PSICOPATOLOGIA PDF
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These lecture notes cover the subject of psychopathology, exploring the concept of mental health and mental disorders. They discuss the various perspectives in understanding and diagnosing these conditions, along with approaches to therapy. The notes also highlight the importance of considering the individual patient's experiences and subjective perspective.
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Lezione 25 settembre - pronta PSICOPATOLOGIA: spiegata come quella disciplina che andava a definirsi come chi fosse normale e chi invece patologico -> questo concetto non esiste più, adesso è un concetto dinamico: di come vive la persona, dell’esperienze che lo caratterizzano. Per tanto tempo la ps...
Lezione 25 settembre - pronta PSICOPATOLOGIA: spiegata come quella disciplina che andava a definirsi come chi fosse normale e chi invece patologico -> questo concetto non esiste più, adesso è un concetto dinamico: di come vive la persona, dell’esperienze che lo caratterizzano. Per tanto tempo la psicopatologia ha viaggiato insieme alla psichiatria, essendo considerata un'estensione, possiamo dire, della psichiatria e delle scienze puramente mediche, insieme a dei concetti che nello specifico prendevano spunto e forma dalla psicologia clinica. Quindi la psicopatologia era considerata la sommatoria, se vogliamo in un'ottica di schema, tra psichiatria e il suo modello specifico, tecnico, asettico e la psicologia clinica. Questo era un po' il pensiero comune che ha sempre dominato la nostra cultura, il nostro background di pertinenza. Per il pensiero comune la psicopatologia si è sempre occupata genericamente dello studio dei disturbi, della comprensione, della conoscenza di come andare a fare una diagnosi e capire che cosa ha una persona rispetto un'altra. Si è sempre occupata di disturbo mentale e della patologia a essa connessa, quindi come si presenta quel disturbo, come si spiega quel disturbo o da cosa è caratterizzato quel disturbo, occupandosi di concetti importanti che sono: i criteri diagnostici -> cosa mi serve per fare la diagnosi i criteri classificatori -> rispetto ad un quadro come capisco che ho identificato la persona in quello. Questo era il pensiero comune, da sempre è stato questo. Quando parliamo di psicopatologia inevitabilmente abbiamo un parametro di paragone che va a riferirsi al concetto di salute mentale. Quest’ultima è un stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non è semplicemente assenza di malattia o di infermità. Questo ci dice la definizione da tutti conosciuta: la salute mentale è un concetto complesso di un benessere che non è soltanto il rispetto alla salute fisica, bensì è un benessere che riguarda tante aree del vivere, un benessere sociale, un benessere relazionale, un benessere fisico, un benesssere emotivo, un benessere funzionale, un benessere quotidiano. Quindi è un concetto, che riflette tante aree del vivere. Non è la banale assenza o presenza di malattia, perché sarebbe riduttivo e semplicistico. No, è qualcosa che appunto si inserisce ad un ambito molto più pieno e molto più denso, dove le variabili in gioco da valutare, da considerare sono tante: come la persona si comporta a casa, come la persona si comporta con i propri genitori, come la persona risponde al lavoro, come la persona risponde all'università, come la persona dorme, come la persona mangia, come la persona si veste o si lava, se si lava alla mattina o alla sera, quanto la persona cura se stesso nella propria immagine, nella propria funzionalità fisica. Per tanto tempo però c'è stata l'urgenza fondamentale di andare ad oggettivizzare la realtà, di andare a oggettivizzare l'umano, la complessità, che cosa è quella persona, usando dei parametri oggettivi, chiari e comuni al mondo intero, che ci permettevano di andare a identificare nell'immediato una persona, oggettivizzandola e perdendo di vista però tutto quello che rappresenta quella persona: perché quella persona ha quel sintomo rispetto ad un altro, perché quella persona ha un trauma etc. L'obiettivo era andare ad oggettivizzare la realtà, era andare a utilizzare una banale etichetta, un label si dice in inglese, il labelling, una banale etichetta e ci dice subito immediatamente chi è quella persona nello specifico. In Italia si sentiva molto questa tendenza che poi è stata superata, vedremo come, però è stata molto protagonista. Pertanto la psicopatologia si è connaturata sulla base di diverse posizioni esistenti: abbiamo cominciato ad avere diverse posizioni che l'hanno cominciata a studiare, a intendere, a spiegare. L'obiettivo era rispondere a queste domande. Chi è quel paziente? Che cos'è quel paziente? Che cos'ha quel paziente? Può essere uno schizofrenico, può essere un depresso, può essere un maniacale, può essere un ipomaniacale, può essere un anoressico, può essere un bulimico. Interessava solo affibbiare l'etichetta. Un'altra posizione esistente era quella del perché che agli psicopatologi interessano fino a un certo punto. Perché quel paziente ha quel disturbo? Perché quel paziente arriva ad avere un disturbo dipendente di personalità, un disturbo antisociale di personalità, un disturbo dipendente da sostanze, da eroina, da MDMA, da roba sintetica, etc. Perché quel paziente si prende quelle sostanze? Quindi il tutto ruotava attorno a rispondere a quelle domande: cos'è quel paziente, che cos'ha quel paziente e perché quel paziente ha quel disturbo. La prima posizione, che cos'è quel paziente, che cos'ha quel paziente, risponde a una tradizione, ed è la tradizione di andare a utilizzare la cosiddetta oggettivazione diagnostica: mi interessa oggettivizzare quel paziente, renderlo chiaro, oggettivo, identificabile, affidargli quel disturbo e basta, si conclude il nostro lavoro. Questo meccanismo risponde un po' a quello che Stangherini e Rossimonti definiscono il fare una diagnosi fratturosa: identificare con tutti gli strumenti che può avere il clinico, quello che è quel disturbo, quella persona. Dall'altro lato invece, chi si è tanto focalizzato e chi si focalizza sul perché quel paziente ha un disturbo, cerca quella che è stata definita spiegazione causale. Qual è la causa del disturbo, va a ritroso e l'obiettivo non è prendere in carico la sofferenza della singola persona, ma capire la causa che ha determinato quel disturbo. Questa tendenza, questa posizione è quella che viene definita una tendenza che asseconda un ragionamento più esplicativo, interpretativo. Io vado a raccogliere la storia di vita della persona e vado ad interpretare tutti i suoi eventi arrivando a spiegare la causa del problema. La causa, spiegazione causale, che cosa vi determina quel problema, ovvero andare a formulare, a ipotizzare una serie di problematiche che quella persona può avere, ipotizzarle, mettere in pratica le nostre ipotesi per vedere se sono corrette, concrete o meno, arrivare a valutare e formulare che cosa quella persona e calibrare per la persona un progetto terapeutico ad hoc. Il diagnosta, lo psicologo clinico, di base ha l'obiettivo di comprendere, che non è capire, che non è spiegare, ha l'obiettivo di comprendere il disagio della persona, capire qual è il problema, farci una serie di ipotesi, consultarle o confermarle nel caso di un numero X di sedute, il tempo necessario per capire l'area problematica della persona e andare a calibrare per lui o per lei un progetto terapeutico per la presa in carico della sua sofferenza, che potrebbe essere una psicoterapia se è il caso, dei colloqui supportivi o una terapia supportiva, una terapia gruppale o individuale, sulla base delle sue necessità, facendo poi quello che viene definito in gergo, in vivo, rispetto appunto al caso in relazione alla problematica che ha presentato. Si può mandare il paziente dal collega (es.psicoterapeuta) con il quale potrai approfondire questo contenuto, questo tema legato all'ansia, che arriva ad essere invalidante nella conduzione della tua vita, diventa un ostacolo che non ti permette più di svolgere le attività quotidiane di vita, relazionali, sociali, non tipiche dovute rispetto alla tua età, al tuo sesso, alle tue esigenze, alla tua vita e alla tua posizione spazio e temporale. Come lo fa lo psicopatologo? Come lo fa il clinico? Lo fa con degli strumenti specifici, lo fa attraverso il colloquio interiore, il concetto della causa, quando si origina il problema, come si muove in termini emotivi, in termini cognitivi, di reazione, di pensiero, stimiamoli insieme, comprendiamoli insieme, ma in termini pratici, che cosa arreca questo problema, dove lo frena, dove la inibisce, se la inibisce, comprendendo attraverso il colloquio e le sedute e lo facciamo tramite strumenti valutativi, professionali, gli screening, gli assessment, che sono strumenti che sfrutta il clinico per arrivare a capire che cos'è quel soggetto, che cos’ha quel soggetto, perché quel soggetto sta vivendo quel problema; lo strumento diagnostico ci permette di avere un aiuto, un margine in più per capire le aree difficoltose per quella persona, abbiamo tantissimi strumenti diagnostici di assessment, abbiamo la SHID, abbiamo le analisi of records, clinical records, che sono degli strumenti validissimi affinché in poco tempo io possa capire quali sono le aree maggiormente difficoltose del soggetto attraverso più domande, dobbiamo andare a discutere con il soggetto, che deve sapere, non è che io sono eccellenza psicoterapeuta, e a te paziente non ti comunico, piuttosto ti spiego cosa penso, che cosa sto facendo, ti do un feedback anche rispetto al questionario a cui stai rispondendo. Quindi da un lato abbiamo la tendenza all'eccezione, all'oggettivazione e da un lato c'è la tendenza all'esplicazione, non mi interessa nemmeno tanto che cosa porta quel soggetto in termini di sintomi, mi interessa capire il perché, mi focalizzo soltanto sul perché o nel caso opposto mi interessa oggettivizzarlo, mi segno tutti i sintomi che ha avuto giusto per avere un quadro sulla persona; queste sono due macro tendenze e prospettive che esistono, esistenti nel nostro ambito, ma la cosa più importante che spesso tendiamo a dimenticare è il come, la domanda che a noi deve stare molto a cuore, che sarà il fil rouge di questo corso di psicopatologia è il come, non è il che cos'è, chi è quel soggetto, non è il perché, o non è solo che cos'è quel soggetto, chi è quel soggetto e perché, quel soggetto è com'è, ma la domanda che a noi interessa davvero e che ci deve interessare è la prospettiva un po' unificatrice di queste due tendenze e di queste due posizioni è il come, come si presenta la persona, come si presenta il mio paziente, come si presenta la persona che sta esperando un dolore, che sta esperando una sofferenza, che sta esperando un disagio, È (CITAZIONE CHE CHIEDE) restare nel discorso del soggetto del paziente, stare nel discorso del paziente, noi stiamo nel discorso del paziente, noi ci focalizziamo sul come, come mai quella persona (Mario) ha sviluppato quel problema, quella sofferenza, ma io sto su Mario, sulle parole di Mario, su quello che Mario ci racconta, sulla storia di Mario, su come si spiega la storia di Mario. Questo ci porta alla necessità di interrogarci sulla natura dei fenomeni con i quali ci confrontiamo, comprendere il fenomeno con il quale ci confrontiamo, in altri termini ci porta al bisogno e all'esigenza come professionisti di restare dentro il fenomeno senza coprirlo con diagnosi immediate o senza mettere in prima luce, in risalto, le determinanti o le caratteristiche o le modalità o i fattori che lo hanno determinato, questo ragionamento ci permette di andare ad abbracciare il senso implicito del paziente, quello che lo porta da noi, quello che lo costituisce, tutta la sua vita, tutto il suo vissuto, e ci permette di abbracciare uno dei concetti chiave del nostro corso di psicopatologia, che è quello di soggettività, che è il concetto che troveremo nella diagnosi fenomenologica. La soggettività che diventa il centro dell'attenzione del clinico, per me è fondamentale stare nel discorso del soggetto, perché quella fobia avrà una sua genesi, una sua causalità, sarà oggettivabile e oggettivizzabile, se vogliamo dirla così, ma sarà frutto di quel soggetto, di come si presenta, di come ha sviluppato quel disturbo, di come lo ha determinato, di come lo vive. A partire da come il soggetto vive il suo sintomo, possiamo