Fonetica Storica PDF
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Vittorio Formentin
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Summary
This document is a lecture or course material on Historical Phonetics, focusing on changes in Italian language throughout history. Examines the evolution of phonetic patterns and linguistic structures of the Italian language through time and examines different dialects across Italy.
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FONETICA STORICA Vittorio Formentin SOMMARIO: 1. Comprendere e descrivere il mutamento fonetico. 1.1. Preliminari. 1.2. Cronologia relativa e cronologia assoluta. 1.3. Fonetica e morfologia: il dittongamento metafonetico. 1.4. Dal latino all’italoromanzo: fen...
FONETICA STORICA Vittorio Formentin SOMMARIO: 1. Comprendere e descrivere il mutamento fonetico. 1.1. Preliminari. 1.2. Cronologia relativa e cronologia assoluta. 1.3. Fonetica e morfologia: il dittongamento metafonetico. 1.4. Dal latino all’italoromanzo: fenomenologia e terminologia del mutamento fonetico. 2. Fonetica storica della lingua italiana. 2.1. Dal latino al fiorentino trecentesco. 2.2. Dal fiorentino all’italiano. 3. Uno sguardo all’Italia dialettale. 3.1. I sistemi vocalici dell’Italoromània. 3.2. Principali caratteristiche dei dialetti settentrionali. 3.3. Principali caratteristiche dei dialetti centro-meridionali e del sardo. 1. Comprendere e descrivere il mutamento fonetico 1.1. Preliminari. Che la lingua cambi, nel tempo e nello spazio, è nozione comune, fondata sulla personale esperienza di ognuno. Appunto da una geniale rielaborazione di tale esperienza individuale muove, all’inizio della storia linguistico-letteraria italiana, la riflessione di Dante sulla natura del volgare, dell’uso vivo e dell’uso letterario, consegnata a pagine famose del Convivio (I, V, 8-9) e del De vulgari eloquentia (I, IX, 4-10). In quest’opera Dante descrive dapprima la mutabilità spaziale delle lingue, con una vertiginosa zumata che, partendo dalla lontana prospettiva di un’Italia inquadrata dalle Alpi, porta via via sotto la lente dell’osservatore le differenze linguistiche riscontrabili tra città di regioni vicine (Roma e Firenze), tra le contigue comunità di una stessa regione (Ravennati e Faentini), infine («quod mirabilius est») tra i diversi quartieri di una stessa città, dal momento che a Bologna gli abitanti di Borgo San Felice parlano in modo diverso da quelli di Strada Maggiore, come Dante aveva sperimentato durante il suo giovanile soggiorno bolognese: egli dunque ha fatto per primo un’osservazione ripetuta poi chissà quante altre volte da parte d’improvvisati e inconsapevoli apologeti del continuum dialettale italiano. Non meno efficace, nel De vulgari, è la formulazione del principio della mutevolezza linguistica nel tempo, concetto che a Dante doveva apparire meno evidente, nonostante le precise indicazioni degli antichi in proposito (Orazio, Ars poet., vv. 60-62 e 70-73). Egli ricorre in questo caso all’artificio retorico dell’adynaton, nella forma classica del periodo ipotetico: «Quapropter audacter testamur quod si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur». E già nel Convivio: «Onde vedemo ne le cittadi d’Italia […] da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico che, se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante». Molte cose meriterebbero di essere notate nell’argomentazione dantesca, come la percezione, se non l’esplicita messa a fuoco, del rilievo non puramente lessicale del cambiamento linguistico; o la riflessione sulla gradualità del mutamento, che lo rende quasi impercettibile nel breve spazio della vita umana, e così via. Per il nostro discorso importa però mettere in rilievo un altro punto del ragionamento di Dante: se vogliamo misurare l’entità del mutamento, occorre fissare dei limiti alla nostra osservazione, indicando, lungo l’asse del tempo, un punto di partenza e uno di arrivo (per es. gli ultimi cinquanta o mille anni), e precisando, lungo l’asse dello spazio, la varietà che c’interessa (per es. il pavese). Aggiornando la terminologia impiegata da Dante, possiamo dire che l’oggetto della 2 VITTORIO FORMENTIN linguistica storica è la somma dei cambiamenti avvenuti in un segmento temporale determinato all’interno di una comunità geograficamente definita che usa, per tutti i bisogni della comunicazione pratica, un linguaggio uniforme, obbediente cioè alla stessa grammatica. Dato un periodo di osservazione pari a cinquant’anni, è possibile avvalersi, per valutare il cambiamento, della coscienza linguistica individuale («Onde vedemo…»), mettendo a confronto stadi successivi della lingua fissati nella memoria personale o recuperabili per mezzo della testimonianza di membri della comunità appartenenti a generazioni diverse, che hanno dunque appreso le strutture grammaticali della lingua in momenti anche molto distanti tra