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CORSO DI FORMAZIONE- AREA ECONOMICA-AZIENDALE (FORM 25) Insegnamento STORIA ECONOMICA 9 CFU A cura di MARIA TERESA D’AGOSTINO PRESENTAZIONE DEL CORSO La storia economica è il racconto di fatti econ...

CORSO DI FORMAZIONE- AREA ECONOMICA-AZIENDALE (FORM 25) Insegnamento STORIA ECONOMICA 9 CFU A cura di MARIA TERESA D’AGOSTINO PRESENTAZIONE DEL CORSO La storia economica è il racconto di fatti economici. È la storia della domanda e dell’offerta di beni e servizi e della politica economica attuata dai governanti al fine di regolare il comportamento dei produttori. Il corso di Storia Economica è pensato per offrire agli studenti una comprensione approfondita dei principali processi economici che hanno modellato il mondo moderno. Attraverso un'analisi storica dettagliata, il corso esplora l'evoluzione delle strutture economiche globali, ponendo particolare attenzione alle dinamiche che hanno caratterizzato i secoli più recenti. Lo studio dei grandi eventi economici, come le rivoluzioni industriali, le crisi finanziarie e le trasformazioni dei mercati internazionali, sarà fondamentale per comprendere le radici delle economie contemporanee. Capacità di applicare conoscenza e comprensione: Lo studente, attraverso lo studio dei cambiamenti nei contesti socio-economici internazionali, svilupperà la capacità di analizzare i fenomeni socio-economici in termini di cause ed effetti, acquisendo una visione globale delle problematiche dello sviluppo e delle loro complesse interdipendenze. Questo approccio permetterà allo studente di valutare in modo più consapevole e ponderato le dinamiche attuali, collegando gli eventi alle politiche economiche dei vari contesti. PRIMA PARTE LA SOCIETÀ PREINDUSTRIALE E LA POLITICA MERCANTILISTICA Lezione 1 La società preindustriale e le rivoluzioni industriali Lezione 2 Le caratteristiche del secolo dei Lumi Lezione 3 L’economia degli Stati europei Lezione 1 La società preindustriale e le rivoluzioni industriali Dalla seconda metà del ‘700 allo scoppio della prima guerra mondiale in Europa, negli Stati Uniti d’America e in Giappone, si sono verificati mutamenti economici e sociali di tale portata da essere definiti rivoluzione industriale. Tale rivoluzione si riferisce ai mutamenti che si ebbero nell’arco di alcuni decenni, da 40 a 70 anni, nella vita economica e sociale di uno o più stati. Essa riguarda le innovazioni nella popolazione in agricoltura, nelle industrie, nelle vie e mezzi di comunicazione, nel commercio interno internazionale e nel sistema monetario e bancario. Non è facile stabilire con precisione la data di avvio della rivoluzione industriale in un paese, ossia il momento del decollo, dello sviluppo, perché non tutti i suoi aspetti si manifestarono contemporaneamente e perché diversa fu l’intensità di ogni mutamento. In generale, si può parlare di rivoluzione solo quando le innovazioni tecniche della produzione dell’organizzazione delle aziende coinvolsero più settori dell’economia. Dal ‘300 al ‘700 secolo la popolazione europea subì diversi cambiamenti: diminuì nel ‘300 e nel ‘400, crebbe rapidamente nel ‘500, la crescita rallentò nel secolo successivo e nella prima metà del ‘700; rapido fu l’incremento dalla seconda metà del ‘700 in poi. Prima del ‘700 vi era un’elevata natalità ed un’altrettanta elevata mortalità, causata dalle frequenti epidemie guerre e carestie. La popolazione era divisa in due parti: i ricchi prevalentemente aristocratici che erano poco numerosi e i poveri in larga parte contadini costituivano la maggioranza. I trasferimenti della ricchezza si effettuavano prevalentemente con i tributi, il gioco, le eredità e le donazioni. Nelle società preindustriali poiché vi è una forte concentrazione della ricchezza nelle mani di poche persone, il risparmio si formava facilmente e veniva sottratto ai guadagni delle categorie povere, si trattava di risparmio accumulato sotto forma di moneta metallica e tesoreggiato, con effetti negativi per gli scambi commerciali. Nella società preindustriale la popolazione ricavava il necessario per il suo sostentamento dall’agricoltura, dall’allevamento del bestiame e dalla pesca. In Europa, con il declino dell’impero romano, si affermò il Feudalesimo, che consisteva nell’organizzazione amministrativa giudiziaria e economica data dalla nobiltà alle comunità di villaggio delle campagne. I feudatari costituivano la classe dominante e i contadini coltivavano la terra per conto dei feudatari. In cambio di tali lavori, al contadino era consentito coltivare una parte della terra per ricavare il necessario sostentamento della propria famiglia. L’iniqua distribuzione della ricchezza consentiva la formazione di un limitato mercato di prodotti destinati ai ricchi e al clero. In tal modo, si aveva il trasferimento di capitali dalle campagne alle città. La presenza delle corporazioni, fino al ‘700, fu molto importante per il governo locale e per il regolare svolgimento dell’economia cittadina, in quanto svolgevano una funzione politica, nominando propri rappresentanti per l’amministrazione della città. Le corporazioni svolgevano le seguenti funzioni: ✓ Una funzione economica, perché regolavano e riducevano la concorrenza tra i propri membri stabilendo i prezzi, la quantità e la qualità della produzione; ✓ Fissavano i salari da pagare ai dipendenti; ✓ Assicuravano agli artigiani la fornitura delle materie prime necessarie alla loro attività; ✓ Svolgevano una funzione sociale imponendo il tirocinio agli apprendisti; ✓ Mantenevano l’ordine pubblico per mezzo di veri e proprie milizie composte da soldati professionisti. Nella società industriale, si ebbe il passaggio dalla manifattura domestica all’industria capitalistica e dal lavoro umano al lavoro delle macchine rapide e precise. Oltre all’energia animale, venne sfrutta l’energia inanimata, si trasformò il calore in lavoro. La novità di maggior rilievo che si ebbe nel settore industriale fu l’impiego delle macchine utensili, ossia di macchine per produrre altre macchine. Ciò consentì la diffusione, soprattutto negli Stati Uniti, della produzione di massa e della realizzazione di prodotti standardizzati a basso costo. Il filo conduttore del progresso realizzato in Europa dal ‘200 all’800 o il passaggio dall’epoca preindustriale a quella dell’industrializzazione, in linea con il pensiero di Fernand Braudel, è stata l’economia di mercato. La libertà delle iniziative economiche ha consentito la crescita della produzione e degli scambi di merci. È importante precisare, che la rivoluzione industriale non fu attuata contemporaneamente in tutti i paesi europei, negli Stati Uniti e in Giappone, né ebbe la stessa intensità. Essa iniziò in Inghilterra, nel sessantennio 1770 - 1830; interessò la Francia, il Belgio, la Germania e gli Stati Uniti nel quarantennio 1830 – 1870; coinvolse l’Italia, la Svezia, la Russia e il Giappone nel periodo 1890 – 1914. Circa l’intensità con cui i mutamenti economici si verificarono, bisogna dividere il periodo indicato in tre parti: 1770 - 1870 conosciuto come l’epoca della prima rivoluzione industriale, durante la quale in alcuni paesi si ebbe il decollo dello sviluppo economico; 1871 - 1914 considerato il periodo della seconda rivoluzione industriale, in quanto si passa dalla fase del decollo allo sviluppo sostenuto e al consumo di massa; negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si parla di terza rivoluzione industriale, in quanto si ha un’accelerazione dell’innovazione e dei consumi. Lezione 2 Le caratteristiche del secolo dei Lumi Tenuto conto che l’uomo è uno dei fattori della produzione ed è consumatore, occorre studiare il numero delle persone che vivono in un continente, in uno stato, in una regione, in una città, per meglio studiare l’evoluzione dell’economia. La demografia storica, che ha per oggetto lo studio della popolazione non riesce sempre a fornire dati precisi per mancanza o difetto delle fonti. In Europa e nell’America del Nord a tali deficienze si sopperì con i censimenti nazionali. Tra gli aspetti più significativi dei mutamenti demografici che si ebbero in Europa, nel ‘700, rileviamo lo spostamento della popolazione dalle campagne verso la città. La crescita demografica aveva creato un sovrappopolamento nelle campagne, mentre nelle città vi era una maggiore richiesta di lavoro, poiché la nuova borghesia, costituita da imprenditori piccoli e grandi stava dando un nuovo impulso alle attività secondarie e terziarie. La città divenne un forte richiamo per i contadini, per i piccoli proprietari e per gli artigiani. Con la crescita della popolazione, nel ‘700, si ebbe anche il trasferimento di un gran numero di europei nel nuovo continente e da una nazione all’altra dell’Europa, sia per ragioni economiche, che per ragioni politiche e religiose. A sostenere il movimento degli europei verso l’America furono i governanti francesi, spagnoli e portoghesi, che spesso affidarono alle compagnie commerciali il compito di popolare le colonie. Al di fuori dell’Europa il più consistente movimento di popolazione si ebbe con la tratta degli schiavi. In tre secoli e mezzo, oltre sei milioni di negri furono trasferiti dall’Africa nel nuovo continente e in particolare nelle Antille. Nei tre secoli compresi tra il ‘500 e il ‘700, la politica economica dei governanti europei fu ispirata al mercantilismo, una dottrina che trovava le sue radici nel rafforzamento degli Stati nazionali e nella crescita delle loro ricchezze. Le caratteristiche principali di tale dottrina furono tre: ✓ nazionalistica e statalistica, poiché prevedeva l’intervento dello Stato per promuovere lo sviluppo economico; ✓ monetaristica e metallica, poiché riteneva che la ricchezza di una nazione dipendesse dalla quantità di metallo prezioso immesso in uno stato; ✓ protezionistica, poiché sosteneva che per accumulare la maggiore quantità di oro o argento in una nazione bisognasse importare questi metalli dalle colonie oppure sviluppare le industrie e le esportazioni e porre ostacoli alle importazioni per evitare la fuoriuscita di oro e argento dal paese. Sia in Inghilterra, che in Francia la teoria mercantilistica fu oggetto di dure critiche da parte di molti studiosi che fanno capo ai fisiocratici o ai liberisti. I primi ritenevano che la ricchezza di una nazione non è data dalla quantità di metalli che essa possiede, come sostenevano i mercantilisti, ma dalla terra; i secondi sostenevano che la ricchezza è data dal lavoro degli abitanti di una nazione. Le maggiori critiche al mercantilismo partirono da Adam Smith (1723-1790) con la sua famosa opera, Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, pubblicate nel 1776 giunse a conclusioni che superarono la dottrina fisiocratica. La sua teoria, basata sono rigoroso metodo scientifico ispiratrice della maggior parte degli autori liberali, ha giustificato lo sviluppo e il successo del capitalismo. Egli sostiene che la ricchezza di una nazione non è costituita dai metalli preziosi e tanto meno dall’agricoltura, ma da beni e servizi che si producono con il lavoro e con il commercio. Per aumentare la produttività del lavoro, quindi, la disponibilità dei beni, bisogna attuare la divisione del lavoro, sia all’interno della fabbrica sia tra i produttori. Ossia, occorre un’accentuata specializzazione degli operai e delle aziende di produzione. Lezione 3 L’economia degli Stati europei Mercantilismo in Inghilterra Il mercantilismo inglese fu imperniato sulla crescita della produzione agricola e industriale e sullo sviluppo del commercio. I metalli preziosi dovevano essenzialmente servire negli scambi internazionali. Oltre all’atto di navigazione, altri fattori contribuirono ad accrescere il commercio e la produzione degli inglesi nel XVIII secolo: la crescita della popolazione, le nuove conquiste coloniali, lo sviluppo bancario e la concentrazione a Londra della maggior parte delle attività commerciali e finanziarie britannica. La popolazione inglese quasi raddoppiò e tale incremento insieme al rapido processo di industrializzazione e allo sviluppo del commercio determinarono nel paese, più che in altri