capire quella soggettività e andare poi ad una visione complessa della psicopatologia, mettendo insieme tutte le luci, tutte le posizioni, cercando di rispondere in maniera implicita sul bisogno della persona. Lezione 2 ottobre - pronta Da slide 9 a slide 14 Stanghellini e Rossi Monti ci dicono che secondo loro è necessario lavorare e agire come clinici, esperti e psicopatologi, cercando di venire a una descrizione mirata di ciò che ci dice il paziente, cercando di curare ogni dettaglio di quell’esperienza; il nostro focus è la soggettività. Importanti in questo contesto il principio patoplastico (i fenomeni psicopatologici sono la risultante del rapporto tra persona e vulnerabilità) e il principio della vulnerabilità strutturale (essere strutturalmente sospesi tra salute e malattia). Secondo questa prospettiva la psicopatologia resta in relazione permanente col contesto, col mondo in cui viviamo, perché resta collegata nel mondo in cui si trova; oltre che restare collegato col mondo in cui si trova, è anche collegata all’idea di un senso, cercare un senso, più che trovare un’etichetta o cercare una causa. A testimonianza di tutto questo discorso, il precursore di tutta questa filosofia, di tutto questo nuovo modo per leggere la psicopatologia, è Jaspers. Quest’ultimo ha una visione prettamente fenomenologica, dà voce a un’opera “psicopatologia generale” in la quale viveva costituire una lingua di base per la clinica. Protagonista di quest’opera sarà il cercare di dare un senso all’esperienza della persona. APPROCCIO IDIOGRAFICO Pone l’attenzione specifica al singolo e alla sua sofferenza cercando poi di approfondire regole e concetti utili a trattare anche casi simili. Parte focalizzandosi sui fenomeni tipici e caratterizzanti dell’esperienza umana, della sofferenza che si vive, della specificità del singolo soggetto malato o sofferente: Occuparsi di un caso clinico significa cancellare o abbattere tutti gli altri pensieri che ci vanno a incriminare le cose, non esistono paragoni, tra caso e caso esiste la storia che abbiamo di fronte, punto: devo capirla, posso fare tutte le domande che voglio, posso muovermi come voglio, posso avere mille ipotesi ma solo dentro il caso clinico, non vado a usare quelle classiche euristiche di sovrapposizione o generalizzazione per vedere quanti casi sono similari, no, non funziona così. In secondo luogo fa tesoro degli apprendimenti delle, così chiamate, persone normali: la clinica naturalmente si interroga anche su come le persone che non hanno un disagio, vivono e capiscono il qui ed ora, ci interessa capire l’esperienza diretta, non per forza andiamo alla ricerca della malattia, dello squilibrio e del problema. L’obiettivo della psicopatologia, obiettivo della clinica, oltre a capire la persona, oltre a stare nelle esperienze, oltre allo sposare un approccio idiografico, è pervenire a quella che è la formulazione di una diagnosi, ciò richiede una responsabilità infinita, perchè sulla base di quello che scrivi o di quello che dichiari dipende tutto, ci vogliono tutti perfetti, precisi, puntuali, bravi, sempre con la risposta pronta, è tanta roba andare un po' a essere decisivi rispetto alla persona. FORMULAZIONE DI UNA DIAGNOSI Il nostro emettere una diagnosi ci dice che a noi non interessa tanto provare a raccogliere sintomi per arrivare a quel quadro diagnostico, a volte l’osservazione dei sintomi ci aiuta, però la diagnosi non è la sommatoria di sintomi, bensì ci dicono gli autori secondo una prospettiva fenomenologica di imparare a conoscere il disturbo attraverso la persona: noi capiamo cosa ha la persona davanti a noi attraverso il suo racconto, non si tratta di empatizzare, non stiamo lì inermi ad ascoltare, se abbiamo un dubbio lo esponiamo alla persona, cerchiamo di indagare e di arrivare a capire che diagnosi ha la nostra persona. Quindi diremo che “la diagnosi della psicologia clinica non si riduce ad una diagnosi secondo la prospettiva medica tradizionale(presenza e assenza sintomi), ma si configura come un processo globale del disturbo, della persona e del rapporto tra persona e disturbo” questo processo di valutazione è chiamato assestment: fare il nostro lavoro non è catalogare cosa la persona ha e cosa no, dobbiamo mettere insieme tutti quei singoli sistemi di vita della persona in tutte le circostanze e in tutti i contesti, quindi anche in un’ottica di complessità, mettiamo insieme tutti i sintomi, come va col sonno, come va col cibo, come va col suo umore, sono tutti parametri fisiologici e psicologici, come va con le uscite, con le persone, con la famiglia, come va a scuola, come va a lavoro, come va nella concentrazione, come riesce ad applicarsi, se pensa in continuazione a qualcosa che gli rogna nel cervello. Concetto fondamentale assestment DSM e ICD Il dsm è il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che noi sperimentiamo e studiamo, mentre l’ICD è la Classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali. I due manuali in comune hanno che da un lato ci facilitano perché in poco tempo si riesce a capire il disturbo (occupandoci di un ambito complesso come la salute mentale), ci sono pazienti che invece non hanno capacità associativa, dissociativa e che hanno difficoltà, se arrivano in seduta non puoi fare tutto quello che è nella cornice di riferimento ma dovrai fare qualcosa che è giusto, corretto ed equivalente. Col dsm infatti si perde il cuore soggettivo, questa parte naturalmente la recuperiamo con l’assestment, non la recuperiamo col colloquio e la recuperiamo perché per noi è fondamentale l'idea complessa del soggetto; capiterà che magari dobbiamo risalire ad una determinata fase di vita e prevedere ad un'azione di risoluzione della questione dovuta ai cari, dovuti a capire più o meno i pensieri propri delle proprie emozioni e poi dovuti a un corpo anche che veramente non può mangiare con tanta debolezza, in un senso immunitario e immunitore, si può calibrare la psicoterapia e anche in determinati casi poi ci sono diverse terapie perché con ogni paziente ci sono problemi molto difficili, perché i pazienti hanno il suo dovere, hanno le loro difficoltà, quindi lui nel passato non lo può fare, perché funziona così, e allora tu devi capire e devi rispettare. Danilo Cargnello scrive che il clinico dovrà imparare a muoversi tra due posizioni: stabilire una relazione (il nostro lavoro si basa sulle relazioni, se noi in quelle quotidiane abbiamo fatica, immaginate quando coi nostri pazienti) e riconoscere l’insieme dei fenomeni e dei sintomi del disturbo che abbiamo di fronte. __________________ Domanda: vedendo la persona dotata di questo senso, di questa soggettività il carico emotivo per il clinico, è molto più forte? il carico emotivo è sempre più forte quando ti trovi di fronte a qualsiasi persona che sta soffrendo a prescindere da un po' di impostazioni che usi, se è prettamente psichiatrica, se è più fenomenologica se è più psicodinamica, se è più emotiva, il carico è sempre forte; ed è molto importante il nostro lavoro rispetto a come lavoriamo e alla sofferenza che incontriamo dalla supervisione, dalla formazione del clinico, dello psicologo ragazzi non tutti possiamo fare clinica, perché questa ci impone di stare a contatto con la sofferenza e di spiegarci la sofferenza, di stare nella sofferenza della persona, nel discorso del paziente, uscire da quella stanza quando finiamo di vedere il nostro paziente e ritornare noi stessi, a posto con noi stessi senza mostrarci nulla e là il lavoro che dobbiamo fare con noi stessi, è tanta roba perché se io vedo un paziente borderline, entro nel suo dolore, stabilisco una relazione mi faccio indischiare dalla sua rabbia per empatizzare con lui, per comprenderla per poi restituirsi per carità una rabbia digerita, una rabbia diversa e finisco la seduta e io sono arrabbiata e mi continua quella rabbia o quel nervosismo dentro o il mio corpo che è il campanello d'allarme per noi più importante quando la mente non ci aiuta, ci aiuta il nostro corpo impariamo ad ascoltare il nostro corpo, è fondamentale e ci sentiamo col buono, ci sentiamo con il nervosismo, siamo frenetici e non possiamo stare fermi, mi devi interrogare cos'è che mi disturba, cos'è che mi ha disturbato; se ci pensate per gli psicologi clinici non c’è supervisione, invece per i psicoterapeuti sì, questo perché c'è il continuo confine clinico-psicoterapeuta, il clinico è un diagnosta, è colui che si occupa anche di psicopatologia, capisce il problema della persona. __________________ Per molto tempo siamo cresciuti con la tendenza a vedere la diagnosi come un'operazione riduzionista dove si cercava di esemplificare la complessità umana della persona a una spiegazione diretta del loro problema, si cercava di ridurre la complessità psichica, quindi tutto quello che accadeva alla persona aveva un nome, un'etichetta, il rischio però era ridurre il mondo individuale e personale del paziente focalizzando l'attenzione sugli indici di malattia e sui sintomi, la persona diventa il nostro sintomo e si passa il concetto e il messaggio che la persona è la malattia stessa. Jaspers: “la diagnosi deve essere l’ultima preoccupazione dello psicopatologo”. Naturalmente si riconosce il ruolo fondamentale del fare diagnosi, che non deve perdere di vista il processo conoscitivo. Un lavoro infatti fondamentale che si fa con i pazienti è spiegargli che ci sono tante cose oltre la loro malattia, la malattia è il modo per spiegare il loro disagio, è il modo per spiegarsi, per urlare al mondo la loro sofferenza, ma le persone non sono la malattia. Per tantissimo tempo o tante volte capita che i soggetti, come le ragazze con anoressia grave, dicano frasi come ‘io sono la mia anoressia’ e si arriva ad uno stadio in cui c'è una sorta di coesione narcisistica: io sono un tutt'uno con la mia malattia, non mi occupo della malattia e la malattia diventa un tratto fondamentale, mi spiego a partire dalla mia anoressia, stesso problema nelle dipendenze, nel momento in cui c'è la sostanza, spacco il mondo, sono tutto, sono perfettamente me stesso, non sono mai stato così me stesso in vita mia come adesso nel qui e ora, sappiamo che però qua ci sono risvolti negativi che portano a isolamento, a chiusura, alle risposte negative. Naturalmente è scientificamente necessario fare diagnosi, è una mansione, un'abilità e un obiettivo, è una risposta professionale fondamentale di chi fa il nostro mestiere, è importante però capire le diverse modalità del fare diagnosi e come collocarsi in un'ottica che sia rappresentativa di noi psicologi, perché fare diagnosi è importante ed il processo conoscitivo è fondamentale. Pertanto abbiamo detto che la parola diagnosi indica in sé sia il processo dell'indagine e della scoperta, sia il prodotto di questo processo, il punto di arrivo di una riflessione e il punto di partenza per capire come articolare questa comprensione della persona. E qua ci sono due termini fondamentali scientifici che oggi rappresentano il nostro fare psicopatologia che sono la diagnosi come procedura (disgnosis as procedure) e la diagnosi come invece un processo di conoscenza, denotazione, comprensione (diagnosis as denotation) CHIEDE ALL’ESAME -> Un elemento importante del diagnosis as procedure è quello dei trattamenti che oggi rispecchiano una grossa fetta di interesse che sono quelli evidence-based (trattamenti e interventi evidence-based basati sull'evidenza). La CBT ad esempio si è proposta nel tempo come un orientamento evidence-based: un trattamento che ha una serie di evidenze dirette per valutare l'efficacia di questi trattamenti basati sull'evidenza; grazie ad una serie di test e retest, di prove di efficacia, di randomizzazioni controllate tra gruppi, intervento e controllo, chi riceve l'intervento e chi non lo riceve, c'è una risposta molto grande rispetto all'efficacia e rispetto all'evidenza che ci dà quel trattamento (la depressione decresce in dieci settimane con la DBT, la Dialectical Behavioral Therapy, il disturbo borderline, l'ideazione suicidaria viene molto meno, la rabbia diventa molto più gestibile, il paziente diventa molto più conviviante etc…). Quindi quando parliamo di una procedura, questa è importante perché ci permette di avere una visione importante, attenta, minuziosa e dettagliata, dell'intervento che andiamo a fare, del processo conoscitivo che andiamo a mettere in atto. Ecco che oggi anche rispetto alla diagnosi non si parla