone aveva una struttura feudale con una classe di cavalieri ereditaria, ma non sviluppò mai un assolutismo, dato che il potere era distribuito tra vari signori locali, i daimyō, che mantenevano propri eserciti e leggi. Questo dimostra che non tutti i sistemi asiatici possono essere facilmente categorizzati sotto l'etichetta di "dispotismo orientale". Alla luce di questi elementi, emerge la necessità di delineare un profilo alternativo degli ordinamenti politico-istituzionali asiatici, che si discosti dal mito del dispotismo orientale. Questo profilo dovrebbe considerare le peculiarità degli imperi islamici, dell’Impero Moghul e della Cina, ciascuno con le proprie specificità e modelli di governo distinti dalle narrazioni europee. 9 3 Stato(moderno), regni, imperi: spazi e potere in prospettiva eurasiatica Gli imperi asiatici di età moderna presentano un’organizzazione politica che non corrisponde alla definizione europea di "Stato". Wolfgang Reinhard sostiene che, sebbene le collettività asiatiche fossero paragonabili a quelle europee in termini di civiltà, esse non erano "Stati" in senso moderno ma piuttosto "regni". Lo Stato moderno, secondo Reinhard, è una creazione europea che si distingue per il carattere secolarizzato del potere, ossia il distacco dell'esercizio del governo dalla religione. Questo elemento mancava nei regni asiatici, che quindi non possono essere definiti "moderni" in senso europeo. Reinhard evidenzia altri fattori fondamentali che differenziano gli Stati europei dagli imperi asiatici, come la necessità della sedentarietà delle popolazioni. Molti territori degli imperi islamici e cinese dell'età moderna erano caratterizzati da fenomeni di nomadismo e da insediamenti sparsi, rendendo difficile un controllo amministrativo continuo e sistematico. In questi contesti, il confine tra popolazioni sedentarie e nomadi rappresentava un confine politico tra il potere centralizzato del sovrano e le élite locali. Inoltre, le immense distanze e la discontinuità spaziale degli imperi orientali rendevano problematica la gestione del potere, che si esercitava spesso in modo precario e intermittente. La difficoltà di comunicazione e trasporto rappresentava un problema tipico per i regni estesi, e questo aspetto era ancor più marcato negli imperi asiatici rispetto all'Europa di antico regime. Secondo Reinhard, lo "Stato moderno" europeo presuppone una delimitazione territoriale specifica, con una suddivisione dello spazio in piccoli paesaggi che facilitano un pluralismo politico. Questa configurazione territoriale è accompagnata da un riconoscimento della parità tra le unità politiche circostanti, che limita la tendenza alla conquista militare. Gli Stati europei, operando in un contesto di concorrenza "tra pari", erano spinti a migliorare l'efficienza amministrativa e a governare con modalità "miti", al fine di ottenere il consenso dei sudditi, che altrimenti avrebbero potuto rivolgersi ad altri sovrani. Gli imperi asiatici, invece, affrontavano problemi diversi, come quello di rendere simbolicamente percepibile una sovranità che non poteva fare affidamento su un’amministrazione sistematicamente distribuita su territori vasti e discontinui. Questo ha portato a due approcci distinti: 1. Stati-teatro: Dove la legittimazione del potere era garantita da una manifestazione cerimoniale della sovranità, che mostrava uno sfarzo imponente e decisioni simboliche volte a dimostrare attenzione al bene comune. 2. Governo militare: In molti imperi islamici, l'autorità era delegata in modo prevalente attraverso meccanismi militari. Qui, il sistema di conferimento degli incarichi ai ranghi superiori della burocrazia mirava a facilitare la formazione di eserciti per campagne di conquista o repressione. Il caso dell'Impero cinese si distingue ulteriormente. Qui, l’amministrazione civile acquisì maggiore importanza rispetto a quella militare, specialmente a partire dall'epoca Tang, con l'introduzione del sistema degli esami per selezionare e reclutare la classe dirigente amministrativa. A causa della vastità e complessità dei territori asiatici, risultava improbabile una partecipazione corale al potere come quella rappresentata dagli Stati rappresentativi europei (États, Cortes, Stände, parlamenti). Tuttavia, questo non implica l'assenza di complessità o di articolazione del potere pubblico negli 10 imperi asiatici. Le loro "costituzioni materiali" derivavano da contesti culturali e religiosi specifici, rendendole difficilmente comparabili con le categorie utilizzate per descrivere le realtà europee. In sintesi, gli imperi asiatici avevano strutture politiche complesse che, pur non corrispondendo al concetto europeo di "Stato", riflettevano un adattamento alle specificità territoriali, culturali e sociali dei loro contesti. 4 Gli imperi islamici L'impero ottomano rappresentava una complessa struttura politica multietnica e multireligiosa, in cui le diverse comunità godevano di significative prerogative di autogoverno. Queste comunità, tra cui quelle musulmane, gestivano le loro questioni quotidiane attraverso il ricorso agli `ulamā, esperti in questioni religiose, e ai cadì, giudici religiosi le cui decisioni non erano appellabili, se non, in teoria, al sultano. L'autorità religiosa suprema era il muftī di Istanbul, che poteva opporsi alle iniziative del sultanato invocando i principi della sharī’a, la legge sacra islamica. La sharī’a costituiva il fondamento di un “governo della legge” superiore al “governo degli uomini”, rappresentando un presidio antidispotico che garantiva alla comunità il diritto di opporsi a un governo ingiusto. Nonostante i tentativi dei sultani di ridurre l'indipendenza degli `ulamā, questi ultimi continuarono a mantenere un ruolo importante come possibile "soggetto costituzionale", costituendo un contrappeso al potere militare e burocratico dell'amministrazione centrale. L'impero ottomano era organizzato in 26 eyalet (province), ciascuno amministrato da un governo imperiale di natura prevalentemente militare, con funzionari provenienti dal devşirme, un sistema di reclutamento basato su schiavi di origine cristiana. Tuttavia, il potere a livello locale era spesso detenuto da guerrieri sipahi, che rappresentavano il "feudalesimo militare" specifico dell'impero. Mentre queste autorità locali consolidavano il loro potere e interagivano con gli `ulamā, l'amministrazione centrale si indeboliva, e le élite locali si rafforzavano come notabili terrieri permanenti, determinando una progressiva frammentazione dello Stato centrale. Nel vicino impero safavide in Persia, la situazione era ancora più decentralizzata e dominata da tribù e oligarchie locali. Il sistema dell’iqta, simile al timar ottomano, regolava i rapporti tra il centro e la periferia, con i governanti safavidi che negoziavano continuamente con le potenti élite tribali. Anche se riuscirono a centralizzare parzialmente il potere attraverso il monopolio delle armi da fuoco e l’uso del persiano come lingua amministrativa, le tribù mantennero un'influenza significativa e autonoma. L'impero moghul dell'India presentava una diversa configurazione. Piuttosto che un dispotismo centralizzato, il potere era suddiviso tra il centro e molteplici poteri locali o regionali, con i sultani che negoziavano costantemente con i zamindar, notabili locali con diritti ereditari e giurisdizionali, a cui veniva conferito il mansab, un rango militare-fiscale che includeva la riscossione delle tasse e la gestione di truppe locali. Solo in alcune aree l'amministrazione era affidata a veri funzionari di carriera, mentre in molte altre prevaleva il potere locale autonomo. L'impero moghul era caratterizzato da una struttura fondamentalmente federativa, basata sul riconoscimento della supremazia dell'imperatore da parte delle élite locali in cambio del mantenimento della loro autonomia. A livello locale, l'autorità era spesso esercitata da un sistema di autorganizzazione sociale basato su giurisdizioni locali e su un forte pluralismo culturale e religioso. Mentre il diritto musulmano ispirava la giurisprudenza ufficiale, le pratiche hindu erano dominanti in molte aree, creando un contesto in cui il diritto e la governance riflettevano le diverse tradizioni religiose e sociali locali. In sintesi, questi grandi imperi asiatici condividevano un modello di governance meno 11 centralizzato e più basato su strutture federative e cooperative con le élite locali rispetto agli Stati europei. Tale decentralizzazione era dovuta a vari fattori, tra cui le grandi distanze, la complessità territoriale, e la necessità di adattarsi alle diverse culture, religioni e strutture sociali locali. 