Riassunto di Filologia Italiana PDF
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Questo documento riassume la filologia italiana dalla fine del Duecento fino al Cinquecento, coprendo temi come le scuole poetiche del XIII secolo, Dante, Petrarca, Boccaccio, la diffusione della stampa e l'opera di Bembo. Analizza le diverse edizioni e manoscritti, le influenze, e le problematiche legate alla ricostruzione e conservazione dei testi letterari.
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Riassunto filologia italiana Filologia Italiana (FT0077) 21 1 Filologia italiana di Bentivogli e Vecchi Galli Sezione storica: la filologia in Italia 1. Il Duecento Come all'inizio della nostra storia letteraria trovano luogo le scuole poetiche del XIII sec...
Riassunto filologia italiana Filologia Italiana (FT0077) 21 1 Filologia italiana di Bentivogli e Vecchi Galli Sezione storica: la filologia in Italia 1. Il Duecento Come all'inizio della nostra storia letteraria trovano luogo le scuole poetiche del XIII secolo (siciliana, siculo-toscana, stilnovistica), all'inizio della storia della nostra filologia devono figurare i testimoni che quella poesia ci hanno tramandato (Palatino 418, Rediano 9, Vat. Lat. 3793, Vat. Lat. Chigiano L.VIII 305 sono tutti toscani, databili fra Duecento e Trecento; in area veneta abbiamo l'Escorialense Latino e. III. 23 e il Vaticano Barberiniano Latino 3953). Eccezionale è l'importanza che questi manoscritti rivestono per la conservazione del patrimonio poetico del XIII e XIV secolo; inoltre, costituiscono delle autentiche edizioni che selezionano e ordinano secondo criteri non casuali il materiale prescelto. I manoscritti toscani sono testimoni essenziali di quel processo di omogenizzazione linguistica che cancella quasi completamente dalle poesie siciliane i tratti del dialetto originario. 2. Il Trecento: Dante, Petrarca, Boccaccio Dante occupa una posizione di preminenza nella filologia italiana in quanto i momenti cruciali della storia della filologia hanno spesso conciso con l'allestimento di edizioni dantesche, da quelle di Boccaccio sino a quelle di fine Ottocento a cura di Pio Rajna e da Michele Barbi, che hanno inaugurato in Italia la stagione della filologia “scientifica”. Dante inoltre è l'unico autore maggiore della letteratura italiana di cui mancano al tutto scritti autografi: la filologia dantesca è filologia della copia. Mediante metodologia lachmanniana, la Commedia è stata ricostruita dal confronto di circa 800 codici, la Vita Nova e il Convivio da 40 e la Monarchia da 18. Del De vulgari eloquentia abbiamo solo tre copie, mentre del Fiore, del Detto d'Amore, di certe rime ed epistole non resta che un solo testimone. Petrarca merita il titolo di iniziatore della filologia umanistica. Il suo ardore filologico è stimolato dalla letteratura latina antica, classica e cristiana; la letteratura volgare non è degna delle stesse attenzioni. Egli conosce bene la poesia d'oc, d'oïl e di sì. Fra i molti libri della sua biblioteca figura un solo codice in volgare : si tratta della Commedia (Vat. Lat. 3199) che gli donò Boccaccio, e che presenta una sola, breve ed enigmatica annotazione. La sensibilità filologica petrarchesca emerge però nella cura che pone nell'allestimento della sua opera, anche e soprattutto in volgare, e nella conservazione del materiale preparatorio (vedi Vat. Lat. 3195). Questo esemplare può definirsi un'edizione prima ancora della venuta della stampa. La grafia adottata è prototipo nobilissimo di quella semi-gotica che tempera le asprezze della scolastica littera textualis per accostarsi al modello della minuscola carolina al fine d'ottenere un oggetto di superiore eleganza. Petrarca ebbe cura anche degli abbozzi (Vat. Lat 3196, circa 20 carte), che costituiscono parte sostanziale dell'opera alla cui comprensione offrono un gran contributo. Se Petrarca volgare può iscriversi nell'ambito della “filologia d'autore”, con Boccaccio si realizza per la prima volta un progetto filologico consapevole, che ha come oggetto l'edizione e la diffusione dell'opera di uno scrittore volgare (Dante). Boccaccio allestisce un’edizione che al Trattatello in laude di Dante fa seguire la Vita Nova, una silloge di quindici canzoni e la Commedia. Tre sono le copie del poema trascritte dal Boccaccio che ancora si conservano (Toledano 104.6, Riccardiano 1035, Chigiano L.VI. 213). Da una quarta copia perduta si ritiene derivi il Palatino 323. Il testo le cui copie risalgono è quello del Vat. Lat. 3199 (o di un suo “gemello”), che fu inviato a Petrarca e in seguito ritornato a Boccaccio, che intervenne ogni volta con indebite correzioni congetturali e introdusse lezioni da altre fonti. Ne risulta dunque un testo inaffidabile e contaminato. I suoi codici e gli esemplari che ne derivano dominano a lungo il campo, costituendo una vulgata del poema che sarà accolta nella tradizione a stampa ed eserciterà la sua autorità fino all’Ottocento. Analoga è la situazione della Vita Nova, trascritta in due codici (Toledano e Chigiano L. V. 176). Interessante è come l’editore estrae dal testo e colloca ai margini, in nota, le “divisioni” che Dante fa seguire di norma alle poesie. Boccaccio sacrifica pertanto il rispetto della volontà dell’autore all’esigenza di rendere l’opera più rispondente al gusto e alle aspettative del lettore, salvo poi inventare una misteriosa testimonianza che gli assicurerebbe il postumo consenso del suo autore. Emerge qui, forse prima volta, una questione spinosa: all’editore è consentito intervenire sul testo al fine 19 21 1 d’agevolare l’approccio di un lettore non specialista? Se sì, fino a che punto? Deve porsi al servizio del testo o del lettore? L’autografia del codice Hamilton 90 ha consentito a Vittore Branca di allestire su un fondamento sicuro l’edizione critica del Decameron. Il manoscritto è lacunoso per la caduta di tre fascicoli, poco curato e macchiato da sviste ed errori che aumentano col procedere della trascrizione. Interesse particolare rivestono, come primo esempio illustre di “libro-archivio d’autore”, i tre “zibaldoni” autografi (Laur. XXIX. 8, Laur. XXXIII. 31, Nazionale II. II. 327). 3. Il Quattrocento Nel “secolo senza poesia” (dalla morte di Boccaccio alla rinascita della letteratura volgare tra Firenze e Ferrara) in Italia inizia la diffusione della stampa a caratteri mobili (Canzoniere impresso a Venezia da Vindellino da Spira nel 1470). Sono gli anni eroici della filologia umanistica, che rinnova a fondo gli studi classici, in Italia e poi in Europa. Da Oriente, soprattutto verso la caduta di Costantinopoli, inizia l’afflusso di codici greci e bizantini. La filologia umanistica è, soprattutto nei primi decenni del secolo, rigorosamente latina e, più tardi, anche greca; la tradizione volgare è spesso ignorata o considerata con sufficienza. La filologia scientifica di stampo tedesco cui gli italiani si rivolgeranno a fine Ottocento, affonda le sue lontane radici proprio nella filologia dei nostri umanisti. La filologia umanistica stabilisce o recupera princìpi di ecdotica ancora generalmente validi. (emendatio ope codicum e ingenii, lezio difficilior, eliminatio codicum descriptorum e il concetto di archetipo). D’altra parte, se le avanguardie umanistiche non concepiscono una filologia che non si eserciti sui classici, la vitalità della tradizione volgare (delle tre Corone) è testimoniata dall’immensa produzione di manoscritti volgari ancora oggi conservati. Essendosi innalzato il numero delle persone in grado di leggere e scrivere in volgare, è aumentata anche la produzione di letteratura dedicata a lettori non professionisti. Le preoccupazioni di correttezza testuale che assillano gli umanisti sono quasi sconosciute: i testi vengono smembrati nella convinzione che il lettore può rimodellare l’opera a suo gusto. Nel Quattrocento, soprattutto a Firenze, la dignità della tradizione volgare trova difensori anche nell’ambiente umanistico: Leon Battista Alberti, umanista bilingue, Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Cristoforo Landino. Il superamento definitivo di ogni pregiudizio nei confronti della letteratura in volgare due-trecentesca è segnato da un’impresa filologica che vede la collaborazione di Lorenzo de’Medici e del Poliziano. Essi infatti, fra il 1476 e il 1477 allestiscono la Raccolta Aragonese, vasta antologia lirica inviata in dono a Federico d’Aragona. 4. Il libro a stampa L’originale perduto della Raccolta Aragonese fu certamente un libro di lusso da biblioteca principesca, in cui vengono escluse i dozzinali libri a stampa. Quest’ultimi però, favoriti dal prezzo competitivo, cominciavano a conquistare il mercato, sino ad arrivare alla fine del XV secolo ad operare una concorrenza imbattibile. Naturalmente il libro a stampa mise in crisi soltanto la produzione di manoscritti venali: sopravvisse infatti il manoscritto messo insieme a uso proprio dal privato. L’edizione manoscritta si identifica pur sempre in un esemplare unico, che, anche se copiato, verrà deteriorato a causa degli errori dei copisti. L’edizione a stampa invece, mettendo in circolazione un numero elevato di esemplari identici, fissa il testo in una forma più stabile di facile sopravvivenza e diffusione. L’edizione a stampa di un testo richiede spesso l’intervento di un curatore, che talvolta è lo stesso autore. Va tenuto presente che chi stampa e vende libri ha per primo scopo quello di offrire un prodotto che soddisfi le vere o presunte esigenze del pubblico, aspetto che manipola fortemente l’opera. Una diversa forma di coercizione che diviene in breve tempo, soprattutto a partire dal pieno Cinquecento, anche molto pesante, è quella della censura, con cui autorità civili e religiose vietano la stampa (favorendo l’editoria clandestina e il ricorso ad opere manoscritte) o obbligano i curatori a revisioni. Dagli anni settanta del XV secolo si cominciano a pubblicare i