di una procedura del tutto protocollata, esistono protocolli molto rigidi, da un lato è bello perché riduce tantissimo l'errore, segui quelle domande, segui quel format, segui quella modalità e da un lato ti semplifica il lavoro, soprattutto se sei alle prime armi, dall'altro lato rende il nostro lavoro molto più asettico, fermo, bloccato, statico, lo spegne, non guardiamo tutte quelle altre sfaccettature e variabili a prescindere dal disturbo che entra in gioco, perché insieme alla depressione ci possono essere mille altri tratti che con un protocollo puro si perde. E allora l'integrazione di questa pratica sicuramente facilita e aiuta il nostro lavoro e ci permette di iniziare anche a concepire la diagnosi come ultimo tassello del processo (come diceva Jaspers), seppur poi dobbiamo arrivare ad una diagnosi, altrimenti perderemmo l'aiuto diretto che dobbiamo dare al soggetto. Pertanto possiamo dire che ogni categoria diagnostica ha degli elementi utili e imprescindibili: modello della tripla clessidra diagnostica che è un processo che ci permette di capire la complessità della diagnosi. La diagnosi si va a connaturare attraverso tre modalità:. diagnosi nosografica-descrittiva -> ha un carattere nominalistico, ha un valore euristico, quindi quello di esemplificare, ha un obiettivo più identificativo e classificatorio. Questa è. quella che Stanghellini e Rossimonti definiscono come il primo livello della clessidra. La prima strozzatura di questa clessidra, dove passa la sabbia da un punto all'altro, è definita da una dettagliata e minuziosa descrizione del fenomeno clinico: esperienza e comportamento del paziente.. diagnosi psicopatologico-fenomenologica che è quella in cui si apre la mente e si mettono concetti nuovi rispetto a quelli che conosciamo. La strozzatura di questa diagnosi, che ci permette di accedere all'altro livello, è l'atteggiamento che la persona assume di fronte al proprio disturbo. Come vivo il mio disturbo. diagnosi psicodinamica -> dove l'elemento di congiunzione tra un punto all'altro è il valore che la persona attribuisce al proprio disturbo, che abbraccia il cosiddetto discorso che Stanghellini e Rossimonti fanno rispetto all'ermeneutica, all'arte interpretativa, all'arte della spiegazione. Questo è, ragazzi, tutto quello che spiega il movimento della diagnosi, come funziona la diagnosi, il processo diagnostico attributo alla clessidra, che spiega e ci permette con un'immagine visiva, con una metafora, la chiamerebbero Stanghellini e Rossimonti, loro che parlano tanto di linguaggio e di metafore, ne parleremo insieme, ci permette, questa tricola clessidra, di spiegarci la complessità della diagnosi, le diverse prospettive che guidano la diagnosi, il diverso approccio che guida la diagnosi come processo conoscitivo della persona, come ultimo elemento per afferrare, comprendere, capire cos'è la persona, cos'è la persona, cosa vive la persona. Lezione 10 ottobre - pronta Da slide 15 a slide 24 Il modello della tripla clessidra riassume più o meno il fare diagnostico e le diverse tipologie di diagnosi che un po' riassumono tutte le prospettive che si sono alimentate e hanno un po' costruito il fare diagnostico specifico della psicopatologia in tutte le sue evoluzioni. Secondo una prospettiva puramente fenomenologica, quindi che si rifà a Jaspers e al concetto di soggettività, il termine psicopatologia rappresenta quella disciplina che isola i fenomeni mentali per poi raggrupparli sulla base dell'esperienza, sulla base dei vissuti e dell'esperienza che ogni individuo vive, quindi c’è un'attenzione particolare a tutti i fenomeni che caratterizzano il soggetto, l'individuo che abbiamo di fronte a noi, prendiamo quello che ci ricorda, lo leggiamo, lo concettualizziamo, ma il raggruppamento e la contenzione di questi fenomeni ottiene senso soltanto se c'è un filo conduttore, un'iscrizione rispetto all'esperienza della persona, come la persona vive la sua vita, ha vissuto il suo contesto, dove la persona è iscritta e come appunto poi si va a evidenziare il fenomeno psicopatologico che lo sta caratterizzando e secondo appunto la fenomenologia, quindi i fenomeni che sono l'oggetto del nostro studio e del nostro interesse, sono da ricondurre attentamente all'esperienza della persona. Pertanto, secondo appunto questa prospettiva, il metodo psicopatologico si basa sul concetto di comprensione come una sorta di teatro che permette di mettere in scena nuovamente, le esperienze del paziente, mediate e favorite dall'empatia che deve avere il terapeuta. ci dice la fenomenologia che è fondamentale comprendere la persona, comprenderla appunto cercando di riportare in scena l'esperienza che la persona ha fatto, questo come avviene? Avviene grazie al contributo del terapeuta, del clinico, come lo vogliamo definire, che appunto esercita empatia, il contributo di empatia esercita sempre la fenomenologia. Tante volte vi ho messo in antitesi il concetto di spiegazione con quello di comprensione, la psicologia se voi ci pensate, tutto ciò che attiene ad un fenomeno che non è puramente tangibile (il disturbo, il disagio mentale), non è puramente oggettivizzabile, non abbiamo un esame clinico che ci dice guarda c'è una deformazione, e quindi nel caso della psicologia o di tutte le scienze dello spirito diventa necessario il termine contenzione, che se ci pensate varia di pari passo con una visione molto più legata all'esperienza, al vissuto e alla soggettività della persona. I fenomeni mentali soggettivi vengono ordinati secondo categorie semantiche, nell'ambito in cui la psicopatologia diventa il linguaggio comune della salute mentale. Questo è un concetto importante perché Jaspers, con la sua fenomenologia, vuole creare un testo di riferimento in psicopatologia generale dove il suo obiettivo è più che altro creare un terreno fertile tra gli esperti che si concentrano e vanno a lavorare in quell'ambito di studio, una sorta di linguaggio comune che racchiuda e rappresenti tutti coloro che fanno psicopatologia. Per questo le categorie semantiche attraverso le quali noi ci esprimiamo, la parola, i termini e la terminologia acquisiscono un senso fondamentale per contendersi. Dalle esperienze riportate dai soggetti appunto si valutano i cosiddetti costrutti formali evidenti che ci riporta la persona. Il compito della psicopatologia fenomenologica è quello di comprendere il senso sotteso a questi fenomeni e a questi contenuti e a questi elementi, aspetti formali che ci comunica il soggetto. Cosa c'è dietro quello che ci sta dicendo il soggetto? Cosa c'è dietro quel sintomo? Dove quell'elemento, quel fenomeno si viene a palesare, si viene a connaturare, si viene appunto a definire. Questo è un po' il grande obiettivo della psicopatologia fenomenologicamente intesa. I concetti psicopatologici pertanto, segnatevi questa parola chiave, hanno un valore paradigmatico, ci dicono Stanghellini e Rossimonti che vuol dire che aiutano a definire il fenomeno in se stesso e a fare una distinzione tra fenomeni simili ma non identici, quella capacità di discriminare e di distinguere un fenomeno simile ma non identico rispetto al fatto che ognuno ha esperienze diverse, al fatto che ognuno ha una storia di vita differente, rispetto al fatto che ognuno è collocato in uno spazio, in un tempo, in un contesto, in un vissuto totalmente diverso dagli altri e le reazioni e le risposte sintomatiche possono essere simili. L'attacco di panico si può palesare con una sintomatologia estendibile in più soggetti. Immaginiamoci una classe con dieci persone che hanno vissuto almeno una volta nella loro vita un attacco di panico, la sintomatologia che presentano può essere similare, quindi chi può aver avuto di più tachicardia, chi può aver avuto di più un'esperienza di depersonalizzazione, di derealizzazione, una sensazione di svenimento, una sensazione di stomaco che porta appunto a nausea, a uno stato neurovegetativo importante che si attiva. Questi sintomi li possono avere più o meno su larga scala, su dieci persone abbiamo fatto questo esempio, tutti con dei gradienti di intensità differenti dall'uno all'altro, ma quello che è il valore paradigmatico che ritroviamo nella psicopatologia ci dice che si deve definire il fenomeno psicopatologico in se stesso e fare una distinzione tra tutte quelle reazioni e fenomeni che appaiono simili ma che in verità non sono identici per come vive il soggetto, per come il paziente o la persona pensa a quel sintomo, a quell'attivazione fisica che ha avuto, magari Mario la vivrà con leggerezza, non ci farà più di tanto caso, invece Giulia avrà una paura della paura che possa ripresentarsi quella stessa sintomatologia o attivazione fisica neurovegetativa e anche corroborato dal risaggio naturalmente di natura psichica. I concetti psicopatologici possono assumere anche un altro valore, quello sintagmatico, che consentono di stabilire come un fenomeno psicopatologico viene a essere coinvolto all'interno di un processo più ampio e di una struttura di significato e di sentimento più ampio. A questo livello i concetti psicopatologici organizzano differenti tipi di esperienze della persona in costrutti teorici secondo strutture di senso, questi ultimi sono chiamati organizzatori psicopatologici, questo è fondamentale affinché il clinico vada a dotare di un senso tutta quell'esperienza che ci arriva dalla persona. Citiamo il testo, “gli organizzatori psicopatologici non sono altro che delle mappe, degli schemi sintetici di comprensione che favoriscono il nostro modo di muoverci per comprendere appunto l'esperienza della persona, come funziona quella persona e offrono una sorta di senso unitario a gruppi di fenomeni patologici che trovano una degna collocazione e un degno senso agli occhi del clinico per spiegarsi la sofferenza dell'individuo che abbiamo di fronte. Mentre gli organizzatori nosografici orientano la diagnosi e la prognosi attraverso il principio della check list, ce l'ha o non ce l'ha, attraverso la descrizione sintomatologica molto attenta, minuziosa che va per inclusione ed esclusione, gli organizzatori psicopatologici mirano alla comprensione dell'esperienza individuale, questa è l'ennesima, detta con altre parole, differenza che c'è tra nosografia e approccio puramente fondato su un contesto, su una prospettiva, su uno sfondo teorico di riferimento fenomenologico. Andiamo un minimo a dare un senso, un approfondimento all'ultima parte della clessidra, se vi ricordate, che era quella psicodinamica, definita così dagli autori e quella del perché, cercare il nesso causale che determina il disturbo. La diagnosi psicodinamica o psicopatologica fondata appunto sulla prospettiva psicodinamica si definisce come un fare diagnosi flessibile che tiene conto della dinamicità della persona: se ci pensate, tutti noi siamo soggetti a enormi informazioni e ogni giorno differeniamo, cambiamo; la diagnosi psicodinamica si definisce flessibile perché presta attenzione al mutamento e al processo dinamico della persona; la persona cambia, si trasforma, subisce mutamenti, subisce variazioni e quindi noi ne teniamo in considerazione. Secondo questa diagnosi psicodinamica o questa dimensione psicodinamica alla diagnosi, c'è un'attenzione alla continuità. Quindi l'obiettivo della diagnosi psicodinamica è quello di costruire una sorta di filo che mette insieme in ordine tutti i racconti che ci sta facendo la persona che abbiamo di fronte e presta attenzione a tutte le manifestazioni sintomatiche dotandole di una continuità nel tempo. Secondo una diagnosi psicodinamica non c'è una netta separazione tra normale e patologico perché il confine è sempre labile, visto che siamo continuamente in mutamento da uno stato di benessere e da uno stato di apparente serenità può appunto avvenire nell'immediato qualcosa che fa vacillare questo equilibrio e quindi si può riscontrare l'elemento appunto patologico. Un altro concetto importante che dovete un po' inserire dentro una macro-categoria di diagnosi psicodinamica è che la diagnosi psicodinamica è dotata per antonomasia di quella che viene definita il concetto di provvisorietà, ovvero noi andiamo sì a definire la persona, ma proprio secondo questo meccanismo di mutamento e di processo dinamico non statico, il processo di diagnosi è sempre soggetto a una continua rivisitazione dove ci sono sempre dettagli e aggiunte che ci permettono di implementare continuamente il quadro della persona stessa. Quindi