Stati europei, la concentrazione della popolazione nelle città. Le nuove conquiste coloniali effettuate dagli inglesi nel ‘700 diedero notevole slancio al commercio estero. Le operazioni monetarie bancarie venivano effettuate dalla banca d’Inghilterra e dai Bill brockers, che erano intermediari in titoli: raccoglievano cambiali dalle banche che operavano nelle zone industriali e le inviavano, per lo sconto, alle banche delle province che avevano fondi inutilizzati. All’inizio del ‘700 la città di Londra aveva acquisito una posizione di dominio nell’economia inglese e sostituì Amsterdam come centro mondiale degli scambi commerciali e finanziari. A Londra si raccoglievano i prodotti dell’industria tessile, delle regioni del centro e dell’est della nazione, per essere esportati all’estero. La borsa di Londra divenne il centro di negoziazione di divise e titoli inglesi e di altri paesi. Questa intensa attività consentì la formazione di una nuova classe dominante, che fu definita aristocrazia borghese. L’economia francese Il mercantilismo attuato dai governanti francesi fu più simile al mercantilismo inglese. I francesi sostenevano che la ricchezza di una nazione dipendeva principalmente dalla produzione di beni e servizi. Particolarmente significativa fu l’opera di Enrico IV e dei suoi collaboratori (il duca di Sully e Bartolomeo di Laffemas), che prima posero riparo agli sconvolgimenti prodotti dalle guerre e poi diedero un vigoroso impulso allo sviluppo dell’agricoltura delle industrie e del commercio internazionale. Il Sully si adoperò per far bonificare le terre e per favorire la commercializzazione dei prodotti agricoli. Laffemas sostenne l’attuazione di un’energia politica protezionistica, per avere una bilancia commerciale in attivo e trattenere i metalli preziosi nello stato, ma rilevò che l’eccedenza delle esportazioni sulle importazioni della nazione dipendeva dalla produzione. Il grande sostenitore del mercantilismo fu l'intelligente e attivissimo Jean Baptiste Colbert (1619-1683), Ministro delle finanze di Luigi XIV. Egli mise ordine nell’amministrazione delle finanze, ripartendo il carico tributario in modo più equo ed accrescendo le entrate dello Stato. Promosse lo sviluppo delle industrie, vietò la l’emigrazione all’estero agli operai francesi e promosse la creazione di corporazioni, stabilendo norme precise di lavorazione, al fine di garantire la buona qualità dei prodotti. Colbert aveva posto le basi per lo sviluppo dell’economia francese, ma tale sviluppo fu frenato nel XVIII secolo a causa delle guerre di Luigi XIV, dal lento aumento della popolazione, dal frazionamento della proprietà Fondiaria, dalle corporazioni, dal tipo di produzione industriale costituita prevalentemente dei beni di lusso, dalla perdita di alcune colonie, dalla svalutazione della moneta, dal dissesto delle pubbliche finanze e dal mancato sviluppo del sistema bancario. Mercantilismo in Germania Il mercantilismo negli Stati tedeschi fu molto simile a quello attuato dalla Francia, fu predicato da studiosi detti cameralisti e fu attuato da quasi tutti i governanti. Nel ‘700 l’impero germanico, nelle mani degli Asburgo era diventato un impero senza poteri. La Germania che comprendeva la parte più ampia del territorio era divisa in 314 stati ed oltre 1400 feudi. I governanti di questi numerosi territori cercarono di costituire sull’esempio inglese o francese altrettanti stati assoluti, stabilendo una certa uguaglianza tributaria e seguendo una politica mercantilistica. Per iniziativa dei governanti si crearono alcune industrie e si favorirono gli scambi commerciali. Si formò così una ricca borghesia. L’economia della Germania si basava prevalentemente sull’agricoltura, che era sottoposta per la maggior parte al regime feudale ed era scarsamente produttiva. Circa la distribuzione della proprietà, il territorio si può dividere in tre parti le terre ad Occidente del meridiano di Düsseldorf, quelle tra Dusseford e l’Elba e quelle ad Oriente dell’Elba. Nella prima parte, che risentiva delle caratteristiche della proprietà della vicina Francia, le terre erano divise in piccoli appezzamenti coltivati direttamente dai proprietari. La popolazione era sparsa nelle campagne e vi erano pochi grossi villaggi con le case raccolte intorno al campanile. Nella seconda parte prevalevano i campi aperti, ossia le coltivazioni comunitarie con servitù collettive, costituite da diritti di transito di pascolo, di legnatico ecc. La popolazione viveva prevalentemente nei villaggi. Le terre intorno ai villaggi possono dividersi in tre cerchi: nel primo si praticavano culture intensive di ortaggi e la proprietà era divisa tra i piccoli coltivatori diretti e i signori che la davano in fitto; nel secondo vi erano le terre comuni coltivate secondo la rotazione dei tre campi stabilita dai governanti. Nel terzo vi erano le terre incolte. La terza parte era la grande proprietà che apparteneva ai grossi contadini, detti junkers. Questi avevano spesso titoli nobiliari, si interessavano del lavoro agricolo svolto dai servi e sulle proprie terre esercitavano poteri militari e amministrativi. Lo Junker, però, non va confuso con il grande feudatario francese che spesso affittava le sue terre e collaborava alla coltivazione. L’aumento della popolazione fu uno stimolo per accrescere la produzione. Non vi furono grandi miglioramenti della produttività della terra, ma il lavoro fu intensificato e furono messi a coltura le terre meno fertili. Il settore industriale era legato alle corporazioni che decidevano la quantità e la qualità della produzione, i prezzi e i mercati di vendita, con intralcio per l’introduzione di innovazione tecniche e crescita della produzione. Ciò nonostante, si ebbe un aumento della produzione per l’accresciuta domanda accompagnata da una maggiore offerta di lavoro e prese piede la prima forma di Capitalismo industriale, costituita da un mercante imprenditore. Ma, di vera e propria fabbrica o manifattura si potrà parlare solo nella prima metà dell’Ottocento quando iniziarono ad abbattersi le barriere doganali che dividevano il mercato tedesco. Mercantilismo in Russia All’inizio del ‘700 in Russia vi era una società quasi medievale. Solo il 3 % della popolazione viveva nelle città. la maggioranza della popolazione era costituita da contadini, solo il 7 % erano nobili e il 3 % operai o artigiani. Le condizioni sociali erano simili a quelle dei paesi dell’Europa occidentale nell’età dei comuni. La popolazione rurale dei villaggi coltivava per proprio conto un pezzo di terra e godeva sulle terre comuni dei diritti di pascoli o di legnatico. Il commercio estero era molto ridotto per la scarsa produzione interna e perché la Russia era divisa dall’Europa da un’interrotta barriera di stati militarmente protetti, come Svezia, Polonia e Turchia. Questa situazione subì qualche cambiamento nel corso del XVIII secolo per merito di Pietro il Grande (1672-1725) e Caterina II (1729-1796) che tentarono di avvicinare la Russia alla civiltà degli Stati dell’Europa occidentale. Basandosi su un’organizzazione di tipo feudale, Pietro il Grande riuscì ad instaurare un forte governo centralizzato, creò un esercito moderno e permanente, istituì un’imposta per persona sul tipo del testatico francese. Seguendo l’esempio di Luigi XIV, adottò il mercantilismo concedendo privilegi e sovvenzioni ad imprenditori privati e creando industrie di Stato. Per i bisogni bellici, sostenne l’industria metallurgica e ben presto, però, si accorse che la burocrazia non era capace di dirigere imprese industriali e fu costretto a cedere molte aziende ai privati. La politica mercantilistica fu portata avanti da Caterina II, che ospitò in Russia i maggiori artisti e letterati europei. I nobili ricevettero ulteriori privilegi a danno dei contadini, come l’esenzione dal servizio militare, sgravi fiscali, possibilità di vendere all’interno e all’estero i prodotti agricoli. Anche Caterina II sostenne lo sviluppo industriale, concedendo Monopoli e favorì l’economia monetaria, consentendo la vendita all’estero dei prodotti delle terre e facendo pagare censi in denaro. Rapidi progressi furono compiuti negli scambi commerciali con l’estero, che negli ultimi trent’anni del secolo furono più che triplicati. Le esportazioni costituite, prevalentemente, da materie prime superavano ampiamente le importazioni, costituite quasi esclusivamente da manufatti. Tuttavia, nonostante i progressi compiuti il commercio estero della Russia alla fine del ‘700 era ancora molto limitato rispetto alla capacità produttiva del paese. SECONDA PARTE IL SECOLO DELL’INDUSTRIALIZZAZIONE Lezione 1 I mutamenti nella popolazione, nel pensiero economico e nelle tecniche produttive Lezione 2 La rapida crescita dell’economia inglese Lezione 3 Il lento sviluppo dell’economia francese Lezione 4 L’unificazione della Germania e la rapida crescita della sua economia Lezione 5 La rivoluzione industriale in Italia Lezione 6 L’economia della Russia, della Cina e del Giappone Lezione 7 Il nuovo continente nell’ottocento Lezione 1 I mutamenti nella popolazione, nel pensiero economico e nelle tecniche produttive La rivoluzione demografica La crescita della popolazione, iniziata nella seconda metà del ‘700 ebbe tale accelerazione nell’Ottocento che si parla di vera e propria rivoluzione demografica. Dall’inizio dell’Ottocento al 1910, la popolazione mondiale raddoppiò, passando da 900 a circa 1800 milioni di persone. La crescita maggiore si ebbe negli Stati dell’America del Nord e del centro, dove quasi duplicò e altrettanto elevato fu l’aumento nell’America del Sud. Le ragioni della crescita, in generale, furono dovute al passaggio da un regime di alta natività ed altrettanta elevata mortalità dell’epoca preindustriale, ad un regime di media natalità e bassa mortalità. La crescita della popolazione europea ebbe un diverso ritmo nella prima metà del secolo rispetto alla seconda metà e ai primi 13 anni del ‘900. Fu, soprattutto, in Gran Bretagna e in Germania che si manifestarono le caratteristiche della rivoluzione demografica. Nel primo paese la mortalità scese della media annua del 23 per mille a 14 per mille, nel decennio che precedette la guerra mondiale. Diminuirono, maggiormente, le morti per tifo, vaiolo, pertosse e Tubercolosi. In Germania la mortalità passò dal 26 per mille al 17 per mille nel decennio 1906 - 1915. La diminuzione della mortalità in Europa fu dovuta al miglioramento dell’alimentazione, dell’igiene assieme ai progressi della medicina. Aumentarono i guadagni delle famiglie degli operai agricole e delle industrie, l’alimentazione fu arricchita da maggiori proteine, si ebbe la possibilità di ricorrere più spesso alle cure mediche, si fece maggiore uso di sapone, di tessuti di cotone più facilmente lavabili rispetto a quelli di lana. Nell’ottocento, in campo medico, furono compiuti buoni progressi scientifici, come quello del biologo francese Louis Pasteur, che scoprì sieri e vaccini per combattere diverse malattie infettive. La caratteristica di maggior rilievo della rivoluzione demografica nel XIX secolo e nel primo decennio del XX secolo fu il movimento della popolazione, che assunse due aspetti: spostamento da una nazione ad un’altra, ovvero emigrazione, e trasferimento dalla campagna nelle città, ovvero urbanizzazione. Agli spostamenti della popolazione furono interessati quasi tutte le nazioni del mondo. Si partì principalmente dall’Europa e dall’Asia per emigrare in America, in Australia e Nuova Zelanda. Oltre all’espatrio dall’Europa verso altri continenti, si ebbe anche un consistente spostamento della popolazione tra gli Stati europei. La Francia fu interessata ad un movimento di immigrazione e di emigrazione. L’immigrazione europea verso altri continenti fu maggiore di quella interna e riguardò prevalentemente la seconda metà del XIX secolo e il primo decennio del XX secolo. Partivano, soprattutto artigiani, lavoratori a domicilio e contadini danneggiati dalla crescita della grande industria. Il fiume degli espatri dall’Europa cominciò con la crisi economica e politica del 1845-48, dovuta alla speculazione sul commercio dei