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CAPITOLO I SFONDI Sommario: 1. Le forme del processo. – 2. Diritto e processo. – 3. Diritto processuale penale e procedura penale. 1. - Le forme del...

CAPITOLO I SFONDI Sommario: 1. Le forme del processo. – 2. Diritto e processo. – 3. Diritto processuale penale e procedura penale. 1. - Le forme del processo Uno dei capostipiti della Scuola classica, Francesco Carrara, definiva il processo penale come «una serie di atti solenni, coi quali certe persone a ciò legittimamente autorizzate, osservato un certo ordine e forma determinata dalla legge, conoscono dei delitti e dei loro autori, affinché la pena si storni dagli innocenti e si infligga ai colpevoli»1. Un secolo più tardi, Salvatore Satta parlerà del processo come d’«un atto […] per definizione antirivoluzionario», tanto che «chi fa la rivoluzione, non può volerlo senza in qualche misura negare sé stesso». Perciò – proseguiva – “processo rivoluzionario” è «formula […] priva di senso; se il giudizio è giu- dizio, non è rivoluzionario; se è rivoluzionario, non è giudizio»2. E – siamo ormai ai giorni nostri – pare che Giuseppe De Luca abbia ini- ziato un corso universitario dicendo: «ciò che distingue la violenza del ban- dito o quella del giustiziere da quella del poliziotto, è la divisa»3. Da prospettive, in tempi e con parole diverse, i tre maestri dicono la stessa cosa: richiamano l’attenzione sul processo come fenomeno regolato: regolato da norme, secondo forme (gli atti solenni sono quelli a più alto tasso di formalità; la rivoluzione punta ad abbattere le regole portanti d’un ordina- mento, sostituendole con altre; la divisa è una forma). Siamo in effetti di fronte ad una delle caratteristiche eminenti del pro- cesso penale; in certi contesti storici e sociali, il senso delle forme è tale da far 1 F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale (6a ed., 1886), il Mulino, 2004, p. 64. 2 S. Satta, Il mistero del processo (1949), Adelphi, 1994, p. 16 e 28. 3 Lo racconta M. Nobili, Cosa si può rispondere all’invettiva di Robespierre contenuta nel discorso per la condanna a morte del re: “voi invocate le forme perché non avete principi”?, in Crit. dir., 1994, p. 67. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 3 05/09/23 2:54 PM 4 CAPITOLO I emergere anche un aspetto spettacolare e liturgico (un sinonimo di processo è “rito”, che viene da ritus, cerimonia): si pensi al dibattimento del processo accusatorio statunitense, che non per caso ha ispirato un cospicuo filone della cinematografia hollywoodiana; o, più vicine a noi, alle toghe indossate da magi- strati ed avvocati, che mostrano appunto un profilo cerimoniale: l’udienza è una «specie di sacra rappresentazione, colla sua liturgia e i suoi paramenti»4. Rispetto ai tempi del giudizio formulare romano, l’erosione della componente irrazionale del processo ha determinato un affievolimento del rigore delle forme; il risultato non dipende più soltanto dalla cura con cui i contendenti eseguono certe prescrizioni sacramentali; tuttavia, chi agisce nel processo tutt’ora sa di doverlo fare secondo tempi, modi, luoghi predeterminati. Questo profilo svela tratti comuni fra due fenomeni sotto altri aspetti distantissimi, il pro- cesso e il gioco: «il gioco è un “mondo altro”, entrando nel quale si lasciano da parte le regole e i comportamenti della vita “reale” per adottare regole e comportamenti diversi e artificiosi. Ci si muove in uno spazio delimitato. Si computa il tempo in modo diverso. Si cambia identità, tal- volta si indossa un costume speciale. Si parla una lingua almeno parzialmente diversa da quella comune. I giocatori sono consapevoli di questa mutazione antropologica e della sua artificiosità. Lo stesso si può dire per gli operatori del processo. Il passaggio dall’uno all’altro mondo può essere segnato dall’uso di formule o di gesti magici o rituali. Il fischio d’inizio e quello di chiusura della partita, il colpo di pistola che dà il via alla corsa, l’“udienza è aperta”, l’“udienza è tolta”»5. Ma a cosa servono, nel processo, regole e forme? Capirlo significa acco- starsi al cuore della nostra materia. Un primo scopo è legato al significato etimologico del termine processo: processus evoca l’idea d’una via, d’un cammino, d’un avanzamento; i processi sono successioni di atti che si snodano da uno stato iniziale di dubbio e mar- ciano verso uno stato di (relativa) certezza; sono «macchine retrospettive miranti a stabilire se qualcosa sia avvenuto e chi l’abbia causato»6. Regole e forme mirano anzitutto a questo: a guidare, aiutare, indirizzare un percorso di conoscenza. Per vero, non sono mancate prese di posizione volte a negare che nel processo si possa raggiungere la verità dei fatti: a volte si riallacciano a più ampie elaborazioni filosofiche radical- mente scettiche intorno alla conoscibilità del reale; in altri casi si tratta di costruzioni calibrate specificamente sugli scopi del processo, che, in queste prospettive, punterebbe semplicemente alla “risoluzione d’un conflitto”, ossia a raggiungere l’assetto d’interessi più soddisfacente per l’ambiente sociale in cui il conflitto è sorto (uno scopo in vista del quale la ricerca della verità non è necessaria e potrebbe addirittura essere controproducente)7. Si tratta tuttavia di opinioni che non ricevono molti consensi, se non altro perché l’idea della ricerca della verità non può essere abbandonata da chi valuti il fenomeno processuale non soltanto in termini d’efficienza, ossia come strumento di pacificazione sociale, ma anche come meccanismo deputato a produrre decisioni giuste: la giustizia della decisione è un attributo difficilmente separabile dalla verità dell’accertamento in essa contenuto8. 4 P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato (4a ed., 1959), Ponte alle grazie, 7a ristampa, 2010, p. 305. 5 B. Cavallone, Il processo come gioco, in Riv. dir. proc., 2016, p. 1557 s. 6 F. Cordero, Procedura penale, 9a ed., Giuffrè, 2012, p. 568. 7 L’impostazione è analizzata in M.R. Damaška, I volti della giustizia e del potere (1986), trad. it., il Mulino, 2000, p. 158 s. e p. 337 s. 8 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Giuffrè, 1993, p. 7 s. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 4 05/09/23 2:54 PM SFONDI 5 Una cospicua parte delle attività che vengono compiute sul teatro del processo si presta ad essere interpretata proprio in questa chiave: «le parti che hanno agito, coloro che si sono trovati attorno all’azione o nelle situazioni obiettive derivate dall’azione, o testimoni delle modificazioni che l’azione come un piccolo esplosivo ha portato nella realtà, i tecnici che sono compe- tenti a giudicare di queste situazioni e modificazioni, i giuristi che hanno la capacità di esprimere in modo riflesso e razionale le pretese e le difese imme- diate delle parti e degli imputati; gli ausiliari che assistono il giudice in questo raccogliere tutte queste cose e questi elementi, il giudice stesso, non sono altro che persone le quali si fermano a ripensare quello che è già stato […], a fermare e a rivivere il già vissuto». Ed è un obiettivo ambizioso: c’è «qualche cosa di magico nel processo: un far ricomparire presente quello che è passato, un far tornare immediato quello che è sparito nella sua immediatezza, un far ripresentare vivi sentimenti che sono spenti, e insieme, più singolare ancora, far tornare integra una situazione che si è scomposta»9. Su questo punto occorre intendersi: al termine del giudizio, quando l’imputato viene dichiarato innocente o colpevole del reato che gli è stato attribuito, il giudice s’esprime in termini di certezza; ma si tratta d’una con- venzione: la certezza, la conoscenza assoluta, sono traguardi ideali, ai quali si può tentare d’avvicinarsi ma che non verranno mai pienamente raggiunti. L’unica conoscenza alla quale si può aspirare è approssimativa, contingente. La verità processuale non può infatti essere affermata sulla base di un’osservazione diretta (il reato, come si diceva, è un evento passato); vi si perviene sulla base di “segni” che sono stati lasciati nel presente da quel fatto ormai trascorso: questi «eventi presenti […] interpretabili come segni di eventi passati», sono le prove10. Sennonché, la prova non è mai l’oggettiva e fedele rappresentazione d’un fatto nudo e crudo: per arrivare dal fatto probatorio del presente al fatto del passato, il giudice deve compiere un’illazione; e in quest’illazione (normal- mente, in ogni processo se ne fanno tante) s’annida il rischio dell’errore. Qualcosa di simile, del resto, potrebbe essere detto persino per le teorie scientifiche: per quanto ampiamente condivise, non si può mai escludere con certezza che contengano proposi- zioni false; la storia della scienza è anzi la storia d’un susseguirsi di errori, di nuove teorie che scalzano quelle precedenti e che forniscono un’ipotesi di spiegazione del reale a sua volta vera solo provvisoriamente. La relatività della conoscenza è un dato indiscusso dell’epistemologica contemporanea: la sola verità alla quale si possa aspirare è una verità umana, come tale neces- sariamente «parziale e (o) relativa, concretamente (storicamente) condizionata, ed implica limitazioni e scelte, compiute più o meno coscientemente. E dentro tale limite si mantiene, sia che si tratti di verità scientifica, empirica o storica»11. 9 G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità (1950), in Opere, vol. V, Giuffrè, 1959, p. 57 s. 10 L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Laterza, 1996, p. 26. 11 S. Pugliatti, voce Conoscenza, in Enc. dir., vol. IX, Giuffrè, 1961, p. 13. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 5 05/09/23 2:54 PM 6 CAPITOLO I Tutto ciò non sminuisce l’importanza delle regole; al contrario: proprio a causa dell’ineliminabile fragilità della conoscenza giudiziaria (della cono- scenza umana in generale), è importante che il giudice pervenga al momento della decisione seguendo tutte le mediazioni del processo, attraverso le cui forme e modi la ricerca deve passare; garantire la via della ricerca è l’unico modo per garantire il risultato. Una definizione magnifica mette in luce questi tratti: il processo è una «ricerca ordinata […] di verità»12; e l’attività del giudice, dal canto suo, sotto alcuni aspetti ricorda quella dello storico: «per riportarsi in mente come pre- senti i fatti ormai dileguati nel passato, dovranno entrambi, lo storico e il giudice, nella impossibilità di osservarli direttamente, servirsi dei documenti e delle testimonianze, e compiere su questi lo stesso lavoro di coordinazione e di interpretazione, quello che dai processualisti è chiamato la “valutazione del materiale probatorio” e dagli storici la euristica o “critica delle fonti”, ma che in sostanza mira nello stesso modo, qua e là, a scegliere le informazioni più attendibili e a scoprire le falsificazioni»13. Però regole e forme non hanno soltanto questo scopo; c’è una seconda anima. Il processo si distingue da altre forme di conoscenza soprattutto per- ché implica l’uso della forza. Per evidenti ragioni, il delitto è una entità che tende a rimanere nascosta; per vincere questa resistenza, è necessario che il processo eserciti violenza. Ed infatti, pressoché ad ogni passo, il processo penale macina diritti e compie azioni che, effettuate altrove, sarebbero reato: il processo penale denuda (ispezione personale); palpa (perquisizione per- sonale); scruta dentro le abitazioni (ispezione domiciliare); le mette a soq- quadro (perquisizione domiciliare); porta via cose (sequestro); ascolta di nascosto telefonate o conversazioni vis-à-vis (intercettazione telefonica o ambientale); pedina, anche per mesi, con precisione millimetrica (localiz- zazione satellitare); piazza videocamere occulte, persino nei rispostigli più intimi, camere da letto, bagni di locali pubblici (riprese visive); sposta indivi- dui altrove (accompagnamento coattivo); tiene in galera imputati forse col- pevoli, forse innocenti (custodia cautelare): «il processo è pena»14. L’esempio delle ispezioni segnala grandi distanze dal processo civile: in quest’ultimo, se una parte, destinataria d’un ordine d’ispezione, rifiuta, il giudice può desumerne argomenti di prova; se rifiuta un terzo, il giudice lo può condannare ad una pena pecuniaria (art. 118, commi 2 e 3, c.p.c.). Nel 12 G. Capograssi, Giudizio processo scienza verità, cit., p. 73. 13 P. Calamandrei, Il giudice e lo storico (1939), in Opere giuridiche, vol. I, Roma Tre-Press, 2019, p. 394 s. 14 F. Carnelutti, Pena e processo, in Riv. dir. proc., 1952, p. 166. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 6 05/09/23 2:54 PM SFONDI 7 processo penale, in entrambi i casi, il magistrato ordina di forzare la serratura ed entrare. Dunque il processo penale non infligge sofferenza soltanto “dopo”, alla fine, quando e se perviene ad una pronuncia di colpevolezza; lo fa anche prima, lo fa “durante”. Di qui una seconda funzione delle regole, che mirano ad imbrigliare l’uso della forza, stabilendo dove, come, quando possa legitti- mamente esplicarsi; in questo modo le regole tracciano un limite all’autorità e al potere soverchiante dello Stato, scongiurando o almeno riducendo il peri- colo dell’arbitrio e della sopraffazione: «intuito degli ordinamenti procedu- rali – scriveva Francesco Carrara – è di frenare la violenza dei magistrati»15. Qui la differenza fra il giudice e lo storico è enorme. Cade tuttavia in un eccesso chi si spinge a dire che «l’attività dello storico è libera, mentre quella del giudice è vincolata da regole»16. In realtà, anche lo storico (o lo scienziato) operano in un contesto sociale; anche loro subiscono limiti e vincoli (giuridici, etici, economici) che di fatto possono ostacolarne l’indagine; la differenza non è di genere ma di grado. Ad ogni modo, non c’è dubbio che la regolamentazione della ricerca sul fatto sia il tratto eminente dell’inda- gine che si compie nel processo. L’importanza su questo fronte delle regole processuali è dimostrata dall’analisi storica: nei più significativi rivolgimenti sociali, quando s’è voluto incidere sul sistema penale com- plessivamente considerato, in senso liberale (attenuandone cioè il rigore) o autoritario (accen- tuandolo), s’è cominciato con l’operare non sul diritto sostanziale ma appunto sul processo; due esempi vistosi sono offerti, da una parte, dai rinnovamenti effettuati dopo la rivoluzione francese, quando venne introdotto nel continente un processo totalmente nuovo, una delle forme più pure di processo accusatorio che si sia storicamente realizzata; dall’altra, dai processi imbastiti nella società sovietica nata dalla rivoluzione d’ottobre, nel nome di quella “coscienza popolare” concepita quale unico parametro del giudizio deputato ai “tribunali del popolo”. Due anime quindi, due scopi delle regole di procedura penale; in che rapporto stanno l’una con l’altra? Un rapporto tormentato e problematico. In certi casi, esse cooperano. Per esempio, quando l’art. 526 comma 1 bis stabilisce che «la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontaria- mente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore», lo fa perché vuole tener conto della dignità dell’imputato, trattarlo come un cit- tadino libero, che ha diritto d’essere ascoltato, di far valere le sue ragioni, di guardare in faccia chi lo accusa e di fargli domande. Ma lo fa anche perché ritiene che ciò sia utile per raggiungere la verità; perché pensa che sia più agevole scoprire cos’è accaduto se si lascia spazio alle ragioni di chi accusa e a quelle di chi si difende; perché considera la verità una specie di oggetto che viene davvero compreso solo se gli si gira attorno, se lo si guarda da varie prospettive, fino a scoprirne le tre dimensioni17. 15 F. Carrara, Del giudizio criminale, cit., p. 75. 16 Così P. Tonini-C. Conti, Il diritto delle prove penali, 2a ed., Giuffrè, 2014, p. 160 s.; v. anche P. Tonini-C. Conti, Manuale di procedura penale, 24a ed., Giuffrè, 2023, p. 285. 17 P. Calamandrei, La dialetticità del processo (1954), in Opere giuridiche, vol. I, cit., p. 682. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 7 05/09/23 2:54 PM 8 CAPITOLO I Ma le cose non vanno sempre così: c’è una specie di intima contraddi- zione nella procedura penale, e la contraddizione deriva dal fatto che spesso quelle due anime confliggono, perché una porta a disseminare ostacoli sul sentiero della ricerca. Pensiamo – ma gli esempi potrebbero essere tanti – alla disposizione che vieta di disporre intercettazioni quando il procedimento verte su un reato che non raggiunge certi livelli di gravità (art. 266); ecco un precetto che boi- cotta l’accertamento dei reati, lo rende più difficile. Possiamo così comprendere le ragioni d’un apparente paradosso: il pro- cesso è un meccanismo di conoscenza; eppure, larghe parti del codice esi- biscono una «struttura […] intrinsecamente antiepistemica»18; i codici di procedura sono «una filza di norme regolamentari che intralciano l’azione più di quanto non l’assistano nel suo svolgimento»19. Possiamo comprendere perché esponenti della Scuola classica avessero elaborato la cosiddetta “teoria dualistica” del processo20, secondo la quale la procedura penale punta a “due contrari estremi”: scoprire i reati; farlo adoperando strumenti civili, o meno incivili possibile. La ricerca d’un punto d’equilibrio fra le due finalità è in effetti il problema principale della legisla- zione processuale. Possiamo comprendere, infine, perché il codice vigente scansi la parola «verità»; la adopera poche volte e sempre con riguardo a soggetti che non governano il processo: l’interprete (art. 146 comma 2), il perito (art. 226 comma 1), il testimone (artt. 198 comma 1 e 497 comma 2). Invece, le dispo- sizioni che attribuivano esplicitamente al giudice il compito di ricercare la verità sono state cambiate nel passaggio dal progetto preliminare al testo definitivo, in favore di formule più caute (così, nell’art. 506 comma 1, il potere del giudice dibattimentale di sollecitare un ampliamento dei temi di prova toccati nell’esame d’una parte o d’un testimone non è più finalizzato «alla ricerca della verità» ma alla «completezza dell’esame»; dal canto suo, l’art. 189 prevede che il giudice possa ammettere una prova atipica non più se «idonea ad assicurare l’accertamento della verità» bensì se «idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti»). In queste scelte normative si sente l’eco degli abusi che il traguardo della ricerca della verità ad ogni costo ha storica- mente provocato. La relazione dialettica fra i “due contrari estremi” perseguiti dalle regole processuali ha portato a due conflitti, che segnano la storia della procedura penale degli ultimi decenni. Il primo è un conflitto che possiamo chiamare 18 F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 612. 19 S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 30. 20 Riferimenti in M. Nobili, Introduzione, in F. Carrara, Del giudizio criminale, cit., p. 20 s. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 8 05/09/23 2:54 PM SFONDI 9 “sincronico” e che contrappone legislatore e magistratura: quest’ultima, nel processo penale, non di rado tiene atteggiamenti esasperatamente antifor- malistici, tende cioè ad aggirare le regole; il terreno delle invalidità (scaval- cate, ignorate, degradate da un regime di rilevazione “forte” ad uno “debole”, subordinate a requisiti estranei alla previsione legislativa…) offre l’esempio più evidente d’un fenomeno generale. Tutto ciò dipende proprio dal fatto che i giudici tendono a caricare sulle proprie spalle il peso dell’accertamento della verità, dimenticando la “seconda anima” delle regole. Questo conflitto è particolarmente forte oggi, perché, per varie cause sto- riche, s’è smarrito il senso del valore della legge, la quale viene anzi vista come il prodotto di classi politiche sospette e corrotte: ciò spinge alla ribel- lione verso di essa. Il secondo conflitto potrà essere chiamato “diacronico”, e non riguarda solo l’Italia. Ne possiamo anzi registrare un esempio eclatante nell’espe- rienza statunitense. Nei primi giorni del novembre 2001, in un momento drammatico della storia americana, quando la nazione era pervasa dall’insi- curezza, sui media s’è intavolata una tavola rotonda in cui si discuteva aper- tamente della legittimità della tortura per interrogare gli arrestati sospettati di essere legati ad Al Quaida. Aperto dal Wall Street Journal, il dibattito s’è subito esteso all’intelligencija di sinistra, per approdare infine a sedi scientifi- che, nelle quali è stata teorizzata l’opportunità di legittimare giuridicamente forme “controllate” di tortura21. S’arriva così a mettere in discussione uno dei pilastri delle democrazie liberali: l’intangibilità del corpo di chi subisce un procedimento penale. Fenomeni di questo tipo sono facilmente registrabili anche da noi, dove la storia della procedura penale segna un movimento a pendolo fra le ragioni dell’efficienza e quelle del garantismo, fra le ragioni dell’autorità e quelle della libertà. Piero Calamandrei ha scritto che il diritto processuale è «una fragile rete dalle cui maglie preme e a volte trabocca la realtà sociale»22: nei periodi di pace, tranquillità, coesione sociale, la rete tiene; nei periodi d’emer- genza, tracimano pulsioni autoritarie. È insomma una questione di prospettive: «Se esaminate le formalità della giustizia in relazione alla fatica che fa un cittadino per farsi restituire quello che è suo, o per ottenere soddisfazione di un’offesa, ne troverete senza dub- bio troppe. Se le considerate nel rapporto che hanno con la libertà e la sicu- rezza dei cittadini, ne troverete spesso troppo poche; e vedrete che le fatiche, 21 A.M. Dershowitz, Terrorismo, trad. it., Carocci, 2003. 22 P. Calamandrei, Diritto processuale e costume giudiziario (1952), in Opere giuridiche, vol. I, cit., p. 634. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 9 05/09/23 2:54 PM 10 CAPITOLO I le spese, le lungaggini, perfino i rischi della giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la propria libertà»23. Chi s’avvicina allo studio di questa materia, dovrebbe considerare come suo compito principale quello di guardare le regole che incontrerà, tutte le regole, dalla più potente enunciazione della presunzione d’innocenza dell’imputato sino alla più minuta fra le disposizioni sulle notificazioni, tenendo sempre pre- sente queste due esigenze: scoprire se un reato è stato compiuto e chi ne sia il responsabile; farlo sacrificando il meno possibile i diritti altrui. 2. - Diritto e processo In ambito penale, i nessi fra diritto sostanziale e processo sono più stretti che in altri settori dell’ordinamento. Nel diritto civile, in particolare, l’azione dei privati può da sola costituire, modificare o estinguere situazioni giuridi- che: per trasferire un diritto reale, per contrarre matrimonio, per concludere un contratto, per disporre d’un bene mortis causa, non è necessario l’inter- vento d’un giudice. Invece il diritto penale vive solo nel processo24: in forza del principio nulla poena sine iudicio, le conseguenze sanzionatore minac- ciate dalla fattispecie astratta possono essere irrogate concretamente solo all’esito d’un procedimento giurisdizionale; fuori dal processo, il penale è un diritto invisibile. Questo strettissimo collegamento fra diritto e processo è stato tradizional- mente descritto (spesso lo è ancora25) evocando l’idea d’una strumentalità: il processo avrebbe carattere ancillare rispetto al diritto sostanziale, ne sarebbe appunto uno strumento, perché servirebbe soltanto per applicare le sue norme. In realtà, il rapporto fra i due rami dell’ordinamento è più complicato. È vero che, senza una sentenza irrevocabile, la pena non può essere appli- cata (e in questo senso il processo può effettivamente essere concepito come uno strumento del diritto sostanziale). Ma prima che il giudicato arrivi, cioè durante tutto l’arco del procedimento, il rapporto è invertito: la fattispecie incriminatrice astratta si proietta sull’imputazione (cioè – adoperando per ora parole volutamente generiche e imprecise – sull’atto con cui il pubblico ministero incrimina un soggetto); nella concretezza del processo, «chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto» (art. 624 comma 1 c.p.), diventa: “Tizio, approfittando d’una momentanea distrazione di Caio, che aveva lasciato incustodito il suo smart- phone, modello Iphone14, del valore approssimativo di ottocento euro, sulla 23 C. De Secondat de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (1748), trad. it., 3a ed., Rizzoli, 1997, p. 223. 24 F. Carnelutti, Pena e processo, cit., p. 167 s. 25 P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 1. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 10 05/09/23 2:54 PM SFONDI 11 panchina dello spogliatoio della palestra Olimpia, sita in largo Augusto, 11, se ne impadroniva e scappava all’esterno; fatto commesso in Bologna, l’8 gen- naio 2021”. A sua volta l’imputazione fissa il tema del processo, con ricadute a cascata su una lunga serie d’istituti ulteriori (per menzionarne uno soltanto, le prove: saranno ammesse se mostrano una certa relazione con l’imputa- zione, respinte in caso contrario); qui è dunque il diritto penale sostanziale a servire e guidare il processo26. Da qualche decennio, l’idea del processo come servo del diritto sostanziale è perciò oggetto d’una rimeditazione; la dottrina più recente tende semmai a parlare di «strumentalità speculare»27 o «reciproca»28 fra diritto e processo. Occorre inoltre tenere presente che la abnorme dilatazione dei tempi della giustizia spinge la prospettiva d’una condanna verso un futuro lontano e incerto, scaricando sul processo le aspettative d’una pronta difesa sociale; e così gli istituti processuali di fatto non vengono usati soltanto come tappe d’un iter volto a raggiungere l’accertamento finale (dal quale soltanto potrà conseguire la punizione); diventano anche mezzi per placare l’allarme sociale cagionato dal reato, per condizionare i comportamenti e le ideologie della collettività; in altre parole, non sono soltanto strumenti per attuare il diritto penale bensì forme autonome di controllo sociale29. L’esempio più evidente è offerto dalla custodia cautelare, che nella prassi viene spesso adoperata (illegittimamente) come surrogato d’una sanzione che arriverà – se mai arri- verà – molto più tardi. È importante infine considerare che diritto e processo sono due com- ponenti inscindibili della politica criminale, tanto che spesso il legislatore interviene in uno dei due rami per ottenere effetti sull’altro o per risolvere problemi nati nell’altro o per aggirare garanzie tipiche dell’altro. Un filone emblematico di questi indirizzi è rappresentato dalle fattispecie incrimina- trici che vengono pensate e costruite in funzione del processo. L’esempio più ovvio viene dai reati contro l’amministrazione della giu- stizia, ma ce ne sono molti altri. Pensiamo ai reati di sospetto (come quello previsto dall’art. 707 c.p.): un determinato comportamento viene punito non perché sia in sé dannoso o pericoloso, ma perché lascia presumere l’avvenuta 26 T. Padovani, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 434; Id., Il diritto sostanziale e il processo, in Diritto e processo penale fra separazione accademica e dialettica applicativa, a cura di L. Foffani e R. Orlandi, Bononia University Press, 2016, p. 86. 27 F. Giunta, Legalità penale e poteri del processo, in Aa.Vv., Legge e potere nel processo penale, Cedam, 2017, p. 21. 28 G. Ubertis, Sistema di procedura penale, vol. I, Principi generali, 4a ed., Utet, 2017, p. 11. 29 M. Nobili, La disciplina costituzionale del processo, Lorenzini, 1976, p. 44 s.; Id., La procedura penale tra «dommatica» e sociologia: significato attuale di una vecchia polemica, in Quest. crim., 1977, p. 80 s. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 11 05/09/23 2:54 PM 12 CAPITOLO I o la futura commissione di altri reati, che non si è riusciti a dimostrare; in questi casi l’incriminazione punta a risolvere un problema processuale, una questione d’onere probatorio. Lo stesso vale per i delitti associativi, che nascono per liberare il pubblico ministero dall’onere di dimostrare la commissione del reato-scopo. In una prospettiva simile possiamo ricordare l’incriminazione del rifiuto d’un conducente di soffiare nell’etilometro (art. 186 comma 7 c. strada); il principio nemo tenetur se detegere renderebbe sospetta una disposizione che forzasse l’imputato ad offrire la prova della sua responsabilità; ed allora, siccome non riesce a provare per questa via che il conducente è ubriaco, il legislatore disegna una fattispecie incriminatrice vicaria rispetto alla guida in stato d’ebrezza, punita con la stessa pena e che scatta appunto in caso di rifiuto di respirare nell’etilometro; anche qui, il reato viene costruito per risolvere una difficoltà processuale. Pensiamo infine ai casi, sempre più numerosi, in cui i livelli edittali d’una determinata fattispecie di diritto sostanziale vengono calibrati non già sull’effettivo disvalore del fatto bensì sugli effetti processuali che dalla soluzione prescelta deriveranno; accade infatti che il legislatore, quando introduce un nuovo reato, ne mantenga la pena al di sopra d’una certa soglia perché in questo modo sarà possibile disporre una misura cautelare coerci- tiva (art. 280) o un’intercettazione (art. 266); oppure sarà più difficile definire il processo con un patteggiamento (art. 444); e così via. Dal 1938, la procedura penale costituisce oggetto d’un insegnamento uni- versitario autonomo; fino ad allora (se si eccettua un effimero accorpamento alla procedura civile), le regole sul processo erano state un capitolo (di solito, un capitolo negletto30) interno alla teoria del diritto penale. Questa scissione ha avuto molte ricadute positive: ha permesso di appro- fondire i meccanismi del processo, di far crescere una scienza fino ad allora trascurata, di allevare generazioni di studiosi pronte a combattere per alcuni ideali; senza quella separazione, forse oggi i principi del giusto processo non figurerebbero nella Costituzione. Ma quell’emancipazione da un genitore ingombrante si trascina dietro anche un rischio: dimenticare il sistema, perdere di vista l’insieme. Sebbene sia difficile e faticoso, lo studente che si sta avvicinando ai principi della pro- cedura penale dovrebbe cercare di fronteggiare il rischio tenendo vive den- tro di sé, quanto più possibile, le nozioni apprese con lo studio del diritto penale sostanziale. 30 F. Cordero, Guida alla procedura penale, Utet, 1986, p. 4 s.; F. Carnelutti, La malattia del processo penale italiano, in Riv. dir. proc., 1962, p. 1; M. Pisani, L’autonomia didattica della procedura penale in Italia, in Ind. pen., 1967, p. 131 s. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 12 05/09/23 2:54 PM SFONDI 13 3. - Diritto processuale penale e procedura penale Sia nella legislazione sia nella letteratura scientifica, la materia che stiamo presentando oscilla fra due denominazioni: “diritto processuale penale” e “procedura penale”. Le formule si somigliano, ma non dicono esattamente la stessa cosa. Da una parte, “procedura” mette l’accento su un cammino, un percorso, un’attività, mentre “diritto” evoca un mondo di valori, limiti, esigenze da salvaguardare; la prima in qualche misura evoca un «processo deteriore»31, la “processura” a cui erano rivolte le trattazioni dei secoli andati, lo stru- mento malleabile affidato all’onnipotenza dell’inquisitore; il secondo allude ad un congegno preciso, regolato, che incontra limiti effettivi, rappresentati appunto dai diritti. Dall’altra parte, il diritto processuale penale è una branca del sapere che studia, con metodo tecnico, un fenomeno normativo, ossia la regolamenta- zione legale alla quale soggiace l’attività del ius dicere in materia criminale; non tanto il processo dunque, quanto le norme che regolano il processo. Ma «esistono un diritto libresco e uno vivo, attuato da quanti esercitano i rela- tivi poteri»32, e di quest’ultimo si occupa la procedura: essa cioè analizza un fenomeno sociale, non solo normativo; un fenomeno fatto anche di prassi, strutture, assetti ordinamentali, opinioni legate al diritto, ideologie della magistratura e del singolo giudicante33. Da entrambi i punti di vista, procedura è un termine più completo34. Dal primo, non c’è dubbio che distanze siderali separino il processo odierno dagli incubi sei o settecenteschi; eppure, la legge processuale è ancor oggi esposta al rischio d’essere vissuta come un intralcio, un intoppo inutilmente forma- listico, posto al servizio d’interessi trascurabili; larghi settori della magistra- tura mostrano compiacenza verso l’idea d’un diritto “minore”, suscettibile d’essere manipolato senza tanti riguardi. È un atteggiamento che uno dei più illustri studiosi della materia ha descritto mirabilmente: «nella scala tecnica del discorso giurisprudenziale la procedura sta all’ultimo posto; il tasso di fallibilità tocca soglie allarmanti: lo speculum annovera letture spericolate, evasioni sintattiche, massime elusive»35. Dal secondo punto di vista, è importante che lo studente, al quale soprat- tutto questo manuale è destinato, tenga presente che i testi delle leggi gli 31 S. Satta, citato da G. Conso, in M. Gallo-G. Conso, Istituzioni di diritto e procedura penale, vol. II, Procedura penale, Giuffrè, 1964, p. 3. 32 F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 5. 33 M. Nobili, La disciplina costituzionale del processo, cit., p. 15 s. 34 Contra, M. Pisani, Procedura penale: itinerari dell’autonomia didattica, in Riv. dir. proc., 1998, p. 1171. 35 F. Cordero, Guida alla procedura penale, cit., p. 6. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 13 05/09/23 2:54 PM 14 CAPITOLO I offrono una raffigurazione parziale, perché il processo, ogni processo, è pro- dotto dalle disposizioni ma anche da uomini in carne e ossa, da ideologie, ambizioni, corpi che premono, media che condizionano, prassi, legittime, discutibili o devianti, tattiche, strategie, trabocchetti, trattative, ricatti, poteri e abusi di potere36; il processo, ogni processo, è diritto ma non è soltanto diritto; è anche procedura. 36 P. Calamandrei, Il processo come giuoco (1950), in Studi sul processo civile, vol. VI, Cedam, 1957, p. 43 s.; Id., Diritto processuale e costume giudiziario, cit., p. 625 s. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 14 05/09/23 2:54 PM CAPITOLO II MODELLI E CONCEZIONI SEZIONE I MATRICI STORICHE E CULTURALI Sommario: 1. La persistente vitalità dell’antitesi tra modello accusatorio e inquisitorio del pro- cesso penale. – 2. Genealogie culturali del processo penale moderno: la contrapposizione di origine illuminista tra modello accusatorio e archetipo inquisitorio. – 2.1. L’ideale accusatorio e la legalità del processo a difesa dell’innocenza dell’imputato. – 3. La legislazione del periodo postrivoluzionario e il compromesso della codificazione napoleonica. – 4. Scuola “classica” vs. scuola positiva. – 5. L’autoritarismo del codice processuale fascista. 1. - La persistente vitalità dell’antitesi tra modello accusatorio e inquisitorio del processo penale Al fine di scandagliare i problemi ‘eterni’ del processo penale ogni epoca storica elabora e adotta proprie categorie di riferimento, individuando volta a volta soluzioni differenti. Le une e le altre sono espressione di un insieme di presupposti politici, istanze culturali, indirizzi di metodo necessariamente condizionati dall’assetto normativo vigente, metabolizzato anche solo per creare le premesse del suo superamento. Il criterio di classificazione di gran lunga più diffuso e longevo punta sull’antitesi tra modello accusatorio e configurazione inquisitoria del processo penale. Per la nostra disciplina giuridica in generale, e alla luce delle vicissi- tudini riguardanti la giustizia penale italiana in particolare, la sua importanza è addirittura monumentale. Tenteremo di spiegare perché, sebbene logorata dall’impiego ripetuto in forma di stereotipo, quella opposizione di termini conservi efficacia sia connotativa del fenomeno processuale osservato, espri- mendo un preciso giudizio di valore; sia prescrittiva, in vista cioè delle prin- cipali opzioni di sistema: tanto di natura interpretativa rispetto alle norme esistenti, quanto rivolte al rinnovamento legislativo. Ciò rende ancora pre- feribile ad altre tassonomie la classica bipartizione delle forme processuali © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 15 05/09/23 2:54 PM 16 CAPITOLO II in accusatoria e inquisitoria; a patto però di recuperarne lo spirito autentico dall’esperienza storica, la più lontana come pure quella molto prossima a noi. Soltanto un cenno meritano perciò alcune distinzioni alternative, benché senza dubbio anch’esse contribuiscano in varia misura a mettere a fuoco tendenze complessive o singoli profili salienti dei diversi sistemi di giustizia penale, specie nell’ottica della loro comparazione sincronica e diacronica. Notevole fortuna ha avuto in particolare la dicotomia tra crime control e due process1: da un lato, l’esigenza di una efficiente attività di repressione dei reati; dall’altro, il valore delle garanzie procedurali a protezione di chi è accusato d’avere commesso un illecito penale. A questa schematizzazione si obietta che i due interessi, presentati in reciproco e dia- metrale contrasto, non sono necessariamente inconciliabili, potendosi realizzare il primo senza sacrificare oltre misura il secondo2. Più radicalmente se ne contesta la correttezza teorica, in quanto a venire comparate sono a ben vedere due entità disomogenee: il crime control è uno ‘scopo’ di politica criminale, mentre la formula del due process designa un ‘metodo’ (solidale alla posizione dell’imputato) di amministrazione della giustizia. Non poca influenza ha esercitato pure l’analisi – ispirata alla teoria weberiana – basata sulle implicazioni processuali derivanti dal modello di organizzazione istituzionale dello Stato, a seconda che quest’ultimo sia di tipo ‘gerarchico’ (retto su magistrati di professione, burocrati di apparato vincolati a criteri decisionali di natura tecnocratica e, segnatamente, improntati al legalismo logico) o ‘paritario’ (dove il potere è distribuito orizzontalmente tra funzionari laici e di nomina temporanea, inclini all’avversione per i canoni formali nella soluzione dei casi e