diremmo che rispetto ad una diagnosi nosografica, non si tratta di un processo di conclusione ma di uno che aspetta sempre un dettaglio da aggiungere su quel quadro per arrivare ad una conclusione. Naturalmente il concetto di provvisorietà chiama una continua rivisitazione da parte del clinico di quello che pensa e sta costruendo rispetto alle pazienze che ha di fronte, implica una continua oscillazione per arrivare ad aggiungere quegli elementi rappresentativi e distintivi della complessità del soggetto che abbiamo davanti. Ultimo concetto che aggiungiamo a questa panoramica della diagnosi psicodinamica è il tenere fede, il tenere conto della dimensione storica in cui la persona è iscritta, del senso della storicità, tenere conto di proprio tutta la sua evoluzione: come è vissuto, dove è stato iscritto, il contesto di evoluzione, che bambino è stato, l'adolescente etc.. Per la fenomenologia abbiamo visto che c'è soltanto un'esperienza importante che ci riporta il soggetto di studio, per la nosografia invece c'è una descrizione e un'attenzione particolare al sintomo perché diventa un modo di comunicarci qualcosa che sta adottando il nostro paziente, il sintomo è una comunicazione di un malessere più profondo che è interno alla persona. Naturalmente rispetto a questo poi seguirà la teoria della malattia, secondo cui si deve tenere conto della complessità, dell'interazione degli eventi che ha vissuto quella persona e quando si parla di eventi ci riferiamo ad eventi esterni e interni che interferiscono nella formazione della persona, tenendo luce del tempo presente e passato. Importante è utilizzare una griglia di comprensione, si sfrutterà il PDM (Psychodynamic Diagnostic Manual)come riferimento teorico ed elettivo per comprendere il disagio della persona, il focus però non diventa tanto il disturbo, quanto la persona che sta vivendo quel disturbo; naturalmente in un'ottica PDM le dimensioni sono molto più ampie, non sono come categorie, permettono di interscambiarsi, sovrapporsi e dare un ritratto complesso della persona che abbiamo davanti. Gli ambiti della psicologia clinica sono:. diagnosi psicologico-clinica e assessment. interventi terapeutici di natura psicologica. metodologia della ricerca in psicologia clinica.. prevenzione, consulenza, formazione La clinica come grande area ci permette di approfondire quello che attiene ai fattori terapeutici e all'applicazione dell'efficacia di un trattamento, il cosiddetto concetto di evidence-based, le basi di un trattamento che appunto deve avere delle basi solide di evidenze scientifiche fatte su una metodologia di test e retest, di tentativi ed errori che ci danno un rigore per essere oggetto di osservazione e di rivisitazione del metodo. Cos'è lo psicologo clinico? Si occupa di capire a chi applica competenze, metodi di ricerca, strumenti di indagine, tecniche di intervento, dove li applica (il contesto, il setting), a che cosa li applica, a quale fine e perché, e come li applica. Per rispondere a queste domande, tabella: Con quale modello? in questo caso la risposta è ampia, Stanghellini e Rossimonti ci descrivono degli strumenti necessari per il clinico che sono fondamentali e questi strumenti sono da mettere nella nostra valigia da utilizzare per il nostro background, uno di questi è il linguaggio, la legge del linguaggio fondamentale di Alberto Useni ci dice che noi per arrivare a comprendere il disturbo e l’esperienza, ci dobbiamo adeguare al linguaggio che usa la nostra persona, la persona che abbiamo dinnanzi, se il paziente che abbiamo di fronte è una persona che ha un eloquio, come si esprime in gergo tecnico deficitario, un eloquio scarso un eloquio povero, lo troverà scritto sia nelle cartelle o nelle anamnesi che ci mandano dopo che lo ritroviamo in ospedale, noi in ogni caso ci dobbiamo adeguare al linguaggio della persona, noi dobbiamo empanizzare con lui, lo dobbiamo fare sentire accettato e compreso lo dobbiamo comprendere e per comprenderlo ci vuole un livello di simmetricità che rispetti appunto il terreno fertile di simmetricità, non è un caso che a volte il clinico decida di utilizzare delle parolacce con un adolescente per farsi capire, perché l'adolescente che arriva in terapia, magari costretto dalla madre o dal padre, genitori divorziati o genitori non divorziati che però non riescono ad avere una relazione con lui o lui che vive in situazioni di tira e molla e lo costringono alla terapia l'adolescente ci sta che sia positivo, ci sta che sia ambivalente e da un lato voglia e da un lato non voglia, che provochi, che non provochi, che risponda positivamente alla terapia come non risponda per niente che stia, sei seduto e zitto o a provocarti o a darti una serie di battutacce, e allora la ci dobbiamo stabilire questa relazione, quello è il nostro compito la relazione diagnostica, la working alliance nel caso della psicopatologia che ci serve per arrivare all'assessment e allora il colloquio è fondamentale e allora il linguaggio è fondamentale e allora stare nella provocazione dell'adolescente è l'unico aggancio per stabilirci un rapporto, per entrare nel suo mondo, questo è fondamentale. Come sappiamo il nostro lavoro si basa sul linguaggio perché è il nostro modo di lavorare è quello che noi possiamo operazionalizzare, la psicologia non si basa su tac o risonanze magnetiche, ovviamente le sfruttiamo le dobbiamo sapere leggere se ci interessa se scegliamo un curriculum rispetto ad un altro ognuno poi ha le proprie propensioni le dobbiamo sapere leggere ma avremmo fatto medicina se ci interessavano dati oggettivi valori sanguigni etc.., per conoscenza lo possiamo avere ma il nostro strumento elettivo quello che ci rappresenta e che dobbiamo operazionalizzare proprio come strumento di lavoro è il linguaggio: come dare spazio alla persona come fare le pause le parole da utilizzare, non utilizzare parole triggeranti non utilizzare parole che vanno a fomentare il soggetto che si riporta a casa e ci pensa che possa stare male poi si pensa a quella parola è scomoda e poi ci sono sette giorni che io non lo sento prima che mi arrivano le mie consultazioni è un usaggio perfetto e attento il pensiero come ne sappiamo il linguaggio è la lingua elettiva di fare clinica sia per quanto riguarda la diagnosi sia per quanto riguarda la strutturazione dell'intervento. Quando si parla di linguaggio e di senso, di parola poi abbiamo il focus su quella che viene definita la prospettiva strutturalista secondo la quale il pensiero umano è strutturato dalla lingua di appartenenza (in Inghilterra il chiedere perché non esiste nella loro struttura di pensiero, nel loro conversare, il perché è un po' invasivo devi essere un po' più soft nell'investigare la problematicità del paziente), lingue diverse sostengono concezioni del mondo differenti, ogni codice linguistico possiede peculiarità culturalmente determinate, l'essere umano è un prodotto della cultura di cui fa parte, le capacità linguistiche dell'uomo derivano dall'ambiente in cui vive; presupposto necessario il clinico deve conoscere la lingua del paziente, bisogna fare uno sforzo di spiritualizzazione emotiva infinito e se il clinico ha dei pregiudizi rispetto alla persona, è meglio che non veda un paziente, Spesso si riscontra uno scarto evidente tra le intenzioni del parlante e quello che riesce a dire a riguardo, questo è un concetto fondamentale e questo concetto attiene a quello che viene definito da stanghellini e rossimonti opacità intenzionale. Per affrontarla bisogna imparare a modulare la distanza che intercorre tra ciò che si dice e ciò che si intende dire: modulare in maniera consapevole quello che il paziente ci sta dicendo, il clinico di contro deve imparare a dire ciò che intende dire, a comunicare ciò che realmente vuole comunicare, anche se è un concetto brutto, non esiste bello e brutto e glielo dobbiamo rimandare al paziente, se io ho una sensazione negativa io glielo dico alla mia paziente, non esiste contenuto che non possa essere digerito, tutto può essere comunicato. Se ci troviamo al primo colloquio diagnostico bisognerebbe ridurre al minimo il rischio di non intendersi, dobbiamo costruire un terreno, è una relazione che stiamo costruendo, ci dobbiamo capire. Interventi potenziali del clinico è l’introduzione della parafrasi: si rimanda al paziente ciò che ci sta dicendo, pianificando e riassumendo continuamente ciò che ha detto. Lo studio del linguaggio consta di tre macro-aree: sintassi -> come si combinano parole e frasi da un punto di vista grammaticale semantica -> significato delle parole (Che cosa vuol dire per lei? “Sono in ansia” Lo spiega, perché ansia è una parola super abusata. Spieghiamo) pragmatica -> studio del linguaggio in rapporto all'uso del parlante rispetto a specifiche situazioni. Sempre i nostri autori ci dicono che il linguaggio veicola la metamorfosi terapeutica -> parlare equivale ad agire e ogni atto linguistico è in grado di influenzare lo stato d'animo, le emozioni, i comportamenti e le decisioni della persona. Ovviamente, ci saranno parole pronunciate in particolari momenti che più di altre riescono a procurare micro cambiamenti, dovrebbero essere in positivo, ma possono essere negativi, in questo caso lo possiamo riparare, lo dobbiamo riparare, però di solito i micro cambiamenti e le parole che utilizziamo servono per veicolare i pensieri positivi. Distillare qualcosa, creare un semino di speranza, di engagement, di aderenza al trattamento, di positività rispetto al raggiungimento di una risoluzione di un problema. E questi micro cambiamenti il clinico li deve distillare giorno dopo giorno. Cercare un senso diverso alla propria vita, veicolare qualcosa che smuova la statisticità del paziente. Il paziente spesso ci arriva statico, noi dobbiamo muovere micro cambiamenti, per farlo bisogna capire quali strumenti abbiamo a disposizione per stimolare il cambiamento. Bisogna compiere un intervento perturbante capace di mettere in crisi e modificare il punto di vista di una persona. Attraverso la perturbazione si vuole insinuare il dubbio, stimolare la riflessione, offrire spiegazioni diverse, attivare la curiosità, facilitare la formulazione di un problema, riconsiderare il proprio modo di essere e così via. Un ruolo speciale per attivare i micro interventi è occupato dalle metafore (siamo in alto mare, siamo in mare di tempesta, c'è qualcosa che ti tira giù, ma ti passa e ti offre un salvagente) che sono indispensabili per il nostro lavoro, poiché offrono nuove possibilità di scelta, in particolare nuovi modi di guardare le cose e possono stimolare tutta una serie di esperienze, credenze, idee, che sono state inattive nella mente di chi ascolta. In questo senso si parla di ristrutturazione metaforica, ossia di una comunicazione che porta a percepire la realtà in maniera diversa. Cosa significa essere in colloquio? Cosa cerchiamo nel colloquio? E come lo cerchiamo? Da una parte c'è l'esigenza di istituire una relazione senza l'obiettivo specifico di informare il soggetto intorno a qualcosa. Non si comunica con lo scopo di informare, ma con l'obiettivo di mettere in comune. Il colloquio è un incontro tra comprensione e interpretazione; non significa che paziente e diagnosta, paziente e clinico sono nello stesso livello, sarebbe un conflitto, le regole del setting devono essere chiare, circoscritte e specifiche. Il patto terapeutico deve essere sancito. Secondo la prospettiva oggettivista, associata con ciò che si considera scientifico, esiste una verità assoluta che è accessibile ed è raggiungibile se si utilizzano i giusti parametri (es. per i razionalisti, l'accesso al vero si raggiunge col ragionamento puro). Il mondo dell'oggettivismo è fatto di oggetti e la conoscenza altro non è che la conoscenza delle proprietà degli oggetti. L'errore pertanto dipende dalla componente soggettiva, cioè dalle percezioni e le emozioni dei pregiudizi che impediscono di essere oggettivi. Ricordiamoci, l'esame sarà su Gallimberti, Stangherini e Rossimonti. Lezione 16 ottobre - pronta Da slide 25 a slide 36 La scorsa volta abbiamo parlato del linguaggio, delle tecniche del colloquio, di questa tecnica elettiva, motivazionale, che serve a trasformare la motivazione estrinseca in intrinseca. Eravamo rimasti appunto a discutere quanto secondo Stanghellini e Rossimonti fosse importante dotare il clinico di una valigia ricca di strumenti necessari e funzionali per fare diagnosi, per