Media digitali e società. PDF
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This document explores models and theories of computer-mediated communication (CMC), analyzing its impact on social interactions. It examines different perspectives like System Rationalism, Reduced Social Cue, and Social Identity Deindividuation Theory. Key figures like Howard Rheingold and Sherry Turkle, and broader concepts like network society and digital divide are also discussed.
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Media digitali e società Modelli e teorie della comunicazione mediata. La CMC, ovvero la comunicazione mediata dal computer, ha permesso di sviluppare un nuovo modello comunicativo basato sul concetto di “interazione”. Se prima tutto ruotava attorno alla relazione “uomo-macchina” (nel web 1.0), ora...
Media digitali e società Modelli e teorie della comunicazione mediata. La CMC, ovvero la comunicazione mediata dal computer, ha permesso di sviluppare un nuovo modello comunicativo basato sul concetto di “interazione”. Se prima tutto ruotava attorno alla relazione “uomo-macchina” (nel web 1.0), ora gli utenti possono comunicare tra loro grazie alla mediazione del computer (scrivendo per esempio una mail) e questa ha ovviamente cambiato il modo di interagire tra le persone. La CMC può essere sincrona o asincrona. - Sincrona: permette agli utenti di comunicare nell’immediato attraverso le chat, le videoconferenze, i giochi di ruolo, ecc. - Asincrona: il processo di comunicazione differisce nei tempi di invio e risposta e può rivolgersi a un interlocutore alla volta oppure a una moltitudine. Questa avviene attraverso sistemi come la posta elettronica o i blog. Nel web 2.0, che unisce CMC sincrona e asincrona, ogni utente è un produttore (prosumer). I primi approcci al digital erano molto utopici: non essendoci il limite del corpo fisico, nel mondo digitale ognuno poteva essere chi voleva. System Rationalism. Negli anni ’70, in Inghilterra, invece avvengono le prime ricerche per capire come le nuove tecnologie potevano ridurre i costi della comunicazione nelle amministrazioni governative ed accademiche. In quest’ottica di efficienza organizzativa, queste ricerche avevano un approccio molto più razionale. Si parla di System Rationalism. Reduced Social Cue (RSC). Negli anni ’80, nasce invece il filone di studi denominato Reduced Social Cue (RSC). Questi studi ritengono che la CMC sia priva di indicatori sociali (come l’abbigliamento o l’arredo che aiutano a definire lo status o la gerarchia di una persona) e segnali paralinguistici tipici della comunicazione face to face (intonazione, gesti, mimica facciale, postura, ecc.). La comunicazione avviene quindi in una situazione di vuoto sociale in cui l’identità dei soggetti sfuma e scompare. Questa teoria trae due conclusioni: 1. Chi interagisce attraverso il computer tende maggiormente a violare le norme sociali in quanto è protetto dall’anonimato e dalla situazione di vuoto sociale. Si ha un effetto di deindividualizzazione. Problema: CMC inefficiente dal punto di vista organizzativo. 2. Tutti possono esprimere la propria opinione a prescindere dal potere e dallo status sociale, quindi, anche coloro che solitamente sarebbero emarginati o poco visibili, hanno questa opportunità. Si ha un effetto di uniformazione (equalization effect). Vantaggio: CMC ha potenzialità democratizzanti. Questo approccio ha ricevuto varie critiche in riferimento alla “povertà sociale” intrinseca della CMC, che rivela un atteggiamento deterministico. Secondo le critiche la CMC non può avvenire in un contesto di vuoto sociale. Social Identity Deindividuation Theory (SIDE). Nei primi anni ’90, quando l’home computing cominciava a diffondersi e il system rationalism andava riducendosi, la Social Identity Deindividuation Theory (SIDE) propose il superamento della teoria RSC. Basandosi sulla distinzione tra identità individuale e identità sociale, ovvero tra ciò che uno è nella sua unicità e individualità e tra le varie identità che uno assume nei diversi gruppi e contesti sociali, questa teoria afferma che nella CMC non ci sia una totale equalizzazione delle identità sociali. Quello che accade è che l’individuo si adatta di volta in volta alla situazione in cui interagisce a seconda degli elementi che ne traspaiono (può quindi esserci maggiore o minore adesione alle norme sociali a seconda dei casi). La situazione comunicativa è centrale. Social Information Processing Perspective (SIPP). Un altro approccio che tenta di superare la teoria RSC è il Social Information Processing Perspective (SIPP). Criticando gli esperimenti in laboratorio della RSC (che rendevano asettiche le interazioni sociali), questo approccio afferma che la CMC non sia meno efÏcace della comunicazione face to face, ma solo meno efÏciente perché più lenta. Inoltre supera l’idea della povertà comunicativa della CMC dei primi studi e formula il modello hyperpersonal, secondo il quale gli individui sono consapevoli delle caratteristiche del mezzo e si adeguano alle regole di questo specifico tipo di comunicazione (valido quanto la comunicazione faccia a faccia, non considerata una comunicazione meno valida). I meccanismi dell’interazione sono esasperati e si ha un’impressione idealizzata dell’interlocutore (iperpersonalizzazione). Howard Rheingold. Negli anni ’90, dopo che nel 1991 nasce il World Wide Web e nel 1993 si apre allo sfruttamento commerciale, nascono anche le prime ricerche etnografiche della rete. Le tecnologie iniziano ad essere più presenti nelle case e e l’online inizia ad essere visto come luogo di interazione e incontro. Questo attrae l’interesse degli studiosi sociali e Howard Rheingold inizia proprio i primi studi etnografici su questo nuovo “luogo” (parla di “comunità virtuale”, “frontiera elettronica”, “ciberspazio”). La CMC diventa quindi un’esperienza quotidiana. La ricerca non è più sugli effetti della CMC, ma sulle caratteristiche del nuovo ambiente di interazione. - In Italia le ricerche sono fatte da Luca Giuliano e Antonio Roversi: studiano la continuità online- offline e la consapevolezza dei giocatori di ruolo online nella gestione delle loro identità. Le ricerche etnografiche della rete permisero di approfondire la conoscenza degli aspetti della CMC e fornirono materiali per una comprensione ampia e con basi teoriche di ciò che stava accadendo. Sherry Turkle. Sempre negli anni ’90, Sherry Turkle, sociologa e psicoterapeuta statunitense, affronta il tema della costruzione dell’identità online. Partendo da ricerche sul campo (ricerche etnografiche), riflette sulla relazione tra individui e computer e sulle dinamiche di costruzione dell’identità. - Un macrotema affrontato dalla Turkle riguarda la cultura informatica (digitale). Questa cultura si impara fin da piccoli e fin da piccoli si sa riconoscere e distinguere una macchina da ciò che è vivo. Tuttavia, queste macchine cominciano a simulare azioni tipiche del mondo vivo (es. sedute psicologiche o interpretare personaggi in un gioco online) e si comincia quindi a parlare di macchine come agenti postmoderni con i quali interagiamo tutti i giorni. La cultura informatica accetta quindi il fatto che le macchine possano essere intelligenti, anche in modo simile a quello umano, ma riconoscendo la loro differenza biologica. - La Turkle utilizza poi i MUD (giochi online) per studiare come e perché gli individui costruiscono la propria identità online (esperienza quotidiana per moltissime persone). La comunicazione online è un’esperienza postmoderna in cui il sé non solo è decentrato, ma è estremamente moltiplicato. Online l’individuo si mette alla prova e testa nuove modalità identitarie senza preoccuparsi delle conseguenze sulla sua vita offline. Secondo la Turkle quindi la costruzione dell’identità è un lavoro faticoso e intenso, ma la CMC può facilitare (o mettere in dubbio) questo lavoro. *Turkle e Rheingold sono classificati come internet enthusiasts* Successivamente la Turkle, ridimensiona il suo iniziale ottimismo ed entusiasmo per la vita online e nel 2011 pubblica “Insieme ma soli” in cui esprime una preoccupazione rispetto ai cambiamenti imposti dalla tecnologia sugli individui. Le relazioni sono sì connesse (le nuove tecnologie connettono), ma non si presta più attenzione all’altro. Con la diffusione delle tecnologie portatili, l’interazione digitale è costante e questo limita le nostre capacità di riflessione su noi stessi. Si perde poi l’attenzione del nostro interlocutore nei nostri confronti e viceversa (infatti si può rispondere mentre si fa altro). La Turkle sostiene che bisognerebbe recuperare le abilità legate alla solitudine per reimparare a riflettere su sé stessi. Manuel Castells. Castells, con una visione più macrosociologica, si interessa dei processi di trasformazione sociale. Egli descrive lo sviluppo e le conseguenze di tre processi avvenuti tra gli anni ’60 e ’70: 1. La rivoluzione tecnologica. 2. La crisi del capitalismo e dello stalinismo. 3. La nascita di nuovi movimenti popolari come femminismo e ambientalismo (che non combattono più solo per la sopravvivenza, ma anche per ideali simbolici). La combinazione di questi tre processi ha generato una nuova struttura sociale (la società dell’informazione, in cui l’informazione diventa importante e centrale per avere il potere), una nuova cultura (quella della “virtualità reale”) e una nuova economia (l’economia informazionale globale). I tre processi sono uniti dalla logica della rete in cui il potere non è più concentrato nelle istituzioni, ma è diffuso in reti globali di informazioni. Nasce così la Network society che non ha più un’impostazione verticale, ma un’organizzazione a rete flessibile che sa adattarsi alle nuove circostanze. Per Castells, le reti costituiscono una nuova “morfologia sociale” delle nostre società (la Network Society appunto) in cui la contemporaneità è costruita attorno a flussi (di capitali, di informazioni, di immagini, ecc.) e ad un tempo senza tempo (CMC in tempo reale o asincrona). Alla base di questo mutamento ci sono le tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Infine, per Castell, internet è in genere un’opportunità positiva. Tuttavia ha un problema: l’esclusione dalla società in rete e le sue conseguenze (miseria, abbandono, insicurezza, violenza politica, criminalità, ecc.) => DIGITAL DIVIDE. Essendo queste connessioni fortemente legate alle identità, ci sono persone che non si sentono parte di questa rete e creano gruppi che si separano anche in modo estremo. - Mass self communication: comunicazione di massa, individuale, che si contrappone ai grandi network e dà la possibilità ai movimenti sociali di intervenire efficacemente nella comunicazione (ripresa del “user generated content”). Van Dijk. Anche Jan Van Dijk, sociologo olandese, ha contribuito alla riflessione sulla network society. Per lui il concetto di "network society" descrive una società che organizza sempre di più le sue relazioni attraverso reti di media, che si integrano gradualmente con le reti sociali tradizionali, come la comunicazione faccia a faccia. Tuttavia, anche se le reti sociali e mediali diventano centrali nell'organizzazione della società, non ne rappresentano tutta la sostanza. La società è ancora fatta da individui, corpi e organizzazioni e se tutto fosse mediato esclusivamente da reti sociali e media, le interazioni fisiche, mentali e le risorse di ogni tipo continuerebbero comunque ad avere un ruolo fondamentale. J. V. Dijk formula sette “leggi del web”: 1. Network articulation: c’è un’articolazione della rete che ci rende sempre più interconnessi e se siamo tutti collegati si annulla l’indipendenza. 2. Network externality: le reti producono degli effetti sulle persone e sulle cose che sono esterne alla rete. 3. Network extension: la rete è talmente ampia che per navigarla e accedere alle informazioni abbiamo bisogni di mediatori, come i motori di ricerca, che filtrano tutti i vari contenuti (i siti esisterebbero lo stesso, ma non li si potrebbe raggiungere dato che la rete è estesissima). Il potere è quindi di questi mediatori perché sono loro che decidono, scelgono e indirizzano verso determinate informazioni. 4. Small worlds: la rete rende tutto più vicino (tutti possono relazionarsi con tutti indipendentemente dal luogo e dal tempo) e instabile (amplifica le tensioni esistenti). 