favorevoli piuttosto all’uso del senso comune o della prudenza). Alla struttura del primo genere si addice una fisionomia di processo articolata in una pluralità di stadi progressivi e ascendenti (successione di fasi; gradi di impugnazione della sentenza), dominata dal senso dell’indagine, della ricerca mirata a raggiungere risultati accurati da trasfondere negli incartamenti che pas- sano dall’uno all’altro organo e protesa ad attuare le scelte politiche dello Stato; vi si staglia la figura del giudice, munito di un ruolo attivo nell’accertamento del fatto. Caratteristiche simili vengono riscontrate prevalentemente nei sistemi giuridici della tradizione continentale. Gli ordinamenti del secondo genere affidano invece al processo il compito di risolvere conflitti interindividuali; viene qui privilegiata la morfologia dello scontro tra le parti, che godono di autonomia nel disporre degli interessi in contesa coerentemente con l’etica del laissez-faire tipica dello Stato minimo. Il procedimento penale tende dunque a concentrarsi in un’unica fase, identificandosi quasi con essa come ‘parte per il tutto’: il dibattimento (in inglese, trial), teatro della disputa tra due avversari di fronte ad un arbitro (il giudice o, meglio ancora, la giuria composta di cittadini) in posizione passiva, il cui principale dovere consiste nel raggiungere un verdetto. Non è difficile riconoscere in questa descrizione l’immagine tramandata dello stile adversarial di matrice angloamericana, incentrato appunto sulla fase del trial. Le principali critiche mosse alla prospettiva in questione sono, per un verso, di privilegiare soltanto uno dei fattori (quello, sia pure importante, dell’organizzazione del potere statuale) che fanno da sfondo ai diversi ordinamenti processuali penali, trascurandone di altrettanto fondamentali (in particolare, gli aspetti culturali riconducibili alle idee e agli atteggiamenti di natura storico- filosofica o socio-psicologica)3; per altro verso, di fornire un ritratto naif delle contrapposte ideologie, estremizzandone i connotati4; infine, di attribuire alla dinamica del conflitto, eletta a caratteristica saliente dei sistemi ‘paritari’, protagonisti diversi da quelli messi all’opera dal liberalismo classico di ascendenza anglosassone cui ci si vorrebbe riferire (quello che procede dal pensiero di Locke) nel campo della giustizia penale, dove i termini frontalmente contrap- posti sono l’individuo, da un lato, e la pubblica autorità potenziale prevaricatrice dei suoi diritti garantiti mediante il contratto sociale, dall’altro. 1 H.L. Packer, The Limits of the Criminal Sanction, Stanford, 1968. 2 G. Illuminati, voce Accusatorio ed inquisitorio (sistema), in Enc. giur. Treccani, vol. I, 1988, p. 5. 3 L’impostazione di M.R. Damaška, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo (1986), trad. it., il Mulino, 1991, è criticata da T. Hörnle, Unterschiede zwischen Strafverfah- rensordnungen und ihre kulturellen Hintergründe, in ZStW, 2005, p. 805-806. 4 R. Vogler, A World View of Criminal Justice, Ashgate, 2005, p. 10. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 16 05/09/23 2:54 PM MODELLI E CONCEZIONI 17 Talvolta si è preferito abbandonare i dualismi per proporre paradigmi più articolati. Di qualche interesse è la tripartizione correlata alle differenti modalità di organizzazione sociale, debitrice di categorie evolutive della civiltà sedimentatesi nell’esperienza tedesca a partire dalla metà dell’Ottocento5. Rispettivamente, alla Gemeinschaft (termine che indica la comunità di persone legate da valori culturali, etici, religiosi) corrisponde la forma popolare di giustizia a partecipazione diretta dei portatori del conflitto, che viene risolto dai ‘pari’; la Gesellschaft (la società basata sulla legge e gli accordi razionali di mutuo consenso) introduce nel confronto tra le opposte ragioni i professionisti della difesa (gli avvocati) ed esalta perciò il modello agonistico tecnicamente evoluto (adversarial); nelle strutture burocratico-­amministrative dominate dallo Stato, infine, prevalgono gli agenti ufficiali di quest’ultimo, vale a dire i giudici funzionari di car- riera, i pubblici ministeri e la polizia, sicché la giustizia penale finisce con l’assumere una postura inquisitoria, nel senso di rendersi interprete degli obiettivi propri del potere politico. Bisogna premettere che l’utilità dello schema tradizionale sopra indi- cato è oggi controversa e, talvolta, apertamente negata; parte della dottrina è disposta a riconoscergli al massimo un rilievo puramente didascalico6: vec- chio arnese polveroso servito a nobili cause, ma incapace di stare al passo con i tempi. Specie nell’ottica dell’armonizzazione europea, l’antinomia tra accu- satorio e inquisitorio appare destinata a svanire proprio perché ad essere perseguito è l’avvicinamento tra i diversi sistemi penali degli Stati membri, la loro reciproca contaminazione (qualcuno parla di «meticciato»)7; sembra dunque fatale che l’evoluzione verso la mescolanza di stili processuali offu- schi le distinzioni nette rendendo inservibili e neppure desiderabili categorie in grado di creare ostacoli alla comunione di intenti. Sullo sfondo rimane poi sempre desta una critica risalente: che la contrapposizione del processo di carattere accusatorio a quello di natura inquisitoria sia in verità artifi- ciosa, frutto com’è di astrazione operata ricavando la fisionomia idealtipica dell’uno e dell’altro dalla disciplina positiva di ordinamenti giuridici attuali o di epoche passate8. Così, negli ultimi anni ha preso rapidamente piede la tendenza ad orien- tarsi piuttosto secondo le coordinate unificanti desumibili da formule sinte- tiche, a struttura semantica aperta e ad elevata intensità etica come fairness o équité, la cui destinazione a qualificare il processo è peculiare delle Carte internazionali dei diritti9. Formule a loro volta echeggiate – conviene antici- parlo – dall’art. 111 comma 1 della nostra Costituzione; la disposizione di prin- cipio introdotta alle soglie di questo secolo (l. cost. 23 novembre 1999, n. 2), pretende infatti che la giurisdizione si attui mediante il «giusto» processo: 5 R. Vogler, A World View, cit., p. 11 ss. 6 G. Ubertis, voce Giusto processo (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Annali II, tomo I, Giuffrè, 2008, p. 421. 7 K. Lüderessen, Overview of Different Types of Procedure from a German Point of View, in Strafjustiz im Spannungsfeld von Effizienz und Fairness, a cura di A. Eser e C. Rabenstein, Duncker­ &Humblot, 2004, p. 21. 8 G. Illuminati, voce Accusatorio, cit., p. 1. 9 M. Chiavario, Art. 6 C.e.d.u., in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole-B. Conforti-G. Raimondi, Cedam, 2001, p. 189. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 17 05/09/23 2:54 PM 18 CAPITOLO II espressione non identica, ma ritenuta assimilabile – a torto o a ragione – a quelle di fonte convenzionale dagli stessi suoi compilatori e da una copiosa letteratura in materia10. L’idea di fair trial o fair hearing – intraducibile fedelmente nel nostro linguaggio – non appartiene alla tradizione giuridica continentale e vi è stata inoculata attraverso gli artt. 6 C.e.d.u. e 14 del Patto int. dir. civ. e pol. Almeno agli esordi, ossia nel secondo dopoguerra, l’ispi- razione ad essa delle fonti sopranazionali voleva cogliere i tratti fondamentali della giustizia penale più tipici dell’esperienza anglosassone, rimasta al riparo dalle derive autoritarie o tota- litarie del primo Novecento. Precisamente, se non la struttura, ad essere evocato era quanto- meno l’orizzonte culturale proprio dell’adversary system, imperniato sulla fase del dibattimento (trial) ove le parti si confrontano in modo diretto presentando contestualmente al giudice (più paradigmaticamente, alla giuria popolare) le rispettive ragioni11. La scelta era dunque solidale ad una precisa visione antropologica e politica: in premessa, il ripudio della supremazia assoluta e aprioristica dell’interesse pubblico nello svolgimento del processo, predominio sgorgato dalla concezione organicista della immedesimazione tra i singoli e la collettività impersonata dallo Stato; per conseguenza, la fissazione del nuovo baricentro del processo nella tutela della persona gravata dall’accusa penale. Coerentemente alla ripresa dell’afflato umanistico e giusnaturali- stico seguito agli orrori del nazi-fascismo12, l’accusato tornava così ad essere titolare del diritto originario di resistere all’attacco portatogli dall’autorità incaricata del perseguimento penale: tecnicamente, di dispiegare appieno le prerogative della difesa, conculcate nell’esperienza dei regimi dittatoriali. C’è insomma, inscritta nel concetto genuino di fairness processuale, specie se associato alla componente del trial, la limpida garanzia per l’individuo della contesa ad armi pari con l’accusa, poiché affrontata secondo regole del gioco improntate a correttezza, lealtà ed equilibrio tra le parti. Ma, proprio se si guarda all’esigenza di mantenere equilibrato il conflitto di posizioni (giammai di risolverlo eticamente in una superiore unità), vi è implicita anche una ben determinata opzione ideologica, una specifica gerarchia di valori: quella discendente dal liberalismo ‘classico’ che diffida in partenza dell’entità ‘Stato’, mira a contenerne la forza prevaricatrice e perciò a limitarne il potere anche – e soprattutto – nell’amministrazione della giustizia penale, a salvaguardia della preesistente autonomia dell’individuo. Il discorso assume intonazioni parzialmente diverse con l’omologo riferimento al procès équitable che compare nel testo in lingua francese del medesimo art. 6 C.e.d.u. Che il processo sia ‘equo’ implica l’idea dell’equilibrio tra le parti, del dovere del giudice di dare ascolto anche alle ragioni dell’accusato ad opera del giudice (secondo la massima latina audiatur et altera pars), della natura partecipativa e – in ultima istanza – democratica del procedimento13. Ne emerge però anche l’aspirazione – come vedremo, oggi assai in voga – ad una giustizia penale che, alla ricerca dell’equità, oltrepassi i confini chiusi della regolamentazione legale del procedimento. Perdendo la dimensione agonistica e la carica antagonistica legata alle radici storico-culturali di common law, senza che l’espressione rinvenga altrove un chiaro significato14, la clausola pat- tizia inclina verso quell’attitudine alla flessibilità che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha poi esaltato, attribuendo alla formula in esame la caratteristica funzione di mediare tra le differenti culture processuali dei Paesi aderenti alla Convenzione di Roma15. Ci si accorge, cioè, che quest’ultima non ha in verità canonizzato (né viceversa esplicitamente sconfessato) alcuno specifico modello di organizzazione del processo penale, prestandosi così a fungere da denomi- natore comune rispetto al «complesso mosaico» degli ordinamenti giuridici europei16. 