capire il disagio del soggetto, per capire appunto come andare ad entrare nel soggettivismo e nel come la persona davanti a noi esperisce il suo disagio nel vivere il suo contesto, il suo qui e ora. Ci dicono gli autori che una sfida grande e abbastanza difficile che ha il clinico da fronteggiare nella sua attività quotidiana di comprensione dell'altro è quella dell'interpretazione, poiché “non può evitare il clinico di definire a se stesso cosa cerca di interpretare e in che modo intende farlo”. La riflessione critica circa l'interpretazione prende il nome di ermeneutica, se ci pensate interpretare da parte del clinico è una delle mansioni più facilmente immediate, i clinici nella loro pratica quotidiana cedono alla tentazione dell'interpretazione: quello che per me il paziente mi sta dicendo, quello che per me questa persona potrebbe avere, quello che secondo me questa persona di base potrebbe essere, è un qualcosa di immediato rispetto anche alle nostre regole di studio, al nostro essere soliti, cercare di mettere insieme i pezzi del puzzle per capire chi è, cosa ha la persona dinanzi a noi. Questo è un ambito che attiene al concetto di ermeneutica. Psicologia ed Ermeneutica condividono il fatto che entrambe si confrontano con il problema dell'attribuzione di senso: interpretare secondo appunto un quadro generale vuol dire provare ad attribuire un senso a segni espressi dagli individui. Tutto questo corroborato dalla riflessione, dalla capacità analitica del clinico di mettere insieme questi pezzetti e creare un fil rouge che doti di senso l'esperienza raccontata dal paziente. Da un lato il concetto di interpretazione si potrebbe avvicinare a quello di comprensione, spiegata attraverso una condivisione tra interpretante e interpretato e al concetto di smascheramento delle menzogne e dei tabù, dei silenzi. Circolo ermeneutico: secondo gli autori è quel paradosso per cui le parti di un testo, come di una qualunque espressione, possono essere comprese solo sulla base dell'intero testo, ma tutto il testo può essere compreso solo con l’insieme delle parti. Ill circolo ermeneutico, è un paradosso perché di base, se ci pensate, prevede tanti step come se fosse un loop, una sorta di circuito dove si vuole afferrare un senso profondo delle cose, mettendole tutte insieme. Secondo Gadamer, l'essenza della struttura relazionale dell'essere umano è il dialogo e per questo l'interpretazione è un'attività costitutiva dell'agire umano. Ricoeur annulla la distanza tra verità e metodo, e ci dice che filosofia e scienza non possono non dialogare perché spiegazione e comprensione sono entrambe parti del processo ermeneutico che viene chiamato arco ermeneutico. Ci dicono sempre gli autori che la spiegazione è il momento più metodico dell'arco ermeneutico, la metodologia che ci serve per fare il nostro lavoro, mentre la comprensione è il momento non metodico. Pertanto paziente e psicologo cercano e costituiscono insieme il senso delle loro esperienze in un'ottica, come sappiamo, soggettiva. Quello di arco ermeneutico, è una spiegazione che tiene perfettamente fede e coerenza di quella che è la complessità del nostro lavoro e di quello di cui necessita: metodologia e relazione. I due ultimi concetti, pertanto, fondamentali che troviamo nella valigia del terapeuta e del clinico, sono quelli di metafora e racconto. Nel rapporto col paziente, questo approccio insegna a rinunciare alla rigidità e ad abbandonare le proprie versioni e le proprie posizioni per dare spazio all'altro. Non è in questione la correttezza di interpretazione, quanto la comprensione, intesa come critica della precomprensione, ossia dell'insieme di pregiudizi (il pregiudizio del clinico che appunto deve riconoscere per evitare di non capire, non comprendere, non curarsi della relazione con la sua persona). La comprensione non raggiunge le certezze della spiegazione, ma ha il vantaggio di avvicinare all'esperienza soggettiva, l’approccio ermeneutico consiglia che il senso va prodotto nella relazione. Fine primo testo Partendo dall’assunto se la psicologia può diventare una scienza al pari delle scienze della natura, Galimberti pone un primo punto di critica secondo cui la psicologia non può essere inserita all'interno di quelle che sono le scienze della natura in quanto si occupa di fenomeni che non sono tangibili, che non sono concreti, che non sono visibili direttamente dall'occhio umano o dall'analisi che facciamo all'occhio umano, i contenuti della psicologia si occupano di disagio, quest’ultimo non è misurabile, non è un costrutto evidente all'occhio umano, e allora lui sostiene che dobbiamo cambiare direzione e svincolarci da quella che è la scienza della natura per antonomasia. Che cos'è questa scienza della natura? quando parliamo di scienze della natura noi parliamo di scienze naturali che si occupano di oggetti che sono quantificabili e che sfruttano come metodologia quella dell'oggettività, molto specifica per studiare questi fenomeni; ma la psicologia non funziona così se noi ci pensiamo la psicologia si occupa di soggetti che hanno un loro vissuto, che hanno una loro storia, che hanno un loro contesto e che necessitano una carica di lettura specifica; questi fenomeni sono la percezione, il comportamento l'esperienza umana le sensazioni, il modo di esperire il disagio, che se ci pensate è difficile ridurli a fenomeni esattamente misurabili, nel tempo ci siamo mossi per arrivare a più dati quantitativi, più attendibili possibili, e noi nelle nostre valutazioni anche metodologiche, pure quando facciamo ricerca riscontriamo poi dei limiti, perché i questionari che noi utilizziamo sono sempre questi, questionari cosiddetti senza report, riportati dai pazienti, noi chiediamo loro di fare una valutazione sul loro disagio, abbiamo una prova, è un corrispettivo numerico, ma è sempre inflazionato, l'oggetto ha una serie di bias, la comprensione del soggetto, la desiderabilità sociale, quanto sono restii al questionario, quanto quel soggetto non abbia nemmeno afferrato il quesito del questionario, quanto quella giornata possa inficiare l'umore della persona, noi come clinici lo dobbiamo considerare esistono delle misurazioni più esatte, esistono gli strumenti ad oggi che li chiamano accorded, ci sono dei test quotidiani che il paziente in maniera molto basic compila per vedere se c'è una coerenza, ci sono tutti gli esami, una serie di test proprio concreti, ma ricordiamoci sempre che il nostro oggetto d’indagine non è uguale a quello della chimica e della fisica, il nostro oggetto di lavoro è qualitativo, che poi ci siano stati degli elementi che ci permettono di renderlo più chiaro, quello sì, ed è un grandissimo supporto. Rispetto a questo, torniamo su Jaspers che ha contribuito alla creazione di un linguaggio comune per descrivere sintomi e condizioni psicopatologiche, allo sviluppo della psicopatologia come disciplina autonoma e che introduce un nuovo approccio alla psicologia che si basa sulla comprensione empatica, la sua comprensione si focalizza sull'esperienza, piuttosto che sull’osservazione dei sintomi -> il medico deve cercare di entrare in empatia con il paziente e di comprendere la loro esperienza personale. Con Jaspers abbiamo anche il concetto di comprensione, il concetto di empatia, il concetto di esperienza, il concetto di soggettività; Questo approccio viene definito nella storia attraverso un volume che è quello che Jaspers scrive e quello anche per cui è diventato celebre e famoso che è Psicologia Positiva ed è stato scritto un fatto nell'opera più ampia che è Psicopatologia Generale nel 1913. Jaspers cerca di comprendere l'esperienza individuale dei pazienti piuttosto che cercare di classificare i sintomi in base a diagnosi ed etichette predefinite, questo significa che il medico deve cercare di entrare in empatia con i pazienti e di comprendere l'esperienza personale, di stare nel suo discorso, in questo modo il medico può comprendere l'origine del sintomo e fornire un trattamento personalizzato e mirato. IMPORTANTE concetto di personalizzazione e trattamento mirato. Jasper ha anche introdotto il concetto di comprensione esperienziale, ovvero la comprensione degli stati mentali dei pazienti attraverso l'esperienza diretta che questo soggetto fa del mondo. Abbiamo anche Heidegger che parla di esistenzialismo, l'esserci nel mondo come la persona, come la persona interagisce con il suo concetto, come la persona vive la sua famiglia, come la persona vive la cultura in cui è iscritto, come la persona vive il microsistema della sua famiglia che è il suo micromondo e che comunque lo rappresenta e gli permette di definirsi ed esserci nel mondo come da queste situazioni deriva la sua psicopatologia e come i suoi sintomi il suo attacco di panico, la sua angorafobia o il suo disturbo d'ansia generalizzato sia frutto di quella storia, di quel mondo e di quella, per citare Jaspers, esperienza che ha fatto, noi lo dobbiamo comprendere e questo significa essere col paziente del suo mondo entrare a conoscenza del suo mondo, fare una diagnosi fenomenologica del punto. Detto questo, l'approccio psicologico comprensivo di Jaspers ha avuto un impatto significativo sull'evoluzione della psicopatologia come disciplina autonoma, e fornisce un nuovo modo di comprendere le esperienze individuali dei pazienti e di fornire un trattamento personalizzato e mirato, inoltre ha avuto un impatto significativo anche nell'ambito della psicopatologia forense consentendo di valutare in modo più accurato lo stato mentale dei pazienti in ambito giudiziario. La psichiatria fenomenologica si basa sulla comprensione dell'esperienza soggettiva del paziente, mettendo al centro la relazione umana e la dimensione esistenziale della persona, approccio che si contrappone alla visione medico-biologica dominante in psichiatria che si concentra sui sintomi e le cause biologiche delle malattie. Prima di Basaglia tutto quello che era psicopatologia era qualcosa di considerato un po' al limite tra il sacro e il profano, tra è completamente pazzo, un temuto, un alienato, una persona da cui ci dobbiamo difendere, rispetto invece ad una persona che sta nella norma, rispetto ai canoni previsti dalla società. Basaglia si va ad inserire in un contesto dove il paziente, veniva trattato al pari di una persona confinata, da cui ci si doveva difendere, che doveva essere allontanato, nascosto dalla società perbene. Infatti gli asylum ad esempio ci portano testimonianze di queste strutture dove l'obiettivo ultimo era dimenticarsi del paziente, costringerlo a vivere in una condizione in cui questo non diventava scomodo per la società pubblica. Dovevamo privare la persona della sua umanità, della sua storia, del suo mondo per renderlo meno pericoloso, inoffensivo e quindi curabile secondo la visione medica. Il malato mentale, non aveva un motivo personale, era un alienato che andava a tutto il corpo. Questo era la cornice di riferimento di all'ora. Basaglia è una figura rivoluzionaria perché fa molto su tutte le visioni esistenzialiste che lo portano a creare quella che viene vissuta come psichiatria fenomenologica, a dotare di un'esistenza soggettiva il malato mentale, a riportare il soggetto ad un esempio di umanità, ad una storia sua personale, ad un vissuto suo personale, ad un'attenzione rispetto alla sua comunicazione necessaria per risolvere gli esercizi. Per questo noi inseriamo e lo dobbiamo per forza trattare quando facciamo psicopatologia, perché lui parla di saggio e di salute mentale e parla anche di personalizzazione e di soggettività, di tornare ad avere un'identità, un'umanità, una storia adatta ai pazienti, stabilendo una relazione, una metodologia totalmente diversa da quella che avevamo vissuto all'ora. E ricordiamoci tutto questo, che Basaglia non era uno psicologo, era uno psichiatra che decide di “uscire fuori” e di creare una rivoluzione. Il prevenire è un modo di curare e di occuparci del paziente, uil dare un impegno al soggetto, il farlo stare a contatto con altri, riuscire a umanizzare la persona. Quest'approccio si contrappone alla visione medico-biologica che si concentra sui sintomi e sulle cause biologiche. Come sappiamo ci trovavamo in un contesto dove Basaglia, così definita, era rappresentata dall'Isteria, avevamo pure i casi appunto di soggetti che si scompensavano, le classiche psicosi, che poi appunto erano tutte le schizofrenie che oggi appunto si hanno solo da considerare. Le