classici della letteratura volgare, né tardano ad arrivare a stampa le opere dei maggiori contemporanei (Poliziano, Boiardo, Pulci). Accade spesso che il tipografo che ripubblica un’opera attinga alla prima edizione (editio princes) che è agevole acquisire e riprodurre, piuttosto che a un manoscritto. Ciò significa che di norma, mentre l’editio princes che ha necessariamente attinto da un manoscritto molto spesso perduto è testimone utile al restauro testuale, le successive edizioni a stampa non hanno alcun valore (caso fortunato è quello del Rerum vulgarium fragmenta). Molti autori iniziano già nel Quattrocento a occuparsi dell’edizione a stampa delle proprie opere. Soprattutto nei primi tempi però, non è raro che delle tirature non sopravviva neppure un esemplare e che l’opera ci sia tramandata solo da 19 21 1 manoscritti e da edizioni non originali. È il caso ad esempio de L’inamoramento de Orlando del Boiardo, che nel 1482 ebbe una prima edizione a stampa di cui nessun esemplare si è salvato. Al contrario, nel Cinquecento si salvano edizioni originali come le Prose della volgar lingua e l’Orlando furioso. Sorte analoga ebbe la seconda edizione nel 1840 dei Promessi sposi. Non mancano ovviamente edizioni prive del controllo degli autori o addirittura pubblicazioni avvenute senza il consenso degli stessi (si veda il caso della Gerusalemme Liberata di Tasso). Infine, non sono poche le opere che rimangono inedite fino alla morte dell’autore (si vedano le Stanze del Poliziano). 5. Il Cinquecento Le edizioni di Petrarca e Dante sancivano il recuperato prestigio della letteratura volgare; a decretarne il trionfo provvederanno le Prose della volgar lingua di Bembo (1525). Come conseguenza, si ha una ripresa di interesse per le fonti più antiche e autorevoli della nostra letteratura. Come Petrarca e Boccaccio avevano trascritto i codici dei classici greco-latini, Bembo si mise a ricercare libri volgari due-trecenteschi, da cui trasse alcune copie. L’eccellenza riconosciuta al modello petrarchesco stimola nuove ricerche sulla sua produzione volgare. Allievo di Bembo ed editore postumo delle rime, Carlo Gualteruzzi nel 1525 dà la prima edizione moderna del Novellino. Ma l’impresa più importante, per il recupero e la diffusione della poesia delle origini, è l’allestimento, dei Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani (Giuntina di rime antiche, 1527). Destinata a fornire per secoli il testo base della poesia italiana antica, attinge da fonti diverse, talvolta anonime (come per i sonetti di Dante da Maiano). Proclamato da Bembo, il primato della letteratura toscana trecentesca, con annesso diritto a costituirsi come modello della lingua letteraria d’Italia, fu largamente riconosciuto che nelle Prose era stato posposto al Petrarca. Monaco benedettino e studioso di antichi testi toscani, Vincenzio Borghini mise a frutto il bagaglio di conoscenze ed esperienze accumulato dalla filologia degli umanisti, e comprese che i problemi della filologia greco- latina, che opera su testi in lingua letteraria e morta, non erano gli stessi di una filologia “moderna”, che opera su testi in lingua viva, non regolata da una norma grammaticale cristallizzata. Sul problema dell’edizione dei testi in prosa del XIII e del XIV secolo, le sue riflessioni sono esposte lucidamente nelle Annotazioni et discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron (1574) e nell’incompiuta Lettera intorno a’ manoscritti antichi. Per quanto attiene alla ricostruzione del testo, Borghini sostiene la necessità di confrontare il maggior numero possibile di testimoni; il confronto deve consentire di riconoscere i più attendibili. L’azzardo dell’emendatio congetturale dev’essere evitato, ed è necessario indagare sulle origini delle alterazioni, tenendo conto del carattere e della cultura dei copisti. Questi poi si dividono in tre tipi: Quelli che scrivono libri “a prezzo”, commettendo errori madornali; Quelli che “a bello studio, pensando di far meglio, volsono errare”; Quelli che copiano “per piacere o per onesto esercitio ”, che sono i più attendibili, ma che spesso alterano e tagliano il testo a loro piacimento. Punto centrale della riflessione borghiniana è il rispetto per il testo quale l’autore lo ha scritto , e dunque la necessità che chi copia si astenga dal modificarlo per adattarlo alla mutata situazione linguistica: si opponeva quindi alla prassi corrente fra gli editori del suo tempo. Sulle poche opere di area non toscana si intervenne in modo più radicale; è il caso del problema boiardesco riproposto al pubblico nel rifacimento di Berni , e solo nell’Ottocento venne recuperata la veste linguistica originale. Negli altri studiosi fiorentini del pieno e dell’ultimo Cinquecento prevale l’attenzione per l’aspetto linguistico, e non filologico. 6. Il Seicento e il Settecento Il magistero di Borghini e la filologia cinquecentesca in generale non hanno eredi nel Seicento: continuano le polemiche e le indagini sulla lingua mentre gli studi filologici sono quasi del tutto trascurati. Causa di tale abbandona è la caduta d’interesse da parte dei letterati e dei lettori per le opere del passato, di cui solo pochi capolavori si continuano a ristampare. Fortunatamente però, nel Seicento si costituiscono o si arricchiscono in modo decisivo alcune delle grandi biblioteche italiane private e pubbliche: in esse trova ricetto quel ricchissimo materiale soprattutto manoscritto su cui lavoreranno eruditi e filologi del Settecento e dell’Ottocento (Biblioteca Ambrosiana, Biblioteca Nazionale centrale di Firenze, Riccardiana, Marucelliana, Laurenziana, Vaticana). Lo sviluppo delle ricerche storiche ed erudite, carattere peculiare del XVIII secolo, coinvolge anche gli studi letterari e affina le discipline ausiliarie alla filologia. Il riaccendersi dell’interesse per la letteratura antica stimola una ripresa 19 21 1 dell’attività editoriale che produce spesso testi poco affidabili. Ludovico Antonio Muratori, erudito del secolo, recupera la trecentesca Cronica di anonimo romano. I bibliofili come Apostolo Zeno si dedicano con tenacia alla ricerca di manoscritti antichi. Gli studiosi settecenteschi lavorano spesso piuttosto sulla quantità che sulla qualità, e cadono di frequente in errore. In alcuni settori si registrano progressi decisivi, come nella catalogazione e nell’illustrazione delle raccolte di codici delle grandi biblioteche. Quanto alle edizioni di testi antichi, tornano a stampa autori trascurati da tempo, e non mancano pubblicazioni di inediti tre-quattrocenteschi (Istoria della volgar poesia di Giovan Mario Crescimbeni). Il più significativo recupero dei quattrocentisti toscani è quello del Burchiello, che in una stampa a Livorno nel 1757 riunisce sotto il suo nome una quantità di materiale incerto e spurio. I responsabili delle edizioni settecentesche, spesso coperti dall’anonimato, si concedono pesanti arbitri. Il passo successivo è la confezione del falso, di cui era maestro il falsario ferrarese Girolamo Baruffaldi. Nella diffusa indifferenza per questioni di metodo, spicca il problema del testo della Commedia. Contro quanti non ritenevano di doversi discostare dal testo della vulgata aldina, e contro l’edizione del poema “ridotta a miglior lezione” dagli Accademici della Crusca (1716), intervenne nel 1775 Bartolomeo Perazzini con le sue Correctiones et adnotationes in Dantis Comoediam. Perazzini sosteneva la necessità di procedere ad un confronto sistematico dei codici, adottando il criterio della lectio difficilior , di localizzare i testimoni e studiarne le particolarità linguistiche: sapeva che un gruppo numeroso di codici di comune ascendenza non ha maggiore autorità di un testimone isolato e indipendente. 7. Il primo Ottocento I primi decenni del XIX secolo non furono felici per la nostra filologia, che accumulò un ritardo grave rispetto ai più avanzati paesi stranieri. È indubbio che gli intellettuali di maggior valore e prestigio dell’Italia neoclassica e romantica ebbero scarso interesse per le discipline filologiche, additate come retaggi pedanteschi. Toccherà ai puristi, considerati i più attardati nel panorama culturale del secolo, preservare nella ricerca e nella pubblicazione di testi antichi, anche se al merito di recuperare testi sconosciuti questi difensori della lingua dell’aureo Trecento non uniscono quasi mai quello di pubblicarli in modo corretto. Un trattamento non meno disinvolto si riserva anche a testi recenti, sui quali i curatori intervengono per aggiungere parti mancanti. Il caso più noto è quello dell’edizione postuma del Giorno pariniano, in cui Francesco Reina provvede a dare forma compiuta a un’opera che era tale soltanto per la prima parte. Quanto ai criteri da adottare per la resa grafica e fonetica, dei testi antichi, la prassi corrente prevede ancora interventi massicci, anche se non mancano esempi di trascrizioni diplomatiche o semidiplomatiche che adottano i modelli delle trascrizioni di documenti non letterari. Continuano a proliferare i falsi : si vedano le famigerate Carte d’Arborea, manoscritti il cui contenuto avrebbe dovuto documentare l’attività poetica di un gruppo di rimatori sardi del XII secolo. Altro segnale inquietante è la perdita di cognizioni importanti già acquisite e diffuse in passato, come la scomparsa all’inizio dell’Ottocento della nozione dell’autografia petrarchesca del codice Vat. Lat. 3195, riscoperta da un filologo francese. Spesso infatti, sono gli stranieri ad intervenire con autorità nel campo della filologia nostrana: il maggior filologo dantesco di questi anni è infatti Karl Witte; si ricordi inoltre l’italiano di nascita ma di adozione inglese Antonio Panizzi, che nel 1830-1831 pubblicò l’Orlando innamorato nella versione originale. 