cereali e alla caduta della quotazione dei titoli delle società ferroviarie, si gonfiò con l’abolizione della servitù della gleba nell’Europa centrale e il richiamo delle miniere d’oro, scoperte in California e in Australia. Dopo il 1880, per la crisi dell’agricoltura europea causata dalla concorrenza dei cereali importati dagli Stati Uniti a basso costo, il movimento si ingrossò sempre più fino a raggiungere circa 800.000 partenze all’anno. Le cause del movimento furono demografiche ed economiche: la forte crescita della popolazione in Europa e l’esistenza di vaste aree ancora disabitate in America, in Australia e in Africa, la crisi dell’agricoltura europea e la conseguente disoccupazione dei contadini, lo sviluppo industriale e la coltivazione di nuove terre negli Stati Uniti e nel Canada. La politica dei governi europei e quella dei paesi di immigrazione furono favorevoli al movimento. Le conseguenze del movimento riguardarono l’Europa e i paesi d’immigrazione in Europa. In Europa gli effetti furono positivi e negativi. Quelli positivi furono il miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie rimaste in patria e l’aumento dei salari per la minore offerta di lavoro. Il miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie degli emigrati ebbe effetti demografici poiché aumentarono i matrimoni, migliorò l’alimentazione e diminuirono le malattie e la mortalità. Anche le conseguenze negative furono principalmente demografiche: rallentamento della natalità e, quindi, della crescita della popolazione, spopolamento di molti comuni rurali dei paesi del Mediterraneo, invecchiamento, poiché, partivano le persone nel pieno delle capacità lavorative. La conseguenza, di maggior rilievo, per i paesi d’immigrazione fu la diffusione della civiltà europea in altri continenti. Il grosso vantaggio, che i paesi del nuovo mondo ricevettero dal movimento, fu l’arrivo di forze lavorative ai giovani, per le quali non avevano sostenuto nessun costo per la nascita e la crescita. In più, si trattava di persone ricche di buone qualità, capaci di adattarsi ai climi e condizioni di vita diversi, intraprendenti, desiderosi di lavorare e migliorare le condizioni di vita. In Italia la sensibile crescita della popolazione non fu adeguata alle risorse produttive dei posti di lavoro disponibili. Pertanto, gli italiani partirono per trovare lavoro prima per i paesi europei e poi per quelli dell’oltreoceano. Il movimento cominciò ad avere consistenze economiche e sociali solo dopo l’unità nazionale. Diversa fu la distribuzione regionale del movimento: fino al 1900 prevalse l’emigrazione delle regioni settentrionali, nei primi 15 anni del ‘900 ebbe maggiore consistenza in movimento dalle regioni meridionali. I movimenti dell’espatrio erano diversi a seconda delle regioni di partenza. Si emigrava dal nord per sfuggire ad una temporanea crisi dell’occupazione o per guadagnare all’estero più di quanto si realizzava in patria. Si partiva dal meridione per sfuggire alla disoccupazione e alla miseria in cui vivevano gli operai agricoli. La crescita della popolazione delle città, iniziata nel ‘700, si accelererò nell’800. La crescita demografica delle città fu dovuta all’eccedenza delle nascite sulle morti, ma principalmente al travaso in esse della popolazione che viveva nelle campagne. La ragione di tale spostamento fu l’insorgere nelle città della grande industria, che richiedeva la concentrazione di un elevato numero di operai. L’urbanizzazione comportò la crescita geografica della città che avvenne in tre modi: ✓ Con l’occupazione delle terre circostanti, ossia attraverso la dilatazione di cerchi concentrici sempre più ampi che incorporavano i borghi periferici, come si verificò per Mosca e Parigi; ✓ Con la costruzione di grattacieli, caratteristica di tale crescita si ebbe a New York, poi imitata da altre città; ✓ Con la formazione di costellazioni, per cui non si ebbe la graduale espansione dell’originario centro abitato, ma crebbero più centri vicini, ognuno separatamente. Il movimento delle idee: gli economisti classici e socialisti Contemporaneamente allo svolgersi della prima e della seconda rivoluzione industriale, nell’ottocento, si ebbe l’evoluzione del pensiero economico. Alcuni studiosi esaminarono gli aspetti positivi del capitalismo e sono noti come economisti classici, altri come socialisti. Gli economisti classici o liberisti basavano le loro idee sull’equilibrio economico di Adam Smith e derivante dal rapporto tra offerta, domanda e competizione del mercato. Essi sostennero la libertà di azione degli imprenditori a livello nazionale e internazionale, ossia piena libertà di movimento delle merci e dei capitali. i maggiori esponenti dell’economia classica furono Thomas R. Malthus (1766 – 1834), David Ricardo (1772 – 1823) e John Stuart Mill (1806 - 1873). Malthus fu un pastore protestante, che divenne famoso per aver scritto un Saggio sul principio della popolazione, nel quale constatò che la popolazione cresceva più rapidamente dei mezzi di sussistenza. Disse che la popolazione cresceva secondo una progressione geometrica (1,2,4,8,16, 32,) e i mezzi di sussistenza secondo una progressione aritmetica (1,2,3,4,5,6….). Fatta questa constatazione, aggiunse che gli uomini avrebbero dovuto volontariamente ritardare il tempo del matrimonio e della procreazione per contenere il numero dei nati o altrimenti si sarebbe verificata una riduzione demografica, imposta dalla miseria alla fame. Le previsioni di Malthus, in realtà si rivelarono infondate, perché la popolazione crebbe meno di quanto pensava e la produzione aumentò molto di più. David Ricardo, un agente di cambio londinese, scrisse i Principi dell’economia politica e delle imposte. Egli sosteneva l’espansione economica che aveva come scopo l’accumulazione del capitale. Il suo schema teorico prevedeva: la libertà economica come fonte di altri profitti, i profitti costituivano la fonte di nuovi investimenti, gli investimenti procacciatori di nuovi profitti. Le sue teorie più note sono tre: ✓ Della rendita ✓ Del salario ✓ Dei costi comparati Anche Ricardo era pessimista, infatti, la teoria della rendita si basava non sulla generosità della natura come sosteneva Smith, ma sulla sua avarizia, poiché la terra a disposizione degli uomini era scarsa e la sua produzione non era sufficiente ad alimentare la produzione. Con la crescita demografica era necessario mettere a coltura terre meno fertili e sostenere maggiori costi di produzione. Poiché il prezzo di vendita si adegua al maggior costo del prodotto, il proprietario delle terre più fertili avrà un’utile più elevato rispetto a colui che possiede le terre meno fertili. Pertanto, la rendita Ricardiana è costituita dalla differenza tra il guadagno ricavato dalle terre più fertili e quello delle terre meno fertili. Tale rendita, si realizza in tutte le produzioni a costi crescenti: coltivazioni di terre, costruzione di fabbricati, ecc. La teoria del salario sostiene che aumentando la popolazione aumenta l’offerta di lavoro, di ciò ne approfittano gli imprenditori per ridurre i salari agli operai. Tale riduzione, però, può arrivare fino al limite di sussistenza, limite oltre il quale al lavoratore non conviene più prestare la sua opera. Pertanto, la teoria si enuncia dicendo che il salario tende a raggiungere il minimo di sussistenza dell’operaio. Il valore dei salari può crescere in conseguenza dell’aumento dei prezzi, ma il valore reale rimane basso. Con la teoria dei costi comparati, Ricardo sostiene che la convenienza ha la specializzazione e alla divisione del lavoro su scala internazionale. La teoria viene così spiegata: se un paese produce due beni a costi superiori, per tutti e due i beni, a quelli sostenuti da un altro paese, conviene ai due paesi specializzarsi nella produzione di un solo bene, precisamente di quel bene che riesce a produrre a costi inferiori rispetto ai costi dell’altro paese. Molto vicino alle idee di Ricardo era Stuart Mill, che nel 1848 pubblicò i Principi di economia politica. Sostenne l’esistenza, nei costi di produzione, di un determinato fondo salari che non può essere variato. L’operaio potrà avere un aumento del salario solo limitando le nascite. In un primo tempo, Mill fu estremo sostenitore della libera concorrenza e del libero gioco delle leggi naturali, successivamente sotto l’influenza di Saint Simon e di Augusto Comte, ammise un certo intervento dello Stato dell’economia. La dottrina liberale fu criticata dai seguaci della scuola storica, da Owen, dai socialisti francesi e da Karl Marx. Essi si opponevano alla scuola classica, perché vedevano l’economia in continua evoluzione, respingevano l’ipotesi che l’economia fosse soggetta alle leggi naturali, ritenevano necessario l’intervento dello Stato nell’economia e, soprattutto, nella vita sociale, per migliorare le condizioni materiali e morali degli operai, in modo da ridurre le cause del conflitto fra le classi sociali. In Italia, i rappresentanti del c.d. socialismo della cattedra furono Fedele Lampertico e Luigi Luzzatti. In Inghilterra, il maggiore critico della scuola classica fu Robert Owen, sostenitore di un socialismo umanitario e idealistico che fu bollato da Marx col termine spregiativo di socialismo utopistico. Sensibile a tanta miseria, Owen nelle sue aziende migliorò l’igiene, ridusse l’orario di lavoro a 10 ore e vietò ai bambini con meno di 10 anni di lavorare, creando delle comunità a modello. Ma, tali iniziative, però, fallirono perché i suoi esempi non furono seguiti da altri imprenditori. Il gruppo più folto di socialisti utopisti si ebbe in Francia. Il loro obiettivo fu sempre quello di suggerire il modo per migliorare le condizioni degli operai. In generale, mentre i liberisti misero in primo piano gli interessi dei singoli individui, i socialisti diedero importanza agli interessi di tutte le classi sociali di una nazione, si opposero alla distribuzione ineguale della ricchezza tra le classi sociali. Il massimo esponente del socialismo critico fu Karl Marx. Nacque in Germania, dove in età giovanile esplicò l’attività di giornalista radicale per cui fu espulso e visse a Londra a Parigi e a Bruxelles. Marx fu legato da costanti amicizia a Federico Engels, col quale scrisse diversi libri e militò nel partito comunista. Questo partito e il pensiero di Marx si distinguevano dal socialismo degli idealisti, perché prevedevano che fossero gli stessi operai ad emanciparsi dallo stato di servitù. Le opere più importanti di Mark sono: La miseria della filosofia (1847), Il Manifesto del partito comunista (1848) e il Capitale (1867). Il suo pensiero può essere sintetizzato in tre punti: ✓ Il materialismo storico e la lotta di classe ✓ La teoria del valore lavoro e del plusvalore ✓ La concentrazione della ricchezza e la miseria crescente. Con il materialismo storico, Marx ed Engels sostennero che i fatti economici avevano un’importanza prevalente nello svolgimento della storia. Con questa affermazione essi non vollero asserire che il movente delle azioni umane è sempre l’interesse economico, ma che gli uomini, vivendo per la produzione, creano l’ambiente che condiziona lo sviluppo economico. La conseguenza del materialismo storico è la lotta di classe, cioè la lotta tra la classe dominante, che possiede i mezzi di produzione e la classe dominata che possiede il lavoro. La teoria del valore - lavoro si riallaccia alla teoria di Adam Smith, per cui il valore di un bene è dato dal lavoro che in esso è stato accumulato, ovvero che è stato necessario per produrlo. Tale teoria deriva dalla teoria del salario di Ricardo, in base alla quale l’offerta di lavoro era superiore alla domanda, il salario tendeva al minimo di sussistenza dell’operaio. Partendo da questa teoria, Mark conclude che l’imprenditore non paga tutto il lavoro che svolge l’operaio, ma solo una parte: delle 10 ore di lavoro effettuate da un operaio, sei vengono pagate e quattro rimangono all’imprenditore. Queste ore non pagate costituiscono ciò che egli chiama plusvalore. In effetti, questa teoria è stata smentita dalla storia successiva, poiché grazie all’opera dei sindacati non si è