5 Il caso cinese Alla fine, l'impero cinese, grande quanto l'Europa e con una popolazione da dieci a quindici volte superiore a quella di qualsiasi Stato europeo coevo, si caratterizzava per un'architettura istituzionale che, nonostante i cambiamenti di dinastia nel corso dei secoli, rimase sempre basata su una tradizione antica. Questa struttura manteneva una complementarietà di fondo tra aree a civiltà statale e aree a civiltà nomade. Sin dal III secolo a.C., con l'imposizione di un governo monarchico- statale unitario sulle oligarchie guerriere territoriali, la Cina si configurò come l'impero della burocrazia precoce, trasformando tali oligarchie in un notabilato. L'impero cinese attraversò fasi centripete e centrifughe, con dinastie che alternavano approcci "assolutisti" a relazioni più "pattizie". A differenza dei grandi imperi islamici, la Cina non assunse mai le loro caratteristiche e rimase relativamente contenuta nell'espansione dei ranghi della burocrazia civile. Durante l'epoca dei Ch'ing, quando il sistema di amministrazione dei letterati mandarini raggiunse la sua massima diffusione, i funzionari della burocrazia non superarono mai le 25.000 unità, principalmente reclutate tra le aristocrazie territoriali. Nel XVIII secolo, il sistema di potere dei Ch'ing utilizzava non solo il mancese e il cinese, ma anche il mongolo, il turco e il tibetano come lingue amministrative. Tuttavia, le leggi e i patti che regolavano le relazioni tra ogni regione-nazione e l'imperatore erano differenti, rendendo l'impero un mosaico di regioni piuttosto che un tessuto compatto. Alla fine dell'Ottocento, il concetto di Stato non aveva una traduzione diretta in lingua cinese, e la parola Guo ("dinastia dominante") venne usata per esprimere tale idea. La burocrazia svolgeva le sue funzioni amministrative su leggi imperiali a livello regionale, provinciale e distrettuale, e la sovranità era vista come l'adempimento di un mandato "celeste". Gli insuccessi delle dinastie potevano legittimamente essere puniti, con il diritto di resistenza tradotto nella rimozione dei governanti e nella loro sostituzione. La monarchia era quindi illimitata, ma non assoluta, in quanto il potere dell'imperatore era idealmente soggetto agli interessi del popolo. Inoltre, i codici scritti imperiali non coprivano ogni aspetto della vita quotidiana, lasciando un significativo potere di regolazione ai clan patriarcali. 6 L’eurasia delle costituzioni antiche Alla fine di questo percorso, possiamo affermare che i secoli dell'età moderna non conobbero una "forma di potere asiatico comune", da considerare "residuale rispetto ai canoni evolutivi stabiliti per l'Europa". Questo non solo per la mancanza di una struttura uniforme, ma anche perché il problema della coesistenza tra poteri centrali di impronta burocratica e istituzioni locali si pose in Asia in modi unici, riflettendo contesti insediativi molto diversi. Se da un lato risulta certamente infruttuoso cercare una versione asiatica delle espressioni istituzionali del principio della rappresentanza, che in Europa venivano ricondotte a elementi come il feudalesimo, dall'altro è invece proficuo raccontare le "costituzioni antiche" delle varie civiltà asiatiche nei loro propri termini. Edmund Burke, riflettendo sull'India moghul, osservò che il deficit di familiarità degli occidentali con sistemi istituzionali diversi dal proprio non doveva indurli a pensare che in Asia mancassero i limiti all'esercizio verticale della sovranità, limiti che in Europa coincidevano con le istituzioni rappresentative centrali. 12 Capitolo III Le istituzioni delle rivoluzioni: Ameria e Francia 1 rivoluzioni atlantiche Le due rivoluzioni di fine Settecento, quella americana e quella francese, rappresentano un momento decisivo nella storia del costituzionalismo perché entrambe sperimentano l’esercizio di un nuovo potere destinato a influenzare le vicende delle comunità politiche ancora oggi: il potere costituente. Fino a quel momento, la costituzione era considerata un ordine giuridico dato, mentre la sovranità era l’espressione di un potere teso a modificare tale ordine. Tuttavia, quanto avvenne nelle ex colonie americane e in Francia rimescolò le carte, mediando tra sovranità e costituzione. Il potere costituente divenne espressione di sovranità, ma con lo scopo di stabilire una nuova organizzazione dei poteri e un assetto rinnovato nella vita collettiva. Questo comportò anche uno slittamento semantico del termine costituzione, che cominciò a indicare il testo scritto prodotto dalle diverse assemblee. Thomas Paine, uno dei protagonisti dei lavori costituenti dello Stato di Pennsylvania, distinse subito la nozione di costituzione da quella di forma di governo, osservando che "tutti i paesi hanno una qualche forma di governo, ma pochi hanno una vera costituzione". Le due rivoluzioni furono oggetto di analisi comparative, dando vita a interpretazioni opposte. Da una parte, Edmund Burke, difensore della richiesta dei coloni americani di essere rappresentati nel Parlamento inglese, considerava le proteste contro lo Sugar Act del 1763 e lo Stamp Act del 1764 come legittime, coerenti con i principi della Gloriosa Rivoluzione inglese. Tuttavia, nel suo testo Reflections on the Revolution in France del 1790, Burke fu un fermo oppositore della Rivoluzione Francese e del suo ordinamento costituzionale. Dall’altra parte, Thomas Paine presentava un'interpretazione del tutto opposta a quella di Burke, chiarificando i principi della Rivoluzione Francese nel suo testo Rights of Man. Paine dimostrava che le rivoluzioni americana e francese si appellavano allo stesso universo ideale, opponendosi entrambe alla forma politica britannica. Paine esponeva una tassonomia delle forme di governo: da una parte i governi che originano dalla società, fondati sulla ragione, e dall’altra quelli che non ne originano, fondati sull’ignoranza. Il governo elettivo, per Paine, valorizzava l’uguaglianza e la razionalità, poiché nato da un accordo tra pari e soggetto a sanzioni se non ritenuto buono. Le due interpretazioni sono state recepite dalla storiografia successiva. Alcuni storici, più sensibili alla matrice anglosassone, hanno evidenziato l’apporto della tradizione costituzionale inglese nel dare forma agli Stati Uniti d'America, visti come nati per contrastare l'onnipotenza parlamentare. La Rivoluzione Americana viene quindi interpretata come la "rivoluzione costituzionale" per eccellenza, contrapposta a quella francese, che non avendo nulla da restaurare, appare come la "rivoluzione per eccellenza". Altri studiosi, più attenti ai legami tra gli eventi accaduti sulle due sponde dell'Atlantico, vedono l'intero processo come unitario, concentrandosi sulla dinamica che ha portato alla nascita del costituzionalismo, fondato su un atto che limita l'esercizio del potere e garantisce diritti soggettivi uguali. 2 diritto naturale e diritti dell’uomo La divergenza tra le filosofie politiche delle due rivoluzioni, quella americana e quella francese, emerge chiaramente nella lettura comparata della Dichiarazione di Indipendenza americana e 13 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino francese. La Dichiarazione di Indipendenza segue una struttura logica che si avvicina al sillogismo e si presenta, dal punto di vista formale, non molto diversa dai tradizionali documenti di protesta come le Petitions of Rights. Piuttosto che proporre un nuovo ordine politico, essa proclama semplicemente il legittimo diritto alla resistenza contro il monarca. Al contrario, la Rivoluzione Francese utilizza la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo per eliminare l'insieme dei privilegi e delle differenze che caratterizzavano l'Antico Regime, conferendo alla legge un ruolo centrale. Mentre la Dichiarazione di Indipendenza americana si limita ad affermare l’esistenza di “diritti inalienabili”, la Dichiarazione francese stabilisce un parallelo tra la garanzia dei diritti e l’esercizio della sovranità nazionale. La legge, in Francia, non solo determina l'estensione dei diritti, ma funge anche da strumento per definire i limiti dell’esercizio di tali diritti. Ad esempio, la Dichiarazione francese afferma che “la legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società”, stabilendo così che la legge deve liberare e creare una rigenerazione che cancellerà per sempre i privilegi. Tuttavia, la Dichiarazione di Indipendenza americana non intende ripristinare un antico ordine violato dal tiranno, ma piuttosto rappresenta una rottura con il passato. È il