8. Il secolo Ottocento e la scuola storica L’avvio del mutamento decisivo, che vedrà la filologia italiana recuperare infine il grave distacco nei confronti di quella d’oltralpe, può essere fissato negli anni sessanta del secolo, quando negli studi letterari si viene delineando la “scuola storica”. In opposizione alla critica estetica desanctiana, la nuova suola indicava nell’accertamento del fatto, nella ricostruzione oggettivamente documentata del quadro storico, il compito primario dello studioso. La filologia recuperava una posizione centrale, nella convinzione che la riflessione critica poteva trovare solido fondamento solo nella certezza del testo, e nella sempre più diffusa e allarmata consapevolezza che le edizioni dei nostri classici erano inaffidabili. I risultati più importanti arriveranno più tardi: il 1860 è l’anno di svolta per la concomitanza di avvenimenti determinanti. La nascita dello stato italiano promuove il rinnovamento della politica culturale: nel 1860 Giosuè Carducci e Alessandro D’Ancona vennero nominati sulle cattedre di Letteratura italiana a Bologna e a Pisa. Nello stesso anno nasce a Bologna la Commissione per i Testi di Lingua, affidata a Francesco Zambrini, con lo scopo di ricercare e pubblicare testi 19 21 1 letterari dei primi secoli, giovandosi della disponibilità delle biblioteche aperte agli studiosi dopo l’unità. Zambrini fece il repertorio delle Opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV , tuttora strumento d’indagine. Carducci e i suoi allievi non confluirono nella scuola storica , sebbene condivise con i fondatori anche istanze filologiche. Sebbene Carducci non conoscesse il metodo di Lachmann, la sua attività editoriale rivela interessi e competenze filologiche che non si trovano in studiosi della precedente o della sua stessa generazione. Il lavoro filologico costituì il suo impegno primario. All’impegno filologico, Alessandro D’Ancona si presentava ancor meno attrezzato di Carducci: era un comparatista e uno studioso di lettura popolare totalmente autodidatta. Se è acquisito il principio che l’edizione critica deve tenere conto di tutti i testimoni, rimane del tutto sconosciuto quello della necessità di classificarli. L’edizione interpretativa del grande canzoniere delle origini, il codice Vat. Lat. 3793, fu la prima impresa di grande rilievo filologico portata a compimento dalla scuola storica. Agli inizi degli anni ottanta è già attivo un gruppo si studiosi delle scuole, soprattutto bolognesi e pisane, concordi nel sostenere in nuovo metodo di studi. Due di loro, Francesco Novati e Rodolfo Reiner, insieme ad Arturo Graf fondano nel 1883 il “Giornale Storico della Letteratura italiana”, periodico che divenne l’organo ufficiale della scuola storica , accogliendo contributi di storia ed erudizione e mostrando come in ambito filologico ci si muova ancora con difficoltà. Negli stessi anni si registrano altre edizioni, non tali ancora definirsi critiche. Il passaggio decisivo, nel senso di una ricostruzione del testo che si fonda sul confronto e sulla classificazione dei testimoni e sul ricorso allo stemma codicum per le varianti adiafore, avviene ad opera dei filologi romanzi. Attingendo dalla scuola tedesca di Friederich Diez e francese di Adolf Tobler e Adolfo Mussafia, i filologi romanzi applicano quel metodo anche alla nostra letteratura. Fondatore in Italia della filologia romanza e massimo esponente della scuola storica è Pio Rajna, allievo di D’Ancona che ottenne all’Accademia scientifico-letteraria milanese la prima cattedra di Letterature romanze. Si ricorda soprattutto l’edizione critica del De vulgari eloquentia: per la prima volta un’opera italiana è pubblicata applicando il rigore del metodo. Primo in Italia ad applicare il metodo scientifico, Rajna è anche il primo a darne un’illustrazione nelle pagine dei Testi critici, additato come saggio capostipite della famiglia di manuali novecenteschi di filologia italiana. Nell’ultimo decennio del secolo il progresso nelle discipline linguistiche e filologiche appare evidente in un gruppo di studiosi (Francesco D’Ovidio, Tommaso Casini, Salomone Morpurgo, Vittorio Rossi, Francesco Flamini). Fra tutti, spiccano Ernesto Giacomo Parodi e Michele Barbi. Il primo, allievo di Rajna, allestisce un’edizione del Tristano Riccardiano (1896). Barbi ha invece il merito di aver applicato per la prima volta senza incertezze il metodo lachmanniano a un’opera volgare (1907, edizione critica della Vita Nuova), a tutt’oggi ancora esemplare. Barbi sostenne che l’aspetto fonetico andava in tutto salvaguardato, che nessun elemento sostanziale della lingua antica doveva essere alterato, ma che, al contrario, per non intralciare il lettore si dovevano ridurre all’uso moderno quelle grafie che erano state introdotte per adattare l’alfabeto latino ai suoni della lingua volgare; venivano abbandonate allo stesso modo grafie latineggianti, etimologiche o pseudoetimologiche: la lingua antica veniva scritta con la grafia odierna. 9. Il primo Novecento L’edizione critica della Vita Nuova appare al termine della scuola storica (1907 morte di Carducci, 1914 morte di D’Ancona). La crisi è dovuta anche all’affermazione della scuola di Benedetto Croce, che si concentra sul giudizio del valore estetico dell’opera considerando, contrariamente alla scuola storica, discipline come la filologia e la linguistica totalmente ausiliarie. A dar man forte si aggiunge l’accoglienza che ottengono anche in Italia le critiche e quel metodo formulato da Joseph Bédier; la difesa del codex optimus finisce spesso per autorizzare soluzioni editoriali approssimative e avventurose. Nel 1921, in onore del centenario, vengono pubblicate le Opere di Dante nel testo critico della Società Dantesca Italiana. Importante è l’edizione della Commedia, curata da Giuseppe Vandelli in sostituzione a quella del 1894 di Edward Moore. Quanto alla lingua, si cercò di recuperare la forma autentica del volgare toscano e fiorentino dell’epoca di Dante. Al di fuori del settore dantesco la situazione della filologia italiana è largamente deficitaria. A denunciarne il tracollo ci pensa Barbi, nell’introduzione a La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante a Manzoni. L’anziano filologo affronta il problema della sempre più scarsa considerazione in cui le nuove generazioni tengono gli studi filologici. Ciò comporta il diffondersi di edizioni totalmente scorrette. Esaminate le critiche mosse da Bediér e da dom Henri Quentin, Barbi conclude che vi sono casi in cui l’applicazione del metodo lachmanniano, che proprio per questo motivo non 19 21 1 può definirsi scientifico, non sarà possibile. Nel caso di manoscritti autografi, Barbi esprime la necessità di misurarsi nel campo della filologia d’autore; si tratta dell’individuazione di un settore specifico, che consente alla filologia italiana di affrancarsi dalla condizione di inferiorità nei confronti delle filologie romanza e classica. 10. Il secondo Novecento Quando Michele Barbi licenzia la nuova filologia, la riscossa auspicata è già iniziata con importanti edizioni nel campo della filologia d’autore (Moroncini, Debenedetti, Contini, con cui ha ufficialmente inizio la critica delle varianti). L’esigenza di disporre di edizioni critiche che rappresentino diacronicamente i diversi stadi del processo elaborativo, restituisce al filologo (a Contini e a De Robertis) il ruolo primario che la critica crociana gli aveva negato. Il saggio Filologia e critica di Caretti (1951) stabilisce i criteri che individuano l’edizione critica d’autore e sancisce la necessaria connessione e collaborazione di due discipline ritenute fino a poco prima inconciliabili. La rinascita non riguarda soltanto la filologia d’autore; anche delle opere a tradizione non autografa, soprattutto dei primi secoli, si allestiscono edizioni critiche importanti. L’edizione critica si adatta al testo: come dice Contini, si propone come un’”ipotesi di lavoro”. Le eccellenti prospettive della rinata filologia sono testimoniate nel 1960 dal convegno bolognese per i cent’anni della Commissione per i Testi di Lingua. La seconda metà del secolo fu uno dei periodi più fecondi e vivaci della storia della nostra filologia. Per la filologia d’autore si ricorda l’edizione critica del Decameron a cura di Vittore Branca e quella diplomatica di Charles S. Singleton (1874), entrambi fondate sul manoscritto Hamilton 90 di Berlino. Per quanto concerne il metodo, la questione più dibattuta era sul fatto che il testo critico dovesse rappresentare l’ultima volontà dell’autore o se non fosse più utile, in certi casi, il testo nella redazione decisiva per la storia interna e per la ricezione del testo stesso. Per la filologia di copia, il dibattito sul metodo lachmanniano era giunto alla conclusione che il filologo dovesse accertarsi che la natura del testo e le caratteristiche della tradizione fossero confacenti al tipo di metodo adottato. Se in certi casi, la dimostrata eccellenza di un testimone induce a soluzioni francamente béderiane, non mancano esempi in cui si è optato per una selezione dei testimoni concorrenti alla definizione del testo: è il caso dell’edizione critica della Commedia secondo l’antica vulgata curata da Giorgio Petrocchi , che sceglie soltanto i codici databili entro il 1370, contraddicendo il principio secondo cui recentiores non deteriores. Una questione del XIX secolo riguarda la soluzione da adottare per quanto concerne la resa grafica, fonetica e morfologica del testo, problema particolarmente spinoso per le opere dei primi tre secoli di letteratura italiana. Per quanto riguarda la grafia, la prassi di Barbi e Parodi di sostituire la grafia antica in favore della lingua moderna fu rifiutata o corretta da molti editori in favore della conservazione della grafia antica (come fece Contini nel Canzoniere). Per quanto riguarda la determinazione delle forme della lingua , il dibattito riguarda la soluzione preferibile quando l’opera sia tramandata da più di un testimone. In tal caso, le soluzioni sono le seguenti: Seguire fedelmente un solo testimone che si ritenga più degli altri vicino all’assetto linguistico originale (soluzione béderiana da applicarsi anche con una ricostruzione lachmanniana); Attingere dai vari testimoni le forme che possano di volta in volta risultare più attendibili; Selezionare le varianti di forma, non diversamente da quelle di sostanza, sulla base della sistemazione stemmatica della tradizione, applicando cioè il principio della maggioranza. Nel primo caso la scelta di un solo testimone potrà risultare opinabile; nel secondo ci si dovrà affidare spesso a testimonianze isolate e nel terzo la lezione preferibile a norma di stemma potrà essere frutto di un’irresistibile convergenza su forme linguistiche banali o più tarde. La filologia dei testi a stampa (textual bibliography) ha da alcuni decenni suscitato l’interesse anche dei filologi italiani: ci si è occupati ad esempio di manoscritti allestiti da autori o editori per fungere da esemplari per il tipografo, e si è approfondito il fenomeno delle modifiche apportate agli esemplari durante la tiratura. È venuta meno l’aprioristica convinzione che la tradizione a stampa sia in ogni modo meno importante e affidabile di quella manoscritta, e che la bibliologia deve entrare ormai nelle competenze del filologo italiano. Compito primario della filologia italiana è la ricerca e l’illustrazione di materiali inediti o poco noti. Alfredo Stussi, per esempio, ha riportato di recente alla luce la canzone Quando eu stava in le tu’ cathene, primo esemplare conosciuto di poesia d’amore in volgare italiano. Particolare impulso hanno avuto anche le indagini su questioni attributive e di autenticità. Il caso più clamoroso è quello del Fiore di Dante, il rifacimento in sonetti del Roman de la Rose, 19 21 1 attribuito a Dante da Contini ma contestato ancora da molti. L’acquisita autonomia della disciplina, equiparata alle materie scientifiche, ha indotto autorevoli specialisti a pubblicare manuali di filologia italiana. È ormai assodato che una piena comprensione e una fondata valutazione del testo letterario non possono prescindere in alcun caso dal rigoroso accertamento del testo stesso. Sezione metodologica: l’edizione critica 1. Il testo e l’edizione: nozioni preliminari L’edizione critica di un testo è un’impresa scientifica fondata su procedure di pubblicazione relativamente formalizzate, che aspirano all’oggettività e che, dal punto di vista storico, si riconoscono in scuole e metodi diversi. Degli aspetti dell’opera letteraria, l’edizione critica affronta il livello testuale, cioè elabora e pone in atto le tecniche che garantiscono la pubblicazione e la corretta fruizione del suo originale. Una prima distinzione è fra la nostra letteratura antica e quella moderna e contemporanea, caratterizzate da differenti metodiche editoriali. 2. I manuali, i “classici” La filologia italiana è spesso attiva su testi di cui si conservano solo le copie, ma a differenza della filologia classica e romanza, ha elaborato anche strategie atte a pubblicare opere , manoscritte o a stampa, antiche o contemporanee, di cui possediamo l’originale d’autore o magari più originali. Per quanto riguarda la cura del testo, che è uno dei compiti fondamentali della filologia, Segre afferma che i primi espedienti usati per la critica del testo (collazione e congettura) indicano già due direzioni principali delle ricerche possibili: una documentaria, centrifuga, l’altra interpretativa, centripeta. L’attitudine alla congettura si sviluppa però soltanto grazie all’esperienza di testimonianze plurime e un’analisi interna al testo, alle sue leggi di coesione stilistica e linguistica. Contini dice che un’edizione critica è una mera ipotesi di lavoro, la più economica che colleghi in sistema i dati. 3. L’edizione critica: una forma per una definizione La constitutio o restitutio textus è l’obiettivo perseguito dalla filologia di ogni tempo , che si è proposta di far rivivere gli originali perduti o di individuare e pubblicare le testimonianze autentiche dell’opera letteraria (autografi, idiografi o stampe d’autore). Specialmente per la letteratura italiana dei primi secoli la ricerca dell’originale è spesso una mera approssimazione; di molti autori moderni e contemporanei si possiedono invece le opere in versione definitiva e autentica, manoscritta o a stampa. Se l’originale di un’opera è l’obiettivo e il prodotto finito dell’edizione critica, essa è a sua volta suddivisa in alcune sezioni: Nota al testo (o introduzione o postfazione); Testo critico (testo dell’originale); Apparato critico. Tali sezioni contengono la giustificazione scientifica dell’edizione stessa. Sono accessori strumenti come note esegetiche, glossario, tavola metrica e indici diversi. Se la tipologia è variabile, il binomio testo più apparato consente di distinguere l’edizione critica da ogni altra forma di pubblicazione di un testo. Il testo critico, presente nell’edizione critica, può anche venire accolto in edizioni commentate o correnti dell’opera. 4. Prima dell’edizione critica: il manoscritto, la scrittura, la stampa Di solito, il supporto materiale di un’opera antica è il manoscritto (ms. o codice): un insieme di fogli, o carte (f. o c.) di membrana (o pergamena) o carta, in cui il copista o amanuense, oppure l’autore, hanno vergato il testo. Lo studio degli aspetti materiali e ornamentali del manoscritto può essere affrontato con l’aiuto di una disciplina specialistica, la codicologia. Le prime difficoltà dell’editore sorgono proprio dalla necessità di decifrare ed interpretare correttamente testi mal conservati e trasmessi in forme lontane da quelle in uso oggi. Spesso infatti, due o più parole sono state scritte come un unico grafema e gli stessi fonemi sono stati tradotti in diversi allografi. Sono necessarie pertanto conoscenze paleografiche: nell’ambito della filologia italiana antica, esistono grafie standardizzate che assumono la loro denominazione dalla tipologia e dalle epoche o ambienti che le hanno prodotte. Di norma l’edizione critica non trascura neppure le stampe, integrali o parziali, dell’opera, a partire dalla prima (l’editio princeps) sino alle riproduzioni più recenti. L’edizione a stampa, specialmente se antica e vigilata dall’autore, ha la stessa funzione testimoniale del manoscritto. L’età del testimone non ne determina a priori la qualità sul precetto “recentiores non sunt deteriores”. Talvolta, può capitare che un’edizione antica quattrocentesca 19 21 1 (incunabolo) o cinquecentesca (cinquecentina) conservi un’opera di cui si sono perdute tutte le copie a mano: se la stampa è stata curata dall’autore, avrà valore di originale. Il passaggio dal manoscritto alla stampa avvenne in Italia fra il XV e il XVI. Oltre all’apparizione di inedite figure di artigiani, compositori e di nuove attività commerciali- culturali legate al libro, la novità sta nell’elevato numero di diffusione di un’opera. L’incontro con la tipografia impone di definire l’intero campo della comunicazione scritta. Da un lato stabilizza la norma grafica e linguistica: l’edizione del Petrarca di Bembo è uno dei primi esempi di disciplinamento formale di un antico manoscritto compiuto da una stampa “moderna”. Dall’altro è strumento decisivo a fissare la vulgata di un’opera, ossia il testo che la tramanda senza un sistematico controllo della sua tradizione (textus receptus). La copia a mano sopravvive per tutto il XVI secolo e oltre, affiancando l’esemplare di tipografia: si continua a scrivere per diletto. Fra XV e XVI secolo la stampa si specializza nella pubblicazione delle prime edizioni autoriali e il manoscritto mostra predilezione per la raccolta di più autori (“miscellanea”). Manoscritti, stampe e ogni altro genere di fonti, complete o parziali, compongono la tradizione (diretta o indiretta) di un’opera. 5. Edizione fotografica, diplomatica e interpretativa Talvolta sopravvivono testimoni la cui importanza storica, letteraria e documentaria è ancora assoluta. Nel corso del Novecento hanno così preso piede studi intesi a esplorare la fisionomia “materiale” della tradizione e della copia. Si sono quindi moltiplicate le riproduzioni, soprattutto quelle fotografiche, di alcuni celebri manoscritti. L’edizione diplomatica è la pura e semplice trascrizione dei contenuti di un documento, senza alcun intervento al di là dello scioglimento delle abbreviazioni. L’edizione interpretativa invece ammette alcuni interventi sul testo volti appunto ad interpretarlo (divisione delle parole, maiuscole e segni diacritici moderni) senza tuttavia procedere alla vera e propria edizione critica (cioè senza emendare eventuali errori o lacune del testimone). Ne è frequente l’uso quando si pubblica un’opera a partire da un manoscritto unico. Nell’edizione diplomatico interpretativa, pur interpretando il documento si segnalano tutte le caratteristiche dell’originale. 6. Il censimento e la tradizione: alcune tipologie esemplari Nessuna edizione critica può prescindere dal censimento della tradizione dell’opera, ossia dalla raccolta e dall’esame di tutti i suoi testimoni conosciuti. All’interno dell’edizione critica, questa lunga fase di raccolta e catalogazione delle fonti, è di solito riassunta in un elenco nella Nota al testo. Spesso l’elenco è accompagnato da una schedatura dettagliata delle fonti. Nel corso del censimento il filologo dev’essere in grado di indicare le caratteristiche codicologiche più salienti del manoscritto secondo formule pressoché standardizzate (descrizione) ed elencarne i contenuti (tavola). Può capitare d’imbattersi in componimenti inediti o sconosciuti che restringano l’interesse dello studioso solo ad alcuni testimoni, che potrebbero inoltre fornire notizie su luoghi, tempi e diverse modalità di duplicazione dell’esemplare: possono manipolare l’opera secondo i gusti dei copisti, ottenendo una tradizione caratterizzante o attiva. Una volta raccolte tutte le fonti (i testimoni) dell’opera, occorre renderle parlanti, e può essere utile isolare alcune tipologie della tradizione. 