avuto l’impoverimento degli operai, anzi sarà dimostrato da Keynes che converrà aumentare il benessere degli operai per aumentare la produzione e i guadagni degli imprenditori. Tra i tanti seguaci di Marx bisogna ricordare Nicolaj Lenin (1870 – 1924), che attuò il comunismo in Russia. Egli diede un ulteriore contributo al pensiero di Marx, sostenendo che nella società capitalistica, dopo aver raggiunto la decomposizione per mezzo della rivoluzione, il proprietario conquisterà il potere economico e quello politico, imporrà una propria dittatura che gli permetterà di dominare la natura e realizzare una giusta ripartizione di beni. Le nuove tecnologie agricole Uno degli aspetti della rivoluzione industriale è la rivoluzione agraria, con la quale si intende l’insieme delle innovazioni introdotte in agricoltura per aumentare la produttività e la produzione. Essa consentì ai contadini di ricavare dalla terra una quantità di prodotti tale da soddisfare il fabbisogno delle loro famiglie e quello della produzione, che in misura sempre maggiore, viveva nella città svolgendo altre attività. Per aumentare la quantità e la qualità dei prodotti dell’agricoltura si misero a coltura nuove terre si accrebbe la produttività introducendo nuove tecnologie agrarie (nuove rotazioni, maggior uso dei concimi, ecc.) Si trasformò in regime della proprietà Fondiaria e si migliorò l’allevamento del bestiame. Bisogna precisare che per nuove tecnologie agrarie si intendono quelle innovazioni introdotte nei metodi di produzione, che ebbero l’effetto di aumentare la produzione a parità di capitale, lavoro, terra e materie prime impiegate. La rivoluzione agraria iniziò in Inghilterra, nella seconda metà del 700 e continuò negli altri Stati Europei e in America, nel XIX secolo. In Inghilterra, In Scozia e nella Germania orientale le innovazioni di maggior rilievo riguardarono le nuove tecniche colturali, in particolare un nuovo avvicendamento delle colture. Per sopperire alla perdita di fertilità, prima del ‘700 si ricorreva all’impiego del concime animale e all’avvicendamento delle coltivazioni, assieme al riposo del terreno. Il riposo veniva accompagnato dall’avvicendamento delle piante coltivate, poiché ogni pianta attinge dal solo diversi tipi e quantità di sostanze. in tal modo, si diffuse in Inghilterra, ma anche in altri Stati europei, il sistema dei tre campi, in base al quale la terra di un contadino veniva divisa in tre parti o campi, in ognuna delle quali si avvicendavano le colture e il maggese (terra incolta). Questo sistema però, pur migliorando il rendimento, era oneroso, poiché lasciava incolto 1 / 3 del terreno. Così, il sistema dei tre campi fu sostituito con il sistema dei quattro campi, ove su un campo si avvicendavano per esempio grano, trifoglio, orzo e rape. Successivamente, furono introdotti altri avvicendamenti arrivando fino a 8 o 9 fasi di coltivazione. Altre innovazioni tecnologiche introdotte in Inghilterra e in Germania orientale, nel ‘700, riguardarono la sostituzione dei versoi di legno con quelli di ferro più robusti, la diffusione dell’erpice per rompere le zolle e introdurre i semi nel suolo, l'uso della seminatrice a foratura che consentiva alla semina a filari. Tra i più celebri innovatori ricordiamo Tull, che inventò la macchina per seminare e Bakewell, che creò una fattoria modello nel Leicester, che divenne meta di numerosi visitatori, dove introdusse nuove tecniche agricole e si adoperò per migliorare l’allevamento del bestiame. Le innovazioni tecniche e la crescita della produzione nelle industrie Come la rivoluzione agraria, anche la rivoluzione nella produzione industriale iniziò in Inghilterra e si propagò in altri paesi occidentali e in Giappone. Le ragioni della crescita vanno attribuite ai mutamenti attuate nelle tecniche e nell’organizzazione della produzione industriale. Tali aspetti costituiscono quella che è stata definita rivoluzione industriale. Con i perfezionamenti tecnologici si passò dall’utensile a mano alla macchina al vapore, dalla lavorazione artigianale che dava prodotti non identici, alla realizzazione di grandi quantità di prodotti uguali, con conseguente riduzione dei costi. La crescita della produzione fu tale che nel corso di 70 o 80 anni, prima l’Inghilterra, poi la Francia, la Germania, gli Stati Uniti e l’Italia si trasformarono da paesi agricoli in paesi industriali. I maggiori mutamenti si ebbero nelle industrie tessili e del ferro. Si trattava di settori con elevata domanda, che l’organizzazione artigianale delle aziende non riusciva a soddisfare e il lavoro che vi si effettuava richiedeva grandi quantità di energia umana e procedimenti ripetitivi. Le industrie tessili e del ferro, avendo adottato le prime trasformazioni, sono definite industrie traenti, ossia unità di produzione di dimensioni diverse, che prendono la forma di industrie capitalistiche in un ambiente pre – capitalistico. Esse elevano la produttività del loro settore, riducono i costi e i prezzi, modificano le dimensioni e la direzione dei flussi dei fattori della produzione, trasformano radicalmente l’ambiente in cui operano. Le novità di maggior rilievo furono introdotte nelle macchine per la filatura, per la tessitura per la stampa e la colorazione delle stoffe. Si trattò, principalmente, di innovazioni che miglioravano continuamente la produttività. Ciò significò la crescita delle industrie minerarie, siderurgiche e meccaniche. Intanto le energie umane, quelle degli animali, del vento e dell’acqua sfruttate per azionare le macchine, fin dei primi decenni del ‘700, cominciarono a rivelarsi insufficienti o difettose. Si cercò, così, di sfruttare l’energia del vapore. A tal fine, James Watt (1736-1819) fu considerato l’inventore della macchina a vapore, egli adottò il condensatore separato, che si manteneva sempre freddo, mentre il cilindro rimaneva sempre caldo, ma fu necessario introdurre altri perfezionamenti tecnici prima di affermarsi definitivamente nel settore industriale. La grande diffusione della macchina a vapore si ebbe nel XIX secolo, dopo la sua applicazione, nel 1807, al battello per merito di Robert Fulton e alla locomotiva, nel 1814, per merito di George Stephenson. Con la seconda rivoluzione industriale, furono sfruttati nuovi fonti di energia, quali l’elettricità e il petrolio e le nuove industrie erano quelle chimiche, quella per la produzione di nuovi metalli e quelli di alimentari. L’impulso maggiore a produrre energia elettrica, su vasta scala, si ebbe con l’invenzione da parte dell’Americano Edison, nel 1881, della lampada affilamento di carbonio incandescente per l’illuminazione. Contemporaneamente, l’elettricità fu utilizzata nel settore dei mezzi di comunicazione (per il telefono dal 1876, per la trazione dei tramvai e nelle ferrovie dal 1879) e nel settore della chimica pesante per la produzione di alluminio (1886), sodio (1886) e soda caustica (1894). Il petrolio invece, nella prima metà dell’Ottocento veniva impiegato solo per la lubrificazione delle macchine per l’illuminazione e per il riscaldamento. Il consumo aumentò, notevolmente, nei primi anni del ‘900, dopo l’invenzione del motore a nafta (1897) da parte dell’ingegnere tedesco Rudolf Diesel. Un’altra industria che fece rapidi progressi, nella seconda metà del secolo, fu quello della produzione della gomma. A livello industriale, questo prodotto si cominciò ad avere negli Stati Uniti, dopo che Charles Goodyear, nel 1839, inventò il processo di vulcanizzazione impiegando lo zolfo, la calce ed altri elementi per rendere dura la gomma. Ma, la maggiore produzione di gomma si ebbe in Gran Bretagna, dopo che Dunlop brevettò, nel 1888, il primo pneumatico. Così, la gomma si cominciò ad utilizzare, oltre che per la produzione di cinghie di trasmissione e palle, anche per le ruote delle carrozze, delle biciclette e delle automobili. Fino alla metà dell’Ottocento, la maggior parte dei prodotti alimentari veniva lavorata e conservata dagli stessi consumatori od imprese artigiane. Nella seconda metà dell’Ottocento, cominciarono a crescere le dimensioni dell’industria alimentari, che producevano per soddisfare una domanda sempre crescente. Una notevole spinta in tale direzione venne dall’invenzione di due nuove tecniche di conservazione: la prima consisteva nel chiudere i prodotti alimentari in scatole di metallo sterilizzate, la seconda nel portare gli alimenti a bassa temperatura. Progressi furono compiuti, con il contributo dell’industria chimica, anche al settore lattiero – caseario, per il trasporto e la conservazione del latte. I vecchi mulini a vento iniziarono ad essere sostituiti dai mulini azionati con l’energia elettrica. I maggiori progressi dell’industria alimentare furono compiuti negli Stati Uniti, per l’aumento della produzione delle industrie molitorie, della macellazione e della conservazione della carne. Le innovazioni nelle vie e nei mezzi di comunicazione Il miglioramento delle comunicazioni, oltre ad essere interdipendente con la crescita della produttività, implicava la formazione di mercati sempre più ampi. La rivoluzione nelle vie e nei mezzi di trasporto riguardò il miglioramento e le nuove costruzioni di strade rotabili e canali navigabili, la nascita e lo sviluppo delle ferrovie e il miglioramento della navigazione, specie per l’impiego del vapore. I progressi tecnici nella costruzione delle strade furono introdotti per merito di alcuni ingegneri, di cui il più noto è Mac Adam, la cui tecnica consisteva nel costruire le strade sopraelevate, con canali laterali per lo scorrimento delle acque, il letto della strada era formato da una base di pietre grandi e irregolari, coperti da strati di pietre più piccole e, alla fine, da uno strato di argilla battuta. Quest’ultima caratteristica consentiva il passaggio di carri con carichi pesanti, senza affondare nel fango. La rete viaria inglese crebbe, perché dal 1663 fu concesso ai privati di costruire strade con barriere o stanghe, al fine di riscuotere il pedaggio di passaggio delle persone e dei carri, sistema oggi largamente diffuso per le autostrade. Il sistema fu mantenuto anche nella seconda metà del ‘700, quando le strade cominciarono ad essere costruite dallo Stato e da altri enti pubblici. Ci si convinse della necessità dell’intervento pubblico solo quando si capì che le strade servivano anche per il trasporto di merci utili ad una larga parte della popolazione e per il trasferimento degli eserciti incaricati di difendere gli interessi generali della nazione. Le innovazioni che maggiormente rivoluzionarono i trasporti furono l’impiego del vapore nella navigazione e la diffusione delle ferrovie. Un altro mezzo che all’inizio del ‘900 rivoluzionò i trasporti fu l’aereo, il primo aereo a motore fu costruito nel 1903 dai fratelli Wright. Oltre ai trasporti, nell’ottocento, si ebbe un notevole miglioramento nei mezzi di comunicazione delle notizie. Fu inventato e si diffuse il telegrafo elettrico, il servizio postale, si diffuse la stampa quotidiana. Per la trasmissione di un messaggio nello spazio, prima furono impiegati i piccioni viaggiatori, poi il telegrafo ottico e, infine, il telegrafo elettrico. Di questi telegrafi ne furono inventati diversi, ma fu, prevalentemente, impiegato quello dell’Americano Morse, che nel 1884, riuscì a trasmettere elettricamente per la prima volta un messaggio da Baltimora a Washington. Fu applicato subito nelle ferrovie per il controllo rapido e sicuro del traffico dei treni e fu utilizzato per trasmettere notizie economiche, soprattutto relative ai prezzi, da un mercato all’altro. All’inizio dell’Ottocento, in molti Stati il servizio postale da privato divenne pubblico. I cicli economici del XIX secolo La crescita del benessere economico dei paesi occidentali non fu continua. Si verificarono periodi di accelerata espansione seguiti da periodi di depressione dell’economia. Le due fasi, interrotte dal punto di svolta, prendono il nome di ciclo. Così il ciclo è costituito dalla fase iniziale (chiamata A) di prosperità, dal punto di inversione della tendenza e dalla fase finale (chiamata B), durante la quale si esauriscono le cause che hanno