5. Limits to attention: nella rete si diffondono moltissime subculture (filtered bubbles ed echo chambers). 6. Power law: in rete c’è una forte concentrazione e disuguaglianza tra le fonti. Anche se sembrano abbastanza uguali, molte fonti non lo sono e chi ha il potere di creare pagine migliori è avvantaggiato (i ricchi diventeranno sempre più ricchi). 7. Trend amplifiers: le reti hanno una portata evolutiva e non rivoluzionaria, cioè intensificano le tendenze già presenti e rinforzano le relazioni sociali esistenti. Fungono appunto da “trend amplifiers”. Berry Wellman. Wellman fu uno dei primi ad occuparsi di Internet e del suo rapporto con la vita quotidiana. Wellman sottolinea che: - Lo scambio immediato di grosse quantità di dati è facilitato da una larghezza di banda sempre più ampia. - La connessione è potenzialmente continua. - L’interazione è più ricca rispetto a quella meramente testuale perché si ha una maggiore personalizzazione dei contenuti dei messaggi. - La comunicazione è sganciata dal luogo, grazie ai sistemi wireless. - La connettività è globalizzata a fronte di un digital divide che sta diminuendo. Wellman sviluppa il concetto di “networked individualism”, cioè in Internet gli individui possono fare parte di differenti network scegliendo autonomamente a quali di queste reti appartenere in base ai loro interessi. Quindi i cambiamenti tecnologici creano rapporti che si integrano con la vita quotidiana e non si pongono come alternativa ad essa e l’individuo, non essendo più legato allo spazio fisico, può appartenere a più cerchie contemporaneamente con facilità. Sonia Livingstone. Il gruppo di ricerca di Sonia Livingstone, accademica della London School of Economics, è considerato un punto di riferimento per gli studi su internet e minori, specialmente attraverso i progetti come “UK Children Go Online” e il network “EU Kids Online”. Livingstone adotta un approccio interdisciplinare per analizzare i nuovi media, evidenziandone caratteristiche come la “ricombinazione” di tecnologie e l’interattività. La sua ricerca esplora rischi e opportunità dell’uso digitale tra i giovani, sottolineando che i cosiddetti “nativi digitali” non sono automaticamente esperti: le competenze digitali richiedono pratica e supporto, non legate solo all’età. Livingstone critica l’idea che tutti i giovani siano digitalmente competenti per natura, e sostiene la necessità di politiche che supportino un’alfabetizzazione digitale consapevole. Inoltre, sottolinea che i minori affrontano difficoltà crescenti online, date le restrizioni e i rischi presenti in rete. Attraverso un’analisi empirica, Livingstone invita a un approccio equilibrato e non allarmistico verso la relazione tra rete e giovani, distante dalle posizioni estreme degli “internet ottimisti” e “pessimisti”. Geert Lovink. Lovink sviluppa il concetto di Net Criticism, concetto utile all’implementazione di forme antagoniste alle Corporation che sfruttano la credenza degli utenti sulla gratuità dei contenuti, impossessandosi dei loro dati. Si sofferma poi sull’uso irrazionale del web e sul concetto di saturazione delle informazioni: i motori di ricerca e i social media producono contenuti costantemente e altrettanto costantemente gli utenti aggiornano i loro profili e postano status e notizie su qualsiasi cosa. Lovink sviluppa così la teoria dell’information overload, secondo cui gli individui sono pressati affinchè pubblichino contenuti. Alcune possibilità per sottrarsi a questa condizione sono appunto quelle offerte dalle iniziative di free-software e di open source, che sfuggono al controllo delle grandi Corporation. Forme e linguaggi dei nuovi media. Cosa c’è di nuovo nei new media? I nuovi mezzi di comunicazione si distinguono per una serie di innovazioni rispetto ai media tradizionali. Tuttavia i nuovi media non soppiantano necessariamente quelli vecchi, anzi ne implementano e affiancano le loro funzioni e lo fanno attraverso la digitalizzazione e l’interattività. - Un esempio pionieristico di questo cambiamento è la creazione di ARPANET (1969), la prima rete a commutazione di pacchetto che gettò le basi per l’Internet moderno. - Altro esempio è ovviamente la nascita del World Wide Web (1991), che rese il web accessibile a tutti. => La digitalizzazione è il processo di conversione di informazioni analogiche in formato digitale, ossia in una serie di codici binari (0 e 1) che i computer possono elaborare. Questa trasformazione consente di rappresentare contenuti come testi, immagini, suoni e video in un formato che può essere compresso, archiviato e trasmesso con efficienza. La digitalizzazione è avvenuta per diverse ragioni: - Aumento delle capacità di calcolo: con computer sempre più potenti, si è reso possibile gestire enormi quantità di dati in modo rapido ed efficace. - Miniaturizzazione dei dispositivi: la riduzione delle dimensioni dei dispositivi elettronici, grazie a tecnologie come il microchip, ha reso possibile portare contenuti digitali ovunque, modificando il modo in cui fruiamo delle informazioni. - Compressione dei dati: la digitalizzazione consente di comprimere le informazioni, riducendone il peso in memoria e rendendo più pratico lo scambio tra dispositivi. - Evoluzione tecnologica e culturale: il passaggio al digitale ha anche stimolato nuovi modelli economici, nuovi attori nell’industria dei media e nuovi modi di interagire con l’informazione. => L’interattività si riferisce alla capacità di un medium digitale di rispondere agli input dell’utente e di adattarsi a essi in modo attivo e immediato. È un concetto che distingue i nuovi media da quelli tradizionali, permettendo all’utente di influenzare il contenuto o la forma della comunicazione. I parametri principali dell’interattività, secondo Steuer (1997), sono: - Velocità: indica il tempo di risposta del sistema all’input dell’utente. Un’alta velocità significa che l’ambiente mediato cambia quasi istantaneamente in risposta all’azione dell’utente, come durante una videoconferenza o un videogioco. - Gamma: rappresenta il numero di elementi che l’utente può manipolare nell’ambiente mediato. Un media con alta gamma offre molteplici possibilità di interazione, come nei videogiochi dove l’utente può scegliere personaggi, ambienti o difficoltà. - Controllo: si riferisce al modo in cui le azioni dell’utente influenzano l’ambiente. Può essere un controllo “arbitrario”, dove l’utente sceglie l’azione, o un controllo “naturale”, dove le azioni sono più intuitive, come quando si usa un controller per simulare il suono di una chitarra in un videogioco. Il teorico della comunicazione Marshall McLuhan aveva anticipato già negli anni '60 che ogni nuovo mezzo di comunicazione tende a riassumere e trasformare le funzioni dei precedenti media. Per McLuhan, questo significa che i nuovi media non sostituiscono semplicemente i vecchi, ma li inglobano, creando nuove dinamiche di consumo e interazione. - Ad esempio, lo smartphone non solo permette di telefonare (come la vecchia linea telefonica), ma riunisce anche funzioni di scrittura (e-mail, messaggi), visione (video, TV in streaming), ascolto (musica), fotografia e condivisione istantanea, trasformando il nostro modo di vivere la comunicazione e l'accesso alle informazioni. Integrati VS apocalittici. Il dibattito su come i nuovi media influenzano la società può essere sintetizzato attraverso due prospettive contrapposte: - Gli apocalittici vedono i media digitali come un potenziale strumento di oppressione, capace di disgregare la cultura, alienare le persone e minacciare la creatività individuale. - Gli integrati considerano i nuovi media una risorsa che favorisce l'accesso all'informazione, la democratizzazione del sapere e nuove forme di partecipazione. Bisogna ovviamente guardare in modo critico a entrambe le visioni. Inoltre il panico morale legato all'innovazione mediatica non è nuovo: si è manifestato fin dai tempi dell'invenzione della scrittura, che Socrate temeva avrebbe indebolito la memoria. Oggi, lo stesso timore si riflette in discussioni su Internet e sulle tecnologie digitali, accusate di abbassare la nostra capacità di concentrazione e pensiero critico. La cultura digitale. La cultura digitale rappresenta un cambiamento profondo nel modo in cui interagiamo, comunichiamo e accediamo alla conoscenza, creando l'impressione di essere più vicini grazie a tecnologie che connettono persone in tutto il mondo. Tuttavia, questo non significa necessariamente la creazione di una cultura unica e omogenea, ma piuttosto l'emergere di una molteplicità di culture digitali che coesistono e si influenzano reciprocamente. Secondo Lev Manovich (2002), l'interazione tra essere umano e cultura è oggi codificata in forma digitale, ossia mediata da software, piattaforme e algoritmi che plasmano il modo in cui fruiamo dei contenuti culturali. La digitalizzazione permette una diffusione e accessibilità senza precedenti, ma implica anche che la cultura venga "filtrata" e trasformata attraverso codici informatici, influenzando la nostra esperienza culturale in modi che non erano possibili prima dell'era digitale. Un altro aspetto cruciale della cultura digitale è l'importanza delle competenze culturali. In un contesto digitale, non basta avere accesso alle informazioni; è fondamentale sviluppare abilità come la digital literacy (alfabetizzazione digitale) e la capacità di navigare criticamente tra le diverse fonti. Queste competenze permettono di comprendere, interpretare e creare contenuti in maniera efficace. In altre parole, partecipare attivamente alla cultura digitale richiede una comprensione consapevole non solo dei contenuti, ma anche delle dinamiche tecnologiche e sociali che li sottendono. La convergenza tecnologica. I media sono stati originariamente raggruppati in 3 aree: 1. I vettori: reti di trasporto delle comunicazioni (posta, telegrafo, telefono). 2. L’editoria: produzione di contenuti (stampa, cinema, musica, video, ecc.). 3. Il broadcasting: reti televisive. Ogni volta che compariva un nuovo media veniva inserito in una delle tre categorie, di cui assumeva le caratteristiche. Questo sistema è stato però messo in crisi dall’avvento di nuovi media che si sono posizionati a cavallo tra le tre aree. La convergenza multimediale si riferisce alla capacità delle tecnologie digitali di combinare e integrare diversi tipi di media (testo, video, audio, immagini) in un’unica piattaforma o dispositivo, rompendo le barriere tra media tradizionalmente separati. Ad esempio, un singolo smartphone oggi permette di guardare film, ascoltare musica, leggere articoli e interagire con gli altri attraverso social network. La convergenza è quindi uno dei concetti chiave nel mondo dei new media, è un fenomeno evidente, quotidiano e sfaccettato e si manifesta in vari ambiti: - Nella produzione dei media: convergenza di attività e metodi gestionali delle imprese multimediali che operano in più settori (editoria, cinema, broadcasting,...). Queste imprese nascono solitamente come industrie dei media tradizionali che progressivamente aggregano settori emergenti delle telecomunicazioni; - Nelle tecnologie: i canali non sono più l’elemento distintivo tra i diversi media; - Nei contenuti simbolici: c’è convergenza anche nella forma che viene data ai contenuti, i linguaggi mutano la natura dei contenuti che vengono strutturati e adattati per differenti piattaforme. La cultura convergente, come teorizzata da Henry Jenkins, descrive un fenomeno in cui le pratiche di consumo e di produzione mediatica sono sempre più intrecciate. Gli utenti non sono più solo consumatori passivi, ma partecipano attivamente alla creazione e diffusione di contenuti (come avviene nei social media o nei fandom online), sono dei “prosumer”. - I discorsi comuni entrano nelle dinamiche di mercato (es. i commenti possono convincere a modificare un prodotto, a rimetterlo in commercio o a crearlo). Jenkins evidenzia anche come la convergenza favorisca la partecipazione collettiva e la creazione di significati condivisi tra diverse comunità, grazie alla facilità con cui le informazioni possono essere remixate e ridistribuite. In questo contesto, si assiste a un ridimensionamento del determinismo