1. Tradizione plurima di copia (di un’opera si hanno a disposizione diverse copie ma nessun autografo, es. Dante); 2. Testo del quale si conservi una sola copia non autografa (es. Fiore); 3. Testo del quale si conservino sia le copie non autografe che l’originale (o gli originali plurimi, es. Decameron e Canzoniere). L’applicazione più tipica della filologia italiana del Novecento è quella d’autore, e riguarda proprio l’edizione critica che procede dallo studio di originali plurimi e varianti d’autore. 7. Il “metodo di Lachmann” Ecdotica → prassi di pubblicazione di un testo (1926 Henri Quentin). Il metodo in questione si applica con efficacia alle opere della nostra letteratura antica (sino all’avvento della stampa), in presenza di una tradizione plurima e in assenza di originali. Indichiamo con “metodo di Lachmann” una serie d’operazioni che hanno lo scopo di pubblicare l’opera a partire da ciò che resta della sua effettiva diffusione nella storia (la tradizione). La prima e approssimativa definizione di tale metodo spetta a Karl Lachmann, filologo classico. Quest’ultimo postulò alcune operazioni ecdotiche: recensere (con il corollario della eliminatio codicum descriptorium), emendare, origenem detegere. Recensio ed emendatio sono da allora i principi guida del metodo. Il “metodo di Lachmann” è oggi ritenuto nozione sempre più 19 21 1 problematica, motivo per cui la metodologia ha elaborato altri principi di critica testuale, a partire dalle proposte stemmatiche di Paul Maas. Lo scopo di Lachmann fu sottrarre l’edizione alla soggettività dell’editore-interprete in sintesi: Recensio: raccolta dei testimoni superstiti di un testo; Collatio: confronto delle lezioni (collazione); Classificatio: classificazione dei testimoni (con lo stemma, conclusione della recensio); Emendatio ope codicum: individuazione delle lezioni autentiche secondo il principio di maggioranza; Examinatio: individuazione dell’archetipo; Emendatio ope ingenii: applicazione della divinatio (o congettura) per rimuovere gli ultimi errori e restaurare l’originale. 8. Il “metodo di Lachmann” in azione: le prime fasi di intervento (testi a trasmissione plurima di copia) Nel caso di trasmissioni plurime non autografe, una volta raccolti (censiti) i testimoni di un’opera, l’editore mette a confronto (collatio) le testimonianze. Per eseguire la collatio, è necessario incolonnare i versi di un componimento in rima, o i paragrafi di una prosa, così come appaiono nei vari testimoni, a partire da un’esemplare modello, un testo guida (o testo base). Il confronto tra lezioni omotetiche non verrà pubblicato nella nota al testo. Nel caso di tradizioni particolarmente folte, è fruttuoso operare una collazione parziale dei testimoni, mediante il ricorso ai loci critici, luoghi del testo dove si verifica il concentrarsi di errori significativi. La collatio mette in luce anche differenze che investono la natura del testo, il suo significato, la struttura metrica, l’assetto argomentativo. In alcuni casi li denunceremo come veri e propri errori, deformazioni o violazioni del testo. In altri, confrontando le lezioni omotetiche, parleremo di varianti. Fra l’altro, non potremo nemmeno escludere che siano interventi successivi d’autore. 9. Errori e varianti: il problema e la sua soluzione. La classificazione È pressoché inevitabile che copie non autografe di un testo contengano errori. L’errore è un sottoprodotto inevitabile della duplicazione dell’opera. I manoscritti medievali venivano realizzati all’interno di una bottega o di uno scriptorium, con il sistema della pecia, cioè della divisione dell’exemplar in fascicoli: da un esemplare venivano tratte le copie. Da qui nascono tutti gli errori di copiatura (tagli, raddoppiamenti, inversione dell’ordine, banalizzazioni, saut du meme au meme, ecc…). Errori identici, definiti errori poligenetici, si possono produrre in copie diverse in via del tutto indipendente l’una dall’altra (lievi errori meccanici o trivializzazioni). Se invece l’errore è grave e conclamato, si ritiene possibile la sua compresenza solo per filiazione diretta, e viene denominato errore monogenetico (lacuna, inversione di ampie proporzioni, violazione metrico-linguistica). Oltre agli errori, le copie mostrano alterazioni più insidiose. Nei testimoni antichi sono frequenti minime o estese innovazioni testuali ad opera dei copisti. Si tratta di varianti, che diventano errori nel caso in cui non siano autentiche. L’editore deve concentrare la propria attenzione solo sugli errori monogenetici, perché solo quelli forniranno gli strumenti per raggiungere l’originale. Sono proprio gli errori significativi (o errori guida) ad indicare i rapporti di parentela. La correttezza di due testimoni permette di constatarne la reciproca identità, non la loro affinità genetica. Gli errori possono essere condivisi da diversi testimoni , che non li hanno prodotti per via poligenetica (cioè per puro caso), e vengono definiti congiuntivi, o possono essere presenti in una copia dell’opera soltanto rispetto alle altre, e si chiamano separativi. Identificati gli errori guida, è possibile ora, attraverso la stemmatica fondata da Paul Maas, classificare e ordinare geneticamente i testimoni. Va tenuto presente che lo stemma è uno strumento di lavoro, un’astrazione che non coincide quasi mai con l’effettiva trasmissione di un’opera. Con il termine apografo si definisce l’esemplare manoscritto che deriva da altro codice, denominato antigrafo. La famiglia è il raggruppamento di testimonianze che convergono su un comune subarchetipo, sia esso conservato o no; la sottofamiglia è una sua ulteriore frammentazione, derivata da un successivo capostipite. Quando due copie sono accomunate da almeno un errore significativo, è possibile affermare la loro interdipendenza. Se A e B condividono un errore congiuntivo e sono ciascuno caratterizzato da un errore separativo, A deriva da B, B deriva da A o A e B derivano da X. 10. Le varianti: scelte meccaniche 19 21 1 Una volta fissato lo stemma, l’editore dispone dello strumento (del canone) per operare all’interno della tradizione. Anzitutto, potrà eliminare le testimonianze descriptae, che risultano copia di altra copia conservata (eliminatio codicum descriptorum). Passando poi al testo, il filologo si libererà delle lezioni errate, presenti in famiglie o manoscritti isolati dallo stemma, ricorrendo alle vere lezioni documentate e non alla legge di maggioranza. L’errore in sé ha evidenza fenomenica, e costringe all’emendamento, ma anche la lezione apparentemente “buona” potrebbe essere frutto di un restauro non rispondente alla volontà dell’autore, definito restauro conciero. Lo stemma consente inoltre di sgombrare il campo delle lectiones singulares, ovvero innovazioni che variano singolarmente il testo all’interno di una folta tradizione di copia. Infine, il filologo sarà messo in grado di scegliere meccanicamente tra varianti adiafore (o ammissibili) se: Lo stemma è a più rami; È sempre possibile mettere a frutto la legge di maggioranza. 11. Le varianti: criteri “interni; la diffrazione Se non è possibile operare una scelta fra varianti su base stemmatica, l’editore dovrà ricorrere ai criteri interni di usus scribendi e lectio difficilior. Entrambi presuppongono una conoscenza approfondita dello statuto linguistico, formale, ideologico dell’autore. Fra due o più lezioni di uguale peso stemmatico, l’editore sceglierà (selectio) quella che meglio corrisponde alla tipologia formale e culturale dell’autore (usus scribendi, talvolta accertato anche dalle concordanze). Nella lectio difficilior invece si promuove la variante che presenta caratteri di maggior complessità. Esiste una nuova tipologia della tradizione, denominata da Contini diffrazione (o innovazione multipla). L’originale può corrompersi, in famiglie o testimoni diversi, in una serie di varianti adiafore. Quando si instaura una diffrazione, la lezione autentica è talora conservata tra le varianti concorrenti (e individuata come lectio difficilior) : si parlerà allora di diffrazione in presenza; in caso contrario, se fra le lezioni superstiti si annidano solo forme banalizzanti, occorrerà risalire per congettura all’originale, trattandosi di diffrazione in assenza. Dopo tante raccomandazioni a servirsi dei soli errori monogenetici, la filologia italiana ha prudentemente convenuto che la compresenza di medesime varianti può suggerire parentela. Con queste ultime operazioni, l’editore avrà ricostruito il testo tràdito, ossia il testo quale risulta dall’esame critico di tutte le fonti conosciute. 12. L’archetipo È possibile che il testo tràdito risulti, all’esame delle sue lezioni (examinatio), sostanzialmente corretto. Se non vi si riconoscono errori, esso potrà coincidere, in forma più o meno diretta, con il testo dell’originale. L’assenza di ogni mediazione fra l’originale e la tradizione conosciuta è desunta proprio dalla mancanza di errori significativi condivisi da tutte le copie dell’opera. Se invece nel testo tràdito è possibile individuare almeno un errore monogenetico, fra l’originale e la traduzione postuliamo un intermediario, un archetipo. L’archetipo è il nodo teorico con cui sono costrette a fare i conti le edizioni critiche che non abbiano a fondamento un originale conservato. È la più antica, e perduta, copia dell’originale, ricostruita induttivamente dalle operazioni di recentio ed emendatio ope codicum. La presenza in questa copia di almeno un errore significativo permette di inferire che di archetipo e non di originale si tratta. 