manifesto che annuncia la creazione di un popolo nuovo e un'organizzazione politica distinta da quella della madrepatria britannica. Sebbene le colonie americane avessero inizialmente modelli istituzionali ispirati all'Inghilterra, con un governatore nominato e camere elettive, il contesto delle comunità disperse sul territorio richiedeva un maggiore consenso popolare e forme di autogoverno. Un'altra differenza chiave riguarda la partecipazione politica. Nelle colonie americane, una percentuale più alta di individui possedeva il reddito necessario per esercitare il diritto di voto, il che favoriva una maggiore partecipazione rispetto alla Gran Bretagna. Questo radicato habitus di mobilitazione politica si intrecciava con motivazioni religiose e aspirazioni politiche, portando alla fusione tra individualismo religioso e repubblicanesimo, reinterpretati in termini di diritti naturali. Il confronto tra le due esperienze rivoluzionarie, tuttavia, non si limita alle rispettive dichiarazioni principali. È importante considerare anche i documenti adottati dalle colonie americane, come le dichiarazioni dei diritti redatte prima della costituzione degli Stati Uniti. Molte di queste influenzarono i primi 10 emendamenti della Costituzione americana, presentati da James Madison, e servono a comprendere meglio le differenze con la rivoluzione francese. Una delle distinzioni principali tra i diritti proclamati dagli Stati Uniti e quelli della Francia riguarda il ruolo della legge. Come notato dal giurista Émile Boutmy, i francesi tendevano a indicare ciò che la legge doveva fare, mentre gli americani ciò che la legge non doveva fare. Ad esempio, mentre in Francia la garanzia contro gli arresti arbitrari dipende dalla legge, la Bill of Rights americana pone maggiore enfasi sui rimedi giuridici concreti per proteggere i diritti individuali. In sintesi, i redattori delle dichiarazioni americane postulavano una tensione tra natura e storia, ma senza raggiungere il livello di antagonismo che caratterizzava i costituenti francesi. Nonostante ciò, la Dichiarazione francese, considerata la “tavola della legge” della Rivoluzione, rimane un documento fondamentale ancora oggi. Tuttavia, è importante ricordare che nel corso della Rivoluzione Francese furono adottate altre dichiarazioni, come quella del 1793, che introduceva nuove idee come il diritto all'assistenza pubblica. 14 3 e pluribus unum Il percorso attraverso cui le colonie americane e la Francia rivoluzionaria giunsero a definire i loro assetti istituzionali evidenzia notevoli differenze, che riflettono le distinte esigenze e tensioni socio- politiche di ciascun contesto. Nel caso delle colonie americane, la trasformazione da comunità eterogenee a un "popolo nuovo" avvenne in modo progressivo, complicato da differenze economiche e politiche. La Confederazione del 1777, pur coordinando le ex colonie, soffriva di gravi inefficienze. La mancanza di un forte governo centrale e la difficoltà di risolvere questioni come la rappresentanza e la gestione delle spese di guerra indebolirono la struttura confederale. L’insoddisfazione verso il modello confederale portò al compromesso federale del 1787, che, pur salvaguardando l’autonomia degli Stati, creò un governo centrale capace di agire direttamente sui singoli cittadini. L’innovazione introdotta da Hamilton e dai suoi alleati delineava un sistema complesso, fondato su due ordini di poteri – quelli federali e quelli statali – uguali e indipendenti. Questa scelta istituzionale rappresentò un tentativo di bilanciare la spinta verso una maggiore unione politica e il timore di una supremazia del governo centrale. In Francia, invece, il processo fu caratterizzato da una rottura radicale con il passato. Sieyès, con il suo pamphlet Che cos'è il terzo Stato? propose una concezione della nazione che escludeva i privilegiati, identificando il Terzo Stato come la vera nazione, in opposizione a una nobiltà ormai vista come parassitaria. La Rivoluzione francese, diversamente da quella americana, cercava non solo di riformare il governo, ma di riorganizzare completamente la società su basi egualitarie, eliminando i privilegi di classe. Il ruolo della legge nella Rivoluzione francese era centrale, poiché essa doveva essere lo strumento che, attraverso la volontà della nazione, trasformava i diritti proclamati in realtà concreta. Mentre negli Stati Uniti il nuovo ordine si configurava come un compromesso tra l’autogoverno statale e un potere federale, in Francia la volontà di rinnovamento radicale portò a una visione della nazione come entità unificata che doveva eliminare ogni traccia di privilegi del passato. La cittadinanza attiva, soprattutto nella fase montagnarda, assunse una connotazione militante, dove l'appartenenza alla nazione si fondava sull’impegno rivoluzionario, con il nemico interno che divenne il bersaglio di sospetti e persecuzioni. In sintesi, se gli Stati Uniti svilupparono un modello federale per bilanciare interessi diversi, la Francia cercò di ricostruire completamente la sua struttura sociale e politica, con la legge al centro di questo processo di rigenerazione. 4 costituzionalismo e sovranità La Convenzione di Filadelfia del 1787 ha segnato l'introduzione di una soluzione federale nella Costituzione americana, attraverso una serie di compromessi che hanno cercato di bilanciare le diverse esigenze degli Stati. Il primo compromesso riguardava la rappresentanza degli Stati nel Congresso: gli Stati più grandi volevano una rappresentanza proporzionale, mentre quelli più piccoli si opponevano. Si è deciso quindi che la Camera dei Rappresentanti fosse proporzionale alla popolazione, ma il Senato garantisse a ogni Stato lo stesso numero di senatori. Il secondo compromesso ha trattato la questione della schiavitù. Pur non citata direttamente, la schiavitù è stata implicitamente riconosciuta in diversi articoli della Costituzione, con l’accordo di non vietare l'importazione di schiavi fino al 1808. 15 Il terzo compromesso riguardava l'elezione del presidente: si è deciso che ogni Stato eleggesse i propri elettori, bilanciando le esigenze degli Stati grandi e piccoli e lasciando libertà ai singoli Stati di scegliere le modalità di nomina degli elettori. La Costituzione americana bilanciava i poteri tra governo federale e Stati, prevedendo un sistema di controlli reciproci ("checks and balances"), come il bicameralismo e i poteri di veto del presidente, per evitare l'eccessiva concentrazione di potere. La centralità della Costituzione era considerata superiore a ogni altra espressione di volontà politica. In Francia, al contrario, la Rivoluzione portò alla gerarchizzazione dei poteri. Nonostante il re fosse formalmente rappresentante della nazione insieme al corpo legislativo, la legge era considerata l'unica vera espressione della volontà generale. Il sovrano era relegato a una funzione puramente esecutiva, senza poteri decisionali significativi, come il veto sospensivo. Con la caduta della monarchia, la Convenzione francese approvò una nuova costituzione che rafforzava la supremazia dell'Assemblea Legislativa, mentre il potere esecutivo venne affidato a un comitato rivoluzionario con poteri straordinari, come il Comitato di Salute Pubblica. Anche la successiva Costituzione del Direttorio sanciva una netta subordinazione del potere esecutivo rispetto al corpo legislativo, con un governo debole privo di poteri significativi, in contrasto con il modello americano. 5 oltre le rivoluzioni atlantiche La Costituzione dell'anno III della Rivoluzione Francese è stata l'unica a essere esportata dalle armate francesi durante l'espansione della loro influenza in Europa. Sebbene talvolta modificata in alcuni dettagli, questa costituzione ha fornito la base istituzionale per tutte le "repubbliche sorelle" create nei territori occupati. Anche la Costituzione del 1791 e quella dell'anno I hanno lasciato un'importante eredità: la prima ha influenzato i sistemi politici che miravano all'affermazione dell'unità nazionale, mentre la seconda, non attuata, è diventata simbolo dei movimenti democratici e radicali del XIX secolo, arrivando persino a ispirare la rivoluzione bolscevica. Capitolo IV Le istituzioni dell’età napoleonica 1 uno stato militare Lo Stato napoleonico viene spesso descritto come uno stato di polizia, ma sarebbe più accurato definirlo uno stato militare. La Rivoluzione Francese, inizialmente caratterizzata da ideali di libertà e uguaglianza, si trasformò a causa delle pressioni interne ed esterne, tra cui la necessità di affrontare le potenze anti-rivoluzionarie. Ciò portò alla leva generale del 1793, con l'arruolamento di oltre 600.000 uomini e alla militarizzazione della nazione. Napoleone Bonaparte, uomo di formazione militare e protagonista della campagna d'Italia, sfruttò questa situazione per legare il proprio destino alla forza militare e alla potenza della Francia rivoluzionaria. Nonostante nei suoi memoriali sostenga di essere stato costretto alla guerra dagli attacchi esterni, la sua visione era chiara: utilizzare la forza militare per consolidare il proprio potere personale e rafforzare lo Stato 16 francese. La sua ascesa, da primo console a console a vita e infine a imperatore, si inseriva perfettamente in questo disegno. La storiografia moderna ha rivalutato il periodo direttoriale, non più visto solo come debole e corrotto, ma anche come un'epoca che ha preparato il terreno per il bonapartismo. Una parte della società francese desiderava ristabilire un'autorità centrale senza rinunciare alle conquiste della rivoluzione, e Bonaparte seppe inserirsi abilmente in questo contesto. 