tecnologico, ovvero l’idea che la tecnologia, da sola, determini i cambiamenti sociali. In realtà, la convergenza non è solo un fenomeno tecnologico, ma anche culturale: i modi in cui le persone utilizzano le tecnologie, le scelte delle industrie e le dinamiche sociali giocano un ruolo fondamentale nel plasmare l'uso e l'evoluzione dei nuovi media. La tecnologia, quindi, non determina il cambiamento in modo univoco, ma interagisce con la cultura, influenzandosi a vicenda. - Circolarità tra culture dal basso e corporation: si basa su uno scambio continuo tra gli utenti, che creano e condividono contenuti, spesso ispirati dai media delle grandi aziende, e queste ultime che a loro volta traggono ispirazione o collaborano con le produzioni amatoriali, adattandosi alle tendenze nate "dal basso". - I pubblici connessi facilitano questo scambio, grazie alla loro capacità di partecipare e diffondere contenuti globalmente e in tempo reale. Intelligenza collettiva e intelligenza connettiva. L'intelligenza collettiva, secondo Pierre Lévy, è la capacità delle persone di condividere conoscenze tramite la tecnologia, creando un patrimonio comune che cresce attraverso la collaborazione (es. Wikipedia). L'intelligenza connettiva, teorizzata da Derrick de Kerckhove, si basa sull'interazione tra menti umane e macchine, che potenziano le capacità cognitive umane grazie a dispositivi e algoritmi (es. assistenti virtuali, motori di ricerca). Entrambe sono complementari: l'intelligenza collettiva sfrutta la connettività tecnologica, e le macchine amplificano la collaborazione e la gestione delle informazioni. - Ipertestualità digitale: insieme di materiali multimediali connessi tra di loro attraverso collegamenti che consentono all’utente una consultazione non sequenziale. L’ipertesto è un elemento fondamentale della rivoluzione digitale che contraddistingue il tipo di interazione che l’utente sperimenta quando si interfaccia con il mondo digitale. Esso scardina il concetto tradizionale di testo (fisso, sequenziale) e crea la possibilità di creare una connessione infinita tra intelligenze. - Interattività: tecnologia che interagisce con noi e risponde ai nostri input e cambia in relazione ad essi. Quella selettiva definisce la facoltà dell’utente di scegliere un contenuto, quella conversazionale definisce la possibilità dell’utente di produrre e inserire informazioni, mentre quella registrativa costituisce la capacità del sistema di adattarsi alle informazioni date dall’utente. Gli elementi principali di un medium interattivo sono: la velocità, la gamma e il controllo. La personalizzazione. Il processo di personalizzazione rappresenta una delle trasformazioni più significative nel panorama dei media digitali, consentendo agli utenti di assumere un ruolo sempre più attivo nella fruizione dei contenuti. Questo processo si articola in tre dimensioni principali: 1. Adattabilità dei prodotti alle scelte degli utenti: la personalizzazione si basa sulla possibilità per gli utenti di modellare i contenuti in base ai propri interessi e preferenze. I media digitali, grazie a tecnologie come algoritmi e intelligenza artificiale, permettono di offrire contenuti su misura, dal feed dei social media alle raccomandazioni di film, musica (Spotify propone diverse playlist a seconda del modo) o prodotti. Questa capacità di adattare i prodotti alla domanda specifica dell'utente trasforma l’esperienza di consumo, che diventa unica e individualizzata. 2. Flessibilità nei tempi e negli spazi di consumo: i media digitali rompono i vincoli tradizionali legati ai tempi di produzione e distribuzione. Gli utenti non sono più costretti a fruire dei contenuti in orari e luoghi prestabiliti, come avveniva con la televisione tradizionale o il cinema. Grazie a dispositivi mobili e piattaforme di streaming, i contenuti sono accessibili ovunque e in qualsiasi momento, permettendo una totale libertà nel definire quando e dove consumare i media. Questa flessibilità contribuisce a creare una nuova esperienza di consumo mediale, detta anche "media nomadi", in cui l'utente può accedere ai contenuti secondo le proprie esigenze. 3. Sviluppo di azioni di bricolage sui media: l’utente non si limita più a consumare passivamente i contenuti, ma può intervenire attivamente per rimescolare, modificare e combinare materiali preesistenti per creare nuovi prodotti mediali. Questo approccio, che si rifà al concetto di bricolage, si manifesta attraverso pratiche come il remixing, il mash-up, e la creazione di contenuti personalizzati a partire da risorse esistenti. Le piattaforme digitali offrono strumenti che facilitano questo processo, permettendo agli utenti di creare e diffondere le proprie versioni dei contenuti, contribuendo a una cultura della partecipazione e dell’autoproduzione. Il web collaborativo (o web 2.0). Il Web 2.0 ha rivoluzionato il modo in cui le persone interagiscono, producono e condividono contenuti online, ponendo al centro della dinamica digitale la collaborazione tra utenti. Piattaforme come Wikipedia, YouTube, e i social network offrono spazi in cui gli individui possono contribuire collettivamente alla creazione di conoscenza e cultura, portando a una nuova dimensione di produzione partecipativa. Uno degli elementi fondamentali del web collaborativo è la valutazione degli utenti tramite meccanismi come il rating o i feedback. I sistemi di valutazione consentono agli utenti di esprimere giudizi su prodotti, contenuti e servizi, influenzando in modo diretto la percezione di qualità e credibilità online. Da Amazon alle recensioni sui social media, le opinioni degli utenti sono diventate cruciali per determinare la reputazione di un prodotto o un servizio. Tuttavia, la democratizzazione della valutazione non è esente da problemi: il sovraccarico di opinioni non esperte o superficiali può influenzare negativamente la qualità delle informazioni disponibili. - Su questo tema, Andrew Keen critica il web collaborativo definendolo come una piattaforma dominata da dilettanti allo sbaraglio. Secondo Keen, l’abbondanza di contributi da parte di utenti non professionisti rischia di portare a un impoverimento della qualità dei contenuti online, in quanto manca l’intervento di esperti e figure autorevoli. - Allo stesso tempo, un altro aspetto critico del web collaborativo riguarda il concetto di lavoro gratuito. Tiziana Terranova ha analizzato come, in molti casi, le piattaforme digitali si basino su forme di free labor, ovvero lavoro non remunerato degli utenti. Quando contribuiscono con contenuti, recensioni o valutazioni, gli utenti forniscono un valore economico alle piattaforme (come Facebook o YouTube) senza ricevere alcun compenso diretto. Le forme della società. La relazione tra società e tecnologia digitale è caratterizzata da un processo di mutual shaping, in cui la tecnologia e la società si influenzano e modellano reciprocamente. Tuttavia, non si può ridurre questo fenomeno a un semplice determinismo tecnologico, poiché i processi di digitalizzazione sono anche processi sociali: la tecnologia non è neutra, ma si interseca con dinamiche culturali, economiche e politiche, influenzando le regole sociali (macro) che impattano sugli individui (micro), e viceversa. Pertanto, i cambiamenti tecnologici non seguono un’unica traiettoria, ma sono modellati e orientati dalle interazioni sociali stesse. Le trasformazioni tecnologiche e comunicative degli ultimi decenni hanno profondamente cambiato le forme della società, ridefinendo le modalità con cui le persone interagiscono e si relazionano tra loro. Le relazioni tra individui si sono appunto spostate da modelli gerarchici e localizzati a reti distribuite e globali, dove la connettività digitale gioca un ruolo centrale. Tuttavia, ciò non significa che le dinamiche sociali siano semplificate: nuove forme di disuguaglianza, esclusione e potere emergono in questi nuovi contesti, dove l'accesso e l’uso delle tecnologie digitali diventano fattori determinanti nel plasmare le opportunità e le relazioni sociali. LA NETWORK SOCIETY. La Network Society rappresenta una nuova morfologia sociale, che non può essere ridotta semplicemente a un cambiamento tecnologico legato allo sviluppo dei media digitali. Come sostiene Manuel Castells, questa forma di società si organizza intorno a una struttura a rete, composta da flussi di informazioni che connettono nodi (individui, organizzazioni, istituzioni) attraverso legami che possono essere deboli o forti. Le pratiche sociali, economiche, politiche e relazionali contemporanee si sviluppano all'interno di questo modello a rete, che riflette i cambiamenti in atto in vari settori. - “Spazio dei flussi”, si riferisce agli ambienti fisici e mediatici in cui circolano informazioni, competenze, denaro e persone, alimentando una rete globale interconnessa. In questo spazio, gli individui e le organizzazioni possono scambiarsi risorse senza intermediari, attraverso un meccanismo orizzontale e fluido, che trascende i confini politici e geografici. È caratterizzato da una connessione diretta tra le parti, senza le strutture gerarchiche tipiche della società moderna, facilitata dall’uso di Internet. Tuttavia, l’accesso a questo spazio non è uniforme, creando un “divario digitale” tra chi può partecipare attivamente a questi flussi e chi ne è escluso. La nascita di questa morfologia sociale è il risultato di tre fattori principali: 1. La rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha trasformato il modo in cui le informazioni vengono elaborate e trasmesse, rendendo l'informazione stessa la risorsa più importante nella Network Society. 2. La ristrutturazione delle economie industriali e l’avvento del mercato aperto, che hanno portato a una nuova organizzazione socio-economica basata su flessibilità e adattabilità. 3. La crescita di movimenti culturali orientati verso i valori di autonomia e libertà individuale, che promuovono una maggiore enfasi sulla capacità decisionale e sull’individualismo. In questo contesto, emerge il concetto di capitalismo informazionale, un sistema in cui l'informazione diventa la fonte primaria di potere e ricchezza. Tuttavia, questi cambiamenti tecnologici non avrebbero avuto lo stesso impatto senza una parallela trasformazione delle condizioni di vita degli individui, come evidenziato dalla crisi del sistema patriarcale. Il declino del modello patriarcale ha dato vita a una società che mette al centro l'individuo, libero di costruire le proprie reti di relazioni, il che porta all'emergere del concetto di individualismo reticolare. Questo individualismo è caratterizzato da relazioni sociali flessibili e non più vincolate ai gruppi tradizionali offline; gli individui creano legami scelti liberamente, in base a interessi e valori condivisi. Le piattaforme digitali, come Internet, offrono nuove opportunità per i movimenti sociali, che si formano dal basso attorno a richieste di cambiamento. Questi movimenti, spesso innescati da sentimenti di indignazione, sfruttamento e deprivazione, trovano nella rete un ambiente di auto- organizzazione e di condivisione di principi trasversali. Internet, in questo senso, diventa uno spazio di azione reale, come sottolinea Barry Wellman, che parla del superamento della distinzione tra reale e virtuale: gli spazi digitali non sono separati dal mondo offline, ma lo compongono e lo arricchiscono. - Virtual togetherness (Bakardjieva): partecipare a queste reti digitali arricchisce il capitale sociale, inteso come il bagaglio di risorse, materiali e immateriali, che ogni individuo accumula grazie alla partecipazione a relazioni basate su reciprocità e riconoscimento. LA CONNECTIVE SOCIETY. => La cultura partecipativa. Una tra le più importanti innovazioni della rete è la possibilità di partecipare attivamente e in modo collaborativo alla produzione di contenuti e alla circolazione di informazioni (web 2.0). Nel web 2.0, la maggioranza delle app ha un’interfaccia con grafiche semplici da usare che garantiscono un elevato livello di interazione e partecipazione alla produzione e diffusione dei contenuti. In questa cultura partecipativa, quindi, gli individui agiscono come consumatori, ma anche come contributori e produttori (Jenkins). La Connective Society si distingue per la diffusione della cultura della