13. Il cerchio si chiude: l’originale (processi di emendatio) Ipotizzata la mediazione dell’archetipo, l’ultimo intervento dell’editore, necessario alla costituzione dell’originale, consiste nella sua correzione. Una volta identificati, tramite l’examinatio, i guasti dell’archetipo, la loro correzione avviene per emendatio ope ingenii, ossia per congettura: le operazioni sono delere, supplere, transponere e mutare. Non avendo più testimoni di confronto, gli errori dell’archetipo verranno sanati ricorrendo al iudicium e alla divinatio dell’editore. 14. La crisi del “metodo di Lachmann” Dove la prassi lachmanniana denuncia aporie e insufficienze, si affermano altre regole del gioco e altri modi di pubblicare il testo. Tali operazioni si fondano su una lunga riflessione teorica, sviluppatasi in Italia nel corso del XX secolo (Barbi e Pasquali). Anche la Francia partecipa al rinnovamento: dal rifiuto della nozione di “errore” in favore di una classificazione tramite varianti di dom Henri Quentin agli stemmi bipartiti di Joseph Bédier. Questi stemmi rendono inoperoso il processo di emendatio ope codicum: non è possibile scegliere meccanicamente fra due o più lezioni che si fronteggiano con pari autorità stemmatica e 19 21 1 critica. L’aporia è risolta da Bédier mediante il ricorso a un solo manoscritto, depurato soltanto degli errori evidenti, il bon manuscrit (o codex optimus). 15. Recensione aperta Sulla spinta dell’insoddisfazione operativa per il “metodo di Lachmann”, anche in Italia è stato concesso maggior spazio al iudicium. Al di fuori del quadro lachmanniano, la recensio si definisce infatti aperta ogni qualvolta la lezione dell’archetipo non si può fissare meccanicamente. Tra i fenomeni che producono recensio aperta si annoverano: Bipartitismo (o bifidismo o caso di attestazione binaria dell’opera), che produce identica adiaforia delle varianti; Impossibilità di delineare uno stemma codicum che rispecchi l’andamento della tradizione (per effetto di fenomeni come la contaminazione); Presenza di un archetipo o di un originale mobile; Tipologia “tradizionale” e rielaborativa dei testi popolari. Bipartitismo. Quando nello stemma si contrappongono due rami o due testimoni dell’opera si ricorre al iudicium per privilegiare un’unica ramificazione, mettendola a testo base. Contaminazione. Anche nel caso in cui un testimone non discenda da un unico antigrafo o sia inquinato da interventi di correzione “a memoria”, non è possibile applicare Lachmann. Si producono infatti fenomeni di trasmissione orizzontale del testo (convivenza in un esemplare di lezioni di famiglie diverse o correzione di errori significativi che separano un testimone dal ramo da cui discende). Segre ha distinto la contaminazione in semplice, frazionata, multipla oppure sporadica, fitta, completa. Il manoscritto che riporta varianti al testo di un altro ramo della tradizione viene definito editio variorum. Archetipo in movimento. Si tratta di casi in cui lo stemma fa capo ad un archetipo corretto o guastatosi nel tempo o che conserva relitti di più stesure di raccolta. È invalso quindi privilegiare un unico testimone o un solo ramo della tradizione, isolando e pubblicando in apparato le sospette varianti d’autore o le lezioni di altri gruppi. Talvolta sono necessarie procedure più articolate, come la pubblicazione in doppia redazione. Originale in movimento. Caso analogo, in cui le condizioni della tradizione fanno sospettare un autografo che abbia subito correzioni d’autore o la presenza di più originali. Tradizioni rielaborative. È necessario distinguere fra riproduzione e rielaborazione del testo. 16. L’edizione critica basata su un solo testimone (non autografo) Nell’operare con un testo non autografo, portatore di quella tràdito, l’applicazione del “metodo di Lachmann” risulterà semplificata; tuttavia, sono indispensabili l’examinatio dell’interprete per valutare i possibili guasti della fonte e la sua divinatio (o congettura) per sanarli. I dati offerti dal testimone devono essere rispettati sin quando non si offrano ragioni perentorie ed evidenti di correggere. In presenza di testi arcaici, sarà quasi sempre necessario adattarne il sistema grafico all’uso attuale. In alcuni casi, l’editore dovrà dotare l’opera di un titolo (o di altri segnali paratestuali) di cui essa risulti priva (testo anepigrago) o addirittura attribuirla ad un autore, se esso non è esplicitamente indicato dalla fonte (testo anonimo). 17. Pubblicare un autografo (con alcune riflessioni sui problemi di resa grafica) Mentre con l’autografo l’autore ci ha trasmesso l’opera di sua propria mano, o rivista da lui, non sempre vi ha aggiunto chiare istruzioni per pubblicarla. Queste devono essere stabilite dall’editore critico. È necessario dunque attribuire all’autografo una resa ortografica e tipografica attuale. In presenza di autografo trascritto da un autore consapevole delle proprie scelte formali, il rispetto della grafia è raccomandabile. È frequente inoltre che anche gli autografi presentino errori (si veda il Decameron di Boccaccio): se in essi si riconosce l’assenza di volontà da parte dell’autore, vanno emendati; in caso contrario ( errori polari, antitetici), l’editore dovrà astenersi dal correggerli. 18. La filologia d’autore e gli originali plurimi Quest’ambito concerne le edizioni di opere conservate da uno o più manoscritti autografi (o idiografi) o da stampe sorvegliate dall’autore. La definizione di filologia d’autore di Dante Isella sott’intende la stretta relazione e contiguità interpretativa tra ecdotica e interpretazione del testo. La critica genetica esamina tutti i materiali di una elaborazione , tra i quali si fa strada la consapevolezza di una decisione. La critica delle varianti invece esamina stesure già consistenti, se in versi metricamente risolte, sulle quali l’autore lavorerà di ritocchi e 19 21 1 perfezionamenti. La filologia d’autore affronta i problemi legati alla pubblicazione di un’opera a partire da originali e materiali d’autore plurimi e conservati. Si denominano avantesto i materiali che accompagnano le fasi dell’elaborazione scritta, dagli abbozzi alla prima forma compiuta ai ritocchi più minuti, e certi dati non direttamente rapportabili al testo. Talvolta, all’ultima volontà del lettore si predilige un testo base caratterizzato da maggior prestigio storico, meglio rispondente alla poetica dell’autore. È una scelta autoriale che ha il merito del rispetto della continuità di ciascuna fase del testo. 19. Filologia dei testi a stampa La bibliografia testuale, metodo di edizione lachmanniana, è il bagaglio di conoscenze storiche, teoriche e tecniche che si sviluppa attorno alla trasmissione dei testi a stampa. L’edizione fondata su stampe richiede l’applicazione di competenze particolari. Dal censimento del materiale bibliografico al concetto di esemplare ideale (somma di tutte le “forme” di una stessa emissione a stampa); dalla fenomenologia dell’errore all’analisi delle varianti presenti nelle copie di una medesima tiratura, la filologia non può prescindere da una conoscenza del mondo della stampa antica e moderna. 20. L’apparato, gli apparati Posto di solito a piè di pagina, sotto il testo, l’apparato non va confuso con le note esegetiche che spesso accompagnano l’opera e ne costituiscono il commento. Talvolta, come fece Petrocchi, l’apparato è suddiviso in duplice fascia, in cui la prima presenta le varianti di tradizione, la seconda le commenta anche con il ricorso a note interpretative. L’apparato critico assiste nel compito di ripercorrere le fasi dell’edizione stessa. L’ apparato tradizionale, sincronico, registra il comportamento della tradizione di copia : contiene gli errori e le lezioni rifiutate dell’archetipo, e le varianti dei subarchetipi che il filologo ha respinto come spurie. Non accoglie di norma le lectiones singulares (innovazioni documentate da solo un manoscritto), né riproduce le mere varianti formali, grafiche o fonetiche. Ospita invece le varianti redazionali dell’opera, tutti i luoghi dove si sospetti un intervento rielaborativo dell’autore. L’apparato è l’indispensabile complemento del testo critico. È bene perciò che l’apparato non sia affollato di lezioni e annotazioni, anche se talvolta si fa appello agli apparati integrali. L’apparato positivo registra, per ogni caso esaminato, anzitutto la lezione accolta a testo, affiancata dalle sigle dei testimoni che la documentano; a fianco, e separati di solito dal segno ], seguiranno errori o lezioni varianti, e le sigle dei testimoni portatori. L’apparato negativo invece, sottintendendo la lezione accolta a testo, presenta solo la sua variante (o l’errore corrispondente) seguita dalle sigle dei testimoni portatori. Per quanto concerne invece l’apparato diacronico (o genetico), si tratta di un apparato che ospita e discute le varianti d’autore, distinguendole in genetiche ed evolutive. È genetica la fascia di apparato che precede il testo definitivo; evolutiva quella che ne rappresenta un ulteriore sviluppo, magari non approdato a una stesura ultima. 21. Criteri grafici e colorito linguistico: la “restituzione formale” La restituzione formale è una riflessione sulla resa grafica, fonetica e morfologica di un testo critico. Nel caso di opere dei primi secoli, si instaurano parecchi diasistemi, ovvero casi di compromesso fra lingua dell’autore e quella del copista. L’editore, una volta stabilita l’esatta lezione dell’originale, dovrà renderla fruibile per il pubblico di oggi. Nel caso di una tradizione di copia si devono selezionare le forme più vicine all’assetto dell’originale, oppure guardare ad un solo testimone dell’opera, che dovrà essere il più completo, attendibile e vicino all’originale perduto. A differenza dei moderni, i filologi più conservativi sostengono che sia indispensabile riprodurre quasi integralmente le abitudini scrittorie (grafiche) degli autori antichi, per illustrarne la qualità e le caratteristiche. Per paura di compromettere la pronuncia, oggi si tende a non accettare il criterio dell’ammodernamento grafico. 