10 Infra, cap. IV, § 1. 11 V. Fanchiotti, voce Processo penale nei paesi di common law, in Dig. pen., vol. X, Utet, 1995, 156 ss. 12 E. Amodio, Giusto processo, procès équitable e fair trial: la riscoperta del giusnaturalismo processuale in Europa, in Id., Processo penale, diritto europeo e common law. Dal rito inquisitorio al giusto processo, Giuffrè, 2003, p. 131 ss. 13 S. Guinchard, Vers une démocratie procédurale, in Justice, 1999, p. 103. 14 G. Conso, Costituzione e processo penale, Giuffrè, 1969, p. 88. 15 H. Jung, Der Grundsatz des fair trial in rechtvergleichender Sicht, in Verfahrensrecht am Ausgangs des 20. Jahrhunderts, a cura di H. Prütting e H. Rüssmann, Beck, 1997, p. 334. 16 T. Hörnle, Unterschiede zwischen Strafverfahrensordnungen, cit., p. 801 ss. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 18 05/09/23 2:54 PM MODELLI E CONCEZIONI 19 Va tuttavia segnalato un possibile difetto di prospettiva. L’appello alle nozioni elastiche di correttezza ed equità, per decifrare i connotati del pro- cesso penale e inquadrarne i complessi rapporti interni, finisce a ben vedere col risolversi nell’adesione alla logica sfocata (altri direbbe «flou»17) che ispira l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo, organo giuri- sdizionale deputato ad interpretare e applicare l’art. 6 C.e.d.u. In assenza di solide elaborazioni sistematiche o dogmatiche, il ragionamento è orien- tato ad una sorta di «sincretismo pragmatico»18, ove il richiamo alla tutela dei diritti fondamentali assicurata dai principi (secondo la concezione idealistica, tendenti ad avere portata assoluta) si combina con l’attenzione specifica all’insieme di fattori coinvolti nel caso concreto (atteggiamento tipico del pensiero empirico, propenso invece a relativizzare il discorso sugli interessi). Deriva da questa fusione di linguaggi il criterio costante seguito dai giu- dici di Strasburgo nel verificare se determinati fatti, comportamenti, regole o decisioni vìolino il diritto della persona accusata ad un processo equo: in materia penale esso va garantito al massimo livello, essendo in gioco il bene supremo della libertà personale; ciò vale ad escludere interpretazioni restrittive della formula, ma il responso finale sul rispetto o l’inosservanza del principio dipende pur sempre dalla considerazione della singola vicenda processuale nella sua «globalità»19. A contare, in definitiva, è l’equilibrio del processo visto nella sua interezza; impostazione che dà al modo di intendere i rapporti processuali una conformazione non tanto binaria e rigida, com’è stato per lungo tempo, quanto poligonale e duttile. L’antitesi tra accusatorio e inquisitorio riflette per l’appunto la prima linea ricostruttiva: e vedremo le ragioni che consigliano di perpetuarla20. Calato nella questione circa l’identità strutturale del processo, l’approccio fluido implica invece che quest’ultimo sia sottoposto a bilanciamenti varia- bili tra le molteplici fasi che lo compongono o la miriade di aspetti qualifi- canti della sua disciplina: le carenze di garanzia per la posizione dell’accusato riscontrate negli uni possono essere compensate dal supplemento di tutela accordato in altri; il tutto imbastito sopra un’intelaiatura tenuta sempre aperta a soluzioni diversificate21. Questo significa anche concepire gli interessi 17 M. Delmas-Marty, Le flou du droit: Du code pénal aux droits de l’homme, Presses universi- taires de France, 1986. 18 J.-P. Costa, Il ragionamento giuridico della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. int. dir. uomo, 2000, p. 440. 19 Tra le tante, Corte e.d.u., dec., 6 novembre 2007, Hany c. Italia. 20 Infra, § 2. 21 Emblematica, Corte e.d.u., grande camera, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 19 05/09/23 2:54 PM 20 CAPITOLO II in conflitto, di cui sono titolari i vari soggetti sulla scena processuale (organi dello Stato, persona accusata, testimoni, vittime del reato) come entità volta a volta graduabili ai fini della reciproca composizione22. Variabili (i risultati dei bilanciamenti) e graduabili (i livelli di tutela dei molteplici interessi in gioco) nel senso che viene a mancare un ordine fisso, prestabilito di rapporti; una gerarchia di valori cristallizzata in regole determinate e vincolanti sulle quali la persona sottoposta al processo possa confidare in anticipo. Non è più l’accusato, o non è soltanto costui, del resto, il polo d’attrazione della disciplina processuale, la figura centrale al cui favore essa si volge priorita- riamente. Quando perciò si elegge a paradigma delle scelte sul processo una clau- sola generale come quella del fair trial o del procès équitable, occorre essere consapevoli del fatto che, insieme ai vecchi stilemi ritenuti ormai obsoleti23, si rischia di abbandonare un’intera costellazione assiologica. Precisamente, quella edificata dal pensiero liberale che contrappone l’individuo all’auto- rità dello Stato servendosi della dicotomia tra processo accusatorio e inqui- sitorio proprio per scolpire l’esistenza di tale irriducibile conflitto nelle due forme canoniche di sua manifestazione24: l’una orientata a vantaggio della libertà del singolo, l’altra disposta a sacrificarla per soddisfare finalità consi- derate superiori (semplificando, al momento: la ricerca della verità; la mas- sima repressione dei reati). Ciascun elemento dello schema possiede quindi un verso definito dalla reciproca simmetria, riconoscibile nell’antitesi. Non si può dire lo stesso della fairness e dell’équité; almeno per come trattati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, tali concetti ci si presentano nelle spo- glie di un amalgama di forze agglutinate, sviluppabili in infinite, estenuanti modulazioni. 2. - Genealogie culturali del processo penale moderno: la contrapposizione di origine illuminista tra modello accusatorio e archetipo inquisitorio Se accostiamo il processo penale come eminente problema politico- culturale, dell’indagine storica rileva non tanto la parata delle molteplici regolamentazioni giuridiche ricevute dal medesimo nel corso del tempo ed entro aree territoriali definite. Piuttosto, il punto di partenza va convenien- temente fissato nel maturarsi della consapevolezza che l’organizzazione del processo penale rappresenta – riprendendo un fortunato adagio – «l’indice 22 Corte e.d.u., 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi. 23 S. Buzzelli, voce Giusto processo, in Dig. pen., agg., vol. II, Utet, 2004, p. 357. 24 S. Tönnies, Fair trial oder Kann die Flucht in die Generalklausel gegen Kabinettsjustiz helfen?, in ZRP, 1990, f. 8, p. 294. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 20 05/09/23 2:54 PM MODELLI E CONCEZIONI 21 più sicuro» per misurare il «grado di civiltà e di politica libertà» riscontra- bile all’interno di ciascun ordinamento sociale25; un «sismografo» capace di registrare con la massima esattezza l’altalenante equilibrio tra le ragioni dell’individuo e le pretese della collettività che stanno alla base degli assetti costituzionali moderni26. Seguire questa linea di pensiero nel suo sviluppo fino a noi offrirebbe di per sé una pro- spettiva assai preziosa sul processo penale, utile ad intenderne le genealogie culturali che andranno messe a fuoco nel prosieguo. Quando l’immagine è ripresa da Luigi Lucchini, espo- nente del liberalismo penale tardo-ottocentesco, essa aveva già compiuto una nobile traietto- ria che scaturisce dal relativismo di Montesquieu, nel connettere la fisionomia del processo penale alle diverse forme di governo (monarchia, repubblica, dispotismo), non senza manife- stare chiare propensioni al riguardo: se la libertà politica consiste nella sicurezza del cittadino, la maggiore minaccia al sentimento di tranquillità proviene dalle accuse penali che vengano a costui rivolte; dunque, «dalla bontà delle leggi penali dipende principalmente la libertà del cittadino»27. Con Mario Pagano l’illuminismo più maturo perverrà a riconoscere nel processo penale «la custodia della libertà, la trinciera contro la prepotenza, l’indice certo della felicità nazionale»28. Il riferimento abbandona dunque ogni relativismo per assumere quella franca impostazione liberale che Francesco Carrara riprenderà quasi un secolo dopo scolpendo nella protezione dell’individuo presunto innocente lo scopo del