connessione, dove essere costantemente connessi tramite reti online è diventato una condizione di normalità. In questa nuova realtà, l’accesso a Internet, ai social network e l’uso pervasivo di dispositivi mobili non rappresentano solo strumenti tecnologici, ma costituiscono il fulcro del nuovo sistema operativo sociale. - Il networked individualism (individualismo reticolare), sviluppato da Wellman, descrive un cambiamento profondo nelle relazioni sociali. Gli individui non sono più vincolati a gruppi stabili e tradizionali come la famiglia, il vicinato o il luogo di lavoro, ma costruiscono le proprie reti personali di relazioni, basate su scelte individuali e interessi comuni. Questo tipo di socialità è più flessibile e fluida, in cui gli individui possono gestire diverse reti e identità in modo indipendente. - L’online networked è quindi la nuova condizione normale: le persone vivono in un ambiente costantemente connesso, in cui la comunicazione avviene simultaneamente su più canali, attraverso social network e dispositivi mobili. Internet non è solo un mezzo di comunicazione, ma diventa parte integrante dell’esperienza quotidiana, creando nuove opportunità di relazione, partecipazione e visibilità. Nuove forme di comunicazione. Le nuove forme di comunicazione emerse con l'avvento delle tecnologie digitali e delle reti sociali hanno trasformato profondamente il modo in cui le persone interagiscono. Essere costantemente connessi è diventato una condizione permanente e stabile nella vita quotidiana, creando una dimensione di presenza digitale continua che influenza sia le relazioni personali sia quelle professionali. Questa connettività pervasiva ha portato a un nuovo tipo di empowerment comunicativo, in cui gli individui hanno acquisito maggiore controllo sui mezzi di comunicazione e sulla propria visibilità sociale. Una delle innovazioni più rilevanti è la transizione dalla tradizionale comunicazione one to one o one to many, tipica dei media di massa, a una comunicazione many to many. In questo modello, ogni individuo può sia produrre contenuti che distribuirli, partecipando attivamente a conversazioni su scala globale. - Possiamo distinguere inoltre “communication centric”, ovvero una comunicazione diretta tra due individui, e “content centric”, ovvero una comunicazione tramite un determinato contenuto (un post, un video, una foto, ecc.). Questo fenomeno è stato definito da Castells come Mass Self-Communication: una forma di comunicazione di massa in cui l'individuo è sia produttore che consumatore di contenuti, in un processo che è globale e personalizzato allo stesso tempo. Questa Mass Self-Communication rappresenta un potenziamento delle capacità individuali di espressione e partecipazione. Con l’accesso a piattaforme digitali come i social network, chiunque può raggiungere un vasto pubblico, indipendentemente dalle barriere geografiche o dalle risorse economiche. Questa democratizzazione dei mezzi di comunicazione ha aperto nuove strade per l'attivismo, la diffusione di idee e la costruzione di comunità, consentendo a movimenti sociali e culturali di auto-organizzarsi e di influenzare il discorso pubblico in modi prima impensabili. LA PLATFORM SOCIETY. Negli ultimi anni, al concetto di “network society” si è affiancato quello di “platform society,” che evidenzia l'inestricabile relazione tra le piattaforme digitali e le strutture sociali in cui viviamo: le piattaforme digitali, come Facebook e Amazon, agiscono infatti da intermediari tra vari gruppi di utenti. Alimentate da dati e algoritmi, queste piattaforme raccolgono e analizzano automaticamente le interazioni, influenzando le preferenze degli utenti e rendendo complesso comprendere i criteri di selezione dei contenuti. Le piattaforme adottano modelli di business che spaziano dal profitto basato su commissioni e pubblicità alla vendita di dati. I loro termini di servizio modellano le relazioni con gli utenti e possono limitare la libertà di contenuto. Le piattaforme hanno progressivamente conquistato ogni ambito della società, dai settori privati a quelli pubblici, in un processo chiamato “piattaformizzazione”. Ciò genera conflitti tra interessi privati delle piattaforme, spesso di stampo neoliberista, e i valori pubblici, tradizionalmente tutelati dalle istituzioni statali. Secondo studiosi come van Dijck, Poell e de Waal, le piattaforme online non si limitano a riflettere la società, ma producono e modellano attivamente le strutture sociali, economiche e culturali. Le piattaforme come Facebook, Google, Uber e Amazon non sono solo strumenti tecnici, ma veri e propri attori sociali che influenzano profondamente il modo in cui viviamo, lavoriamo, ci informiamo e ci relazioniamo. Le piattaforme digitali hanno esteso il loro potere in settori cruciali della vita pubblica, diventando infrastrutture essenziali per attività fondamentali come il giornalismo, la sanità, l'istruzione e il trasporto pubblico. - Nel giornalismo, ad esempio, gli algoritmi delle piattaforme determinano quali contenuti raggiungono i lettori, creando un ecosistema informativo in cui la visibilità è decisa più dalle dinamiche di rete che da scelte editoriali professionali. - Nella sanità, le piattaforme stanno rivoluzionando la gestione dei dati sanitari e i processi di cura, facilitando l'accesso a informazioni mediche, la prenotazione di visite e la consultazione di professionisti attraverso applicazioni digitali. - Anche l'educazione sta subendo una profonda trasformazione, con l’ascesa di piattaforme educative online che offrono corsi e materiali formativi accessibili globalmente, democratizzando l'accesso all'istruzione ma anche generando nuove disuguaglianze legate all'accesso tecnologico e alla qualità dei contenuti. - Nel trasporto pubblico, piattaforme come Uber e Lyft hanno cambiato il modo in cui le persone si spostano nelle città, introducendo un nuovo modello di mobilità basato su servizi digitali on-demand, con impatti significativi non solo sulla vita quotidiana dei cittadini, ma anche sulle normative, il mercato del lavoro e la sostenibilità urbana. Le piattaforme digitali non sono il motore di una rivoluzione autonoma, ma piuttosto si infiltrano nelle istituzioni e nelle pratiche sociali, trasformandole dall'interno. Piuttosto che rappresentare un cambiamento improvviso, le piattaforme si integrano progressivamente nei meccanismi esistenti, ridefinendo silenziosamente i modi in cui operano settori chiave come l'informazione, l'economia, la politica e la comunicazione. Il loro funzionamento opaco (sono come delle “black box”), basato su algoritmi e processi decisionali non trasparenti, solleva interrogativi sulle loro responsabilità nei confronti degli utenti, delle istituzioni e dei contenuti che ospitano. - Spesso adottano politiche poco chiare in merito a questioni di responsabilità sociale. In particolare, la loro responsabilità nei confronti della regolamentazione dei contenuti è diventata un tema centrale nel dibattito pubblico, soprattutto per quanto riguarda la moderazione di discorsi d'odio, fake news e contenuti illegali. L'approccio più adeguato per comprendere il ruolo delle piattaforme nella società contemporanea è l'approccio ecologico, che non studia le piattaforme in modo isolato, ma le analizza all'interno del contesto più ampio delle loro relazioni con altre piattaforme, con le strutture politiche e con le dinamiche sociali. Le piattaforme sono diventate veri e propri elementi dell’infrastruttura globale della rete, con un impatto che va ben oltre la sfera tecnologica, influenzando le politiche pubbliche, le pratiche culturali e i modelli economici. => Le piattaforme-infrastruttura. Le piattaforme-infrastruttura e le piattaforme di settore rappresentano due categorie fondamentali nell'ecosistema digitale contemporaneo. Attualmente, il panorama occidentale è dominato dalle cosiddette Big Five: Meta, Apple, Microsoft, Alphabet (Google) e Amazon. Queste aziende non sono semplici piattaforme, ma svolgono il ruolo di vere e proprie infrastrutture digitali. Vengono definite "piattaforme- infrastruttura" poiché forniscono le basi su cui altre applicazioni, servizi e piattaforme si appoggiano, fungendo da online gatekeeper: controllano l'accesso a risorse cruciali come dati, servizi cloud, pubblicità e utenti, influenzando in modo significativo chi può entrare e competere nel mercato digitale. Le piattaforme non incluse nel gruppo delle Big Five, come le app o servizi minori, dipendono quasi sempre da questo ecosistema dominante per l'accesso a infrastrutture tecnologiche essenziali, come i servizi di cloud computing, sistemi operativi e la distribuzione di applicazioni. Questo significa che gran parte dell’ecosistema digitale attuale è, di fatto, soggetto al controllo delle Big Five, che non solo facilitano la fornitura di servizi, ma spesso stabiliscono le regole del gioco economico e tecnico. Accanto a queste piattaforme-infrastruttura esistono le piattaforme di settore, che operano in specifici ambiti o categorie, offrendo servizi altamente specializzati. - Un esempio emblematico sono piattaforme come Uber e Airbnb, che non possiedono direttamente beni materiali (come automobili o proprietà immobiliari), ma funzionano da connettori tra utenti e fornitori di servizi. Queste piattaforme non possiedono direttamente i beni o i servizi che facilitano, ma traggono valore dalla loro capacità di mediare, organizzare e facilitare transazioni tra utenti, creando nuovi modelli di business che ridefiniscono interi settori economici. => I processi alle basi delle piattaforme. La teoria della platform society propone una visione critica delle piattaforme digitali, enfatizzando come queste guidino e limitino la socialità degli utenti tramite caratteristiche definite affordance. Le affordance, un concetto originariamente introdotto da James J. Gibson e sviluppato da Donald Norman, indicano le proprietà di un oggetto che suggeriscono possibili modalità d’uso. Nel caso delle piattaforme, le affordance sono gli elementi dell’interfaccia che indirizzano inconsciamente gli utenti verso specifiche azioni o interazioni, modellando così le loro esperienze online. All’interno di questa cornice operano tre processi principali: datificazione, mercificazione e selezione. - Datificazione si riferisce alla capacità delle piattaforme di trasformare ogni aspetto dell’esperienza umana in dati, un processo che rende quantificabili azioni e interazioni prima non registrabili. Questi dati, considerati la risorsa primaria del capitalismo digitale, alimentano un’economia della sorveglianza in cui aziende come Facebook e Google raccolgono e analizzano ogni clic, like o condivisione. Lo scopo è prevedere e influenzare i comportamenti futuri degli utenti, rafforzando così il potere delle piattaforme tramite la conoscenza intima delle abitudini e preferenze individuali. - Mercificazione descrive il processo attraverso cui le piattaforme trasformano contenuti, interazioni e persino identità in merci scambiabili. Questi “prodotti” hanno valore in termini di attenzione, dati, utenti e denaro. Sebbene le piattaforme consentano agli utenti di costruire il proprio brand personale e monetizzare i propri contenuti, questo processo comporta anche lo sfruttamento e la precarizzazione del lavoro creativo, come avviene nelle piattaforme di gig economy (es. Deliveroo, Just Eat) che utilizzano ranking reputazionali per incentivare la competizione tra lavoratori. - Selezione riguarda i meccanismi attraverso cui le piattaforme scelgono e promuovono i contenuti che l’utente vede, tramite algoritmi progettati per massimizzare l’engagement. Questi algoritmi non solo selezionano ciò che appare nei feed personali, ma creano delle filter bubbles, o bolle di filtraggio, che limitano l’esposizione a contenuti e opinioni differenti, rafforzando pregiudizi e polarizzazioni. Questo fenomeno genera ambienti chiusi o camere d’eco, in cui gli utenti interagiscono quasi esclusivamente con opinioni simili, accrescendo le divisioni ideologiche. => Piattaformizzazione legata ai comportamenti. Le piattaforme digitali hanno un impatto profondo sui comportamenti degli utenti, trasformando le interazioni online in elementi quantitativi che possono essere oggettificati e monetizzati. Questo