portato alla prosperità. I cicli si cominciarono a studiare nella prima metà dell’Ottocento, quando per la prima volta si esaminò il funzionamento interno del capitalismo e si analizzarono le cause dei cicli. Nello studio dei cicli il momento più difficile da individuare è quello dell’inversione della tendenza, cioè il passaggio dall’espansione alla depressione. Durante l’ottocento e nel primo ventennio del nuovo secolo si possono individuare due cicli Kondrat’ev: Il primo che va dal 1790 al 1849 è il secondo che arriva al 1896. Nel primo ciclo, la fase A viene individuata nel periodo 1790 -1815 e la fase B nel periodo 1815 -1849. Nella prima fase, la rivoluzione industriale in Inghilterra, la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche provocarono un aumento della produzione degli investimenti e dei prezzi. Nella seconda fase, la diminuzione della circolazione monetaria provocò la caduta dei prezzi. La politica protezionistica attuata dopo le guerre napoleoniche non favorì gli scambi internazionali. Il secondo ciclo (1848-1896) comprende la fase di prosperità relativa al 1848-1872 (fase A) e quella di depressione (1873-1896) (fase B). Nella prima, la crescita dei prezzi fu determinata dall’aumento della circolazione monetaria, che si ebbe dopo la scoperta delle miniere d’oro della California e dell’Australia e per la maggiore domanda di prodotti. Il periodo 1873 - 1896 è conosciuto come l’epoca della grande depressione, poiché lo sviluppo tecnologico, la concorrenza mossa dai prodotti agricoli Americani ai prodotti europei, il miglioramento dei mezzi e delle vie di comunicazioni nazionali e internazionali causarono la riduzione dei prezzi e frenarono la crescita della produzione. In generale, fu dimostrato che vi è concordanza fra produzione e prezzi, cioè quando cresce la prima crescono anche i secondi e viceversa. Infine, vi è un trend secolare che stabilisce l’andamento dei prezzi, della produzione, ecc.., per un periodo superiore a cinquant’anni. Lezione 2 La rapida crescita dell’economia inglese Le innovazioni tecniche nell’industria inglese Le innovazioni nel settore industriale cominciarono nelle industrie traenti in Inghilterra e furono quelle che lavoravano il cotone. I migliori tessuti venivano importati dall’India, quindi, l’aumento della domanda significò una crescita delle esportazioni di monete metalliche. Per porre riparo all’esodo del prezioso metallo fu vietata l’importazione di tessuti indiani, ciò stimolò la produzione dell’industria di Manchester, dove si formò una nuova classe di imprenditori chiamati maestri fustagnai. Questi compravano i filati lavorati nelle campagne e li distribuivano ai tessitori, che cominciavano a concentrare la loro attività nelle fabbriche. Samuel Crompton, nel 1779, ideò una macchina per filare detta spinning mule, che riuniva le caratteristiche della spinning jenny (macchina per filare creata da Hargraves nel 1764, dotata di una ruota e che faceva girare da 6 a 100 fusi contemporaneamente) e quella della Water frame (inventata da Arkwright nel 1769, la quale era mossa dall’energia idraulica). Con questa invenzione, nel settore della filatura, trionfò completamente la fabbrica, mentre andava scomparendo la filatura a mano per uso commerciale. Sollecitato dal bisogno di aumentare la produzione di tessuti, nel 1785, Cartwright costruì e brevettò il telaio meccanico azionato da cavalli, al quale nel 1789 fu applicata la macchina a vapore. Uno sviluppo intenso, pari a quello dell'industria cotoniera, si ebbe per l’industria del ferro e dell'acciaio. Si trattava di una delle più antiche di industrie inglesi e la crescente domanda di ferro veniva dalla Svezia e delle colonie del nuovo continente. Il sistema monetario e bancario Nel ‘700, in Inghilterra circolavano monete metalliche e biglietti emessi dalla banca d’Inghilterra e dalle piccole banche private. Le monete metalliche emesse erano d’argento e di oro con un rapporto di zecca di 15 ad 1. In pratica, circolavano prevalentemente le monete d’oro (ghinee), poiché quelle di argento valevano più come metallo, che come valore nominale segnato con il conio. Quindi, in base alla legge di Gresham, le monete d’argento venivano tesorizzate oppure esportate per i pagamenti all’estero, mentre quelle d’oro si utilizzavano per gli scambi interni. Questa situazione fu sanata nel 1816, quando si adottò il monometallismo aureo o Gold standard. Fu sospesa la coniazione della Guinea e la sovrana di 20 scellini divenne lira sterlina. Per i biglietti emessi dalla banca d’lnghilterra, fu dichiarato il corso forzoso nel 1797 (Restriction Act). Provvedimento necessario, poiché la banca avendo effettuato numerosi prestiti allo Stato, per finanziare le spese di guerra con la Francia, non aveva più le riserve auree necessarie per cambiare in metallo i biglietti. Il corso forzoso quando fu introdotto, doveva durare solo quattro mesi, ma poi il Restriction Act fu più volte rinnovato, per cui si tornò alla convertibilità dei biglietti solo nel 1821. Tuttavia, prima di consolidarsi, il sistema monetario doveva ancora subire alcuni cambiamenti per le leggi del 1826 e del 1844. Nel 1825, l’economia inglese fu messa in crisi da numerose speculazioni sbagliate sullo sfruttamento di miniere estere, su cotone e sulla costruzione di canali e per la concessione di numerosi prestiti dai governatori stranieri. La crisi mise a nudo la debolezza del sistema monetario e della struttura bancaria. Occorreva apportare delle modifiche. Nel 1826 furono approvate alcune leggi che introdussero le seguenti innovazioni: autorizzarono la banca d’Inghilterra ad aprire filiali nelle maggiori città inglesi, vietarono le emissioni di biglietti di taglio inferiore a 5, autorizzarono la costituzione di banche sotto forma di società per azioni (le joint stock banks) le quali avrebbero potuto emettere biglietti purché operassero al di là di 65 miglia da Londra. Queste innovazioni rafforzarono la posizione della banca d’Inghilterra a Londra, che era il maggior centro finanziario del mondo. Esse però autorizzando altre banche ad emettere biglietti, non posero limiti alla crescita della circolazione. Per conseguenza, nel 1836 nel 1839, l’economia inglese risentì negativamente dalla crescente circolazione di biglietti e della riduzione delle riserve della banca d’Inghilterra, dovuta alla concessione di prestiti esteri. Quando, nel 1844, il Parlamento emanò il Bank Charter Act o Peel Act, dal nome del primo ministro Robert Peel, si attenne al principio metallico con una variante, poiché stabilì che una parte della riserva della banca d’Inghilterra, precisamente 14 milioni di sterline, dovesse essere in titoli di Stato e la parte rimanente in monete o lingotti d’oro. In questo modo, l’emissione di banconote divenne molto rigida e poco elastica la circolazione. La legge stabilì, inoltre, che le altre banche autorizzate ad emettere i biglietti non potessero accrescere l’ammontare dei biglietti che avevano in circolazione, inoltre, fu vietata la costituzione di altre banche di emissione. L’ultima cessò di emettere i biglietti nel 1921 e, da quel momento, la banca d’Inghilterra ebbe il monopolio dell’emissione di cartamoneta. Nella seconda metà del XIX secolo e nel primo quindicennio del secolo, sotto la spinta della crescita delle dimensioni delle industrie e con l’aumento del volume degli scambi internazionali, in Gran Bretagna si ebbe la concentrazione e la specializzazione dell’attività bancaria. Al centro del sistema bancario vi era sempre la banca d’Inghilterra, che da un lato svolgeva la funzione di una banca dello Stato e dall’altro aveva la posizione di banca delle banche. Come banca dello Stato, concedeva prestiti al governo, emetteva moneta e collocava titoli del debito pubblico. Come banca delle banche, raccoglieva depositi di altre banche e concedeva operazioni di riscontro. Le altre banche non percepivano interessi su tali depositi, ma preferivano tenerli presso la banca d’Inghilterra come riserva di liquidità. Si venne, così, a formare il sistema della riserva unica. Lezione 3 Il lento sviluppo dell’economia francese Il lento sviluppo industriale Non è facile stabilire con precisione l’epoca del decollo industriale. In Francia, alcuni studiosi sostengono che non vi fu una vera e propria rivoluzione industriale, ma solo una lenta trasformazione dell’economia che durò più di un secolo, dalla seconda metà del ‘700 al 1870. Le trasformazioni ebbero un carattere rivoluzionario solo nei nuovi settori della produzione, come quello del cotone. Indipendentemente dal momento del decollo, lo sviluppo industriale in Francia, dalla seconda metà del 1750 al 1850 fu certamente il più lento dello sviluppo che si ebbe in Inghilterra nello stesso periodo. Gli elementi che influirono negativamente sul reddito globale e pro capite del paese possono individuarsi nello scarso sviluppo demografico, nell’insufficienza delle risorse naturali, negli investimenti poco produttivi dei risparmi e nel maggior numero di movimenti politici rispetto ad altri paesi. Alla fine del ‘700, la Francia era in ritardo rispetto all’Inghilterra e alla Germania, anche nel settore della lavorazione del ferro, come combustibile veniva utilizzato quasi esclusivamente la legna. Un’eccezione era costituita dalle più antiche fonderie francesi, Creusot, che nel 1765, sull’esempio inglese, impiegarono il carbone coke per ricavare la ghisa. Dopo il 1815 si cercò di superare il ritardo accumulato nelle innovazioni tecniche introducendo il metodo del puddellaggio per la decarburazione della ghisa e le nuove tecnologie inglesi per la conversione della ghisa in ferro. Durante la seconda rivoluzione industriale, le industrie trainanti furono quelle dell’elettricità, del motore a scoppio e dell’automobile. In generale, in Francia non si diede grande rilievo alla produzione e al consumo di massa dell’impresa capitalistica, ma si continuò a valorizzare l’arte e la moda che erano il frutto dell’abilità manuale del gusto degli artigiani. La circolazione monetaria e la Banca di Francia Il sistema monetario metallico francese fu riordinato nel biennio 1793 - 95, allorché si stabilì che la moneta ufficiale fosse il Franco con base decimale, che poteva coniarsi sia in argento che in oro e il rapporto doveva essere 15,5 a 1. Il sistema bimetallico adottato in Francia e da diversi altri paesi funzionò bene fino alla metà del secolo. La situazione si capovolse dopo il 1848, quando cominciò ad arrivare l’oro dalle miniere della California e dell’Australia. Così l’argento fu tesorizzato e l’oro, essendo abbondante con prezzi in diminuzione fu immesso sul mercato per la coniazione. La scarsità di monete d’argento in circolazione creò qualche difficoltà al commercio al minuto, mentre l’afflusso di oro favorì il commercio all’ingrosso e gli scambi internazionali, con notevole vantaggio per l’economia del paese. La difficoltà, però, durò fino al 1860, quando cominciò ad aumentare anche la produzione dell’argento. Nel 1865 alcuni paesi europei (Francia, Belgio, Svizzera, Italia e Grecia dal 1868) crearono L’unione Monetaria Latina, con lo scopo di porre riparo ai difetti del bimetallismo. Dal 1867 l’oro prima cominciò a scarseggiare e poi scomparve dal mercato, mentre l’argento venne portato alla zecca per la coniazione. Per proteggere le riserve di oro, la banca di Francia, prima del 1877, al cliente che chiedeva di cambiare biglietti oro, invece che in argento, faceva pagare un premio. Poiché il pubblico preferiva i biglietti garantiti da oro, la banca di Francia fu costretta ad aumentare la circolazione di carta moneta che nella seconda metà dell’Ottocento fu impiegata nella maggior parte delle transazioni. Una vera e propria banca di emissione, come quella che operava in Inghilterra, si riuscì ad aprire solo nel 1800, grazie all’iniziativa di Napoleone che vedeva nell’istituto una fonte per il finanziamento delle sue imprese militari. La banca operò, principalmente, con lo Stato: concesse anticipazioni al tesoro, partecipò alla collocazione dei titoli pubblici, fece riscossione e pagamenti per conto dello Stato. Nel 1808 fu autorizzata