cure che allora erano le cure che sfruttavano un po' questa psichiatria erano le docce fredde per calmare questi nervi così esasperati, così portati agli estremi, in modo tale che ti calma la crisi, e tu ritorni ad essere giustamente igestibile. Questa era la cura che in queste strutture che veniva portata avanti. Basaglia, da medico, rompe tutta questa struttura e rivoluziona anche la medicina, usa l'assemblea, un po' una sorta di terapia di gruppo per discutere delle problematiche del qui e ora, focus sul presente. Egli in quanto esponente della psichiatria, durante la sua specializzazione ha cominciato ad applicare un nuovo approccio comunitario alla cura del paziente, è il precursore di quella che definiamo oggi la comunità, le comunità italiane. Per comprendere meglio le idee di Basaglia, è importante collocarlo nel suo tempo e nel suo ambiente: ha iniziato il suo lavoro per semplificare il contenuto, iniziava negli anni 50, grazie alla sua formazione filosofica e psicoanalitica, ha iniziato a mettere in discussione questo modello, cercando di comprendere la dimensione esistenziale dei pazienti, ha iniziato a sostenere una riforma umana e corporale, cercando di superare i modelli istituzionali; basaglia ha proposto l'idea di un ospedale aperto, basato sulla partecipazione attiva dei pazienti e dei loro familiari. Finalmente la famiglia ricorda l'appartenenza dei pazienti ad essere considerata, ad essere integrata nel lavoro. Si apre così la strada a quello che è il trattamento comunitario, cercando di superare il modello di istituzione totalitaria, presente nei manicomi dell'epoca. Questo approccio ha portato alla creazione di un servizio di psichiatria interdisciplinare, basati sulla vicinanza e sulla produttività e sulla produzione della riabilitazione sociale dei pazienti. Da qua ci sono i concetti di riabilitazione psichiatrica, di produzione della salute, e anche di autonomia del paziente psichiatrico, e Basaglia lo fa in una maniera meravigliosa. La sua lotta contro i pericoli, ha fondato la legge del ha decretato la chiusura dei manicomi e la creazione di servizi psichiatrici territoriali. Tuttavia Galimberti critica l'aspetto estremista della crisi che ha creato Basaglia, in quanto egli nei suoi testi arriva quasi a negare la patologia perché non è abituato più a stare in relazione, a essere trattato umanamente. Secondo Galimberti, sebbene sia necessario mettere in discussione l'approccio medico-biologico dominato da psichiatria, non si può negare l'importanza della terapia e della cura dei pazienti. Infine il contributo di Basaglia alla psichiatria è stato molto importante non solo per la lotta contro i manicomi, ma anche per la sua capacità di mettere in discussione il sistema psichiatrico e di proporre nuove forme di relazione umana e di cura. La sua influenza ha portato a un cambiamento radicale nella psichiatria italiana e ha influenzato anche altri paesi del mondo. L’Italia è considerata come uno dei paesi più onertistici nella lotta contro la psichiatria ortodossa. L'Italia è stato uno degli stati più considerati e rispettati. ‼ ‼ LEZIONE 17/10 - pronta Da slide 37 a slide a slide 39 Secondo Galimberti è fondamentale aiutare la persona e farlo uscire un po' da tutto quello che è l’ospedalizzazione ma è anche fondamentale cercare sempre quei trattamenti personalizzati, ad hoc, un modello sicuramente può andare bene, ma non per tutti o per tutte le circostanze. Galimberti sfrutta dei parametri e anche delle specifiche condizioni legate all'umano per spiegare i fenomeni psicopatologici, nel suo modo complesso di esprimersi vanno estrapolati dei concetti chiave che a noi ci servono necessariamente per comprendere la sua visione davvero molto lungimirante e molto attenta del fare analisi dei fenomeni rispetto a tutte appunto le sottocomponenti esistenti in ogni fenomeno. Andiamo alla relazione quindi del corpo. Immaginatevi la relazione tra psicopatologia e corpo, c'è un mondo, Galimberti è attentissimo a sfruttare gli elementi come il corpo, come la presenza, come il tempo, li vedremo tutti per andare a discutere di psicopatologia, perché la psicopatologia non è malattia, c’è differenza tra patologia e psicopatologia, la patologia è l'oggetto di interesse, è la psicopatologia ma non trattata come semplice presenza e assenza di dati sintomatologici specifici, tutto va contestualizzato rispetto agli oggetti presenti. Galimberti appunto analizza il rapporto estremamente correlato con il corpo rispetto appunto alla psicopatologia e rispetto appunto a come la persona si presta alla comprensione, al vivere il suo corpo. Quando parliamo di relazione con il corpo parliamo sempre del tema dell'esperienza, dell'esperienza di sé, dell'esperienza di sé nel mondo, dell'esperienza di sé attraverso il mondo e l'altro, perché è tutto un sistema interconnesso e questa è fenomenologia. Galimberti sostiene che il corpo non può essere compreso soltanto come un oggetto fisico, il corpo va visto come un soggetto che si rapporta con il mondo attraverso le sue azioni e le sue percezioni. Il corpo è un'esperienza, è qualcosa di più complesso perché dotato di un significato che gli attribuisce il soggetto, non esiste la scissione mente-corpo, è un tutt'uno ed è un rapporto, è un costante reciproco biunivoco dove il corpo è un soggetto frutto di questa esperienza costante che ha con la persona che lo abita. Dirà anche Gallimberti che l'esperienza del corpo e del mondo viene mediata da un parametro fondamentale che è quello della presenza. non esiste un disturbo dove non c'è ansia e non c'è presenza. La presenza è la capacità di essere coscienti di sé e del mondo che ci circonda, è la capacità di essere consapevoli di sé e degli altri nel funzionamento della personalità. Lo chiamerebbero molti l'esame di realtà. Io sono solita chiamarlo insight. La capacità di insight della persona: essere nel tempo, esserci nei propri panni, essere nel proprio corpo, esserci attraverso la relazione con l'altro, dominare il qui e ora, avere consapevolezza del qui e ora rispetto al disturbo, e il disturbo la prima cosa che fa è intaccare l'esame di realtà. Il paziente è meno presente a sé stesso, il parametro della presenza non c'è. Se soffro di attacchi di panico e ora della realizzazione della personalizzazione e non ci sono, la mia mente è sul futuro, la presenza non è nel qui e ora, sono nel futuro. Quando verrà il prossimo attacco di panico? Sarà di nuovo in macchina perché il primo attacco di panico che ho avuto mi è venuto in macchina in percorrenza in autostrada dove non mi posso fermare. Il tempo non è presente. L'esame di realtà non è nel qui e ora, è avanti. La presenza non è focalizzata. Nel caso della depressione, il depresso non è nel tempo, non è presente, vivono completamente alterati, il depresso è isolato, mon ci sono tutte le emozioni. Vive focalizzato sulla colpa per tutto, per il male che sta causando ai suoi familiari, per il fatto che non si alza dal letto, per il fatto che le persone più vicine lo vedano sempre allettato, per il fatto che non si lava, che non riesce ad assolvere le funzioni tipiche della vita quotidiana. Criterio da DSM che sempre troverete in tutti i disturbi: il mancato svolgimento della vita quotidiana. C’è l’assolvimento di tutte le funzioni sociali, l’interruzione del funzionamento irregolare sociale e quotidiano rispetto alla produzione della propria vita, non dovuto a condizioni mediche ma legata a un disagio psicologico. Questo è il concetto di presenza e di corpo di Gallimberti -> capacità di essere coscienti di sé e del mondo che ci circonda, capacità di esserci nelle situazioni e nelle dinamiche del proprio corpo, spesso i pazienti portano come esempio l’esperienza di uscire, di andare a bere con gli amici, di andare alle feste, ma di non esserci nella situazione, il non riuscire a stare nel discorso altrui La dimensione della presenza, quindi ci dice Gallimberti, è importante nella psichiatria fenomenologica in quanto consente di comprendere l'esperienza soggettiva del paziente e di costruire una relazione autentica e significativa con loro a partire dalla loro storia, dalla loro esperienza, dal loro esserci e dalla loro presenza nel qui e ora e nelle dinamiche. La presenza del terapeuta, ci dice in più Galimberti, è fondamentale per creare un ambiente di fiducia e di accoglienza in cui i pazienti possano esprimere i loro vissuti e trovare un senso alle loro esperienze, se il paziente non c'è, noi siamo una presenza di modelling per il nostro paziente, noi fungiamo da modello, l'alleanza terapeutica, il lavorare sul suo problema e il concordare un obiettivo specifico, l'obiettivo è essere un modello per il nostro paziente. Un altro elemento fondamentale che aggiunge Galimberti è che ci è di grande supporto sia rispetto al fare clinico sia rispetto al fare psicopatologico è l'importanza della relazione tra il corpo e il mondo nella costruzione dell'identità della persona, il corpo è la sede delle emozioni ed è attraverso il rapporto con il mondo che l’individuo può costruire la priorità identità e il proprio senso di appartenenza -> elemento chiave l'identità. Infine Gallimberti analizza la dimensione della malattia mentale e il suo impatto sulla presenza e sulla relazione con il mondo. La malattia mentale può alterare la percezione del corpo e del mondo, causando un'esperienza di alienazione. La terapia deve quindi aiutare i pazienti a ristabilire il rapporto con il proprio corpo e con il mondo e a trovare un centro alla propria esperienza. Umberto Gallimberti esplora anche il concetto di intersoggettività e il suo ruolo nella costruzione dell'esperienza del mondo. Gallimberti sottolinea che l'esperienza del mondo non è soltanto una questione individuale, ma dipende anche dalle relazioni interpersonali e dalla cultura in cui si vive. L'intersoggettività è la capacità di comprendere l'altro e di relazionarsi con lui e gioca un ruolo fondamentale nella costruzione dell'esperienza del mondo. Nella psichiatria fenomenologica l'intersoggettività è importante perché consente di comprendere l'esperienza del paziente e relazionarsi in un contesto sociale e culturale e di costruire una terapia che tenga conto di questo aspetto. Lezione 23 ottobre - pronta Da slide 40 a slide 44 A partire da tutta la concezione che Galimberti fa sul corpo, arriva anche a parlare di psicosi e di come il soggetto vive la psicosi secondo la sua visione. Abbiamo visto che Galimberti sottolinea che l'esperienza del mondo non è soltanto una questione specificatamente individuale che afferma il suo individuo in quanto tale, ma dipende anche dalle relazioni interpersonali e dalla cultura in cui l'individuo è iscritto. Ci dice Galimberti, e lo citiamo, che l'intersoggettività è quella capacità di stare, comprendere l'altro e di relazionarsi con lui. È già un ruolo fondamentale nella costruzione dell’esperienza del mondo. Nella psichiatria fenomenologica l'intersoggettività è importante perché consente di comprendere l'esperienza del paziente in relazione al suo contesto sociale e culturale e di costruire una terapia che tenga conto di questo aspetto. C'è un gran focus sulla relazione, importante l’alleanza terapeutica, relazione terapeutica in generale, che non è appunto sovrapponibile a queste relazioni, perché ogni relazione è specifica per quell'individuo che sta condividendo quell'esperienza con quella data persona. Ogni Paese ha il suo pensiero dominante e tutti noi siamo vittime della cultura, della magrezza, della bellezza, siamo dominati da questo pensiero comune, poi c'è chi è più vittima, c'è chi è meno vittima, là potremmo capire come giocano i fattori di rischio, i fattori protettivi o la vulnerabilità soggettiva della persona, la tipologia di famiglia che ha avuto, delle esperienze di vita o di morte (Galimberti apre soltanto una grande parentesi sul concetto di cultura e di quanto questa ci influenzi nel vivere, nel vivere la psicopatologia, nel vivere dinamiche interpersonali che si ripercuotono nel qui e ora della terapia). Galimberti ci dice, il paziente affetto da psicosi (quando parliamo di psicopatologia, è sia la forma e la condizione patologica più grave, sia un malfunzionamento di personalità) è una persona che ha poco esame della realtà, quindi contezza dell'essere nel qui e ora della realtà, di come funziona la realtà psicotica. Galimberti dice che il paziente affettuato da psicosi sperimenta