processo di oggettificazione consente alle piattaforme di raccogliere, analizzare e tradurre i comportamenti degli utenti in dati di valore commerciale. Ogni azione, come un clic, una condivisione o un commento, viene tracciata e utilizzata per ottimizzare l’esperienza dell’utente, ma anche per alimentare un’economia digitale basata sulla profilazione, la pubblicità mirata e la personalizzazione dei contenuti. Nell'ambito dell'economia digitale, le piattaforme hanno contribuito a creare un modello di economia disintermediata, dove le relazioni tradizionali tra datori di lavoro e lavoratori sono state sostituite da nuovi meccanismi di flessibilità e lavoro "on-demand". In questo modello, tipico di piattaforme come Uber o Deliveroo, i diritti del lavoro spesso passano in secondo piano. La sicurezza sociale, i contratti stabili e le tutele sindacali vengono marginalizzati, a favore di una maggiore flessibilità per i lavoratori e per le aziende. Tuttavia, questa "flessibilità" si traduce spesso in una precarietà per i lavoratori, che non godono di diritti tradizionali come ferie pagate, pensione o assicurazioni sanitarie. Un elemento centrale di questa economia è il ruolo degli algoritmi. Questi non solo guidano la visualizzazione dei contenuti per gli utenti, influenzando ciò che vedono e consumano, ma giocano anche un ruolo chiave nella remunerazione commerciale. Gli algoritmi determinano quali contenuti vengono premiati, quali riceveranno maggiore visibilità e, quindi, genereranno più profitti attraverso la pubblicità o le vendite. => Il capitalismo della sorveglianza. Datificazione, mercificazione e selezione hanno portato alla nascita del “capitalismo della sorveglianza”: è un modello economico emergente in cui i dati grezzi raccolti dalle nostre azioni online (clic, acquisti, preferenze, interazioni sociali) diventano la materia prima di un processo di trasformazione basato su algoritmi e avanzati sistemi di calcolo. Questi dati, una volta elaborati, vengono convertiti in prodotti predittivi, che sono in grado di anticipare e influenzare i comportamenti futuri degli utenti. Questi prodotti predittivi costituiscono oggi una delle principali fonti di guadagno per le grandi aziende tecnologiche come Facebook, Google, Amazon e altre piattaforme digitali. Attraverso l'analisi continua delle nostre interazioni online, queste aziende creano modelli comportamentali estremamente dettagliati, che permettono di prevedere cosa faremo, cosa desidereremo e quali saranno le nostre decisioni di acquisto. I dati raccolti non servono solo a migliorare i servizi offerti agli utenti, ma vengono venduti a terzi, come aziende pubblicitarie, che li utilizzano per mirare specifiche categorie di persone con annunci personalizzati. In questo sistema, la nostra esperienza online è costantemente monitorata e trasformata in un'opportunità di profitto. => Il capitalismo digitale. Le radici del capitalismo digitale affondano nei primi anni 2000, un periodo in cui piattaforme come Google iniziano a tracciare e monetizzare in modo sistematico i comportamenti online degli utenti. - Google, pioniera nel settore, si distingue per l'innovazione che consente di monitorare le ricerche e gli interessi personali degli utenti attraverso la raccolta di dati. Questa capacità di analizzare e prevedere i comportamenti online diventa il fulcro del suo modello di business, che si basa sulla trasformazione dei dati di ricerca in opportunità pubblicitarie altamente targettizzate. Un concetto centrale in questo modello è quello di "surplus comportamentale", introdotto da studiosi come Shoshana Zuboff. Il surplus comportamentale si riferisce all’eccedenza di dati raccolti sugli utenti, cioè informazioni che vanno oltre ciò che è necessario per migliorare i servizi offerti. Questi dati extra vengono sfruttati per generare profitti, vendendo previsioni sul comportamento futuro a inserzionisti e altre aziende. In pratica, le informazioni sulle nostre abitudini e preferenze, accumulate dalle nostre attività online, vengono utilizzate per alimentare il sistema pubblicitario e predittivo che domina il capitalismo digitale. In questo contesto, Google, così come altre piattaforme come Facebook, non si limita a fornire servizi gratuiti agli utenti, ma opera come intermediario di dati, raccogliendo informazioni comportamentali che vengono poi vendute a scopo di lucro. Ciò rappresenta un cambiamento radicale rispetto ai modelli di business tradizionali, spostando il guadagno dalle vendite dirette di prodotti o servizi a quello derivante dalla profilazione dell'utente e dalla vendita di spazi pubblicitari. Le radici di questo modello si trovano anche nell'habitat neoliberista americano, che favorisce la deregolamentazione, la privatizzazione e la crescita del settore tecnologico senza vincoli rigidi. In un ambiente politico ed economico in cui la regolamentazione sulla privacy e sulla protezione dei dati è storicamente debole, le aziende tecnologiche hanno potuto operare in maniera relativamente libera, accumulando grandi quantità di informazioni personali e sviluppando strategie di monetizzazione basate sulla sorveglianza digitale. Questo quadro neoliberista ha quindi creato le condizioni ideali per lo sviluppo del capitalismo digitale, dove il valore economico risiede nei dati degli utenti piuttosto che nei prodotti tangibili. => L’ingegneria del comportamento. L'ingegneria del comportamento è un concetto che affonda le sue radici negli studi di B.F. Skinner (1971) sul condizionamento operante, un processo attraverso cui i comportamenti degli individui possono essere modificati attraverso rinforzi e punizioni. Skinner ha dimostrato che è possibile manipolare le azioni di un soggetto modificando l'ambiente in cui agisce, portandolo a ripetere determinati comportamenti in risposta a stimoli specifici. Questo modello di condizionamento è alla base di molte delle tecniche utilizzate oggi nel mondo digitale per influenzare il comportamento degli utenti. - Un esempio emblematico di questa ingegneria comportamentale applicata alle tecnologie digitali è l'esperimento condotto da Facebook nel 2012, in cui la piattaforma ha manipolato i flussi di notizie di quasi 700.000 utenti senza il loro consenso esplicito. L'obiettivo era quello di testare se il contenuto emotivo dei post visualizzati potesse influenzare lo stato d'animo degli utenti. I risultati hanno confermato che la manipolazione delle informazioni poteva effettivamente cambiare l'umore delle persone, dimostrando che le piattaforme hanno il potere di indirizzare e modificare le emozioni e i comportamenti degli utenti attraverso tecniche di controllo psicologico sottili. Questa dinamica si basa su un principio di azione eteronoma, dove le scelte e i comportamenti degli individui non sono pienamente autonomi, ma sono psicologicamente indotti da stimoli esterni manipolati dalle piattaforme. BE THE FRICTION: l'idea di "be the friction" invita gli utenti a prendere posizione attiva contro il sistema di sorveglianza digitale. Questo richiede strumenti e pratiche come il diritto alla disconnessione, il ricorso a tecniche di offuscamento e una maggiore consapevolezza legale, in modo da creare una resistenza critica all'influenza pervasiva delle piattaforme tecnologiche sulla vita quotidiana e preservare la privacy e l'autonomia personale. Alcuni punti deboli. Un limite fondamentale delle teorie che riducono l'agire umano a quello di una macchina risiede nella loro incapacità di cogliere la complessità della mente umana. Sebbene le scienze cognitive abbiano fornito importanti contributi alla comprensione del comportamento umano, non esiste una prova scientifica che dimostri che la mente possa essere completamente ridotta a un algoritmo. La soggettività e la coscienza restano aspetti ancora non spiegati in modo esaustivo. In risposta a queste visioni riduzioniste, autori come Shoshana Zuboff mettono in guardia contro i rischi di un mondo integralmente informatizzato, dove la casualità e gli incontri fortuiti scompaiono, privando l’esperienza umana della sua imprevedibilità e ricchezza. In questo contesto, l'istruzione diventa cruciale: deve promuovere non solo competenze tecniche, ma anche capacità critiche e riflessive, affinché gli individui possano conservare la propria autonomia e creatività in un mondo sempre più dominato da algoritmi e macchine. Identità e scienze sociali. Farsi media. Il concetto di “farsi media”, introdotto da Giovanni Boccia Artieri, descrive l'attitudine crescente delle persone a diventare parte attiva nel processo di comunicazione, appropriandosi degli strumenti, dei codici e dei linguaggi dei media. In questo processo, gli individui non sono più semplici spettatori o consumatori passivi di contenuti, ma assumono il ruolo di produttori e diffusori di messaggi, estetiche e retoriche, “diventando media” essi stessi. Questa trasformazione porta a un cambiamento profondo nel ruolo dei pubblici nella comunicazione. Le persone, grazie all'accesso diretto a piattaforme digitali e social network, possono creare e condividere contenuti autonomamente, raccontare la propria storia e autorappresentarsi. Ciò modifica il modo in cui il pubblico non solo ascolta e guarda i contenuti, ma anche come li elabora e li trasforma in nuove forme di espressione. La distinzione tra produttori e consumatori si sfuma, dando vita a prosumer (produttori-consumatori), che partecipano attivamente alla produzione culturale. - Le pratiche del raccontarsi e dell'autorappresentazione attraverso i media digitali si manifestano in diverse forme, dai post sui social media ai blog, video, commenti e recensioni. Questi ultimi, i commenti, rappresentano una forma cruciale di partecipazione, consentendo al pubblico di interagire direttamente con i contenuti e con altri utenti, contribuendo a creare conversazioni collettive e a ridefinire il senso della comunicazione pubblica. In questo quadro, l’appropriazione dei codici mediali non si limita solo alla padronanza tecnica, ma include anche la comprensione e l'utilizzo delle estetiche e delle retoriche dei media contemporanei. Identità e nuovi media. Nelle scienze sociali, l’identità non viene considerata come un’entità fissa e stabile, ma piuttosto come un processo dinamico e relazionale, che noi costruiamo attraverso l’interazione con gli altri. Anche le variabili storiche, culturali e sociali hanno un’importanza rilevante nella formazione dell’identità (che è un processo che dura per sempre). L’identità è un qualcosa che noi creiamo all’interno delle relazioni e delle interazioni e che ci permette sia di comprendere le aspettative degli altri nei nostri confronti, sia di comunicare cosa noi ci aspettiamo. L’identità si trova in un rapporto dialettico continuo con la società. Nel corso della propria vita, ognuno di noi considera due identità in sé stesso: - Identità personale, che si riferisce a come una persona vede se stessa come unica, basandosi sulla propria storia di vita, esperienze e il proprio corpo. È l'idea di essere un individuo diverso da tutti gli altri. - Identità sociale, che invece, riguarda come una persona si relaziona con gli altri e il mondo intorno a sé, assumendo diversi ruoli (come figlio, amico, lavoratore) e partecipando alle relazioni sociali. È l'aspetto di sé che dipende dalle interazioni e dai contesti in cui ci si trova. La complessità del sistema sociale è un altro fattore molto importante: più il contesto sociale in cui l'individuo opera è complesso (per esempio in termini di diversità culturale, stratificazione economica, pluralità di valori, ecc.) più l’identità individuale e il processo decisionale diventano sfaccettati. Questa visione mette in luce anche il ruolo del soggetto come parte attiva nella costruzione del proprio sé, in una costante dialettica tra l'individualità e le influenze sociali e culturali. L’identità, quindi, è il risultato di un processo continuo di negoziazione tra l’individuo e il mondo sociale, influenzato da fattori quali il genere, la classe sociale, la razza, l’istruzione e l’esperienza personale, e in costante evoluzione rispetto ai cambiamenti sociali. I media hanno sempre rivestito un ruolo cruciale nella costruzione e nella negoziazione delle identità individuali e collettive. Sin dall'inizio, essi