ad aprire filiali in altre città. Con la caduta di Napoleone, nell’aprile del 1814, anche la banca fu messa in crisi. Nel 1817 – 18, nelle province furono aperte le banche dipartimentali sotto la sorveglianza dei prefetti e con il compito di svolgere le stesse attività della Banca di Francia. Durante gli ultimi trent’anni dell’Ottocento la banca continuò ad operare prevalentemente per conto dello Stato. Dal 1895 in poi accrebbe la sua attività con i privati, specie commercianti e industriali, concedendo sconti di cambiali anche di pochi franchi. In conclusione, alla vigilia della prima guerra mondiale, il sistema bancario francese risultava formato dalla banca di Francia, che deteneva grosse riserve auree, emetteva cartamoneta e regolava l’intero sistema; da poche banche società per azioni, che erano divise in banche di deposito e banche d’affari; da un numero piuttosto elevato di piccole banche locali e regionali; da un certo numero di banche specializzate nel commercio estero, nel credito fondiario e nel credito agrario, da poche banche private parigine (l’alta banca). Lezione 4 L’unificazione della Germania e la rapida crescita della sua economia L’emancipazione dei contadini Le innovazioni introdotte nelle tecniche colturali, l’impiego delle macchine, le nuove piante e i concimi chimici anche in Germania, come in Gran Bretagna e Francia, portarono un miglioramento della produttività. Così il rendimento del grano, tra il 1850 e il 1914, crebbe da 14 a 20 quintali per ettaro e quello delle patate da 80 a 135 quintali. L’emancipazione dei contadini tedeschi non avvenne come in Francia, con una rivoluzione politica, ma si attuò lentamente nella prima metà del XIX secolo. Non si trattò di un movimento che partì dal basso, ma fu voluto dai governanti del paese. I primi provvedimenti furono presi nel 1807 e 1810 dal barone Von Stein, che abolì la servitù della gleba, consentì ai contadini di acquistare un appezzamento di terra. Ma, solo con la rivoluzione del 1848 si accelerò il movimento di emancipazione e nel 1850 fu emanato una legge che rimosse le restrizioni del 1816 (il diritto di riscatto fu concesso solo a coloro che possedevano buoi e dovevano cedere al signore la metà delle terre). La legge assegnò la piena proprietà delle terre ai contadini che avevano diritti ereditari, mentre i fittavoli per acquisire la proprietà delle terre che possedevano dovevano pagare una somma pari a 18 volte il canone di affitto. Negli Stati della Germania occidentale, l’abolizione dei diritti feudali e l’emancipazione dei contadini si ebbe durante l’occupazione francese, allorché furono applicate (1798) le leggi della rivoluzione. In genere, gli obblighi feudali furono aboliti con indennizzi ai proprietari terrieri, i beni della Chiesa e quelli dei nobili contrari al regime rivoluzionario napoleonico furono confiscati e venduti. Le industrie tedesche all’epoca dei fondatori alla seconda rivoluzione industriale Nei primi decenni dell’Ottocento, la maggior parte delle industrie tedesche aveva un’organizzazione domestica o artigianale. L’industria domestica riguardava principalmente la lavorazione del lino, della lana, della carta, del legno e del ferro. Il contadino insieme agli altri componenti della propria famiglia attuava tutte le fasi della lavorazione, mentre gli artigiani lavoravano prevalentemente nei centri urbani ed erano organizzati in corporazioni, che avevano fissato rigide regole per il lavoro da effettuare. In Germania le macchine cominciarono a diffondersi fin dagli ultimi decenni del ‘700, ma dopo l’occupazione napoleonica, per circa un ventennio, non vi furono più grandi innovazioni tecniche per ragioni di carattere generale (divisione politica, dazi doganali, mancanza di capitali, ecc.) e per ragioni specifiche, come la concorrenza inglese che, con la rimozione del blocco continentale fece subito sentire il suo peso su molti mercati europei, ma anche per la carestia del 1816 -1817. Nel ventennio 1830 1850 furono rimossi gli ostacoli che impedivano la crescita delle grandi industrie. Fu realizzata l’unione doganale, il governo prussiano fondò l’istituto industriale e diverse scuole tecniche con lo scopo di incoraggiare la sperimentazione e la diffusione dei nuovi metodi di produzione. Spesso, gli imprenditori tedeschi si recavano in Inghilterra e Francia per studiare le buone tecniche di produzione. Le prime profonde trasformazioni si ebbero nell'industria mineraria. Il carbon fossile venne estratto maggiormente nei bacini della Ruhr, dove furono investiti ingenti capitali. Con la seconda rivoluzione industriale tedesca, ebbe grande importanza lo sviluppo della produzione di energia elettrica, dei prodotti chimici, degli strumenti ottici e di precisione. Un rapido sviluppo ebbe l’industria chimica, specie per la produzione di coloranti sintetici, farmaci e fertilizzanti. Grazie alle nuove scoperte scientifiche furono fatti grandi progressi dalle industrie produttrici di strumenti ottici e occhiali, di orologi, di bilance e di strumenti chirurgici. Gli scambi commerciali migliorarono grazie ad un’efficiente rete di vie di mezzi di comunicazione. Con l’allargarsi il mercato nazionale e internazionale crebbero le dimensioni delle imprese per mezzo delle concentrazioni verticali e orizzontali. Gli industriali tedeschi crearono dei pools o dei cartelli per accordarsi sui prezzi di vendita, sulla produzione, sui salari da pagare agli operai per dividersi l’area geografica di vendita dei prodotti. Lo Stato prima si oppose alla costituzione dei cartelli, poi cercò di regolarli. Infatti, nel 1897, fu riconosciuta la loro legalità e i contratti ebbero validità giuridica. In generale, i cartelli tedeschi furono molto efficaci per la politica del dumping, che mirava a mantenere i prezzi interni più elevati di quelli all’esportazione, al fine di muovere concorrenza ai produttori esteri e conquistare i loro mercati. Le banche che diedero un grande sostegno all’industrializzazione tedesca contribuirono molto alla costituzione dei cartelli. Il sistema monetario Nella prima metà dell’Ottocento in Germania circolavano monete metalliche e i biglietti emessi dagli Stati o dalle banche. All’inizio del XIX secolo tutti gli Stati della Germania avevano un proprio sistema monetario, per cui circolavano tante monete metalliche per quanti erano gli Stati in cui il paese era diviso. Gli inconvenienti derivanti agli scambi da tale situazione erano enormi, poiché gli imprenditori, maggiormente, i commercianti e gli addetti ai trasporti dovevano conoscere centinaia di monete, che molto spesso erano coniate male, il valore dichiarato non corrispondeva all’effettivo contenuto di metallo prezioso. Tali inconvenienti vennero alla luce quando si avviò l’unione doganale. Occorreva necessariamente dare uniformità al sistema monetario. I primi passi in tale direzione furono compiuti nel 1837, con la stipula di una convenzione tra gli Stati della Germania e del Sud che adottarono una moneta comune Fiorino d’argento. Nel 1857, i due sistemi furono unificati e si stabilì un rapporto tra tallero e Fiorino. Nel 1838 gli Stati del nord adottarono come moneta unica il tallero d’argento. Un ulteriore passo verso l’ammodernamento del sistema monetario metallico si ebbe con l’unificazione politica della Germania 1871, quando fu abbandonata l’emissione dei Fiorini e dei talleri e si adottò come nuova unità monetaria il Marco d’oro, pari ad 1 / 3 del valore del tallero e si introdusse il monometallismo aureo o Gold standard. Dopo il 1850, oltre ad aumentare la circolazione metallica crebbe anche l’emissione di biglietti di banca. La crescita della circolazione cartacea fu dovuta alla costituzione di nuovi istituti di emissione: la Banca di Pomeriana, la Banca Bavarese Ipotecaria, la Banca di Lipsia e la Banca di Prussia. La riforma della circolazione dei biglietti e dell’attività degli istituti di emissione si ebbe con un provvedimento emanato nel 1875. La banca di Prussia fu trasformata in Reichsbank (Banca dell’Impero). Il nuovo istituto sorse come società per azioni e alla formazione del capitale non partecipò lo stato, ma una parte degli utili doveva andare allo stato. Diversamente da quanto fu stabilito in Gran Bretagna, si creò un sistema monetario abbastanza elastico, che poteva soddisfare le richieste di monete che venivano dal mercato senza interventi legislativi. Le più importanti operazioni della Reichsbank riguardavano lo sconto di effetti ad altre banche, il che stava ad indicare che svolgeva la funzione di banca delle banche. Lezione 5 La rivoluzione industriale in Italia L’agricoltura italiana nell’Ottocento Le idee maturate con l’illuminismo e con la rivoluzione francese influirono decisamente sulle trasformazioni economiche e sociali dell’Europa occidentale della prima metà del XIX secolo. La diffusione di quelle idee rese possibili ai paesi con economia meno sviluppata, come l’Italia o la Spagna, di reagire per avvicinarsi allo sviluppo economico inglese. Tra il 1815 e il 1860 (dopo l’occupazione francese), soprattutto nelle regioni settentrionali furono compiuti buoni progressi. Furono, infatti, messi a coltura nuove terre e si bonificarono alcune paludi. Diversi agricoltori intelligenti si recarono in Inghilterra per apprendere le nuove tecnologie agrarie, l’esempio più famoso è quello del Cavour, che amministrando la tenuta di Leri, Introdusse una nuova rotazione, la coltura delle foraggere e l’allevamento stabulare dei bovini. Si cominciarono ad utilizzare i fertilizzanti commerciali e furono introdotte le prime macchine agricole. In Lombardia, nel Piemonte e nel Veneto aumentò la coltura dei gelsi e la torcitura della seta. Quando nel 1861 si realizzò l’unità della penisola, il 57 % del prodotto interno derivava dall’agricoltura. Si rilevò che nel primo decennio dell’unità fu registrato un lieve aumento della produzione dei cereali, la crescita rallentò nel decennio 1870 – 1881, si trasformò in declino nel decennio successivo. Declino solo in parte, compensato dall’aumento della produzione di agrumi e vino che venivano esportati in altri paesi europei negli Stati Uniti. Anche la produzione specializzata di maggior valore, costituita dai bachi da seta subì un calo dal 1880 in poi. La crisi derivò maggiormente dalla riduzione dei prezzi agricoli: i cereali furono colpiti dalla concorrenza dell’America del nord e della Russia, il riso dalla concorrenza indiana e i bachi da seta da quella della Cina del Giappone. Per difendersi dalla concorrenza si fece ricorso all’aumento dei dazi doganali. Un primo aumento si ebbe nel 1878, ma servì a proteggere principalmente i prodotti industriali, un secondo si ebbe con la revisione della tariffa doganale approvata nell’aprile del 1887 che comportò la rottura dei rapporti commerciali con la Francia, che era la maggior importatrice di prodotti agricoli italiani. Nel Marzo del 1888, l’Italia e la Francia entrarono in piena guerra commerciale e la più danneggiata fu l’Italia, che vide dimezzate le esportazioni di molti prodotti agricoli: vino, seta greggia, riso, bestiame e formaggio. Indice significativo della crisi agricola italiana fu la notevole crescita dell’immigrazione verso i paesi transoceanici. Tra i 1896 e il 1913, crebbe sensibilmente la produzione agricola italiana, positivamente influirono anche la ripresa delle relazioni commerciali con la Francia e la riduzione delle tariffe doganali. Durante l’ottocento, non vi furono in Italia sostanziali cambiamenti nella struttura della proprietà Fondiaria. Essa era caratterizzata dall’assistenza del latifondo accanto a piccoli apprezzamenti dei quali non si ricavava neanche il reddito per il mantenimento delle famiglie dei proprietari. Una certa trasformazione nell'assetto fondiario si ebbe quando furono messe in vendita le terre sottratte alla chiesa e quelle demaniali, con l’intento di risanare le finanze dello Stato. All’inizio del ‘900, il panorama dell’assetto Fondiario del paese può essere così delineato: Grandi latifondi (diffusi nella Maremma Toscana, nel Lazio, nelle Puglie, in Basilicata, in Calabria e in Sicilia) coltivati con limitati capitali e