processo penale29. È durante la prima metà dell’Ottocento che la questione comincia a strutturarsi per rela- zione alle nascenti categorie giuspubblicistiche. Carmignani considera incontestabile l’ope- rare di quanto definisce «principio politico», ossia l’influenza esercitata dal potere sovrano sul metodo del giudizio penale sicché le forme del processo esibiscono una «connessione strettissima» con il diritto pubblico dominante30. In area tedesca, parole quasi identiche usa Mittermaier affermando come il procedimento penale stia in intimo legame («steht in inni- ger Verbindung») con la Costituzione; ma evidenziando anche il rapporto con la «allgemeinen Ansicht des Volks» (la visione generale del ‘popolo’ nell’accezione del romanticismo germa- nico, che immerge organicamente la comunità nazionale in una peculiare tradizione storica intrisa di sentimenti profondi e condivisi). È quest’insieme di collegamenti a costituire il ‘prin- cipio superiore’ del processo penale31. Risultano allora chiare le parentele di quest’idea con quella poi affermatasi in virtù delle Costituzioni rigide del secondo dopoguerra e che riprenderemo a breve: l’essere il processo penale «diritto costituzionale applicato»32 («angewandtes Verfassungsrecht»33), cioè espressione immediata, palpabile delle garanzie di libertà riconosciute dalle Carte fondamentali. Senza dubbio tale conquista intellettuale è frutto dell’illuminismo; di quel periodo cruciale della storia, cioè, cui risalgono i fondamenti ideologici 25 L. Lucchini, Elementi di procedura penale, 2a ed., G. Barbera, 1899, p. 7. 26 C. Roxin, Strafverfahrensrecht, 25a ed., Beck, 1998, p. 9. 27 Ch. De S. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (1748), Utet, 2005, p. 321 (libro XII, cap. 2). 28 F.M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale (1787), il Mulino, 2010, p. 40. 29 F. Carrara, Il diritto penale e la procedura penale (1874), in Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale, il Mulino, 2004, p. 424 ss. 30 G. Carmignani, Teoria delle leggi di sicurezza sociale, vol. IV, Fratelli Nistri, 1832, p. 25 ss. 31 C.J.A. Mittermaier, Grundriß zu Vorlesungen über das Strafverfahren, Marcus, 1819, p. XVIII della Vorrede; p. 3. 32 M. Pisani, “Procedura” e “valori” nell’insegnamento del diritto processuale penale (1970), in Id., Introduzione al processo penale, Giuffrè, 1988, p. 24; G. Illuminati, Costituzione e processo penale, in Giur. it., 2008, p. 522. 33 W. Sax, Grundsätze der Strafrechtspflege, in Die Grundrechte, a cura di K.A. Bettermann-H. C. Nipperdey-U. Scheuner, vol. III-2, Duncker&Humblot, 1959, p. 966-967. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 21 05/09/23 2:54 PM 22 CAPITOLO II del sistema penale così come lo conosciamo, nel quale siamo vissuti finora e che preferiremmo non abbandonare34. La svolta si produce a partire dalla denuncia delle degenerazioni subite nella prassi dalle procedure straordinarie che la legislazione delle monarchie cinquecentesche aveva introdotto per accelerare il corso della giustizia a scopi repressivi, abbattendo le già ridotte opportunità della difesa nell’assetto regolare del rito inquisitorio35. Assistiamo all’esordio – certo, allora, in ambienti assai circoscritti come quelli dell’umanesimo: un autore per tutti, Pierre Ayrault, assai celebrato nel Settecento riformatore e ancora ben presente ai giuristi ottocenteschi – d’un filone speculativo fecondo, destinato alla massima fortuna due secoli più tardi: la riscoperta e la promozione del modello processuale accusatorio, presentato sotto sembianze idealizzate quale portato d’antica tradizione, esempio sommo d’equità e riflesso caratteristico dei diritti naturali dell’uomo36. Proprio nell’ambito della poderosa critica settecentesca contro le istitu- zioni dell’ancien régime assistiamo al perfezionarsi di una felice escogitazione polemica, destinata a segnare tutto il pensiero moderno sulla giustizia penale. La struttura inquisitoria del processo, impostasi su larga scala col trascorrere dei secoli, diviene bersaglio d’una serie di censure che ne demoliscono i pilastri. Formidabile l’attacco di Voltaire. La sua critica corrosiva delle istituzioni d’antico regime – segnatamente, l’Ordonnance criminelle emanata nel 1670 da Luigi XIV, erede d’una serie di grandi leggi dei sovrani cinquecenteschi – scalava l’intera procedura, vista in sé stessa e uni- tariamente quale trappola per l’innocente. La censura coinvolgeva il metodo scritto e segreto nella raccolta delle prove, le preclusioni all’assistenza dell’avvocato, sino a soffermarsi sul momento del confronto diretto tra accusato e testimoni, bensì previsto, ma di fatto relegato a mera formalità e lasciato per di più all’arbitrio del giudice; ne derivava la realistica rappre- sentazione di un congegno tale, insomma, da spaventare chiunque vi si trovasse immischiato, poiché destinato ineluttabilmente a soccombere37. L’operazione riesce tanto più efficace grazie all’abile espediente di opporre allo schema inquisitorio le soluzioni consonanti con i nuovi valori (garantisti e umanitari) trovate nel metodo accusatorio, il quale è raffigu- rato in radicale e luminosa alternativa all’esistente ben oltre quanto avrebbe autorizzato una disamina scrupolosa degli esempi storicamente realizzati addotti dai philosophes. Luogo comune, variamente approfondito a seconda degli autori, era da un lato il richiamo alle origini dell’accusatorio presso la tradizione classica e, in particolare, nel diritto romano di età repubblicana; dall’altro lo sguardo comparato all’esperienza inglese, cui si tributava ammi- razione per essere rimasta al riparo dai meccanismi inquisitori – labirintici e liberticidi – sviluppatisi invece sul continente. 34 M. Sbriccoli, Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa, a cura di M. Fioravanti, Laterza, 2002, p. 187 e nota 18. 35 G. Alessi, Il processo penale: profilo storico, Laterza, 2001, p. 78 ss. 36 Si veda, in proposito, E. Dezza, Accusa e inquisizione. Dal diritto comune ai codici moderni, vol. I, Giuffrè, 1989, p. 101-102. 37 Voltaire, Commentario sopra il libro Dei delitti e delle pene, testo aggiunto a C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. secondo l’ordine della traduzione francese, Società dei Filosofi, 1774, p. 158. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 22 05/09/23 2:54 PM MODELLI E CONCEZIONI 23 La storiografia è peraltro concorde nel ravvisare in simili riferimenti una tradizione lar- gamente «inventata» o comunque «idealizzata», sia perché metteva in luce solo taluni aspetti dei modelli evocati, deformandone altri ed occultando quelli sconvenienti; sia in quanto, sele- zionando a piacimento, tendeva ad ignorare le coerenze e le contraddizioni interne al sistema preso ad ispirazione38. Si trattava, in altre parole, di un uso retorico della storia, che ne riduceva la complessità proprio in funzione persuasiva. Lì nasce il modo divenuto anche nostro (s’intende: giuspolitico) di ragio- nare per antitesi di tipi ideali, declinando in contrappunto i caratteri paradig- matici di ciascuno di essi e organizzandoli sotto distinti ‘princìpi’ processuali. La compiuta riduzione delle differenti tipologie strutturali di processo ad una serie di prin- cipi costitutivi (Prozessmaximen o Prozessgrundsätze), tra loro correlati o posti in opposizione gli uni agli altri, si deve alla lunga elaborazione della dottrina tedesca nel corso dell’Ottocento. A partire dall’esperienza storica e dai concreti assetti delle legislazioni vigenti, vennero distil- lati concetti di sintesi ancora utili alla raffigurazione politica e giuridica del fenomeno proces- suale, con funzione chiarificatrice delle opzioni programmatiche, d’ausilio alla comprensione sistematica degli istituti e di chiave interpretativa delle singole norme regolatrici39. La bipartizione, con i margini di arbitrio e approssimazione propri di ogni schematismo, può essere utilmente sviluppata attorno ad alcune linee temati- che, strettamente intrecciate l’una all’altra. Così, il processo inquisitorio è identificato con l’inizio dell’indagine d’ufficio, spesso a seguito di delazioni anonime, unitamente al carattere segreto della stessa rispetto al sospettato e alla collettività. Gran peso eser- citano in questo modello i verbali che documentano le attività istruttorie svolte all’insaputa dell’interessato, ignaro dell’addebito che gli viene mosso, e senza alcun intervento o con partecipazione ridotta al minimo della difesa tecnica; la scrittura è dunque prevalente, poiché quei verbali influiscono sulla decisione finale sino a pregiudicarne l’esito. La posizione centrale è occupata dal giudice inquirente, che procede autonomamente alla ricerca e all’acquisi- zione delle prove, vincolato all’accertamento della verità (oggettiva, rivelata dall’evidenza40) da un sistema rigido, gerarchico di precetti legali nella valu- tazione probatoria e in funzione di questa abilitato alla tortura del sospettato (solitamente ristretto nella libertà) affinché confessi. In gran parte quest’archetipo si rifà al processo inquisitorio romano-canonico, nel quale confluiscono scelte del legislatore ecclesiastico e principi ordinatori desunti dalle fonti romanistiche. Diffusosi nell’Europa continentale fra XIII e XVI secolo, quel congegno giu- diziario era costruito per la persecuzione dell’eterodossia religiosa e dell’opposizione poli- tica radicale41. 38 G. Alessi, Il processo penale, cit., p. 82 ss. e 124 ss. 39 H.H. Kühne, Einleitung I, in Löwe-Rosenberg, Strafprozeßordnung-Großkommentar, vol. I, 26a ed., De Gruyter, 2006, p. 264 ss., n.m. 2 ss. 40 A. Giuliani, voce Prova in generale (filosofia del diritto), in Enc. dir., vol. XXXVII, Giuffrè, 1988, p. 538. 