hanno ampliato le esperienze delle persone, offrendo sfere di realtà, modelli di comportamento e narrazioni che spesso non sono accessibili nella vita quotidiana. Attraverso i media, le persone possono esplorare identità alternative, provare nuovi ruoli sociali e misurarsi con ideali e aspettative sociali in modi che nella realtà fisica sarebbero più difficili o meno immediati. Oggi, con l'avvento delle piattaforme digitali e dei social media, il processo identitario si è intensificato e trasformato. Questi strumenti non solo offrono spazi "in cui" costruire e mettere alla prova la propria identità, ma fungono anche da infrastrutture “con cui” operare in maniera continua e performativa la costruzione del sé. - Ad esempio, i profili social diventano vere e proprie rappresentazioni di sé, curate attraverso una selezione di contenuti che contribuiscono a costruire un'immagine coerente (o frammentata) dell’identità personale o di gruppo. Le piattaforme digitali possono essere interpretate come infrastrutture simbolico-relazionali che permettono la creazione di uno spazio di interazione simbolico, dove il "cantiere identitario" diventa visibile e condiviso. In queste piattaforme, gli utenti non si limitano a rappresentare se stessi, ma mettono costantemente in scena e modificano la propria identità in relazione agli altri, in un gioco di specchi e rispecchiamenti che contribuisce alla formazione dell'immagine sociale. Possiamo quindi ancora parlare di una separazione netta tra reale e virtuale? La risposta appare sempre più complessa, poiché entrambi i domini si alimentano a vicenda. Se un tempo la realtà virtuale poteva essere percepita come una sfera parallela e separata, oggi le esperienze mediate dalla tecnologia si intrecciano profondamente con la vita quotidiana. => Riflessività dopo il post-moderno. Nel passato, tra il tardo Medioevo e l'inizio dell'era moderna, le identità individuali e collettive erano strettamente legate alla posizione sociale e alle appartenenze ascrittive, come il ceto, la classe o l'eredità familiare. Queste strutture gerarchiche fornivano risposte "forti" su chi si era e quale ruolo si ricopriva nella società. Le possibilità di ascesa sociale o di cambiamento erano limitate, e l'individuo trovava gran parte della sua identità definita da questi vincoli esterni. Oggi, in una società post-moderna, queste forme di appartenenza ascrittiva hanno perso la loro rigidità e non offrono più risposte certe o definitive. La riflessività, ossia la capacità degli individui di riflettere sulla propria esistenza e di ricostruire costantemente la propria identità, è diventata centrale. Le identità contemporanee sono caratterizzate da una fluidità crescente: non sono più fissate in base a ceti o ruoli sociali prestabiliti, ma emergono in un contesto di continuo cambiamento e auto-sperimentazione. Nella società attuale, le strutture sociali fondanti del passato (la famiglia, il ceto o la religione) sono state sostituite da strutture informative e reti globali di comunicazione. Oggi, l'appartenenza e la definizione del sé dipendono sempre più dalla partecipazione a queste reti di informazioni, in cui la condivisione e l'accesso ai dati, alle risorse cognitive e alle relazioni digitali sono cruciali. Le identità non sono più vincolate alla posizione sociale, ma dipendono dalla capacità degli individui di navigare e interagire in queste strutture fluide. La riflessività contemporanea si sviluppa quindi in un contesto di autonomia all'interno di uno stato di connessione continua. L'individuo, pur avendo libertà di costruire la propria identità, lo fa in uno scenario interconnesso, dove le esperienze personali sono strettamente intrecciate con le dinamiche sociali e digitali. La riflessività si trasforma in un processo pubblico e interattivo, influenzato dallo sguardo degli altri. Oggi, l'identità non è solo un progetto individuale, ma si costruisce attraverso il feedback costante degli altri, soprattutto nelle piattaforme digitali. Ogni azione o rappresentazione del sé è soggetta a osservazione e giudizio, rendendo la riflessività una performance in continuo dialogo con il riconoscimento sociale. Questo porta a una nuova condizione, in cui l'identità è costantemente negoziata e rimodellata in base alle risposte che si ricevono dall’ambiente sociale, sia fisico che virtuale. => Costruire l’identità con l’approccio di Goffman. I social media hanno trasformato profondamente la dinamica della costruzione dell'identità, mettendola in relazione con l'approccio drammaturgico di Erving Goffman. Secondo Goffman, nella vita quotidiana le persone presentano sé stesse come in una performance teatrale, alternando spazi di ribalta (dove mostrano una "facciata" pubblica) e retroscena (dove possono rilassare il controllo e mostrarsi più autentiche). Nei social media, però, queste distinzioni si sfumano: gli spazi pubblici e privati si sovrappongono, rendendo difficile mantenere un chiaro confine tra ribalta e retroscena. La sovrapposizione dei pubblici digitali crea una sfida per l'individuo, che deve gestire diverse "facciate" simultaneamente, adattando la propria identità alle aspettative di molteplici gruppi di osservatori, spesso presenti nello stesso contesto virtuale. Di conseguenza, invece di una singola identità, i social media incoraggiano la moltiplicazione delle identità, con l'individuo che interpreta diversi ruoli a seconda della piattaforma o del pubblico con cui interagisce. Questo porta a una complessa gestione di sé, in cui la coerenza dell'identità diventa più fluida e frammentata. I primi studi sull’identità. I primi studi sull’identità nei media digitali hanno spesso contrapposto il reale e il virtuale, con alcune teorie che vedevano il mondo reale come una "brutta copia" del virtuale (cioè un posto non autentico), e altre che consideravano il virtuale un miglioramento della realtà (cioè un posto ricco di libertà e isolato dalla realtà esteriore, dove è possibile la sospensione del sé fisico). L’idea centrale era che l’identità fosse strettamente legata al corpo fisico (come evidenziato da autori come Lewin e Graham), quindi il sé online era visto come qualcosa che si separava dall’identità personale e che finiva per inserirsi in una serie di pratiche come l’abbellimento virtuale, il multitasking identitario o il gender-swapping. Con l’evoluzione dei media digitali, tuttavia, le prospettive si sono ampliate. I nuovi studi sull’identità. Studi recenti (Bakardjieva, Jenkins) mostrano che ciò che avviene online non è mai completamente decontestualizzato o disincarnato, ma si inserisce in un continuum tra vita fisica e digitale. Secondo danah boyd, gli spazi digitali e fisici sono interconnessi, creando una continuità che sfuma i confini tra offline e online. Luciano Floridi parla di onlife, un'esperienza in cui la distinzione tra reale e virtuale perde di significato, poiché la vita è sempre più mediata dalla tecnologia. La desiderabilità sociale diventa una forza che attraversa entrambi i mondi, influenzando la costruzione dell’identità sia online che offline. Il raccontarsi attraverso i nuovi media trascende quindi la semantica del vero e del falso, del reale e del virtuale. L’identità diventa un canovaccio a cui il soggetto lavora costantemente attraverso l’integrazione delle auto-narrazioni e delle narrazioni altrui, dei sistemi di relazioni, delle appartenenze, dei prodotti mediali che l’individuo crea o che consuma. In questo complesso lavoro di bricolage i nuovi media hanno una posizione importante perché mettono a disposizione risorse variegate alle quali accedere per gestire le narrazioni del sé così come i sistemi d’interazione. TUTTAVIA, l’introduzione di un nuovo medium nel panorama mediatico ha (come sempre) portato con sé una certa dose di tecnoscetticismo: le tecnologie digitali vengono accusate di assorbire gli individui in un mondo parallelo e, in tal modo, isolarle. - Sherry Turkle afferma proprio che con la diffusione di internet e la sempre maggiore disponibilità di media sociali accessibili ovunque, gli individui cambiano il modo di relazionarsi, interagendo meno con coloro che hanno accanto e venendo appunto assorbiti dallo spazio parallelo fatto di relazioni online => ALONE TOGETHER. Comunità e società. Ferdinand Tönnies, nel 1921, propose una distinzione fondamentale tra comunità e società. Nella comunità, le relazioni sono basate su legami profondi e informali, dove le regole, seppur non scritte, sono fortemente condivise. Il gruppo viene prima dell'individuo, e le norme sociali esercitano una forte pressione, creando un senso di appartenenza intensa ma anche relazioni più opprimenti. Al contrario, nella società moderna, prevale un maggiore equilibrio tra l'autonomia individuale e il rispetto delle norme. L’identificazione con il gruppo è meno forte, le interazioni sono più formali e distaccate, e l’individuo gode di maggiore libertà personale. Tuttavia, questo aumento di autonomia può comportare un livello maggiore di solitudine, poiché i legami sociali sono meno vincolanti e coinvolgenti rispetto a quelli delle comunità tradizionali. Una nuova forma di socialità. La diffusione dei social media e i cambiamenti nel sistema delle relazioni hanno portato all’interpretazione di una nuova forma di socialità, che ha trovato un’interessante chiave di lettura: - Nel networked individualism di Berry Wellman. - Nell’idea di virtual togetherness di Maria Bakardjieva. - Nei networked publics di danah boyd. => Networked individualism (Wellman). Nel 2002, Barry Wellman introdusse il concetto di networked individualism, che descrive una nuova forma di socialità in cui l'individuo si sgancia dal legame tradizionale con un luogo fisico o una comunità stabile. Con l'industrializzazione e la diffusione delle tecnologie digitali, le relazioni sociali non si basano più su appartenenze comunitarie rigide, ma su una rete di contatti che si estende oltre i confini geografici. In questo scenario, l'individuo diventa il centro delle connessioni, muovendosi tra diverse reti sociali e digitali. La rete non è solo un'infrastruttura tecnologica, ma una sovrapposizione di reti sociali e reti informatiche, che permette nuove forme di relazione e interazione. Il networked individualism favorisce la coesione interna di gruppi flessibili, basata su relazioni omofile (tra persone con interessi simili) e su legami deboli. Quest'ultimo concetto, elaborato da Mark Granovetter, indica che le connessioni più distanti o meno intense sono fondamentali per accedere a nuove informazioni e opportunità, rendendo i legami deboli cruciali nella società interconnessa. In questo contesto, l’individuo si muove in un sistema di relazioni fluido, dove la rete sociale è dinamica e adattabile, ridefinendo costantemente la propria posizione e i propri legami. => Virtual togetherness (Bakardjieva). Nel concetto di virtual togetherness, Bakardjieva supera l’idea tradizionale di comunità, sottolineando che la socialità online può assumere diverse forme. Non esiste una netta contrapposizione tra socialità “reale” e digitale, ma piuttosto una distinzione tra l’uso della rete per interagire con gli altri e l’uso isolato per il consumo di beni e servizi. Bakardjieva identifica diverse tipologie di relazioni digitali, in un continuum tra consumo e comunità. Tra queste ci sono: - L’infosumer, che utilizza la rete solo per cercare informazioni senza interagire con gli altri. - Le instrumental relations, dove l’utente interagisce brevemente per ottenere informazioni specifiche. - Le persone che esplorano idee nella sfera pubblica virtuale, scambiando opinioni con altri. - Il chatter, che usa il web per interazioni personali e sociali. - Il communitarian, che vede la rete come un luogo di sostegno e appartenenza, con relazioni simili a quelle faccia a faccia. Questa lettura evidenzia la complessità della rete come spazio sociale, non separato dal mondo reale. => Networked publics (boyd). danah boyd (2008) introduce il concetto di networked publics per descrivere gli utenti dei social media, evidenziando che non sempre questi formano vere comunità, poiché i legami sono spesso deboli e temporanei. I contenuti generati dagli utenti online UGC (User Generated Content) presentano quattro caratteristiche