con basso rendimento Grandi proprietà (diffuse specie in Lombardia) gestite direttamente dai proprietari con tecniche colturali moderne Medie e piccole aziende (nelle zone costiere della Campania, della Puglia, della Calabria e della Sicilia) che per la fertilità delle terre davano un buon rendimento Piccoli o piccolissime proprietà con scarso rendimento L’evoluzione delle industrie Come per gli altri paesi europei, anche per l’Italia l’occupazione napoleonica presentò aspetti positivi e negativi. Tra i primi, quello che ebbe maggiore importanza fu la definitiva abolizione del Feudalismo. Tra i negativi, bisogna ricordare l’elevata pressione tributaria, l’arruolamento in massa dei giovani, l’esportazione di opere d’arte e la crisi nella maggior parte delle industrie, dovuta principalmente al blocco continentale, che rese difficile le relazioni commerciali internazionali europee. Numerosi segni di rinnovamento e di crescita della produzione si manifestarono dopo il 1820 e maggiormente dopo il 1830. Nell’Italia del nord e in Toscana progressi furono compiuti nella produzione della seta, specie in Piemonte dove si favorì l’esportazione di prodotti greggi, riducendo i dazi doganali. In Lombardia sorsero alcuni stabilimenti, con centinaia di operai. Furono costituite le prime industrie che comprendevano la filatura, la tessitura e la stampa delle stoffe. Progressi notevoli furono compiuti dalle industrie tessili della Lombardia, del Piemonte e della Toscana. Fu avviata la filatura meccanica del lino e conquistarono posizioni di avanguardia anche le industrie per la lavorazione della lana. In Toscana, si svilupparono le fabbriche di porcellana (la Ginori a Doccia) che raggiunsero fama europea e industrie per la lavorazione della carta e della paglia. Il periodo compreso tra l’unità nazionale e lo scoppio della prima guerra mondiale, ai fini dell’industrializzazione, va diviso in due parti: La prima 1861 - 1894, caratterizzata da un’organizzazione ancora prevalentemente artigianale, da una produzione destinata, quasi totalmente, al consumo e alla preparazione delle strutture per lo sviluppo futuro; Nella seconda 1895 - 1914 si diede un’organizzazione moderna al settore industriale e crebbe al ritmo accelerato la produzione, riuscendo ad avvicinarsi allo sviluppo dei paesi progrediti. Dopo il 1896 la situazione mutò. Si ebbe un rapido sviluppo dell’industria e si trasformò il precedente modello economico. Le esportazioni superarono le importazioni e la bilancia dei pagamenti, grazie anche alle rimesse di risparmio degli immigrati all’estero, per diversi anni, registrò un saldo positivo. Il numero delle aziende industriali, quasi prevalentemente, nel settore tessile crebbe. Indici indiretti della crescita industriale furono l’aumento dell’importazione di carbone, di macchine e caldaie, l’aumento della produzione di energia elettrica e il crescente impiego di motori nelle fabbriche. Tale sviluppo fu favorito dalla politica del governo, dai finanziamenti delle banche e dalla disponibilità di energia elettrica. Non tutte le nuove industrie, sorte tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, si avvantaggiarono dell’appoggio delle banche del governo. L’esempio di maggior rilievo si ebbe nel settore automobilistico, in particolare la Fiat e le aziende produttrici di accessori per auto, solo indirettamente usufruirono degli incoraggiamenti governativi per lo sviluppo industriale. Sulla scena dell’economia italiana, in questo periodo, cominciarono ad avere importanza anche le borse valori. L’istituto nato con il proposito di dirottare il risparmio verso le attività industriali e commerciali, seguiva l’impostazione data da Napoleone nel decennio francese, che assegnava potere di decisione e controllo alle Camere di Commercio. Il sistema bancario Nel periodo compreso tra la restaurazione e l’unità d’Italia, oltre agli istituti di emissione che espletavano servizio bancario, vi erano pochi istituti capaci di sostenere lo sviluppo economico del paese. Il sistema bancario comprendeva, oltre agli istituti di emissione, i banchieri privati, qualche banca di deposito, costituita sotto forma societaria, i Monti di Pietà, i Monti frumentari e le Casse di Risparmio. I banchieri privati svolgevano un’attività limitata alla concessione di crediti di esercizio agli artigiani e commercianti. Tra le banche di deposito sorte in forma societaria vi erano la banca Fondiaria di Pisa, la società commerciale Sinigagliese e la Cassa di Commercio e dell’Industria. I Monti di Pietà, che concedevano piccoli prestiti alle famiglie bisognose dietro garanzie di oggetti preziosi, erano diffusi specie nelle regioni centrali e settentrionali. I Monti frumentari, che prestavano semi, principalmente di grano, ai contadini poveri erano diffusi nel Mezzogiorno e stavano scomparendo o si stavano trasformando in Monti pecuniari. L’unica novità di rilievo nei primi sessant’anni del secolo fu la diffusione delle Casse di Risparmio nell’Italia centro – settentrionale. Nel 1875, per iniziativa del ministro delle finanze Quintino Sella, furono costituite le casse di risparmio postali. La loro attività crebbe rapidamente, specie per il risparmio raccolto nelle regioni meridionali. I depositi raccolti venivano trasferiti ad un ente dello Stato, chiamato Cassa Depositi e Prestiti, che li investiva in titoli pubblici o concedeva prestiti ai comuni, alle province e ad altri enti. Nei primi 40 anni di vita del nuovo Regno il sistema bancario italiano fu colpito da due crisi, che provocarono il calo delle operazioni e il fallimento di numerosi istituti di credito. La prima crisi si ebbe nel 1873 - 74 e la seconda 20 anni dopo. L’euforia che, tra il 1869 il 1873, invase il mondo degli affari europei, in particolare la Germania, coinvolse direttamente le banche, che senza controllo investirono gran parte dei risparmi raccolti a breve termine nell’acquisto di azioni di nuove società, come se fossero istituti di credito mobiliare. Quando le società industriali e commerciali, costituite per scopi speculativi, cominciarono a fallire, perché non riuscivano a vendere i loro prodotti, anche le banche finanziatrici furono trascinate nella crisi. Quella del 1893 - 94 fu una crisi più grave della precedente, poiché, coinvolse le banche di emissione e creò lo scompiglio nell’intero sistema bancario, in particolare nel settore creditizio mobiliare. Le ragioni vanno ricercate nelle immobilizzazioni create dalle banche in seguito all’impiego a lunga scadenza di capitali raccolti a breve. Le due maggiori banche di investimento, il Credito Mobiliare la Banca Centrale, si erano impegnate con numerose società, in particolare avevano partecipato alla speculazione edilizia a Roma e a Napoli. Gli investimenti sbagliati, accompagnati dalla crisi dell’economia italiana (dovuta alla caduta dei prezzi del ferro e dei prodotti agricoli, alla guerra commerciale con la Francia) fecero diminuire il prezzo delle azioni possedute dalle due banche e fecero ritirare gran parte dei depositi dei risparmiatori. Gli istituti che si affermarono dando una svolta decisiva alla politica bancaria e sostenendo lo sviluppo economico del periodo 1896-1914, furono la Banca Commerciale Italiana, costituita nel 1894 con la partecipazione di capitali tedeschi e il Credito Italiano, sorto nel 1895 dalle spoglie della Banca di Genova. Le due imprese assunsero la funzione di banche miste del tipo di tedesco, ossia facevano operazioni di credito a breve, medio e lungo termine, e si occupavano delle emissioni di titoli azionari e obbligazionari di società. Con l’inizio, poi, del periodo giolittiano (1903-1914, decennio che prese il nome dai governi guidati da Giovanni Giolitti, esponente liberale, che caratterizzarono la vita politica italiana sino alla vigilia della prima guerra mondiale), la più ampia diffusione delle società per azioni e la presenza di ingenti capitali industriali favorirono lo sviluppo delle borse, specie quella di Milano. Funzione propulsiva, in tal senso, ebbero le banche miste, alle quali giovava un mercato mobiliare dinamico per scongiurare sempre temute crisi di liquidità e per diversificare le forme di finanziamento. Lezione 6 L’economia della Russia, della Cina e del Giappone L’emancipazione dei servi in Russia Nell’ottocento, le innovazioni che furono introdotte nelle tecniche della coltivazione delle terre, nei paesi europei, non arrivarono in Russia. Le terre venivano dissodate ancora con l’aratro di legno e si producevano, principalmente, i cereali, patate e barbabietole da zucchero con bassi rendimenti. Anche in Russia esisteva il servaggio, dove i servi erano spesso vittime di atroci crudeltà commesse dal signore e non avevano alcuna protezione dallo Stato. Soltanto nel 1861, lo Zar Alessandro II emanò una serie di provvedimenti che abolivano, senza riscatto, la schiavitù personale. Tuttavia, per acquisire la proprietà i contadini avrebbero dovuto pagare un indennizzo al signore, poiché il contadino non aveva risparmi, lo Stato gli concesse un prestito con il quale poteva pagare subito il signore. Lo Stato, però, non ritenendo i contadini capaci di restituire i debiti contratti, pensò di non assegnare le terre ai singoli, bensì al mir (Comunità di villaggio e di coltivatori) che divenne responsabile del pagamento delle annualità per tutte le terre del villaggio. Le famiglie dei contadini ricevettero una casa, un piccolo fondo da coltivare in proprio e un diritto d’uso sulle terre indivise del villaggio, per il pascolo e la raccolta della legna. Il provvedimento danneggiò la nobiltà, perché fu privata della manodopera per lavorare le proprie terre e non aveva capitali sufficienti per introdurre innovazioni nelle tecniche colturali. Molti nobili furono costretti a vendere le terre. Nel 1916, circa il 60 % della proprietà Fondiaria della nobiltà era passata nelle mani dei contadini più abbienti chiamati kulaki. Il ritardo nell’industrializzazione L’industrializzazione della Russia si ebbe solo alla fine dell’Ottocento, grazie all’aiuto dello Stato e al contributo di capitali stranieri. Pietro il Grande e Caterina II, sostenendo la costituzione delle fabbriche e la crescita dell’operazione industriale, non erano riusciti a fare della Russia del ‘700 una grande potenza economica. La loro opera fu, in gran parte, distrutta dall’invasione napoleonica. D’altronde, il governo preferiva sostenere lo sviluppo dell’agricoltura, poiché era cresciuta la domanda europea di grano, lino e canapa. Questa politica era appoggiata dagli intellettuali russi che volevano il miglioramento delle condizioni del contadino e mettevano in evidenza i lati negativi della vita che svolgeva nelle fabbriche. Gli slavofili, come venivano definiti questi intellettuali erano contrari al progresso della borghesia. Essi non respingevano completamente l’industrializzazione, ma volevano che fosse realizzata sotto il controllo dei contadini. Avrebbero dovuto essere le associazioni dei lavoratori facenti capo al mir a rendersi parte attiva per lo sviluppo industriale. Pertanto, fino agli anni ‘70 l’economia russa fu basata, principalmente, sull’esportazione dei prodotti agricoli e maggiormente di grano. La situazione mutò negli ultimi decenni del secolo. Il merito dei pochi progressi compiuti dalle industrie va attribuito ai capitali e agli imprenditori stranieri. I primi progressi si ebbero nel settore della produzione dei tessuti di cotone, che ha utilizzato soprattutto i filati inglesi. Tra il 1899 e il 1907 lo sviluppo industriale subì una battuta di arresto, per ragioni interne e internazionali. La crisi si aggravò nel biennio 1904 - 1905 per la guerra russo – giapponese. Subì una nuova battuta di arresto per la crisi mondiale del 1907 -08, che durò fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Per difendersi dalla crisi, gli industriali, soprattutto, quelli stranieri si riunirono in sindacati o cartelli per controllare il mercato; i più conosciuti sono il sindacato Prodamet, per il controllo delle industrie metallurgiche e quello Produgol per l’estrazione del carbone. Superato il periodo di crisi grazie ai sindacati, l’attività