2 Un modello istituzionale pervasivo I dispositivi fondamentali messi in opera da Napoleone Bonaparte per dare corpo al suo progetto si possono sintetizzare in cinque elementi principali. Prima di tutto, un esercito potente e numeroso; in secondo luogo, un'economia nazionale protetta e sostenuta secondo una logica mercantilista. Terzo, una società in grado di appoggiare lo sforzo nazionale; quarto, un sistema di controllo e repressione del dissenso, estremamente efficiente per l'epoca. Infine, un governo di grande efficacia e perfettamente controllabile, strutturato secondo una logica militare per garantire una rapida trasmissione degli ordini. I risultati di questo ambizioso disegno furono notevoli: tra territori annessi all'Impero e Stati che gravitavano nell'orbita politica francese, il controllo diretto o indiretto di Napoleone sull'Europa fu impressionante. Lo storico Aurélien Lignereux evidenzia come la condizione della società discendesse soprattutto dallo Stato napoleonico, e l'efficacia di questo dipendeva dalla recettività della società stessa. Sebbene il grado di penetrazione del sistema istituzionale napoleonico variava dà luogo a luogo, il suo impatto fu sempre duraturo e rilevante. Alcune società furono particolarmente ricettive e propositive verso il nuovo sistema, altre meno, ma in ogni caso il radicamento delle istituzioni napoleoniche ebbe conseguenze significative. 3 Un problema di legittimazione Napoleone Bonaparte intendeva trasformare lo Stato francese in una macchina perfetta, ma era consapevole che per ottenere il supporto del corpo sociale doveva mantenere il legame con alcune conquiste della Rivoluzione. Appena prese il potere, si trovò di fronte alla necessità di legittimare il suo ruolo, trasmettendo una sensazione di continuità con il passato. Fu scelto un governo collegiale con tre consoli, anche se, non appena possibile, Bonaparte si affermò come console unico a vita, spostando gradualmente la Francia verso una monarchia. Un altro passaggio cruciale fu quello costituzionale. La nuova costituzione, pubblicata subito dopo il colpo di Stato, era caratterizzata da brevità e indeterminatezza, soprattutto per l'assenza di un preambolo sui diritti. Tuttavia, era chiara nel definire il primato del potere esecutivo, con il primo console al vertice e i due altri consoli relegati a funzioni consultive. Il potere legislativo, diviso in due camere, aveva funzioni limitate e non poteva presentare proposte di legge, che venivano discusse tra il Tribunato e il Consiglio di Stato prima di essere votate dal Corpo legislativo. Dal 1791, il modello costituzionale francese si fondava sul concetto di "nazione una e indivisibile", ma il primato della legge aveva ridotto l'efficacia della costituzione come sistema di regole sovraordinate. Il Senato conservatore, introdotto per garantire la costituzionalità delle leggi, aveva un ruolo terzo fragile e divenne sempre più subordinato al controllo di Bonaparte. La legge rimaneva legittimata dalla volontà popolare, che veniva espressa tramite elezioni a suffragio universale maschile, anche se, in pratica, il sistema elettorale era organizzato su basi censitarie. Bonaparte utilizzò inoltre lo strumento del plebiscito in quattro occasioni: per legittimare la costituzione dell'anno VIII, quella dell'anno X, la proclamazione dell'impero dell'anno 17 XII, e infine durante i 100 giorni nel 1815. Il Consiglio di Stato divenne un organo strategico dell'organizzazione napoleonica, fungendo da mediatore tra esecutivo e legislativo, con un forte squilibrio a favore del primo. Fu incaricato della stesura dei progetti di legge e regolamenti amministrativi, e divenne il tribunale supremo per il contenzioso amministrativo, risolvendo le dispute tra cittadini e Stato. 4 Alla ricerca dell’efficienza Con la Costituzione dell’anno VIII si delineò un sistema istituzionale in cui il governo poteva non solo concentrare il potere nell’esecutivo, ma anche controllare il legislativo e influenzare le nomine nelle cariche pubbliche. Tuttavia, la chiave per garantire l'efficienza dell'intero sistema era la capacità del governo di agire in modo efficace. La legge del 17 febbraio 1800 definì l'assetto amministrativo del territorio, istituendo un sistema monocratico di comando, affiancato da organi consiliari. Il ruolo centrale in questo sistema era quello del prefetto, a cui veniva conferita l'amministrazione esclusiva del dipartimento. Il prefetto, nominato direttamente dal primo console e subordinato ai ministri, doveva eseguire gli ordini del governo, fungendo da cardine nella trasmissione delle direttive dal centro verso la periferia. Sotto di lui, a livello locale, vi erano i sottoprefetti e i sindaci (o podestà), anch'essi incaricati di seguire una rigida scala gerarchica. Sebbene i prefetti esercitassero una reale potestà politica, la rigida struttura gerarchica limitava la loro autonomia decisionale. Le prefetture rappresentavano dunque il fulcro operativo e decisionale, in costante collegamento con i ministeri e coinvolte in tutti i rami della pubblica amministrazione. Tuttavia, in settori strategici come le finanze e il sistema impositivo, le prefetture condividevano il potere con istituzioni tecniche specifiche. Un altro aspetto rilevante era il ruolo del consiglio di prefettura, che si occupava delle questioni di contenzioso amministrativo e fungeva da intermediario tra lo Stato e i cittadini, assumendo una funzione simile a quella delle petizioni al re durante l'Antico Regime. 5 Le strategie del consenso Napoleone considerava l'efficacia dell'amministrazione uno dei pilastri per ottenere il sostegno della nazione. Tuttavia, sapeva bene che per garantire la fedeltà dell'esercito, era necessario bilanciare disciplina e benessere. Un generale doveva incarnare il coraggio e la competenza, ma allo stesso tempo garantire migliori condizioni di vita e opportunità per i soldati. Questo equilibrio era essenziale per la potenza della nazione, e per mantenerlo era indispensabile creare una rete di certezze. La Costituzione dell'anno VIII non includeva una Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, ma ciò non significava abbandonare tali principi. Al contrario, l'intenzione era di promuoverne l'effettività attraverso azioni concrete. Uno degli atti più rilevanti in questo senso fu la promulgazione del Codice Civile, il 21 marzo 1804. Il codice mirava non solo a unificare il diritto civile, ma anche a stabilire i valori fondamentali della convivenza civile. Divenne un pilastro dell'Europa liberale, sancendo che la legge fosse valida in tutto il territorio e che il diritto di proprietà fosse un valore fondamentale. All'interno del nucleo familiare, lo spirito gerarchico- militare era riflesso nella posizione predominante del padre, ma anche altre figure, come i figli e le mogli, conservavano la propria personalità giuridica. Il Codice Civile rappresentava un distacco decisivo dal sistema giuridico dell'Antico Regime, ed era destinato a modellare la società napoleonica. Anche in altri settori, lo Stato mirava a garantire stabilità e fiducia. In campo finanziario, l'accentramento e il controllo delle entrate e del debito 18 pubblico furono attuati attraverso la creazione di un Tesoro pubblico e una rete di ricevitori generali. La fondazione della Banca di Francia, con il monopolio dell'emissione di moneta, completava questo quadro. Il sistema tributario fu semplificato, con l'imposta fondiaria al centro del sistema, gravante su ogni tipo di proprietà. Anche il sistema giudiziario subì importanti riforme. Pur mantenendo alcuni aspetti della giustizia rivoluzionaria, come l'indipendenza dall'amministrazione e dalla politica, si rafforzò la vicinanza al cittadino. Fu istituita una giustizia civile, articolata in giudici di pace, tribunali di prima istanza e tribunali d'appello. Nel campo della giustizia penale, si stabilì una suddivisione in giustizia di polizia, giustizia correzionale e tribunali criminali di dipartimento. Queste riforme miravano a rendere lo Stato più efficiente, stabile e in sintonia con le esigenze dei cittadini, garantendo al contempo l'ordine sociale e la legittimazione del potere napoleonico. 