principali: - Persistenza: ciò che si esprime online è automaticamente registrato e archiviato. - Replicabilità: i contenuti possono essere facilmente duplicati. - Scalabilità: la visibilità potenziale dei contenuti nei pubblici connessi è molto grande. - Ricercabilità: nei pubblici connessi si può avere accesso ai contenuti mediante un sistema di ricerca. I pubblici connessi sono meno vincolanti rispetto alle comunità tradizionali e offrono fluidità nelle relazioni, come ad esempio i gruppi su Twitter che si formano attorno a un hashtag e svaniscono rapidamente. boyd individua tre dinamiche della socialità online: le audience invisibili, in cui non è sempre chiaro chi leggerà un contenuto; la mancanza di confini spaziali e sociali, che rende difficile separare i contesti; e l’opacità tra pubblico e privato, con una crescente fusione di questi due spazi nella vita digitale. I social network. L’impatto dei nuovi media, in particolare dei social media, sulla vita quotidiana e sulle modalità di interazione sociale é sempre più forte e in crescita. I social media, parte del web 2.0 o “web partecipativo”, facilitano la comunicazione e la partecipazione degli utenti, ridefinendo i ruoli di emittente e destinatario. Tra i media sociali, i blog sono tra i primi strumenti nati per condividere esperienze e opinioni, seguiti dai Social Network Site (SNS), come Facebook e LinkedIn, che permettono agli utenti di creare profili, connettersi e condividere contenuti. Le relazioni online si avvicinano sempre più a quelle offline, rendendo i SNS fondamentali nella gestione delle identità e delle connessioni sociali. L’uso di queste piattaforme è influenzato sia dai vincoli tecnici imposti dalle architetture digitali, sia dalle specificità sociali degli utenti, come età e capitale culturale. I social media hanno quindi un ruolo abbastanza importante nella costruzione dell’identità e della relazione sociale: gli utenti usano queste piattaforme per rielaborare la propria immagine e gestire le relazioni, spesso esponendosi a rischi come la “perdita della faccia” (Goffman). I social media offrono una flessibilità nella presentazione del sé e nella gestione della distanza relazionale, ma al contempo espongono gli individui a nuove forme di vulnerabilità, soprattutto legate alla reputazione e alla privacy. Infine, la linea tra pubblico e privato diventa sempre più sfumata, portando a una tensione tra esibizione e intimità, che si riflette in una continua sovrapposizione tra spazi online e offline. I nuovi media tra disuguaglianze e competenze. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono spesso descritte come strumenti che riducono le disuguaglianze culturali e sociali, migliorando l’accesso alle conoscenze e promuovendo innovazioni come il voto elettronico, la telemedicina e i trasporti intelligenti. Tuttavia, emergono anche preoccupazioni su privacy, sicurezza e frodi. Le prime teorizzazioni sul digitale e Internet erano ottimistiche e vedevano in esse mezzi per la libertà e la democrazia, capaci di superare barriere geografiche e sociali. - Negli anni ’80, Sola Pool parlava infatti di technologies of freedom per la possibilità di accedere a una società dell'informazione globale e priva di barriere spaziali, capace di annullare i tradizionali vincoli al perseguimento di interessi e obiettivi dell'individuo, che poteva così essere finalmente libero. Nonostante questo dibattito tra cyber-utopisti (secondo cui le tecnologie erano appunto degli spazi che davano libertà) e cyber-scettici (secondo cui invece le tecnologie toglievano queste libertà), l’accesso alla rete rimaneva l’ostacolo principale all’inclusione in questa rivoluzione digitale. Digital divide. Per “digital divide” si intende il divario tra chi ha accesso alle tecnologie digitali e chi ne è escluso per motivi infrastrutturali o economici. Nonostante Internet sia teoricamente accessibile a tutti, persistono disuguaglianze tra continenti, nazioni e anche tra aree urbane, con l’Africa e il Medio Oriente particolarmente svantaggiati. Per valutare l’esclusione digitale si devono considerare due parametri: - La “dimensione” di Internet, ovvero il numero totale assoluto degli utenti di un determinato Paese. - La “penetrazione” (o distribuzione) di Internet, cioè il tasso di accesso di Internet all’interno di un dato Paese o area geografica, calcolato come percentuale degli utenti della rete sul totale della popolazione. La diffusione di dispositivi mobili e connessioni cellulari ha ridotto il divario in alcune aree, ma problemi di accesso e disparità economiche continuano a limitare l’uso della rete, ostacolando l’avvento di una società digitale globale ed equa. Dal digital divide alle disuguaglianze digitali. Il termine “digital divide” si riferisce alle disuguaglianze nell’accesso e nell’uso delle tecnologie digitali, con origini incerte ma reso popolare dai politici americani negli anni ’90. Inizialmente usato per descrivere le diverse attitudini verso la tecnologia negli Stati Uniti, il concetto ha acquisito rilevanza globale, evidenziando disparità tra Paesi industrializzati e in via di sviluppo. Oltre alla mancanza di accesso a Internet, il digital divide influisce sulla crescita sociale ed economica, limitando le opportunità di integrazione e innovazione per intere nazioni. Le prime analisi del fenomeno hanno diviso la popolazione in due gruppi: - Gli information haves, ovvero quelli con accesso alle informazioni. - Gli information have-nots, ovvero quelli senza accesso alle informazioni. Tuttavia, nel tempo, si è compreso che la questione è più complessa e richiede interventi a lungo termine per colmare questo divario. Le attuali analisi sul digital divide vanno oltre il semplice accesso fisico alla rete e includono il “capitale umano” e la “trasformazione tecnologica” dei settori economici. Manuel Castells identifica quattro fattori chiave che determinano il divario digitale globale: - Il divario nelle infrastrutture di telecomunicazione, che privilegia utenti di alto livello. - La dipendenza dei provider di molti Paesi dalle dorsali Internet USA ed europee, con costi aggiuntivi. - La concentrazione dei domini Internet nei Paesi occidentali, che limita l’accessibilità ai contenuti per i Paesi non occidentali. - L’assenza di strategie efficaci per ridurre il digital divide, che ne perpetua l’esistenza in un ciclo difficile da interrompere. La visione di Castells sul digital divide analizza la disuguaglianza nell’accesso a Internet in modo complesso, superando l’idea binaria “chi ha/chi non ha accesso”. Laura Sartori amplia questa visione, identificando fattori chiave che influenzano il divario digitale: il PIL pro capite, l’indice di sviluppo umano, il livello di istruzione, gli investimenti in ricerca e sviluppo e la disponibilità di infrastrutture tecnologiche. Oltre all’accesso, emergono differenze significative nell’uso e nell’appropriazione della rete, legate a variabili socioeconomiche, età, genere e livello di istruzione. Ne deriva un concetto multidimensionale di “divari digitali”, che considera non solo chi accede a Internet, ma come e per cosa viene utilizzato, riflettendo disuguaglianze più ampie. Il divario digitale non riguarda solo i Paesi poveri, ma è presente anche nelle nazioni più ricche, influenzato da fattori socio-demografici come reddito, età, genere e istruzione. Il reddito è determinante: l’accesso alle ICT è più comune nelle fasce economiche elevate. L’età è un’altra variabile cruciale, poiché i giovani, cresciuti come “nativi digitali”, mostrano più familiarità con le tecnologie rispetto agli anziani. Tuttavia, anche il genere può creare disuguaglianze, soprattutto nelle generazioni più anziane e in specifiche aree geografiche. L’istruzione, infine, incide non solo sull’accesso, ma soprattutto sulla qualità degli usi della rete, evidenziando il cosiddetto “second-level digital divide”: il divario di competenze tra chi ha accesso ma sfrutta il digitale in modo limitato e chi lo utilizza in maniera approfondita. In questo scenario, il digital divide va considerato come un fenomeno complesso e multidimensionale, in continua evoluzione. L’evoluzione del divario. Questo divario digitale riflette e talvolta amplifica le disuguaglianze preesistenti, mettendo in luce i limiti della società dell’informazione e l’importanza delle politiche di e-inclusion per favorire una maggiore equità. Due approcci principali spiegano l’evoluzione del digital divide: - La teoria della “normalizzazione” sostiene che, nel tempo, l’accesso alla tecnologia si estenderà gradualmente a tutte le fasce sociali, riducendo le disuguaglianze grazie alla combinazione di un mercato più accessibile e di politiche pubbliche mirate. Secondo questa visione “cyber-ottimistica”, sostenuta da esponenti del pensiero liberista come Nicholas Negroponte e Bill Gates, il divario digitale è un fenomeno transitorio destinato ad attenuarsi, man mano che le tecnologie diventeranno più semplici e meno costose. - La teoria della “stratificazione”, al contrario, ritiene che le tecnologie possano rinforzare le disuguaglianze sociali, consolidando una divisione tra chi ha risorse e competenze e chi ne è privo. Secondo questa prospettiva “cyber-pessimistica”, le tecnologie, piuttosto che colmare il divario, possono diventare strumenti di conservazione del potere e di perpetuazione del dominio dei gruppi già privilegiati. Chi possiede maggiori conoscenze tecnologiche, infatti, può sfruttare prima e meglio le opportunità della rete, aumentando il proprio vantaggio rispetto agli altri. Questo processo richiama il cosiddetto “effetto San Matteo” o “rich get richer”, per cui chi è già avvantaggiato tende ad accumulare ulteriori benefici. Queste due visioni portano a ipotesi d’intervento molto diverse: mentre la normalizzazione considera superfluo un intervento correttivo del mercato, la stratificazione invita a politiche attive per evitare che le tecnologie diventino strumenti di ulteriore polarizzazione sociale. Divari e digital literacy. Il digital divide è oggi concepito come un continuum di disuguaglianze che comprende non solo l’accesso alle tecnologie digitali, ma anche le competenze per utilizzarle e trarne benefici concreti. Superare questo divario richiede di andare oltre le semplici abilità operative e investire in una digital literacy approfondita, che include un insieme complesso di competenze e conoscenze sia “informative”, per cercare e valutare le informazioni, sia “strategiche” per usare la tecnologia in modo mirato. Tra queste, le competenze di computer literacy sono fondamentali per l’uso pratico dei dispositivi, dalle operazioni di base fino alla personalizzazione del sistema. Le information literacy permettono poi di cercare, selezionare e valutare l’enorme quantità di informazioni disponibili in rete, affinando la capacità di analizzare la loro affidabilità. Le multimedia literacy aiutano a comprendere e creare contenuti in un ambiente multimediale, gestendo i diversi codici e linguaggi. Infine, le computer- mediated communication (CMC) literacy sviluppano le abilità necessarie per interagire e comunicare online, dalle piattaforme social ai contesti istituzionali e professionali. - Anche tra i giovani nativi digitali, spesso considerati esperti nell’uso dei nuovi media, si osserva un deficit di competenze critiche, ovvero la capacità di valutare in modo consapevole e responsabile le risorse digitali (capacità cognitive, informazionali, creative, culturali, etiche e sociali). Questo insieme di abilità, noto come digital literacy, diventa quindi cruciale per operare efficacemente nella società digitale e per ridurre il rischio che il digital divide si traduca in nuove forme di disuguaglianza sociale e culturale. => Si è passati da media literacy a digital literacy. Eszter Hargittai (2007) propone una classificazione dettagliata delle competenze digitali, distinguendo vari livelli di abilità che vanno dalla comunicazione efficace alla gestione della privacy, fino alla valutazione dell’attendibilità delle fonti online. Queste competenze comprendono la capacità di interagire in gruppi, l’uso di strumenti specifici, la ricerca e selezione di informazioni, la sicurezza e la richiesta di assistenza. Questi modelli evidenziano l’importanza di adattarsi