la sensazione che il proprio corpo non sia più il proprio come se fosse diventato estraneo o appartenesse ad un'altra persona, capita molto spesso che per determinate condizioni di psicosi grave il soggetto non abita più il suo corpo e questo è proprio un dato concreto sintomatico perché esistono dei deliri e delle allucinazioni che hanno questa specifica, ma Galimberti non si focalizza soltanto sulla singola presenza di deliri o allucinazioni, il suo ragionamento è ancora più profondo, dice che quella persona non riesce più a vivere i suoi panni, non riesce più a vivere il corpo che abita, questa sensazione può essere accompagnata da una percezione di inadeguatezza, di deformità o di insufficienza rispetto al proprio corpo che può diventare oggetto di rifiuto, il soggetto arriva a rifiutare, a non accettare, a negare il suo corpo a seguito appunto perché non lo riesce ad abitare, perché non riesce ad essere in piena coerenza con quel corpo, l'abbiamo visto l'altro giorno quanto è importante che ci sia un rapporto interconnesso tra mente e corpo, arriviamo a questo livello a non riconoscere più il nostro corpo, ci sono le condizioni anche psicotiche o gravemente psicotiche in cui non c'è una corretta percezione proprio dell'immagine del proprio corpo, delle forme del proprio corpo, il soggetto arriva a deformarle, a cambiarle e a immaginarsi, percepirsi come un'altra persona rispetto a quello che effettivamente è. DISMORFISMO CORPOREO Oggi lo trovate all'interno di disturbi ossessivi o altri disturbi ad esso correlato, comporta che in prima istanza ti concentri sul disturbo in quanto tale, però bisogna avere sempre la contezza di quello che è il funzionamento della personalità dell'individuo (se siamo sul livello neurotico, se siamo sul livello borderline, se siamo sul livello psicotico o un più o meno su determinati campi). Il dismorfismo corporeo si palesa soltanto con un problema legato a piccolissime percezioni del corpo (es. le ginocchia o il polpaccio), ti concentri su una piccolissima porzione non vedi completamente deturpato il tuo corpo, non lo vedi completamente trasformato o unito a questo senso di inadeguatezza, oppure un esempio di dismorfismo che per ora è molto in voga sono le labbra, per coloro che si rifanno le labbra, vederle e percepirle sempre piccole, sempre snelle, sempre sottili piuttosto che invece rendersi conto di quanto le operazioni di chirurgia abbiano reso questa cosa abbastanza esagerata; è una porzione specifica, è un problema che si focalizza soltanto su quello. Gallimberti sottolinea che la distorsione dell'immagine corporea nella psicosi non è solo una questione di percezione (quando parliamo di percezione parliamo anche spesso di atti alluscinatori), ma riguarda anche la sfera affettiva e relazionale, in quel caso la differenza rispetto al dismorfismo corporeo è anche tutto quello che si attiene ad una sfera più ampia, affettiva e relazionale. La sensazione di estraneità rispetto al proprio corpo può provocare ansia, panico e senso di isolamento, compromettendo la capacità del paziente di entrare in relazioni con gli altri, solitamente cosa succede, spesso i giovani pazienti diagnosticati tendono a chiudersi, il cosiddetto ‘sintomo di mantenimento’, mantengono la condizione, il soggetto si fa forte di questa costruzione di pensiero. Il corpo diventa quindi un oggetto estraneo privo di significato che non risponde più ai comandi della volontà del paziente, la relazione tra corpo e immagine corporea diventa così disturbata e conflittuale. Galimberti fa tutta un'attualizzazione sull'uso dello specchio, il mirroring, non solo il guardarsi allo specchio, il riconoscersi, non per forza legato come oggetto. Ci dice infine Galimberti, la terapia per la psicosi deve mirare a ristabilire la relazione del paziente con il proprio corpo e la propria immagine corporea. Galimberti sottolinea l'importanza di comprendere la dimensione fenomenologica della psicosi, ovvero l'esperienza del paziente per poter offrire una cura adeguata. La terapia deve prendere in considerazione non solo i sintomi, ma anche la persona nella sua interezza, il suo ambiente interno e la sua relazione con l'ambiente esterno. Galimberti ci dice che a ciascuno di noi viene negata un'immagine corretta, precisa, fedele del proprio corpo: tutti noi, quando ci guardiamo, a volte perdiamo un dettaglio che è rappresentativo nostro, abbiamo una visione veloce, immediata di noi stessi e ci sfugge qualche particolare legato alla nostra persona, vi è mai capitato di camminare per strada, guardarvi in una vetrina e dire, mamma mia, ma questa espressione è la mia, nel senso, nel pieno della frenesia che possiamo avere. Quindi ci dice Galimberti che a ciascuno di noi umano viene negata una parte o una visione sempre completa e rappresentativa del proprio corpo in quanto l'immagine non sempre è sovrapponibile. La presenza che si cerca nello specchio, in realtà, è una corporetà colta dal di fuori, nella forma dell'esteriorità: l’immagine del nostro corpo che noi abbiamo è influenzata da quello che viviamo, dalle relazioni che abbiamo, da quello che la gente ci rimanda di noi stessi, del nostro fisico, quando ci fanno un apprezzamento, quando ci danno un feedback, quando ci muoviamo con gli altri, quando siamo in relazione con gli altri, quando c'è un contatto fisico di un certo tipo che ci permette di avere un senso, è un rimando anche al nostro corpo. Ritorniamo alla psicopatologia: pensiamo a quei casi di profonda insicurezza, di incertezza, dove le persone appunto hanno quell'autostima così bassa, hanno quell'incertezza così profonda da non avere una bontà di loro stessi, sia dal punto di vista performativo sia dal punto di vista fisico e anche se le persone altrui, di fuori, fanno apprezzamenti la persona non lo coglie o se ne va: fattore transdiagnostico non patologia. È un'immagine dinamica del corpo dice Galimberti che ci permette di viverci come totalità unitaria; unità che è distrutta dalla psicosi in quanto lacera l'immagine corporea, ecco che nel caso della psicosi abbiamo la frammentarietà (ci rompiamo, ci frantimiamo, non ci riconosciamo). L'immagine del corpo è qualcosa di dinamico, che si costruisce, struttura, destruttura, nel continuo rapporto col mondo così come esso è vissuto, ovvero della sua esperienza sia percettiva che emotiva. La costruzione dell'immagine corporea è data dalla singola storia dell'individuo e dei suoi rapporti con gli altri, il cui interesse positivo o negativo porterà all'accettazione o alla rimozione di ciò che si sente accettato e respinto es. il body painting, tutto il corpo coperto da tatuaggi, là è un modo anche per rappresentare se stessi, è il frutto di quello che vogliamo essere, come vogliamo vivere di più noi stessi, la nostra immagine, raggiungere, percepire e pervenire a quel senso di appagamento che ci dà il nostro corpo, arriva ad un livello che è per vivere bene il mio corpo, per stare bene con me stesso, ho capito che tutti questi tatuaggi sono rappresentativi della mia persona, esempio di come ci si può aiutare il corpo, di come uno può essere anche influenzato dalle proprie esperienze. Vi è quindi interrelazione fra le varie immagini che ognuno offre di sé, possiamo quindi parlare di Gestalting: costruzione che muta a seconda delle modificazioni che subisce la nostra vita relazionale. Nell'esperienza psicotica vi è la tendenza a distruggere l'immagine del corpo personificando le singole parti e proiettandole fuori di sé come fantasmi, le parti corporee non sono vissute come integrate nella totalità corporea, non è più possibile riconoscere la relazione formale fra le parti e la totalità e quella contenutistica relativa al senso delle singole parti ed al significato che ciascuna di essa possiede nel legame dinamico con il tutto, vi è anche l'abolizione della frontiera che delimita il proprio corpo e lo distingue dal mondo quindi sovrapposizione delle due in realtà non vi sarà più alcuna dialettica fra corpo e mondo. LEGGERE QUESTO PARAGRAFETTO NEL LIBRO. nei casi più estremi dei soggetti non c'è più alcuna dialettica fra il sé e il corpo, il paziente arriva a perdersi e non a essere più rappresentato dal proprio corpo, ci sono dei casi molto gravi in cui una persona se si specchia e non si riconosce. Se ci pensate schizofrenia tende a distruggere, c'è proprio una disconnessione col corpo. Quando una parte del corpo è riconosciuta come elemento di unità organizzata, riconoscerà le strutture spaziali. Quando il corpo di un integrato viene accettato dal sé, è parte di unità ampia, complessa, organizzata, dove tutto assolve e risponde a qualcosa, dove l'elemento individuo si ritrovi in un tutto più ampio che però lo rappresenta, naturalmente riconoscendo tutte le strutture spaziali che sono: la presenza, il tempo e come si vive il tempo spaziale, come si vive il qui e ora delle nostre esperienze, spaziali in questo senso, come abitiamo il corpo e siamo integrati in un tutto complesso che ci permette di vivere la realtà e la quotidianità e la vita in generale con senso. Quando l'immagine del corpo ritrova i propri limiti, il corpo diventa abitabile, l'esperienza spaziale già acquistata porterà alla conclusione dell'esperienza temporale. Per tanto tempo si è parlato in psicopatologia di disturbi bipolari, dove avevamo due toni: avevamo il polo depressivo come avevamo il polo maniacale, col tempo questa distinzione è venuta a mutare -> se prima si parlava di disturbi bipolari e/o disturbi dell'umore, oggi si tende di più a parlare di disturbi unipolari, in questo caso troviamo soltanto un polo, che nel caso specifico ci rimanda alla depressione che oramai è stata separata dagli stati maniacali o ipomaniacali. Spesso invece nelle ultime versioni del DSM troverete che la mania e lo stato ipomaniacale vengono associati ai disturbi psicotici o a problemi che attengono a una perdita del senso di realtà. Questo perché nello stato maniacale la persona per quei sette giorni (la durata della crisi maniacale) perde completamente il principio di realtà, diventa pericoloso per se stesso e per gli altri, va in up a livello esponenziale, quasi da perdersi e da mettere a repentaglio la sua vita. Spesso l'unico modo per far rientrare una crisi maniacale sono i TSU. E' classico ritrovare questi soggetti che vengono, come dire, forzatamente, ricoverati, subentra la municipale, subentra la polizia, vengono portati appunto in pronto soccorso, perché sono in stato completamente ingestibile e quindi quando parlo di stato ingestibile parlo un po' della sfera del corpo, c'è questa agitazione psicomotoria, gli arsenali non riescono a stare fermi, c'è una logorrea, un modo di parlare che non segue un flusso, non segue una logica, si parla senza andare a centrare un ragionamento, senza essere precisi, finalizzati, parlo perché voglio quello, o mi serve quello, o voglio comunicare questa idea, anche geniale, anche curiosa, alle persone che mi stanno accanto. No, non c'è questo ragionamento, la persona è in veste di parole, la cosiddetta fuga delle idee, l'umore è alto, in stato maniacale, la persona è in uno stato di onnipotenza che potrebbe fare tutto, svegliarsi di notte e mettersi a comporre un pezzo musicale, fare un casino folle o mettersi a fare lavori a casa, con un senso proprio di onnipotenza e di forza fisica grande, ma in un tempo, in una condizione, in una circostanza che è proprio al di fuori del consentito. Questi sono i due poli opposti, quindi per questo la mania, lo stato maniacale, lo stato ipomaniacale lo troverete associato più a tutta la parte relativa alla DSM, legata alle schizofrenie, legate agli disturbi psicotici, proprio per questa ragione. Mentre si parla di depressione o altri disturbi depressivi nel momento in cui ci confrontiamo con un solo disturbo unipolare. Quando parliamo di malinconia, ci troviamo nell'assunto iniziale della nostra letteratura dell'umore, della bile nera e tutta la visione che sappiamo e quindi del polo depressivo della persona. In questo contesto, Galimberti ci dice, si parla di senso di smarrimento, perdita nella diminuzione relazionale e dell’espressività, un rallentamento del processo mentale ed operativo, una sofferenza e un'impotenza verso tale condizione. Questo è, in parole molto eleganti, quello che è la depressione e il disturbo depressivo maggiore. Il soggetto in disturbo depressivo maggiore è una persona che appunto è completamente lenta, una persona