6 L’ansia del controllo L'apparente stabilità e affidabilità dello Stato napoleonico fu minata dalla sua incapacità di porre limiti allo sforzo militare. Il sistema amministrativo, gerarchico e monocratico, era efficace nel trasmettere la volontà del governo alle periferie, ma va inquadrato nella giusta prospettiva. Lo Stato napoleonico non conosceva una spesa pubblica finalizzata a rispondere alle esigenze sociali come nei moderni sistemi di welfare. Nonostante l'apparente modernità, le sue strutture erano ancora radicate nei principi dell'Ancien Régime, dove il controllo sociale era prioritario rispetto al benessere collettivo. Il governo napoleonico gestiva la società locale tramite un sistema di controllo centralizzato, dove ogni decisione era presa a livello statale e applicata sul territorio, con costi ridotti per le casse pubbliche. Un esempio di questa logica era l'amministrazione comunale. I Maires (sindaci) erano posti alla guida dei comuni, ma i consigli comunali avevano poteri limitati, essendo responsabili solo dell'approvazione dei bilanci e delle imposte addizionali per le necessità locali. Questo garantiva che il governo centrale mantenesse il controllo sulle spese locali, impedendo qualsiasi eccesso che potesse compromettere la capacità contributiva del comune e dei suoi abitanti. Anche nel campo dell'istruzione, l'approccio era simile. Se da un lato i licei e le università ricevevano maggiore attenzione, i comuni erano comunque obbligati a sostenere i costi dell'istruzione primaria, su richiesta del governo centrale. In tal modo, lo Stato manteneva il controllo sulle decisioni di spesa, ma delegava ai comuni l'onere di coprire i costi. Un altro settore che seguiva questa logica era quello dei lavori pubblici. La Francia aveva una tradizione di intervento pubblico, già evidenziata dalla creazione della Scuola Reale di Ponti e Strade per la formazione di ingegneri. Durante l'epoca napoleonica, ci fu un salto di qualità con la creazione di una Direzione Generale di Ponti e Strade, che operava come un moderno ministero dei Lavori Pubblici. Questo organo dirigeva e controllava le attività nel settore delle infrastrutture, ma senza assumersi la responsabilità finanziaria per i lavori, che ricadeva sugli enti locali. Napoleone riuscì a creare un apparato statale efficiente e centralizzato, ma la gestione delle risorse restava sbilanciata: il governo centrale prendeva le decisioni cruciali, lasciando alle amministrazioni locali l’onere di finanziare l'implementazione delle politiche, senza il supporto finanziario necessario per garantire una vera autonomia locale. 19 7 Gli strumenti del disciplinamento Lo Stato napoleonico mirava a disciplinare capillarmente la società per sostenere l’esercito. La modalità di controllo variava in base alla fascia sociale: le classi inferiori erano soggette a misure repressive, come il confinamento di mendicanti e vagabondi in istituti. Per i lavoratori, il Codice Penale riprendeva le regole delle corporazioni artigiane, rendendole legge statale. Un problema serio era la diserzione dei soldati, affrontata potenziando la gendarmeria, una polizia militare autonoma che rispondeva ai ministri di polizia, guerra e giustizia. Questa forza armata aveva una presenza capillare sul territorio, soddisfacendo le richieste delle amministrazioni locali. Per quanto riguarda le classi medie e alte, il controllo si esercitava principalmente attraverso la gestione dei diritti dei cittadini. La libertà di stampa, considerata un diritto fondamentale, venne formalmente mantenuta ma minata nella sostanza: vennero introdotti divieti legali con riserva di autorizzazione, provocando la scomparsa di molti giornali. La censura preventiva era gestita dal ministro di polizia, eliminando così qualsiasi spazio per il dibattito politico. 8 Una società per lo stato Napoleone impose allo Stato un'impronta marcatamente militare, mirata a garantire l'efficienza del sistema. Questo approccio era evidente anche nell'istruzione e nella religione. Grande attenzione fu dedicata alla preparazione delle élite, considerate essenziali per la stabilità del regime, con un coinvolgimento diretto nel sistema politico-governativo. L'istruzione superiore era pubblica e il suo controllo fu monopolizzato dallo Stato con il decreto imperiale del 1808, che creò una struttura gerarchica con a capo un Grand Maître responsabile di università, licei e ginnasi. Gli insegnanti venivano formati in scuole specializzate, garantendo un'educazione uniforme. I titoli di studio avevano valore legale e erano necessari per accedere alle professioni liberali. Gli istituti di formazione avevano un'organizzazione fortemente militarizzata: gli studenti indossavano divise, seguivano una disciplina rigida e le giornate erano scandite da rituali militari. Per quanto riguarda la religione, Napoleone regolò i rapporti con la Chiesa cattolica attraverso il Concordato con Pio VII, che pacificò le tensioni religiose. Napoleone ottenne il riconoscimento della Repubblica e del principio della pluralità religiosa, mentre il Papa ottenne il riconoscimento della libertà di culto come fatto pubblico. I vescovi sarebbero stati nominati dall'esecutivo, ma avrebbero ricevuto l'investitura canonica dal Papa. Un esempio dell'influenza napoleonica fu il Catechismo imperiale, che oltre a unificare la dottrina, imponeva ai fedeli l'obbedienza civile e l'obbligo del servizio militare. 9 Uomini al servizio dello Stato Napoleone strutturò lo Stato con l'obiettivo di massimizzare l'efficienza e dirigere tutte le risorse a sostegno della macchina militare. Un aspetto cruciale di questo progetto era la selezione delle persone destinate a guidare lo Stato. La centralità del potere esecutivo richiedeva una scelta accurata degli uomini chiamati a occupare ruoli chiave. Napoleone, impegnato nella pacificazione della società e nel ribadire i principi rivoluzionari più condivisi, esercitava un controllo rigoroso sulla qualità dei funzionari nominati a ricoprire incarichi nell'amministrazione. La politica di selezione prevedeva, in alcuni casi, l'importanza di rapporti interpersonali, ma la condizione irrinunciabile era la competenza e l'impegno concreto dei soggetti prescelti. Inoltre, per rompere con il passato, Napoleone si distaccò dalla tradizione che riservava certe carriere a specifici gruppi 20 sociali, avviando una politica nota come "amalgama". Questa pratica consentiva la coesistenza di persone provenienti da differenti strati sociali nei ruoli di comando, creando un'amministrazione più meritocratica e inclusiva. Il risultato di questo grande progetto doveva essere la potenza e la gloria dello Stato nazionale, realizzabile solo con un esercito superiore. Le armate rivoluzionarie avevano introdotto il principio della "nazione in armi", che Napoleone perfezionò con il sistema di leva obbligatoria. La leva divenne uno degli appuntamenti più critici per lo Stato, e il corretto svolgimento di questa operazione era il primo criterio con cui veniva valutato il lavoro dei prefetti. L'esercito imperiale, simbolo della forza dello Stato, arrivò a contare oltre 800.000 uomini nel 1804, diventando uno strumento fondamentale della politica di espansione e di mantenimento dell'ordine di Napoleone. 