industriale continuava a crescere rapidamente per gli investimenti di capitali stranieri nel paese e per la maggiore esperienza acquisita dai tecnici e da operai russi. Lo sviluppo industriale e il commercio nipponico Fino al 1868 l’industria giapponese ebbe, prevalentemente carattere artigianale. Dopo il 1868, con il governo Meiji la politica economica giapponese fu diretta a sviluppare le industrie, perché in esse si vedeva la possibilità di acquistare potenza militare, indipendenza economica e politica dall’estero. Lo stato istituì scuole professionali, richiamò dall’estero insegnanti e tecnici esperti, importò macchine per scoprirne il funzionamento. La maggiore attenzione fu posta alla costruzione di industrie per l’armamento terrestre e navale. Con una legge del 1880 lo stato vendette una parte delle sue imprese ai privati ad un prezzo molto basso per attirare i comparatori e stimolare l’iniziativa privata, in tal modo si favorì la costituzione e lo sviluppo di grandi concentrazioni industriali e finanziarie a carattere familiare chiamate zaibatsu (ossia trust familiare, sotto forma di società in accomandita per azioni). Lo sviluppo industriale fu favorito, non solo dallo stato, ma anche dalla grande disponibilità di manodopera a buon mercato, derivante dalla crescita della popolazione e dai contadini che lasciarono le terre per i salari di fame o per la gravosità delle imposte. Le famiglie contadine non erano più costrette ad uccidere i propri figli, ma li mandavano a lavorare nelle fabbriche. Le crescite più consistenti si ebbero nei settori meccanico, tessile, dei prodotti chimici e della produzione di ceramiche. Nei primi decenni del governo Meiji si ebbe una consistente esportazione di materie prime di prodotti agricoli e furono importate macchine e manufatti dei primi anni del ‘900. La situazione si capovolse, poiché aumentarono le esportazioni di manufatti e si cominciarono ad importare materie prime. La maggiore crescita degli scambi internazionali si ebbe dal 1880 al 1910. A tali risultati si giunse non solo per la politica del governo, che cercò di dare un forte impulso all’esportazione e coprire le importazioni, ma anche per una serie di circostanze che influirono positivamente sullo sviluppo economico del paese: l’attenuazione del protezionismo, in tutto il mondo; l’accentuata svalutazione della moneta sul mercato nazionale, dovuta alla diminuzione del prezzo dell’argento; la crisi della bachicoltura europea per la moria dei bachi da seta; la liberalizzazione del commercio nipponico con basse tariffe doganali. La politica monetaria e bancaria giapponese La politica monetaria bancaria attuata in Giappone, nella seconda metà del XIX secolo, ebbe un ruolo determinante per lo sviluppo industriale del paese. Al riordino della circolazione monetaria contribuirono lo Stato e le banche. Il sistema bancario, dopo i primi anni di incertezza, assumendo le caratteristiche delle banche europee, riuscì a sostenere le iniziative industriali con la concessione di prestiti per il finanziamento di investimenti produttivi. Nel 1868, quando si restaurò il potere imperiale, in Giappone circolava una grande varietà di monete d’oro, d’argento e di rame che differivano per forma, peso e valore nominale. inoltre, circolavano banconote emesse dai daimyo (potenti signori feudali del Giappone premoderno, che governarono vaste regioni del paese durante il periodo feudale, soprattutto tra il XV e il XIX secolo) e dai mercanti. Il nuovo governo dei Meiji, inizialmente, dovendo far fronte ad ingenti spese straordinarie, aggravò il caos della circolazione autorizzando l’emissione di biglietti inconvertibili. Il primo provvedimento governativo, per il riordino del sistema monetario, fu la riconiazione delle monete metalliche esistenti prima del 1868 e la sostituzione dei biglietti dei daimyo con banconote di Stato. Ufficialmente si creò un sistema bimetallico, ma i campi con l’estero si basavano sull’argento. il problema di rendere convertibile la carta moneta fu risolta solo nel 1886, quando furono emesse banconote della Banca del Giappone (costituita nel 1882). In generale, fino alla prima guerra mondiale prevalse il modello delle banche monocellulari, successivamente, cominciarono a diffondersi anche le banche con filiali. Lezione 7 Il nuovo continente nell’Ottocento La conquista delle terre dell’Ovest nell’America del Nord Nei grandi territori dell’America e dell’Australia il problema dell’assetto Fondiario era completamente diverso da quello dei paesi europei: vi era abbondanza di terre poco sfruttate e principalmente mancava il sistema feudale, che costituiva un grosso ostacolo all’introduzione di qualsiasi innovazione tecnica. Nella storia degli Stati Uniti d’America, particolare importanza ebbe l’avanzamento della frontiera dell’est verso l’ovest. I colonizzatori europei, alla fine del ‘700, si erano stabiliti maggiormente lungo la costa atlantica dell’America del nord occupando le terre fino alle Valli degli Apalachi. Durante il XIX secolo, con la crescita naturale della popolazione e la forte immigrazione dall’Europa, si popolarono gradualmente tutte le terre fino all’Oceano Pacifico. Tale spostamento di uomini e di frontiere non fu facile, poiché si trattava di vivere intere sconosciute, piene di insidie e di pericoli, abitati dagli indiani che cercavano di ostacolare l’avanzata dei nuovi arrivati. Come avvenne lo spostamento della popolazione sulle nuove terre? Secondo la teoria del Turner, si ebbero tappe successive. Arrivarono per primi i pionieri, cioè i cacciatori o i mercanti o i missionari, poi i pastori, poi gli agricoltori e, infine, gli insediamenti urbani. In pratica, non sempre la successione fu così rigorosa, variò secondo le difficoltà che si incontravano. D’altronde, le quattro tappe erano valide per l’occupazione delle terre del nord – ovest, ma non per quelle del Sud – ovest, dove i pionieri furono sostituiti da piantatori di colture estensive di tabacco o cotone, i quali riunivano più apprezzamenti e li sfruttavano rapidamente con colture di rapina; quando i rendimenti cominciavano a scendere i piantatori si spostavano su nuove terre e vendevano le prime ai nuovi coloni, che introducevano colture più razionali. Alla conquista dell’ovest partecipò in modo attivo il governo, con quattro forme di intervento: Acquistando o conquistando le terre che appartenevano ad altre nazioni Cacciando con la forza gli indiani Vendendo o assegnando le terre a coloro che desideravano dissodarle Organizzando i territori in stati e comuni Lo spostamento della popolazione verso l’ovest veniva protetto dall’esercito, che provvedeva a cacciare gli indiani dalle loro terre spingendoli verso le zone montuose più povere. La guerra che si ebbe tra il 1874 e il 1890 fu particolarmente dura e si concluse con la definitiva sconfitta degli indiani e il loro isolamento nelle riserve. Le nuove terre acquistate e quelle non ancora popolate furono distribuite, a titolo di gratificazione, ad ex combattenti delle guerre contro gli indiani o contro il Messico, oppure furono vendute a privati e alle compagnie ferroviarie. La vendita ai privati fu stabilita con un’ordinanza governativa che, tuttavia, prevedeva prezzi troppo alti e apprezzamenti troppo ampi. Altro inconveniente derivava dal fatto che spesso il governo metteva in vendita le terre senza tener conto che erano già posseduti da altri coloni pionieri. Ciò causava violenza tra gli occupanti e gli acquirenti. Per ovviare a tali inconvenienti, nel 1862, fu emanato l’Homestead Act, che riconobbe il diritto di proprietà agli occupanti senza pagamento. Le industrie negli Stati Uniti Dall’ultimo decennio del ‘700 allo scoppio della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti realizzarono grandi progressi in tutti i campi dell’economia e maggiormente nelle attività industriali. La crescita di tali attività fu piuttosto lenta dal 1790 al 1820 e molto rapida dal 1840 al 1860. Tuttavia, l’imprenditore che diede la spinta maggiore all’industrializzazione fu Francis Cabot Lowell, che nel 1815, ricorrendo allo spionaggio industriale, riuscì ad impadronirsi del progetto per la costruzione del telaio meccanico inglese e favorì lo sviluppo dell’industria tessile. Le fabbriche di Lowell introdussero la standardizzazione del settore tessile. Whitney e North, tra il 1800 e il 1808 adottarono la standardizzazione della produzione e l’intercambiabilità dei pezzi in una fabbrica per produrre armi. Si trattava. del sistema di lavorazione conosciuto come sistema Americano, con il quale un oggetto, oppure una macchina si ottenevano con il montaggio a catena. Tra le invenzioni di quel periodo bisogna ricordare la fresa universale, capace di realizzare qualsiasi tipo di fresatura elicoidale e il tornio a torretta, sul quale si potevano montare una serie di utensili da taglio disposti in modo da lavorare consecutivamente sul pezzo. Il sistema Americano fu introdotto in molti settori industriali, in particolare nella produzione di macchine tessili e macchine per cucire. Nella seconda metà del secolo si passò alla linea di assemblaggio, che fu applicato soprattutto nelle costruzioni delle auto della Ford e della Cadillac. Con tale innovazione nelle organizzazioni della produzione si passò dall’abilità degli uomini alla capacità delle macchine. Il sistema monetario e le banche negli Stati Uniti La rivoluzione per l’indipendenza delle colonie inglesi dell’America settentrionale fu finanziata dei prestiti e dall’emissione di banconote. Nel 1790, il segretario del Tesoro Hamilton per mettere ordine nella circolazione monetaria, costituita da biglietti di numerose banche, progettò la creazione di una banca nazionale, sul modello della Banca d’Inghilterra. Così fu costituita la Bank of the United States, con sede a Filadelfia, che faceva tutte le operazioni di una banca commerciale, emetteva banconote garantite da oro e argento ed effettuava il servizio di tesoreria del governo federale. Con lo scoppio della guerra di secessione, 1861, il segretario del Tesoro, oltre a prelevare nuovi tributi ed accrescere l’indebitamento della Federazione emise 9 banconote, le United State Notes, meglio conosciute come greenbacks, perché di colore verde. Appena emesse erano biglietti convertibili in moneta metallica, ma dopo qualche mese, sull’esempio dei biglietti delle banche di Stato, il governo stabilì la loro inconvertibilità. Terminata la guerra di Secessione, nella maggior parte dei paesi europei era stato adottato il monometallismo aureo, per cui dovendo gli Stati Uniti pagare loro le merci acquistate in Europa, si ebbe una notevole fuoriuscita di tale metallo dal paese, viceversa l’argento che era svalutato abbondava sul mercato interno. Per ovviare a tale inconveniente e allinearsi a quanto era stato attuato in Europa, con una legge Gold standard Act del 1900, anche negli Stati Uniti fu introdotto il monometallismo aureo. Dalla fine della guerra di secessione allo scoppio della prima guerra mondiale il sistema monetario della Federazione, oltre ad avere le banche di Stato e le banche nazionali, aveva le Casse Di Risparmio (trust companies) e i banchieri privati. La legge di riforma che abolì le pecche del sistema bancario fu approvata nel 1913 e prese il nome di Federal Reserve Act. Essa creò il sistema delle banche centrali che si contrapponeva al sistema inglese con una sola banca centrale. Il sistema era così strutturato: al vertice si trovava il Federal Reserve Board, ossia il consiglio di amministrazione, poi venivano le 12 Federal Reserve Banks e infine le banche affiliate, ossia le Member Banks. I biglietti delle banche della riserva, chiamati Federal Reserve notes, dovevano essere garantiti da una riserva in oro pari al 40 % del loro valore. Il sistema della riserva federale fu organizzato nell’agosto del 1914. Nei primi anni di vita il sistema riuscì a mettere ordine nelle emissioni di biglietti ed elasticità alla circolazione monetaria e mantenne basso il saggio di sconto. Con il controllo sulle attività delle banche spesso si evitò il loro fallimento.

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