rallentata proprio nel pensare, è una persona non reattiva, lenta nei movimenti; il depresso se ci pensate sta sempre a letto, è sempre o quasi sempre a letto seduto, ha una minima reattività, la lentezza spiega appunto questo processo tipico del melancolico, è una persona che non ha più un'espressività facciale, è una persona che si ritrova mono-espressiva, sguardo vacuo nel DSM, a livello sinaptico abbiamo appunto il nulla, una persona che ha da spento la stessa espressione, gli puoi proporre la qualunque, gli puoi dire al depresso clinico grave, qualsiasi bella notizia, avrà un'espressione piatta, il soggetto appunto spesso esperisce smarrimento, una diminuzione sempre maggiore a livello relazionale, una persona che si chiude, che preferisce appunto stare guardata, stare chiusa, nessuno mi capisce, nessuno appunto mi può tirare fuori da questo mondo. Ci dice Galimberti che questo stato di malinconia, come lo descrive lui, è unito a un immotivato senso di tristezza, a un'immotivata, a una motivazione, è una profonda tristezza, c'è un'inibizione a livello comportamentale, sia operativa che oggettiva, l'andare in bagno diventa un problema per il depresso, l'andare a prendere dell'acqua in frigo è impossibilitato da farlo, la depressione grave è quella conclamata. Fare il lavoro terapeutico alle vere persone depresse è molto difficile, puoi fare davvero una terapia molto minima molto sperimentazionale all'inizio, proprio riattivarli. Ricordate e tenete sempre a mente che la depressione è accompagnata dal rischio suicidale. Il primo intervento da fare con la depressione maggiore grave, come con i disturbi border gravi, come con i disturbi di personalità grave, è sincerarti di evitare il suicidio, perché anche nei borderline il tasso di suicidio è molto alto. Primo elemento, sincerarti di mettere al sicuro il paziente, informare sull'efficacia di livello, gli atti significativi della sua vita, informare subito, creare una rete di supporto, medico di base, fare proprio una rete attorno al paziente. Quando abbiamo la sensazione che quella persona sia gravemente depressa, è la vostra biologia, metterci al sicuro. Ancora oggi, ad esempio, questa piccola parentesi, è un tema super soggetto a tabù, anche per il clinico, fa molto, è molto scomodo parlare, è molto forte parlare di suicidio. Però in determinati casi è meglio sdoganarlo subito, anche se è un argomento molto forte, ha una ripercussione pure sul clinico, giustamente. Sto avendo la percezione che forse lei stia pensando o abbia potuto pensare a questo, ma ne parliamo insieme, perché ci sono delle tecniche, delle terapie di nuova generazione, nel caso io mi rivolgo sempre alle terapie cognitivo comportamentali, dove c'è proprio tutto un trattamento sul suicidio, sul fronteggiare. Tu al paziente lo dici che insieme informerete i familiari, o chi per loro importante per sincerarsi che la persona stia bene, che abbia del tempo sicuramente da dedicare alle persone. Perché? La terapia non è onnipotente in determinati momenti, dobbiamo capire quanto può essere accettata dalla persona, magari se una persona in un momento è estremamente fuori prima di rientrare affinché la terapia si possa sedimentare, subito trattamento farmacologico, subito senza perderci. Profonda tristezza, inibizione psichica, sia psichica che operativa, oggettiva, il passato è contraddistinto da colpe, il presente offre disgrazie, il futuro è terrificante, manco c'è, non lo posso dire ancora, ma il domani esiste, esiste solo quello che è, questo passato mi continua a terrorizzare, mi continua ad assalire, mi continua a colpevolizzare, il passato con le sue colpe, con gli errori, le fatiche che ho potuto fronteggiare mi perseguita e non mi permette di vivere il presente perché è pieno di ulteriori disgrazie che non fanno altro che sottolineare la mia vita. E avviene una modificazione della costituzione dell'oggettività temporale, dell'intenzionalità, avviene una destrutturazione della temporalità, dove il passato non è passato e perciò non concede al presente di accadere e al futuro di avvenire. In questa descrizione, molto estrema, tutti i depressi sono così, ci sono le depressioni nascenti che si recuperano subito, intensità e pervasività ci dice la psicopatologia, solo questi sono i due parametri, sicuramente Galimberti parla di un profilo estremamente coinvolto e sofferente, si rivolge a queste dimensioni, a questi profili per spiegarci i suoi parametri, quello di presenza e di temporalità. Ricordatevi che pervasività e intensità del disturbo ci dicono tutto, non è che la depressione è sempre così o non è risolvibile, è come se fosse risolvibile, ci sono tantissimi elementi che ci vengono in conto, se è la prima forma di depressione, se è una depressione presa per tempo, se è una depressione in adolescenza, adulta, da vecchi, abbiamo tantissimi margini di operatività. Quindi i simboli della perdita materiale diventano una perdita molto più ampia, quella del presente e del futuro, poiché la dimensione del passato è così dilatata oltre a ogni misura, se si vive nel passato si perde il futuro e il presente, perché si sta a rovinare su quello che è nel passato, sulle proprie colpe, sui propri pensieri negativistici, su di sé, su quello che si è fatto, su quel lutto che non si è mai risolto, su quella perdita che non si è mai elaborata, sui pensieri, i motivi, sulla perdita di quel lavoro, sul fatto di non essere stata una buona madre perché la depressione me lo ha impedito, il senso di inutilità, non sono stata abbastanza, la mia vita si è fermata, il depresso non ha una reattività di movimenti, la voce, non è un caso che adesso la mia voce è lenta, si chiama questa lentezza, i suoi processi cognitivi, stanno soltanto a guardare il passato con recriminazione, con colpa, non c'è spazio per il presente, non c'è spazio per il futuro, non c'è nel tempo, e tutto quello che poi vive è un comportamento, è un'azione finalistica, non mangia, si lascia andare, non va più in bagno. I livelli più gravi di depressione li potete immaginare, persone che non hanno cura per se stesso, che non si lavano, che non stanno attenti a nulla, non ci sono migliorie nel corpo, non c'è nulla, la fissazione del passato è testimoniata dal linguaggio del malinconico, come nella monotonia della loro ripetitività, fatta di lamenti e previsioni malinconiche, il lamentarsi, tipico della depressione, e di previsioni malinconiche, tutto andrà male, non guarirò mai, non c'è un futuro, ma domani sarà come oggi, ah va bene, ma tanto già conosco questo film, non c'è un qualcosa che può sferzare questo elemento. I deliri di impoverimento hanno il carattere dell'evidenza e della constatazione: il presente è pervaso dal passato e gli avvenimenti ancora in corso sono percepiti come compiuti. SUICIDIO DOMANSA DEPRESSIONE SICURA = L'avete capito perché la presenza è perduta. L'avete capito com'è questa presenza? E perché è finita in questo modo. Il futuro è presente negato, inesistente. Non c'è spazio. Perché c'è soltanto un qualcosa che si rivolge ai contenuti lamentosi e malinconici del passato, sia che siano stati compiuti sia che siano incompiuti e che vengono però percepiti con senso di completezza dell'evento. Anche in quelle situazioni che ancora potrebbero dare un senso di speranza, es. c’è un'udienza che aspetta di vedere se i tuoi figli verranno assegnati o meno, nonostante il tuo matrimonio sia fallito, eccetera eccetera. Lo vivono con incertezza. È questo il senso di Galimberti di conflitto. Si esperisce come atto già compiuto, ogni verità ancora può darci speranza. Il nostro punto di partenza è tutta la parte della vulnerabilità storica del soggetto, si chiama proprio così, del sistema di credenze da cui si deriva, quindi tutta la vulnerabilità è proprio una parte della formulazione del caso che ti fai. E si chiama vulnerabilità storica. Quindi tu devi stare sul passato. Poi lo puoi trattare come vuoi. E allora puoi avere tecniche immaginative. Tecniche espressive. Sta al clinico come lo vuoi trattare. Però anche noi abbiamo un focus sul passato. Come gli psicodinamici hanno un focus sul presente verso tutto quello che è il gruppo di mentalizzazione, e là proprio stando nel gruppo mentalizzi, ci potrebbe venire incontro nella mente dell'altro, nella nostra mente la mente dell'altro, e non solo, ci sono anche altri aspetti. Però che cosa è importante ragazzi? Entrambe si focalizzano sia sul presente che sul passato. L'unico obiettivo è che all'inizio la terapia cognitivo comportamentale standard utilizza una tecnica di reattivazione in maniera super graduale proprio a riattivare il paziente, cercare di riconoscere emozioni, comportamenti, pensieri, credenze, fai tutto quello che vuoi ma l'obiettivo è arrivare a riattivarlo proprio per scongiurarci il suicidio o una compromissione di altro tipo. Poi tutta la parte psichiatrica, guai se non ci fossero i farmaci, poi appena il paziente inizia a rispondere te lo porti sulla vulnerabilità e sui contenuti passati, sui pensieri negativi etc. Però la riattivazione sempre soprattutto se sono giovani; Galimberti poi ci ha portato i casi più gravi come quelli che non si alzano dal letto etc… LEZIONE 24 OTTOBRE - pronta da slide 45 a slide 50 SUICIDIO cluster b -> 4 disturbi: sociopatico, borderline, isterionico e narcisistico -> accumunati dalla drammaticità e da un mancato equilibrio emotivo Galimberti rispetto al suicidio e alla possibilità del suicidio si esprime anche in tal proposito in relazione sempre ai suoi parametri di riferimento, il tempo, la presenza, il come il soggetto vive questi stati e che cosa ci dice? Il suicidio è possibilità, è quella condizione che in sé rappresenta l'impossibilità dell'esistenza in quanto tale, è un gesto in quanto non vi è più quella progettualità, quel propendere, quell'azione rivolta al futuro verso una condizione appunto di progettualità di azione, abbiamo visto che le azioni del depresso sono rivolte al passato ma nemmeno sono azioni in quanto tali, sono come un'azione in lamentele rispetto a quello che è stato corroborato da colpa, da commiserazione, da rimpianti come lo vogliamo definire; ci dice Galimberti, essendo il futuro vissuto come passato, col suicidio vi è la perdita di ogni elemento creativo, di un progetto, perdita di figure temporali quali attività, desiderio, speranza, volontà, esperienza del bene e del male, i cui deliri temporali sono derivati dall'azione del melanconico verso l'avvenire, un futuro che appunto è inesistente, non è immaginabile, non è rappresentato, dove non c'è alcun tipo di azione, speranza, desiderio, atto rivolto al fare, al fare creativo, al fare progettuale, al fare appunto rispetto ad una propria inclinazione, ad una propria attitudine perché la persona malinconica non la vede, il suo campo di azione, di regolazione, di vita è tutto focalizzato su quello che sta avvenendo. L'impossibilità di trascendere compromette la coesistenza (fondamentale per Galimberti, intesa non come “stare con” ma qui l’altro non ha un valore individuale, non è un ‘tu’, è un mezzo) che pregiudica i valori di bene e male, l'avvenire si chiude e così viene conferma della nozione statica di male. Male verso se stesso, male verso quello che potrebbe fare, male verso la sua vita che già è appunto pregiudicata, non c'è un esito positivo. Il ricordo, il rimpianto, il rimorso dominano il soggetto, la sopraffazione del passato lo immobilizza e gli danno l'impressione di conoscere tutto di lui, da qui la disperazione data dalla proiezione dei mali del passato, si vive in un passato continuo che diventa dominante, che assieda il presente e non permette la proiezione del futuro, e allora vi è una perdita della propria identità e così il sentimento di separarsi dal tempo del mondo, l'incapacità di essere indipendente dal passato, da qui il sentimento di impotenza. L'impotenza come sentimento, lo dovete immaginare come quella perdita assoluta di speranza, ogni atto propositivo rivolto al fare, rivolto ad un bagliore di speranza nascente nella persona in quanto tale, non trova adempimento, non trova una degna concretizzazione, perché appunto il soggetto già in per sé vive in uno stato perenne di fallimento, di passività, di colui che agisce nel frutto di questo passato irrimediabile, irreparabile, che appunto lo perseguita. Ecco che si parla di presenza per la vita, si perde proprio la temporalità, non esistono altri tempi, non esiste né il pres