22. Ultime questioni 22.1 Metrica e filologia Rima e metro sono eccellenti indicatori di correttezza del testo. Specialmente nell’uso antico, la trascrizione di un componimento in rima avveniva solitamente in forma continua, a tutta pagina. Ciò comporta che l’editore, in presenza di forme metriche non rigide, debba suddividere correttamente le strofe. Inoltre, la poesia dello origini è spesso caratterizzata da anisosillabismo, cioè da instabilità sillabica del verso che sfocia in ipermetrie o ipometrie “strutturali”. È necessario pertanto tenerne conto e non regolarizzare il fenomeno qualora si 19 21 1 ripetesse lungo la tradizione. Quasi ogni critica di poesia inoltre, esibisce fra gli indici una tavola che rende conto della particolare declinazione metrica del testo. 22.2 I “macrotesti”: edizione spicciolata e ordine dei componimenti Nel caso di macrotesti (es. Canzoniere) l’autografo (o la tradizione di copia) attesta che il poeta ha tramandato un “canone” ufficiale di rime, i cui lineamenti sono stati preservati dalle fonti, e possono venir riprodotti dalle edizioni moderne. Le rime antiche invece, vengono spesso trasmesse in forma spicciolata e disorganica, e spetterà ai moderni riordinarle. Se si adotta il criterio metrico, si pubblicheranno prima i sonetti, poi le canzoni e infine le ballate; se si conosce l’epoca di stesura invece, si possono disporre in ordine cronologico. Anche certe prose (es. narrative o epistolari) possono afferire a una logica macrotestuale. 23. Per finire… (ma si potrebbe continuare) I falsi pullulano nella nostra letteratura, fatta di riscritture, parodie o addirittura falsi volontari. Gran parte della letteratura in versi del XIV e XV secolo è un falso, è parodia e riscrittura della grande poesia del Trecento. Nel Novecento invece il problema verterà sui rimaneggiamenti imposti all’opera dalle case editrici. Ogni testo inoltre, dovrebbe venir assegnato a un autore, ma si hanno anche casi accertati di pluripaternità dell’opera. A stretto contatto con le opere anonime collocheremo anche i problemi di datazione: se il testo è conservato solo da una fonte tarda e sospetta, sarà lecito dubitare dei dati documentari che lo accompagnano. Infine, notevole è il numero di correzioni d’autore coatte nella nostra letteratura. In questi casi, i filologi non considerano stesura definitiva dell’opera quella che risulta da condizioni di illibertà dell’autore. Esempi L'enigma di Ser Durante Testo a tradizione singola non autografa Fiore 232 sonetti; Codice H 438 della Biblioteca universitaria di Montpellier, pubblicato dal filologo Ferdinand Castes nel 1881 con nome di Fiore. Si tratta di un volgarizzamento e compendio del Roman de la rose. Detto d'amore 19 21 1 Frammento di 480 settenari a coppie in rima equivoca; Codice Ashburnham 1234 della Biblioteca Laurenziana di Firenze (sezione finale del Montpellier sottratta da Guglielmo Libri), pubblicato da Salomone Morpurgo nel 1888. Attinge anch'esso dal Roman de la rose pur privilegiando aspetti differenti. Il termine "Durante" si registra in due luoghi del testo. Attribuzione dantesca Favorevoli: Contini; Contrari: Barbi e Parodi. Edizioni 1. Parodi, appendice alle Opere di Dante, 1921: Conferma la comune paternità del Fiore e del Detto. Nota al testo: Fonti; Grafia; Lezioni. Glossario; Indici di nomi propri e allegorie; Apparato selettivo, denuncia soltanto le lezioni più notevoli. 2. Contini, Edizione Nazionale, 1984 Introduzione; Ricca bibliografia; Esame accurato del manoscritto (datazione paleografica non contrapposta all'ipotesi di attribuzione dantesca; la presenza di determinati errori ci fa però escludere l'ipotesi di manoscritto autografo); Pagina di sinistra: testo del sonetto; Pagina di destra: apparato critico; Apparato: Lezioni abbandonate; Discussione dell'emendamento introdotto e di quelli escogitati dai precedenti editori; Luoghi corrispondenti del Roman de la rose e riscontri con la Commedia. La Vita Nuova Breve prosimetro di 31 poesie, tramandato da 40 manoscritti e altrettanti che raccolgono le sole liriche. Prima della ripresa ottocentesca si hanno solo tre stampe: Giuntina (1527); Sermartelli (1576, censurata); Anton Maria Biscioni (1723). Edizioni 1. Alessandro d’Ancona, 1872 e 1884: utilizzò pochi codici e fece affidamento alla tradizione a stampa e ai collaboratori Carducci e Rajina; 2. Tommaso Casini: soluzione béderiana con il codice Chigiano L.VIII.305; 3. Friederick Beck, 1896: classificazione di 35 codici ma adozione béderiana come Casini; 4. Michele Barbi, 1907: prima applicazione del metodo di Lachmann, edizione critica esemplare. Secondo Guglielmo Gorni, che ha composto una nuova edizione del prosimetro, vanno messe in discussione alcune scelte fondamentali di Barbi. Quest’ultimo ha spesso accolto a testo lezioni del ramo in cui è presente il codice Chigiano; si tratta di lezioni che presentano un testo più lungo rispetto a quello degli altri codici, supponendo lacune poligenetiche nelle altre famiglie. In realtà, è più facile pensare che le lacune si siano propagate per contaminazione. Gorni si appella anche per proporre una diversa partizione dell’opera, per sostituire al titolo volgare quello latino di Vita Nova e per non rimodellare le grafie latineggianti sulla pronuncia odierna. Gorni rappresenta il raddoppiamento fonosintattico e predilige le forme contratte. Ci sono casi in cui, a differenza di Barbi, preferisce le lezioni più brevi del ramo β piuttosto che quelle di a. Paolo Trovato ha contestato il totale affidamento allo stemma a discapito di lezioni isolate o minoritarie. Il Canzoniere di Francesco Petrarca: “filologie” di un libro esemplare Testo a tradizione autografa 19 21 1 Manoscritto Vaticano Latino 3195 (idiografo, Giovanni Malpaghini). Titolo originale: Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta; 366 componimenti suddivisi in due sezioni (vita e morte di Laura); collegamenti intertestuali definiscono brevi nuclei narrativi o formali. Scritto dal 1336 fino alla morte (1374). È un’opera in poesia formata da una sequenza immutabile di rime, ordinate secondo un disegno strutturale, formale e narrativo delineato dall’autore stesso. Petrarca fu il primo in Italia ad elaborare una strategia macrotestuale così complessa. Su quest’opera si fonda lo statuto della lirica italiana. Commenti e proposte di lettura: Castelvetro, Tassoni, Leopardi, Carducci, Chiorboli, Fenzi, Santagata. Assenza di un’edizione critica che tenga conto delle “forme” dell’opera e delle loro varianti. Princeps → 1470, Venezia, Vindelino da Spira; Terza edizione → 1472, Bartolomeo Valdizocco e Martino di Siebeneichen Edizione Aldina → 1501, collazione parziale sul Vat. Lat 3197 ad opera di Bembo. La nozione di autografia fu riconosciuta nuovamente nel 1886 da Pierre de Nolhac. 1. Contini e Tallone, 1949 e 1964, edizioni Sul testo fissato da Contini, Marco Santagata ha introdotto la correzione degli errori di stampa, i ritocchi metrici, le modificazioni nell’uso della punteggiatura e la soppressione dei segni di dieresi. Anche Contini, al contrario di Ferdinando Neri, ha optato per la conservazione degli arcaismi grafici latineggianti. Manoscritto Vaticano Latino 3196, Codice degli abbozzi, raccolta composita di 20 fogli autografi nata dall’aggregazione, a posteriori, di carte originariamente sciolte. Riporta 54 componimenti entrati a far parte del Canzoniere. 1. Federico Ubaldini, 1642: 1° edizione; 2. Angelo Romanò, 1955: edizione diplomatico-interpretativa (modellata sull’edizione Moroncini dei Canti di Leopardi); 3. Laura Paolino, 2000: ricostruzione (modellata sull’edizione De Robertis dei Canti di Leopardi). Il Bel Gheardino: la filologia dei testi poveri Il cantare è una forma di narrazione in ottave di endecasillabi, le cui prime attestazioni risalgono al Trecento (1343, Fiorio e Biancifiore). Nel secolo seguente assume le forme del poema cavalleresco (cicli francesi, temi fiabeschi, novellistici, della tradizione classica e di argomento storico-religioso. I cantari superstiti sono quasi tutti anonimi. Antonio Pucci → autore più noto del Trecento (attribuitigli 5 cantari). Data la loro natura, la sola soluzione editoriale corretta prevede la pubblicazione separata delle diverse redazioni. Bel Gerardino → di autore ignoto, cantare diviso in due parti con 92 ottave. Edizioni 1. Francesco Zambrini, 1867: si servì della copia che Francesco Vespignani aveva tratto dal codice Magliabechiano VIII. 1271 (A), all’epoca unico testimone noto. Parecchi errori di lettura → 2° edizione nel 1871, colmò una lacuna con un testo inventato; 2. Ezio Levi, 1914: recuperato il testimone Fiorentino Nazionale II. IV. 163 (B), rigettò la proposta di Zambrini di attribuire il cantare a Pucci e si servì di tale manoscritto solo per sanare i guasti di A; 3. Domenico De Robertis, Problemi di metodo nell’edizione dei cantari, 1961: ogni manoscritto è testimone di una redazione; 4. Armando Balduino, 1970: recuperato il testimone autografo del rimatore Filippo Scarlatti, Acquisti e Doni 759 della Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze (C), che riporta la porzione mancante di B. L’edizione si rivolge al lettore comune, e segnala nell’introduzione i luoghi in cui è intervenuto per ripristinare il testo di A e solo in casi estremi ricorre a B e C. 19 21 1 5. Domenico De Robertis, 1970: indirizzata ad un pubblico di esperti. Il filologo non interviene su ipo e ipermetrie, le segnala a margine, così come le rime irregolari. Due le fasce di apparato. Boccaccio: il libro, i “mercatanti” e le visioni Codice autografo Hamilton 90 della biblioteca di Berlino, 1370, lacunoso di 3 fascicoli. Al suo interno sono presenti 5 lezioni alternative rimaste sospese nei margini del manoscritto. 