ai media digitali, sottolineando le abilità necessarie per navigare e partecipare consapevolmente. Social literacy. Il discorso sulle competenze digitali non può limitarsi alle abilità individuali, ma deve considerare il ruolo delle pratiche sociali condivise e delle risorse culturali, economiche e relazionali. L’approccio della “social literacy” sostiene che le competenze digitali si sviluppano in un contesto sociale e sono influenzate da politiche educative e investimenti statali. Non si tratta solo di acquisire abilità tecniche neutrali, ma di conformarsi a convenzioni culturali e aspettative sociali. - La trasformazione dei libri scolastici, ora arricchiti da elementi visivi e strutture non lineari, esemplifica come le competenze richieste siano modellate da evoluzioni sociali e istituzionali, riflettendo la complessità del panorama digitale moderno. Partecipazione e politica nei new media. Nel tempo, ogni nuovo mezzo di comunicazione, come la radio, il telefono o la televisione, ha portato con sé l’idea di una svolta epocale. Con l’avvento dei media digitali, in particolare Internet, le relazioni tra individui e società sono cambiate, grazie all’accresciuta competenza degli utenti e alla semplificazione dell’accesso alle tecnologie. Ciò ha creato nuove modalità di interazione, ampliando l’accesso alla conoscenza e consentendo di fruire di contenuti lontani. Questo ha reso la conoscenza più accessibile e ha trasformato ogni utente in un produttore di contenuti, favorendo l’interattività e il potenziale democratico della rete. Internet permette così la formazione di network dinamici, sostenendo la libertà di espressione e la partecipazione attiva. La cittadinanza digitale. Le nuove tecnologie della comunicazione offrono strumenti significativi per rafforzare il legame tra istituzioni e cittadini, creando opportunità per una “cittadinanza digitale”. Questo concetto si riferisce alla partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica attraverso i media digitali, permettendo l’accesso a informazioni personalizzate, la creazione di mobilitazioni e la formazione di gruppi organizzati attorno a interessi comuni. La cittadinanza digitale promuove una maggiore inclusione e condivisione delle responsabilità nelle decisioni pubbliche, facilitando un coinvolgimento continuo nella sfera politica. Tuttavia, il potenziale di queste tecnologie è accompagnato da importanti criticità. Secondo Pittèri, le nuove piattaforme potrebbero non solo non rafforzare i processi democratici tradizionali, ma anche richiedere un ripensamento radicale del concetto stesso di politica, immaginando forme inedite di partecipazione e decisione collettiva. Le strutture dei nuovi media possono concentrare potere e conoscenza nelle mani di pochi, promuovendo forme di controllo anziché di libertà e stimolando un populismo aggressivo e plebiscitario. Nel dibattito politico online, la presenza di propaganda e linguaggi demagogici, spesso caratterizzati da emotività e rabbia, rischia di soffocare il confronto razionale e di sostituire il dialogo civile con slogan e invettive. Questo fenomeno alimenta una “democrazia elettronica” distorta, in cui il voto e le opinioni sono espressi senza un’adeguata comprensione dei temi, contribuendo a creare nuove disuguaglianze e divisioni sociali. In questo contesto, è essenziale affrontare questi rischi per garantire che la cittadinanza digitale diventi uno strumento di vera partecipazione democratica. La mitizzazione. L’analisi del ruolo dei new media nei processi politici deve evitare di cadere nella “mitizzazione” della democrazia elettronica, un fenomeno che si riferisce alla tendenza a idealizzare internet come uno spazio di perfetta uguaglianza e libertà di espressione, dove ogni voce ha la stessa rilevanza. Questa visione romantica ignora le complessità e le disuguaglianze strutturali che caratterizzano la realtà della rete. In effetti, sebbene ci siano esempi di egualitarismo informatico, come le comunità che utilizzano software open source, il web è in gran parte dominato da grandi multinazionali che esercitano un forte controllo sui contenuti e sull’accesso. Inoltre, il panorama digitale è regolato da leggi sul copyright che possono limitare la libertà di condivisione e l’accesso alle informazioni. Organizzazioni governative e gruppi eversivi sfruttano la rete per perseguire obiettivi che spesso contrastano con i principi democratici e partecipativi, svelando così un lato oscuro della cosiddetta “democrazia elettronica”. Un altro aspetto critico riguarda l’adozione dei nuovi media da parte delle élite politiche, che si traduce spesso in iniziative più formali che sostanziali. Nonostante l’evoluzione dei sistemi comunicativi, le opportunità di partecipazione digitale rimangono limitate, riflettendo più logiche di risparmio economico che un vero impegno verso il coinvolgimento civico. Inoltre, la capacità e la volontà dei cittadini di partecipare attivamente ai processi politici sono influenzate da fattori socio-economici; solo una minoranza, per lo più appartenente a ceti medio-alti e ben istruita, sfrutta effettivamente le risorse online per partecipare attivamente. Ciò evidenzia le disuguaglianze nell’accesso e nell’uso critico delle tecnologie, dimostrando che i new media, pur offrendo potenzialità di partecipazione, non garantiscono automaticamente un aumento dell’impegno civico. Tra spettacolarizzazione e personalizzazione. La politica contemporanea, seguendo sempre più le regole del marketing, è diventata un prodotto da vendere. => Spettacolarizzazione: rappresenta la tendenza dei media, specialmente della televisione, a trasformare i contenuti politici in spettacolo. Ciò significa presentare i temi e le figure politiche in modo drammatico, emozionante o sensazionalistico, piuttosto che come parte di un discorso informativo e critico. Questo approccio enfatizza la dimensione spettacolare e visiva della politica, simile a un prodotto da vendere, in cui il cittadino è visto più come spettatore o consumatore che come parte attiva e informata. => Personalizzazione: si riferisce alla pratica di concentrare l’attenzione pubblica sulle personalità e sulla vita privata dei politici anziché sulle loro competenze e sui ruoli istituzionali che ricoprono. La personalizzazione sposta il focus dal programma o dalle ideologie politiche alla figura individuale del politico, che viene spesso mostrato nella sua dimensione intima e familiare per creare un legame emotivo con l’elettorato. Questo processo rende il politico più simile a una celebrità, il cui privato diventa parte della narrazione mediale per attrarre consenso e simpatia. => Vetrinizzazione: è la tendenza a trasformare i media in una sorta di “vetrina” o palcoscenico su cui gli individui e le istituzioni espongono aspetti della propria vita privata o dei propri prodotti, in modo simile a una merce in esposizione. In questo caso, i media e il web non vengono usati per un’interazione autentica, ma piuttosto per presentare un’immagine, esibire contenuti personali o istituzionali senza un reale coinvolgimento del pubblico. La rete diventa così un semplice spazio per “esporre” anziché per dialogare, con un uso spesso superficiale che non soddisfa le reali necessità degli utenti. => Processo di mediatizzazione delle relazioni sociali: è il processo attraverso cui le interazioni sociali vengono sempre più modellate e influenzate dai media e dalle tecnologie della comunicazione. Questo processo, iniziato con la stampa e proseguito con i media di massa e il web, ha trasformato la sfera pubblica, influenzando il modo in cui le persone discutono, formano opinioni e partecipano alla vita collettiva. La comunicazione mediale non è più solo uno strumento informativo, ma ha riorganizzato i settori della vita sociale, influenzando tanto le sfere private quanto quelle pubbliche, politiche, culturali ed economiche. Il pluralismo. La diffusione dei media digitali e del web 2.0 ha portato a una trasformazione profonda della sfera pubblica, creando nuovi spazi di confronto e ampliando le possibilità di partecipazione diretta di individui e gruppi alla produzione e circolazione di informazioni. Rispetto ai media tradizionali, spesso controllati da autorità statali o grandi gruppi economici, i nuovi media consentono accesso a una varietà di fonti indipendenti, favorendo un pluralismo informativo che arricchisce il dibattito pubblico. Questo processo di “disintermediazione” supera i consueti intermediari dell’informazione come giornali, partiti o sindacati, e mette i cittadini nelle condizioni di accedere direttamente a una vasta quantità di dati e opinioni, prima disponibili solo a esperti e professionisti. - Secondo Dahlgren, la sfera pubblica in rete subisce una “cyber-trasformazione” che ne modifica le dinamiche tradizionali. In questo nuovo contesto, la sfera pubblica può essere orientata dagli interessi dei gruppi di utenti, i quali, partecipando attivamente al dibattito pubblico, assumono un ruolo di sorveglianza democratica che storicamente era compito della stampa e delle strutture professionali legate a gruppi di potere economico e politico. In questo contesto si è affermato il citizen journalism, in cui i cittadini, grazie alla natura interattiva della rete, producono e condividono notizie, partecipando attivamente al dibattito e alla sorveglianza democratica senza necessitare delle strutture professionali o dei canali tradizionali. Questo sviluppo ha reso più dinamica la formazione dell’opinione pubblica, spostando il potere di influenzare il discorso collettivo dai media istituzionali a una rete più diffusa e decentralizzata di voci e contributi individuali. Un nuovo modo di fare informazione. L’avvento dei nuovi media ha profondamente modificato il modo di produrre e diffondere informazioni, sfumando i confini tra media tradizionali e digitali. Oggi i lettori non sono più solo destinatari passivi, ma partecipano attivamente tramite commenti, valutazioni e condivisioni sui social, contribuendo alla selezione e alla visibilità delle notizie. Questo processo sottrae ai media tradizionali il tradizionale ruolo di “gatekeeper,” permettendo a notizie e contenuti rilevanti di emergere direttamente da blog e social media, indipendentemente dai canali istituzionali. Tuttavia, questa democratizzazione dell’informazione ha un lato ambivalente: se da un lato i nuovi media ampliano l’inclusività e la libertà di espressione, rendendo il dibattito accessibile a una pluralità di voci, dall’altro possono polarizzare le opinioni, dando luogo al fenomeno della “cyber- balcanizzazione.” In queste “echo chambers” digitali, gli utenti tendono a cercare solo informazioni e discussioni che confermano le loro convinzioni, isolandosi in circuiti autoreferenziali dove il confronto critico è limitato. In tal modo, la rete rischia di ridurre il dialogo tra prospettive diverse, alimentando scontri tra opinioni opposte e favorendo la radicalizzazione anziché la comprensione reciproca. In questo contesto, i nuovi media promuovono una comunicazione orizzontale e aperta, ma richiedono nuove modalità di interazione da parte delle istituzioni politiche, che devono saper coinvolgere i cittadini e adattarsi alle dinamiche partecipative della rete. Internet e la partecipazione politica. I nuovi media e Internet, pur non privi di limiti e manipolazioni, rappresentano strumenti potenti per ampliare gli spazi di discussione pubblica, offrendo nuove modalità di espressione alla società civile. Attraverso blog, commenti, post e social media, i cittadini possono sostenere opinioni e argomentazioni su temi di interesse generale, vigilando e monitorando le dinamiche di potere dal basso. Questo ambiente digitale favorisce in particolare le giovani generazioni, che, contrariamente allo stereotipo di disinteresse politico, cercano spesso forme di partecipazione alternativa rispetto ai canali istituzionali tradizionali. Negli ultimi decenni, la crescente sfiducia nelle istituzioni, il calo della partecipazione elettorale e il declino delle identità collettive hanno segnato un cambiamento radicale: l’individuo tende a sostituire l’azione collettiva con l’autoaffermazione e l’attenzione ai propri progetti personali. Da qui si sviluppano forme di partecipazione non conv