10 Le contraddizioni decisive Il regime napoleonico riuscì a creare uno Stato efficiente, con un esercito devoto e una società pacificata. Tuttavia, alcune scelte critiche portarono a conseguenze che alla lunga avrebbero minato la stabilità del sistema e portato al suo tracollo. La restaurazione di una monarchia aristocratica sotto Napoleone fu una delle principali cause di questa deriva. Nel 1804, Napoleone si autoproclamò imperatore e, l'anno successivo, si incoronò re d'Italia. Attraverso i Senatoconsulti, il Senato iniziò a reintrodurre gradualmente i titoli nobiliari, culminando nella creazione della nobiltà d'impero. Sebbene fosse una nobiltà di servizio, questa scelta causò un forte impatto tra coloro che avevano sostenuto la Repubblica e i valori rivoluzionari di uguaglianza e status sociale. La rinnovata gerarchia aristocratica sembrava una contraddizione rispetto agli ideali della Rivoluzione francese, alienando una parte importante della popolazione. -Un'altra decisione altrettanto significativa e dannosa fu l'adozione del Blocco Continentale nel tentativo di combattere l'Inghilterra sul piano economico. Napoleone sperava di strangolare la potenza britannica bloccando il commercio e impedendo l'afflusso delle merci inglesi in Europa. Questo tentativo di forzare gli Stati europei a collaborare con la Francia si scontrò con enormi difficoltà, specialmente perché molti Stati non facevano parte dell'orbita diretta dell'impero. Per imporre il blocco, la guerra divenne inevitabile, e a partire dal 1805-1806, i conflitti bellici dominarono la politica napoleonica. Il blocco non solo alienò ulteriormente gli Stati neutrali, ma anche le economie interne francesi e dei Paesi alleati soffrirono per la mancanza di beni e materie prime. La resistenza all'imposizione del blocco portò a continui scontri militari, coinvolgendo sempre più Stati europei e gettando l'intero continente in una spirale di guerre che avrebbero infine contribuito alla caduta di Napoleone. Capitolo V Le istituzioni politiche della restaurazione 1 il concetto di restaurazione Negli anni '30 del Novecento, Antonio Gramsci rifletteva sulla Restaurazione, considerandola un periodo in cui si elaborano le dottrine storicistiche moderne, tra cui la filosofia della praxis. Sosteneva che la Restaurazione non fosse un ritorno effettivo all'ancien régime, ma una "nuova sistemazione di forze" che permetteva alla borghesia di prendere il potere senza rotture 21 drammatiche. Gramsci indicava uno scollamento tra il desiderio di restaurare l'antico regime e la realtà di una nuova organizzazione sociale. Il termine "restaurazione", secondo i dizionari dell'epoca, indicava il ripristino di autorità politiche tradizionali dopo un'interruzione, come nel caso del ramo primogenito dei Borbone in Francia. Tuttavia, nel contesto del Risorgimento italiano, assunse il significato di un "tempo recuperato", utilizzato per indicare la lotta tra le monarchie restaurate e le nuove idee di libertà e nazionalità. 2 Orientamenti e obbiettivi del congresso di Vienna (1814-15) Sebbene le linee guida emesse durante il primo trattato di Parigi e successivamente definite con maggiore precisione nel Congresso di Vienna indicassero, in apparenza, un ritorno alla Restitutio in integrum dei troni e dei sovrani legittimi, la nuova carta geopolitica dell'Europa fu ridisegnata solo parzialmente secondo il principio di legittimità. L'obiettivo principale era infatti realizzare un "sistema politico atto a consolidare e mantenere l'ordine pubblico", piuttosto che una semplice restaurazione delle monarchie pre-rivoluzionarie. Questo orientamento era emerso già con la Dichiarazione di Francoforte del 1813, nella quale le potenze antinapoleoniche si impegnarono a perseguire un nuovo assetto europeo che garantisse la pace e la stabilità. Uno degli elementi chiave di questo progetto era la volontà di non umiliare la Francia, nonostante le sue sconfitte. Le potenze vincitrici riconobbero alla Francia confini territoriali più ampi rispetto a quelli del periodo monarchico pre-rivoluzionario, evitando che la nazione cadesse in un declino irreversibile per aver combattuto una lunga e sanguinosa guerra. Tuttavia, la Francia fu costretta a pagare un’indennità di guerra, subì una temporanea occupazione militare e vennero creati attorno ad essa degli Stati cuscinetto per prevenire future espansioni aggressive. Alla fine dei lavori del Congresso di Vienna, l'Europa sembrava aver riacquistato un assetto politico simile a quello pre-napoleonico. I trattati prevedevano il ritorno dei sovrani spodestati, ma allo stesso tempo fu costruito un complesso sistema di alleanze internazionali finalizzato a prevenire ulteriori focolai rivoluzionari. Tra questi accordi spiccava la Santa Alleanza (tra Russia, Austria e Prussia) e la Quadruplice Alleanza (che includeva anche la Gran Bretagna), tutte dirette a mantenere l'equilibrio di potere e a soffocare qualsiasi tentativo rivoluzionario che potesse minacciare la stabilità monarchica. In aggiunta, fu istituito un rigido apparato di polizia per il controllo interno degli Stati, con l'intento di garantire un lungo periodo di pace e stabilità, prevenendo il ritorno delle rivoluzioni e consolidando l'ordine ristabilito dalle potenze. Questo sistema, sebbene efficace nel mantenere un relativo equilibrio per molti decenni, conteneva i semi delle tensioni che sarebbero poi esplose nel corso del XIX secolo. 3 Modelli e soluzioni istituzionali nell’Europa della restaurazione Nonostante gli sforzi compiuti per restaurare l'ordine pre-napoleonico e creare un nuovo equilibrio in Europa, molti problemi irrisolti emersero presto, rivelando la fragilità degli accordi raggiunti al Congresso di Vienna. Il principio di legittimità, sebbene centrale nelle intenzioni dei restauratori, non avrebbe potuto riportare indietro le lancette della storia in modo completo. In Francia, ad esempio, la monarchia restaurata non rappresentava un ritorno all'assolutismo monarchico del passato. Al contrario, il nuovo regime era meno autoritario rispetto a quello di Napoleone e persino rispetto alla monarchia pre-rivoluzionaria. L'amministrazione e il sistema codicistico napoleonico, compreso il Codice civile, vennero mantenuti, sancendo la tutela dei diritti borghesi. Si instaurò così un modello politico che coniugava codice e costituzione, riflettendo il compromesso tra tradizione e innovazione. In altre parti d'Europa, si verificarono cambiamenti 22 sostanziali. Nel nord Europa, la sconfitta di Napoleone portò alla fine della monarchia dano- norvegese e alla nascita di un regno norvegese indipendente. La Norvegia promulgò una costituzione nel 1814, segnando un nuovo inizio politico. Allo stesso modo, nei Paesi Bassi, l'unificazione del Belgio e dell'Olanda sotto il regno di Guglielmo I d’Orange portò all'estensione delle leggi costituzionali del Nord anche al Sud. In Germania, la creazione della Confederazione germanica, composta da 41 monarchie e 4 repubbliche cittadine, rappresentò una soluzione intermedia tra sovranità statale e cooperazione politica. Tuttavia, in alcuni stati meridionali, vennero concessi documenti costituzionali con istituzioni rappresentative, mostrando una diversificazione all'interno dell'area germanica. Nonostante ciò, la Germania si distanziava dal modello francese, favorendo un sistema di giustizia amministrativa incentrato su giudici specializzati indipendenti dagli apparati statali, differenziandosi dal contenzioso amministrativo francese. In Austria, invece, l'emanazione del Codice civile generale austriaco da parte dell'imperatore Francesco I segnò un'ulteriore discontinuità rispetto alla Francia. Pur tutelando alcuni diritti borghesi, l'Austria rimase priva di una costituzione formale, dimostrando che la restaurazione in molti casi non comportava l'adozione di strutture costituzionali moderne. A est, il Granducato di Varsavia passò sotto il dominio russo nel 1815, un evento che permise uno sviluppo più rapido rispetto alle province polacche annesse a Prussia e Austria. Anche la Finlandia venne annessa alla Russia, ma riuscì a mantenere le proprie istituzioni tradizionali, consolidando una relativa autonomia sotto il dominio dello zar. Infine, la Gran Bretagna seguì un percorso completamente diverso. Grazie alle riforme avviate già nel XVIII secolo, la nazione aveva consolidato una monarchia costituzionale e una forte supremazia parlamentare, rendendosi un modello di equilibrio tra monarchia e rappresentanza. Durante il Congresso di Vienna, Lord Castlereagh espresse posizioni ambigue, ma la Gran Bretagna continuò a distinguersi dalle evoluzioni politiche e giuridiche del continente europeo, mantenendo il proprio corso grazie a riforme come il Representation of the People Act e all'influenza dell'opinione pubblica. 4 L’Europa al bivio (1821-47) Il processo di costituzionalizzazione che si avviò dopo il periodo napoleonico rappresenta uno dei fenomeni più significativi del XIX secolo. Nonostante i tentativi di Restaurazione operati dalle potenze vincitrici al Congresso di Vienna, la domanda di costituzioni che garantissero diritti e libertà non venne soffocata. Al contrario, il desiderio di codificare i rapporti tra sovrano e cittadini crebbe, innescando un’ondata di movimenti costituzionali in Europa. Uno degli esempi più emblematici fu la Charte Octroyée francese, concessa da Luigi XVIII nel 1814, che rappresentò un compromesso tra il ritorno della monarchia e l’eredità rivoluzionaria. Anche in altri contesti europei, come la Norvegia e il Nassau, vennero promulgate costituzioni, sebbene meno celebri, ma altrettanto indicative del processo di cambiamento istituzionale. La Baviera e altri stati meridionali tedeschi seguirono l'esempio, dimostrando come la restaurazione fosse costretta a confrontarsi con la crescente richiesta di un ordine costituzionale. 