41 E. Dezza, Accusa e inquisizione, cit., p. 24 ss.; M. Sbriccoli, Giustizia criminale, cit., p. 179. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 23 05/09/23 2:54 PM 24 CAPITOLO II Il processo accusatorio si connota, all’opposto, per la distinzione tra la figura del giudice incaricato della decisione e quella dell’accusatore (nel modello puro, l’azione penale è esercitata da privati cittadini), cui compete l’onere di contestare con chiarezza all’imputato il fatto di reato, nonché di provarne la colpevolezza. Il principio dell’oralità soppianta quello inquisi- torio della scrittura, nel senso che il rito si svolge sotto forma di dibattito tra accusa e difesa in posizione di reciproca parità, davanti ad un giudice tenden- zialmente privo di poteri istruttori e chiamato a valutare le prove addotte dalle parti, alla cui formazione assistite direttamente (principio di immedia- tezza), in base al proprio libero convincimento. L’udienza è pubblica, in modo che i cittadini controllino come viene amministrata la giustizia scoraggiando gli abusi. La condizione dell’imputato durante il processo, almeno di regola, è quella di persona libera, mentre l’esercizio residuale dei poteri coercitivi, vissuto come “immoralità necessaria”, rimane subordinato a rigorosi presup- posti che ne mantengano la compatibilità con il principio della presunzione d’innocenza. La sfera di autodeterminazione dell’accusato viene tutelata dal diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere); il diritto di difesa si dispiega con efficacia lungo tutto l’arco del procedimento, messo in risalto dal principio del contraddittorio e dalla concezione argomentativa della prova che vi si accompagna42. 2.1. - L’ideale accusatorio e la legalità del processo a difesa dell’innocenza dell’imputato A dominare gli argomenti e accendere le invettive dell’illuminismo è l’aspirazione alla certezza del diritto e alla sicurezza del singolo individuo nel senso propugnato da Montesquieu e Beccaria, autentici numi del movi- mento riformatore. L’accento cade sul bisogno per i cittadini di confidare nella tutela della propria libertà da parte dello Stato, tranquillità che non ha peggiore nemico del potere di perseguimento penale scatenato nei confronti del singolo43. Partendo da questa necessità politica la riflessione sul «metodo di procedura» si affina culturalmente e tecnicamente44, diventa anzi priorita- ria giacché la libertà e l’innocenza sono elevati a beni supremi da garantire più di ogni altro45. Viene portato a piena luce e prende perciò vigore il motivo a lungo incu- bato dell’ideale accusatorio, ora apertamente eletto e in maniera compiuta a modello ispiratore della struttura processuale poiché meglio in grado di 42 G. Illuminati, voce Accusatorio ed inquisitorio, cit., p. 2; L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 7a ed., Laterza, 2002, p. 574 ss. 43 Ch. De S. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., p. 342 (libro XII, cap. II). 44 G. Alessi, Il processo penale, cit., p. 131; E. Dezza, Accusa e inquisizione, cit., p. 173. 45 F.M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, cit., p. 45. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 24 05/09/23 2:54 PM MODELLI E CONCEZIONI 25 corrispondere a quella capitale esigenza di tutela della difesa46. Al tempo stesso, si afferma la forte propensione alla legalità processuale intesa come vincolo per il giudice ai precetti formali nel modo di condurre innanzi il rito penale. Geatano Filangieri difese con forza la necessità di adottare un sistema accusatorio rigida- mente regolato dalla legge, di modo che fosse garantita al massimo la tutela dell’innocente e la difesa dell’accusato. L’attenzione ai diritti dell’imputato come conseguenza del valore assoluto della persona, cardine della nuova impostazione, portava l’illuminista napoletano a pretendere un giudice nettamente separato dalla figura dell’accusatore, vincolato a prescrizioni normative rigide e investito del compito di giudicare sulla base di un’accusa chiara, precisa, davanti alla quale l’imputato potesse difendersi adeguatamente e con pienezza di prerogative. Nel medesimo solco, Francesco Mario Pagano considerava il sistema accusatorio l’unica via per difendere i diritti di libertà del cittadino, tanto da ritenere possibile l’attuazione di tale modello esclusivamente nelle repubbliche, riservando alle monarchie la sola opzione del sistema inquisitorio47. Anche questo autore insiste sull’importanza degli istituti e dei principi tipici del modello accusatorio, tutti legati alla necessità di tutelare le libertà della persona pur perseguendo l’obiettivo di assicurare la punizione dei soggetti colpevoli di aver commesso un reato: la giuria popolare, l’oralità, la pubblicità, la separazione tra le funzioni di giudice e di accusatore, la parità delle armi tra accusa e difesa, la partecipazione del difensore fin dal momento dell’indagine erano, secondo Pagano, le chiavi di volta di un processo che riuscisse ad assicurare il continuo rispetto delle libertà civili. La precedente riflessione di Beccaria, meno tecnicamente matura e documentata, si serve d’un’altra coppia di figure antagonistiche, carica tuttavia di una immediata e palpitante ten- sione politica; egli contrappone infatti il «processo offensivo», da un lato, a quello che con- sidera il «vero processo», ossia «l’informativo», dall’altro lato: mentre il secondo esemplare, «pochissimo in uso nei tribunali europei», riluce per la ricerca del fatto distaccata dalle passioni e guidata dalla ragione quando i casi giudiziari sono «tranquilli ed indifferenti», nella prima, dominante e terribile modalità di condurre il procedimento penale il giudice «diviene nemico del reo», poiché «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce»48. Non si sottolinea mai abbastanza come l’appello allo schema processuale accusatorio, ispirato ai canoni della pubblicità, dell’oralità e del contraddit- torio, si accompagnasse nelle voci dell’illuminismo alla energica invocazione della categoria della legalità processuale, che muove ora i suoi primi passi in veste di garanzia politica – non soltanto di artificio tecnico – a salvaguardia della difesa. Con maggiore precisione, si fa strada la consapevolezza che la forma sia talmente necessaria al concetto di giustizia da non potersi rinun- ciare a quella senza tramutare l’altra in pura violenza o macchinazione49. Si affaccia l’idea, in altre parole, che al processo penale sia congenito l’eser- cizio di poteri aggressivi dell’uomo sull’uomo, i quali però mantengono 46 G. Filangieri, La scienza della legislazione (1780-1788), vol. III, Soc. Tip. Classici it., 1822, p. 7. 47 F. M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, cit., p. 81. 48 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), Einaudi, 1994, p. 46 (§ XVII). Il tema è approfon- dito in D. Negri, Delle procedure criminali: parte della legislazione così principale e così trascurata, in Cass. pen., 2014, p. 3950 ss. 49 P. Ayrault, L’Ordre, formalité et instruction judiciaire, dont les anciens Grecs et Romains ont usé ses accusations publiques (1588), Libro I, Caffin&Plaignard, 1642, p. 3, n.m. 2. © Wolters Kluwer Italia 261390_Quarta_Bozza.indb 25 05/09/23 2:54 PM 26 CAPITOLO II giustificazione solo a patto di rispettare regole predeterminate, dettami della legge da conformare a loro volta ai principi naturali del modello accusatorio. Dapprima prerogativa di isolati anticipatori, simile concezione diverrà lungo la corrente impetuosa del Settecento riformatore il tema dominante, addirittura ossessivo dell’illuminismo penale all’incontro con la teoria della separazione dei poteri nella sua peculiare declinazione incentrata sulla sovranità della legge. Postulato di Montesquieu, ormai pienamente avvertito del rapporto di implicazione tra certezza del diritto e garanzie individuali, è che le formalità della giustizia penale siano necessarie alla libertà. Sussiste anzi una proporzione diretta tra le prime e la seconda: esse aumentano, nella scelta dei governanti, a misura che cresce la conside- razione per l’onore, la fortuna, la vita, la libertà dei cittadini. In quest’ottica, la lentezza e i costi del processo derivanti dal completo dispiegarsi di tutte le forme sono il prezzo che ognuno paga per la salvaguardia dei propri diritti. Secondo la visuale perfettamente illuminista, è il primato della legge ad assicurare che le debite formalità vengano osservate senza residui dai giudici, tenuti a seguirne il disposto alla lettera; ma da ciò allora discende che in questo specifico campo dell’esperienza giuridica le prescrizioni legali non vadano affatto sfoltite, altrimenti la loro rarefazione lascerebbe spazio all’arbitrio del giudice nell’agire processuale e metterebbe così a repentaglio i beni fondamen- tali del singolo. Montesquieu teme i vuoti di dettato, le vaghezze del testo legale, le clausole aperte, sino all’estremo limite dispotico del giudice che impersona «egli stesso la regola»50. Sembra dunque corretto individuare nel ragionamento del filosofo francese l’aspirazione ad una stretta legalità processuale, intesa cioè non solo come predeterminazione dell’ordine e delle modalità da seguire nel compimento degli atti rituali, ma alla stregua di esigenza per i depositari del potere normativo di conferire precisione e tassatività alle regole destinate a vincolare il giudice penale. Allo stesso modo, anche Beccaria concepisce la legalità delle procedure come valore poli-

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