155 copie manoscritte, 100 novelle (come i Canti della Commedia) in prosimetro (come la Vita Nova), scritte nel 1348 (nel mezzo della vita dell’autore). In origine pare che le novellatrici fossero solo le 7 donne senza i 3 uomini. Il Decameron venne reso pubblico anche in forme provvisorie e i primi amanuensi modificarono le sue lezioni. Vi è inoltre il sospetto che dallo scrittoio del Boccaccio siano uscite più redazioni del Decameron. L’autografia del manoscritto Hamilton 90 è avvenuta nel 1962 ad opera di Vittore Branca e Pier Giorgio Ricci, dopo le supposizioni del 1948 di Alberto Chiari. Prima di allora, per secoli il testo fu fruibile in una vulgata a stampa tratta dal codice Mannelli. Solo Barbi non puntò alla ricerca del testimone migliore ma alle lezioni più corrette, allargando il panorama di codici indagati. Del manoscritto è stato tratto un facsimile integrale in occasione dell’ultimo Centenario boccacciano. Si ricorda inoltre l’esistenza del probabile manoscritto idiografo: nel 1991 le 18 illustrazioni presenti nel codice Parigino It. 482 (P), ovvero il Capponi, sono state attribuite alla mano di Boccaccio. Da qui si ebbe un forte sviluppo iconologico. Edizioni 1. Charles S. Singleton, 1974: edizione diplomatico-interpretativa; 2. Vittore Branca, Accademia della Crusca, 1976: adozione del ms. Hamilton integrato con l’apporto del codice Mannelli. Gli errori definiti “polari” da Franca Brambilla Ageno, non sono stati corretti a testo, bensì conservati e commentati in apparato. Vi è un cauto ammodernamento grafico, e un esame grafico linguistico che confronta l’assetto dell’autografo con le condizioni grafiche di altri autografi boccacciani. Burchiello, la “burchia” e la filologia del Novecento Vi è un’oggettiva mancanza di volontà unificante d’autore e di fattori coesivi interni dei suoi Sonetti. L’inesistenza di un macrotesto comporta un problema attributivo, risolto con un approccio postlachmanniano. Domenico di Giovanni (1404-1449) era un barbiere, che riunì un’accademia di rimatori “alla burchia”, cioè con verseggiare paradossale ed estemporaneo, sebbene non affidato totalmente all’oralità. Burchiello scriveva sonetti caudati che vennero presto imitati. De Robertis: “Burchiello non è un autore o un libro, è un’intera tradizione, un corpus poetico”. Raccolte Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, 1757: vulgata settecentesca dell’edizione toscana. Michele Messina, Sonetti inediti di Burchiello, 1952: invece di esaminare l’attendibilità della vulgata, Messina preferisce guardare ai presunti sonetti inediti di Burchiello. In seguito, fece un ampio censimento dei manoscritti e delle stampe afferenti alle rime della vulgata. Edizioni Michelangelo Zaccarello, Sonetti del Burchiello, 2000: diede una lettura storico-tradizionale dell’intera questione. A monte della trasmissione superstite pare sia stato un originale, o un archetipo, mobile (certo non coincidente con una copia di mano del poeta, ma piuttosto con materiali sciolti, assemblati, denominati “silloge primaria”). L’editore ha distinto poi fra tradizione frammentaria e di corpus. Quest’ultima raccoglie 36 testimonianze, con un minimo di 24 e un massimo di 251 testi, suddivisibile a sua volta in due sillogi in base al 19 21 1 riconoscimento di sequenze di sonetti comuni all’una o all’altra. L’editore promuove un incunabolo fiorentino, che sembra derivare per via diretta da parte dei manoscritti pervenuti, a documento più fedele della fisionomia testuale (223 componimenti). Il libro dei sonetti si identifica con la summa delle raccolte manoscritte e a stampa che rappresentarono un primo e consapevole tentativo di mediazione fra le carte sparse del poeta e il suo pubblico. Si impongono la conservatività della fonte e la rinuncia ad arbitrarie modernizzazioni. Aver anteposto un incunabolo alla tradizione manoscritta segna il tramonto dei pregiudizi sulle testimonianze a stampa. L’Orlando ritrovato: testo e tradizione di un poema “padano” Testimonianza di stampe in esemplare unico Unico manoscritto, codice Trivulziano 1094, che pare essere copia di una stampa perduta. L’inamoramento de Orlando è un poema in ottave di endecasillabi suddiviso in 3 libri, di cui l’ultimo è incompiuto. La princeps è andata perduta. Seconda edizione in unica copia alla Marciana; Terza edizione in unica copia Rusconi, 1506: prima edizione completa giunta fino a noi. Neil Harris, Bibliografia dell’”Orlando innamorato”, 1987-1991: ripresa d’interesse per Boiardo. Importante è la traduzione e correzione toscana operata da Francesco Berni. Dalla nascita ottocentesca della filologia scientifica si ha un primo ritorno all’autentico Orlando innamorato, per opera di Antonio Panizzi, che compose, fra 18030 e 1831, un testo suddiviso in cinque volumi di impostazione prelachmanniana, completo di 250 pagine di note in cui fornisce giustificazione di emendamenti e scelte. Si determinò, contro la censura desanctiana, una nuova vulgata a stampa (es. edizione Foffano). Edizioni 1. Antonia Tissoni Benvenuti e Cristina Montagnani, 1999: misero a disposizione l’intero corpus in volgare. Per la prima volta fecero precedere, e non seguire, l’opera, da un’estesa “Nota al testo”, corredata da commento e apparato. Dagli studi è emerso un caso di bipartitismo, da cui è possibile congetturare l’esistenza di un archetipo x molto guasto, motivo per cui una ricostruzione ope-codicum non è operabile. Si è optato per una soluzione post-lachmanniana, si è ricorsi cioè al iudicium. Va notata la fedeltà all’assetto formale degli antichi esemplari del poema e il ritorno al titolo L’inamoramento de Orlando. Anche la versificazione del poema assume una patina diversa, perdendo l’uniforme cromia petrarcheggiante a vantaggio di una metrica che accoglie come propria componente la recitazione. Parini, o Il Giorno senza fine Testimone esemplare di un’opera in fieri L’elaborazione del Giorno non vide mai fine (3 tappe, La sera → 4 tappe, Il vespro e La notte). Si tratta di un poemetto in endecasillabi sciolti. Il giorno sembra anticipare l’Ulysses joyciano, con la rappresentazione di un microcosmo resa attraverso la descrizione di una giornata vissuta dal protagonista. Il Mattino, 24 Marzo 1763; Il Mezzogiorno, 1765; Il resto rimase in circuito autografo. Del primo progetto sopravvivono le due edizioni principes completate di una serie di varianti evolutive autografe o apografe. Della seconda stesura restano una serie di quaderni autografi in bella copia, quasi tutti in condizione frammentaria. Edizioni 19 21 1 1. Francesco Reina, Giorno, in Opere di Giuseppe Parini pubblicate e illustrate da F. Reina, 1801; 2. Guido Mazzoleni, 1925: più conservativo; 3. Egidio Bellorini, 1929: pose in discussione la vulgata sulla base degli autografi; 4. Dante Isella, 1969: dopo le considerazioni di Lanfranco Caretti del 1951, Isella fece una nuova edizione in cui suddivise i due diversi progetti del poemetto e si affidò in larga parte al iudicium. L’apparato è positivo. I Canti di Giacomo Leopardi: origine ed evoluzione dell’edizione critica d’autore Computo primario della filologia leopardiana è stato quello di allestire gli strumenti essenziali per una lettura di tutto il materiale. Si tratta di una raccolta di liriche (26 poesie + 5 frammenti) comprese quelle due pubblicate da Antonio Ranieri nel 1845. I primi testi arrivati a stampa furono due canzoni nel 1818. Canti, stampa fiorentina, 1831 (F); Edizione napoletana di Saverio Starita (1835, N). Edizioni 1. Francesco Moroncini, 1927: precursore della nuova filologia in un periodo dove Croce regnava sovrano; da quest’edizione e da quella di Debenedetti dei Frammenti autografi dell’Orlando Furioso, prese avvio la Critica degli scartafacci, capitanata da De Robertis e Contini. Moroncini procedette con criteri empirici: Titolo e testo definitivi, versi numerati di cinque in cinque; Illustrazione delle fonti manoscritte e a stampa, diverse redazioni dei titoli; Apparato in due fasce, distinte per rilevanza di mutamento; Postille e note dell’autore e note del curatore. 2. Emilio Peruzzi, Canti, 1981: sottolinea che la suddivisione di Moroncini fra correzioni importanti e secondare complica l’apparato e da un giudizio soggettivo e che sia errato aggiungere parole che mancano negli autografi. Numerazione verso per verso; Apparato completo (non solo in presenza delle varianti) e senza alcuna distinzione di complessità (la seconda fascia racchiude ora le varianti alternative, la terza le note d’autore, la quarta d’editore); Riproduzione fotografica di tutti i manoscritti; 3. Domenico De Robertis, Canti: nuova ipotesi metodologica. L’edizione Moroncini, adottando la Starita corretta ricostruisce l’itinerario compositivo di ogni canto, il microtesto, ma non consente di seguire il processo di formazione del libro, ovvero la macrostruttura. L’elaborazione precedente alla prima edizione a stampa viene documentata dalla riproduzione fotografica degli autografi, e la successiva è registrata in un apparato evolutivo. Variano ordine dei canti e assetto testuale dei singoli pezzi. Un dittico novecentesco: Montale, Ungaretti Montale → L’Opera in versi → summa poetica del Novecento → poche modifiche dall’originale. Si tratta di un volume di sei libri di poesia e una raccolta postuma di inediti (828 componimenti), scritte dal 1916 al 1980. Non si può parlare di un complesso unitario per genesi: L’Opera in versi non va trattata come un canzoniere. Ungaretti → L’Allegria, → stacco formale rispetto alla tradizione italiana dell’Otto- Novecento → continuo rinnovamento testuale. L’edizione critica di Cristiana Maggi Romano comprende 105 componimenti, suddivisi in sette sezioni e un’appendice. L’Allegria non ebbe questo titolo e configurazione fin dalla sua genesi. Nel 1916 uscì, con 32 componimenti, Il Porto Sepolto. Edizioni 1. Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, L’Opera: i curatori hanno lavorato a diretto contatto con il poeta ancora vivente; tuttavia, l’edizione critica deve fondarsi su un’oggettività per la quale la parola dell’interessato ha un significato informativo, piuttosto che ultimativo. Si 19 21 1