23 Il periodo vide un’importante circolazione delle idee costituzionali. Le costituzioni americane e francesi furono tradotte e diffuse, influenzando le carte in vari paesi. La Costituzione gaditana del 1812, con il suo carattere monocamerale, divenne un riferimento per molte altre costituzioni, specialmente in Spagna, Napoli, Torino e persino in Sicilia, dove fu richiesto in alternativa alla carta palermitana. Un aspetto cruciale da sottolineare è che il Congresso di Vienna e i trattati successivi ignorarono in gran parte le aspirazioni all'indipendenza nazionale, alimentando tensioni che esplosero in una serie di moti rivoluzionari. Queste insurrezioni, pur avendo esiti differenti, riflettevano il malcontento delle classi borghesi e le loro richieste di maggiore rappresentanza politica. Dal 1820 in avanti, la mappa politica europea fu scossa da una serie di rivoluzioni costituzionali. Nel 1830, la Francia assistette alla caduta della monarchia per diritto divino, e con la Costituzione di Luigi Filippo d’Orléans si stabilì un nuovo patto tra sovrano e nazione. Lo stesso anno, il Belgio ottenne l’indipendenza dall’Olanda, seguito da ulteriori cambiamenti in Germania, dove la rivoluzione portò alla concessione di costituzioni in stati come il Kurfürstentum di Hesse e il Regno di Sassonia. In Spagna, la Costituzione del 1812 fu richiamata in vigore, mentre il Portogallo seguì con una propria carta costituzionale nel 1838. Tuttavia, la penisola italiana non vide il successo delle proprie rivoluzioni costituzionali, che fallirono di fronte alla resistenza delle monarchie locali e dell’Austria. Le rivoluzioni del 1830 e del 1848, nota come la Primavera dei Popoli, segnarono un punto di svolta. In quel periodo, le forze liberali e nazionali tentarono di ridisegnare l’assetto europeo, ma sebbene non tutte le rivolte ebbero successo, l’ondata rivoluzionaria del 1848 può essere vista come la "prima e ultima rivoluzione europea": un momento di ribellione collettiva che unì temporaneamente i popoli del continente contro i valori della Restaurazione. In conclusione, sebbene il Congresso di Vienna avesse tentato di ripristinare l’ordine monarchico, il XIX secolo fu segnato da una tensione tra restaurazione e costituzionalismo, con l’emergere di un desiderio irrefrenabile di cambiamento politico che culminò nelle rivoluzioni del 1848. 5 Dopo Vienna, il nuovo assetto politico della penisola italiana Dopo il Congresso di Vienna, l'Italia subì profonde trasformazioni politiche e territoriali. Il Piemonte venne restituito a Vittorio Emanuele I, con l’annessione di Genova e della Liguria. Lombardia, Veneto, Trentino e altre regioni passarono sotto il dominio austriaco nel Regno Lombardo-Veneto. Il Ducato di Parma fu assegnato a Maria Luigia d’Asburgo, con il ritorno ai Borbone previsto alla sua morte. L'Austria ottenne presidi strategici in Emilia-Romagna, mentre lo Stato Pontificio riacquisì i suoi territori centrali. Nel sud, Ferdinando I riprese il controllo del Regno delle Due Sicilie. Le antiche repubbliche italiane, tranne San Marino, furono abolite, sostituite da governi monarchici, evidenziando l'influenza delle grandi potenze, in particolare dell'Austria. Sebbene il principio di legittimità fosse invocato, la Restaurazione non comportò un pieno ritorno all’ordine pre-napoleonico, alimentando tensioni nazionalistiche e liberali che sfociarono nei successivi moti risorgimentali. 5.1 Il regno di Sardegna Vittorio Emanuele I, tornato al trono di un regno ampliato, cercò di ripristinare l'ordine pre- rivoluzionario, richiamando in vigore la legislazione del 1770, con l'esclusione di Genova, dove i codici napoleonici rimasero in vigore. Il governo del Regno di Sardegna era strutturato in ministeri, 24 con il Consiglio di Conferenza come organo consultivo, presieduto dal sovrano. L’amministrazione territoriale era centralizzata, con intendenti e governatori al vertice, e i comuni sotto controllo governativo. Nonostante alcuni timidi tentativi di riforma, il sistema rimase immutato fino al 1821, quando, sotto la pressione dei moti liberali, il reggente Carlo Alberto concesse la Costituzione di Cadice. Tuttavia, il sovrano Carlo Felice annullò immediatamente tale concessione. Con l'ascesa al trono di Carlo Alberto nel 1831, iniziò un processo di riforma: venne creato il Consiglio di Stato e il governo si articolò in sette ministeri. L'ordinamento giudiziario fu riorganizzato, eliminando le giurisdizioni speciali e introducendo una Corte di Revisione. Inoltre, il re avviò l'unificazione giuridica tra la Sardegna e i territori di terraferma. Il sistema amministrativo vedeva le province riunificate sotto intendenti, coadiuvati da consigli locali, mentre i comuni eleggevano rappresentanti per il consiglio provinciale. L’ascesa di Carlo Alberto segnò un periodo di riforme che culminò con la concessione dello Statuto, passo decisivo verso la monarchia costituzionale. 5.2 La riorganizzazione del lombardo-veneto Nei territori annessi all'Impero asburgico tra il 1813 e il 1814, i cambiamenti istituzionali furono significativi. Il ritorno degli Asburgo fu accolto con la speranza di un ripristino dell'autonomia locale, ma con la patente sovrana del 1815, Lombardia e Veneto furono uniti sotto il dominio austriaco. Questi territori vennero divisi in due parti indipendenti, ciascuna governata da un viceré di nomina imperiale. Si instaurò una "monarchia consultiva", con corpi consultivi locali. Due congregazioni centrali, una a Milano e una a Venezia, vennero presiedute da un governatore e composte da rappresentanti dell'aristocrazia fondiaria, possidenti non nobili e deputati delle città regie. L'amministrazione si suddivideva in province, distretti e comuni, con il governo esecutivo dipendente dal cancelliere nei distretti. Nonostante l'ispirazione del governo di Maria Teresa, venne mantenuta la divisione dei comuni in tre classi. La restaurazione cancellò anche il Code Civil, sostituito dal Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch del 1811. Il sistema asburgico prevedeva un forte legame tra magistratura e polizia e l'introduzione di un dipartimento di censura. 5.3 Il granducato di Toscana Dopo la fine della dominazione napoleonica, Ferdinando III di Lorena tornò al potere e abolì le novità introdotte dai francesi, restaurando l'esperienza leopoldina. Richiamò la legislazione granducale preesistente, il diritto romano e canonico, confermando solo l'abrogazione degli antichi statuti comunali. Il sistema amministrativo ripristinato era quello del XVIII secolo, con la Presidenza del Buon Governo come organo supremo di polizia, coordinato dal ministro segretario di Stato, parte del consiglio granducale. Il controllo territoriale si esercitava attraverso governatori nelle circoscrizioni maggiori e commissari nelle minori. I comuni furono riformati con un sistema ibrido, che combinava vecchie magistrature con le esigenze del sistema napoleonico. Anche la giustizia tornò a essere frammentata fino al 1838, quando Leopoldo II introdusse una riforma dei tribunali, seguita dalla creazione di una corte di cassazione e dal nuovo codice penale del 1853. 5.4 I ducati dell’area padana: Parma, Piacenza e Guastalla Le osservazioni di Pietro Dolci contribuiscono a delineare un’immagine positiva della duchessa Maria Luigia d'Asburgo, amata dai Parmigiani e Piacentini, e vista come sovrana ben disposta verso il benessere dei suoi sudditi. Tuttavia, il controllo rigido di Vienna portò progressivamente 25 alla sostituzione parziale delle istituzioni napoleoniche con quelle asburgiche. Dal 1814, il Ducato fu diviso in due governi (Parma e Piacenza), poi in quattordici distretti (1821), e successivamente in tre "commesserie" (1831). L'apparato di governo includeva vari ministeri, stabilizzati nel 1846, e un consiglio di conferenze. Il consiglio di Stato, riorganizzato nel 1822, venne reso più efficiente, mentre nel 1836 fu creata la camera dei conti. Nonostante il dominio austriaco, la duchessa rimase influenzata dalla tradizione francese, ispirandosi al modello napoleonico per la codificazione del diritto. 5.5 Modena e Reggio A seguito delle decisioni prese a Vienna, il Ducato di Modena e Reggio fu affidato a Francesco IV d’Austria, nonostante spettasse alla madre, Maria Beatrice d’Este, la quale venne compensata con il Ducato di Massa Carrara. Il nuovo sovrano, Francesco IV, si mostrò incline a un forte conservatorismo e autoritarismo. L’amministrazione centrale era composta da un ministero che gestiva affari esterni e interni, finanze, economia e istruzione. L'apparato centrale comprendeva anche l'intendente generale dei beni camerali e il comando militare supremo. L’amministrazione giudiziaria, inizialmente arretrata, priva di un tribunale del contenzioso, vide la creazione di un tribunale solitario nel 1821, competente per reati di lesa maestà, tradimento e ribellione. Dieci anni dopo furono istituiti anche il consiglio di guerra e la commissione statale militare. 5.6 Le scelte dello stato pontificio Le diverse modalità di recupero dei territori e le vicende che ciascuno di essi aveva attraversato spinsero Pio VII a organizzare assetti non sempre coerenti tra loro. Questo era influenzato, tra le altre cose, dalla durata variabile dell'occupazione francese. Nel Lazio e in Umbria, ad esempio, l'occupazione francese era stata breve. Un ruolo importante fu anche svolto dalle diverse personalità che il papa chiamò a gestire i territori. Mentre il governatore di Roma, il cardinale Agostino Rivarola, ripristinava senza esitazioni lo status quo ante nei territori riacquistati, il suo successore, il cardinale Ercole Consalvi, preferiva mantenere in vigore molte delle istituzioni del periodo napoleonico. Nel 1816, il papa promulgò un motu proprio che unificava amministrativamente i territori dello Stato Pontificio. L’apparato centrale venne ripristinato con la Segreteria di Stato, che gestiva tutti gli affari, e con le congregazioni che amministravano i vari settori religiosi. Lo Stato Pontificio fu articolato in 17 province, alcune delle quali erano definite "legazioni" e affidate a cardinali. Le potenze conservatrici individuarono alcune delle cause dei moti che avrebbero sconvolto i domini pontifici nel decennio 1820-1831 proprio nella struttura amministrativa dello Stato Pontificio. La stagione di riformismo, inaugurata da Consalvi, si concluse dopo i moti degli anni '20, seguiti da una dura repressione, coincidente con l’ascesa di Leone XII. Su richiesta del papa, l'Austria intervenne per ristabilire l'ordine, suggerendo nel contempo la riforma dell’organizzazione municipale attraverso un memorandum inviato alla Santa Sede, in cui si identificava la riforma delle municipalità come base indispensabile per ogni miglioramento amministrativo. Il nuovo pontefice, Gregorio XVI, sembrò accogliere queste indicazioni, avviando una razionalizzazione e modernizzazione degli apparati amministrativi. Tuttavia, la vera svolta arrivò con l'elezione di Pio IX, che alle soglie di una nuova rivoluzione si presentò come un sovrano costituzionale. Lo Stato Pontificio si dotò allora di una legge sulla stampa, di un vero Consiglio dei Ministri e di un Consiglio di Stato. 26 5.7 La restaurazione nel regno delle due Sicilie Il ritorno dei Borbone non doveva segnare una cesura rispetto alle novità introdotte nel Regno di Napoli. Ferdinando IV, a seguito degli impegni presi al Congresso di Vienna e del trattato segreto con l'imperatore d'Austria, soppresse l'indipendenza della Sicilia e proclamò l'unità dei territori, assumendo il titolo di Ferdinando I delle Due Sicilie. Su consiglio di Donato Tommasi, mantenne la legislazione del decennio francese e pianificò una codificazione completa. Tuttavia, l'integrazione della normativa napoleonica fu parziale: la legislazione “francese” non venne applicata alla Sicilia, dove rimasero in vigore le leggi precedenti, causando disomogeneità tra il continente e l'isola. Nel 1817, i Borbone abolirono le riforme costituzionali in Sicilia, estendendo il sistema amministrativo francese: l'isola fu divisa in 23 distretti raggruppati in 7 intendenze. Il modello di monarchia assoluta illuminata, proposto da Tommasi, prevedeva che il sovrano esercitasse il potere esecutivo con l'aiuto di 7 ministeri. Il monarca era affiancato dal consiglio supremo di cancelleria e dalla gran corte dei conti, che controllava le amministrazioni. Il territorio fu articolato in province, distretti e comuni, con intendenti di nomina regia. Con la rivoluzione napoletana del 1820-21 e l'adozione della carta gaditana, il regno subì cambiamenti amministrativi, inclusa la creazione del consiglio di Stato. Furono istituite due Consulte di Stato a Napoli e Palermo, ma il progetto fallì. Il malcontento siciliano spinse Ferdinando II a istituire una commissione consultiva a Palermo e ripristinare il ministero degli affari di Sicilia, ma queste riforme furono di breve durata. I moti del 1837 portarono a un nuovo accentramento e alla soppressione del ministero. 5.8 Restaurazione o restaurazioni? La pluralità delle esperienze vissute dai territori italiani dopo il Congresso di Vienna dimostra quanto sia riduttivo parlare semplicemente di restaurazione, quando invece sarebbe più corretto riferirsi a restaurazioni per evidenziare la molteplicità delle situazioni. Questo non significa che non ci siano stati elementi comuni che hanno creato un substrato omogeneo, dove si vede una rielaborazione del modello francese. Emblematico è il processo di codificazione: la conquista italiana da parte di Napoleone e l'affidamento dei territori a membri del suo entourage portò all'introduzione di pratiche amministrative e organizzazioni territoriali basate sul modello francese. Nonostante le varie interpretazioni del termine *restaurazione* nei diversi ordinamenti, ci sono elementi comuni: il primato dell'amministrazione, l'ordine pubblico, la censura e il mantenimento dello strumento codicistico. Da nord a sud, l'architettura amministrativa napoleonica fu mantenuta o riemersa laddove si era tentato di cancellarla. L'uniformità si riscontra anche nell'amministrazione della giustizia, con l'abolizione dei tribunali speciali, la creazione di una Corte di Cassazione e la distinzione tra funzioni amministrative e giudiziarie. Diversa era la situazione nei territori sotto la monarchia asburgica: il codice civile generale austriaco differiva dal code civil soprattutto in materia di diritto familiare. Il sistema centro-periferia si caratterizzava per un sistema consultivo e per l'autonomia dei comuni, mentre mancava una Corte di Cassazione e venivano fatte scelte diverse nel campo della giustizia amministrativa. L'Italia della restaurazione era un insieme di Stati a diritto codificato, ma senza costituzione. Per quanto riguarda la sociabilità, nuove forme di associazionismo borghese nacquero in risposta alla mancanza di spazi di discussione politica. Non solo accademie e università, ma anche teatri, circoli, caffè e salotti divennero spazi di incontro. I moti del 1820 portarono alla chiusura dell'università di Torino, mentre nel Regno delle Due Sicilie furono emanate norme che vietavano associazioni ritenute illecite. 27 Capitolo VI Dal liberalismo alla democrazia 1 I presupposti del liberalismo occidentale: costituzione e cittadinanza sovrana La rivoluzione del 1848 aveva come elemento centrale la rivendicazione di una Costituzione. Nei territori italiani, tedeschi e austriaci, i cittadini chiesero la concessione di una costituzione, che inizialmente fu concessa dai sovrani, ma successivamente revocata. Dove già esistevano costituzioni, gli insorti pretesero un ampliamento della rappresentatività sociale. Questo movimento sancì il principio della sovranità popolare, con il diritto di eleggere rappresentanti in Parlamento. Tuttavia, il diritto di voto era spesso legato a criteri censitari, fatta eccezione per la Francia, che adottò il suffragio universale maschile. Entro il 1849, le costituzioni furono quasi ovunque revocate e si assistette al ritorno di governi autoritari. In Francia, pur mantenendo il suffragio universale, la trasformazione della Repubblica in Impero ridusse drasticamente i poteri del Parlamento, concentrando il potere nelle mani del capo di Stato. Gli anni '50 dell’Ottocento videro un'Europa in parte autoritaria, ma dagli anni '60 vi fu una tendenza alla liberalizzazione delle istituzioni politiche, ad eccezione della Russia. Negli ultimi 40 anni del XIX secolo, l'Europa, insieme all'America, diventò una delle poche regioni con ordinamenti liberali, un fenomeno esclusivo dell'Occidente. Tuttavia, l'imperialismo a cavallo tra Ottocento e Prima Guerra Mondiale portò l'Eu