loro. Ma se il periodo da osservare è di cinquecento o di mille anni, bisogna ricorrere ad un altro tipo di documentazione, cioè ai testi scritti. Assumiamo ora che la scrittura sia un filtro neutro del parlato (come non è) e, per mezzo della scrittura, riportiamo le lancette dell’orologio all’inizio della storia di due grandi lingue nazionali europee, come l’inglese e il francese. L’anglosassone della cosiddetta Genesis A (VIII sec.?): «Us is riht micel ðæt we rodera weard, / wereda wuldorcining, wordum herigen, / modum lufien!», che in inglese moderno suona: «For us it is much right that we the Guardian of the skies, / The glory-King of hosts, With our words praise, / In our minds love!»; il francese della Chanson de Roland secondo il testo di Oxford (XII sec.): «Carles li reis, nostre emperere magnes, / Set anz tuz pleins ad estet en Espaigne: / Tresqu’en la mer cunquist la tere altaigne», che Joseph Bédier così ha reso: «Le roi Charles, notre empereur, le Grand, / sept ans tous pleins est resté dans l’Espagne: / jusqu’à la mer il a conquis la terre hautaine». Premesso che una pronuncia ‘all’italiana’ dei vocaboli anglosassoni e antico-francesi (per es. riht ‘giusto’ e reis ‘re’) è più vicina alla loro (probabile seppur inattingibile) sostanza fonetica originaria (['riçt], ['res]) di quel che non sia la pronuncia moderna dei loro rispettivi continuatori (right ['ɹaIt], roi ['ʁwa]), è evidente che nella storia delle due lingue l’intensità del mutamento linguistico, fonetico e morfosintattico, è stata tale che agli odierni lettori inglesi e francesi, anche di buona cultura, i due passi succitati sembrano scritti in una lingua poco meno che straniera: tanto è vero che questi testi, per rivolgersi ad un pubblico non solo specialistico, hanno bisogno, in Gran Bretagna e in Francia, di essere tradotti. Per l’italiano le cose stanno diversamente. «Nel mezzo del cammin di nostra vita | mi ritrovai per una selva oscura, | che la diritta via era smarrita»: è chiaro che la difficoltà di Dante non risiede nella lingua, o per lo meno non risiede principalmente nella lingua, perché la struttura grammaticale, fonetica in particolare, dell’italiano odierno corrisponde ancora in larghissima parte a quella del fiorentino di Dante; proprio per questo la Commedia ha bisogno di un commento, non di una traduzione. Non importa qui richiamare nel dettaglio le ragioni storiche di una tale (relativa) immobilità strutturale della nostra lingua, ricondotta dal magistero classicistico del Bembo, in pieno Cinquecento, al modello del fiorentino di due secoli prima. Di certo fino a ieri l’italiano, fuori di Toscana, è stato un linguaggio imparato sui libri, di scarsissimo uso vivo: per questo si è sottratto ai profondi processi di trasformazione caratteristici delle lingue che si sono sviluppate ininterrottamente dall’alto medioevo a oggi sulle labbra di una più o meno ampia comunità di parlanti, come appunto il francese o, in Italia, almeno fino a ieri, i dialetti. Ne consegue che, mentre per l’inglese, il francese, lo spagnolo (o il pavese citato da Dante: Salvioni 2008 , III, 410-468) le trasformazioni fonetiche intervenute tra medioevo ed età moderna sono rilevantissime, per l’italiano sono invece, tutto sommato, di entità modesta (cfr. il § 2.2); sicché il periodo decisivo per l’assetto fonetico della nostra lingua è compreso tra la tarda latinità e il Trecento. Le lingue romanze o neolatine hanno questo nome perché sono derivate da un progenitore comune, il latino, la lingua di Roma: sono cioè lingue imparentate, così come imparentate sono le lingue baltiche, slave, germaniche, il latino, il greco, l’indo-iranico ecc., in quanto FONETICA STORICA 3 riconducibili alla comune scaturigine indoeuropea. I linguisti romanzi hanno però, rispetto ai loro colleghi indoeuropeisti, il grande vantaggio di conoscere benissimo il punto di partenza, dato che il latino come lingua viva è documentato con abbondanza di testi scritti in un lunghissimo arco temporale (dal III sec. a.C. fino alla caduta dell’impero romano) e in una amplissima gamma di varietà espressive: accanto ai sommi modelli di lingua e stile letterari abbiamo infatti esempi fededegni di latino ‘volgare’, come le iscrizioni pompeiane, e di latino ‘parlato’, come le commedie di Plauto e Terenzio, senza dimenticare le spesso illuminanti considerazioni metalinguistiche di grammatici e filologi antichi. Possiamo dunque seguire l’evoluzione di un suono qualsiasi dal latino alle lingue romanze, per es. della [e] del latino volgare (< Ē, Ǐ del latino classico): [TABELLA 1] Da una tale sinossi risulta evidente un principio fondamentale della linguistica storica: la regolarità del mutamento fonetico. Un certo suono della lingua madre è stato colpito, in un dato momento e in una data regione, dallo stesso cambiamento in tutte le parole che lo contenevano: ogni E tonica chiusa del latino volgare ha prodotto [e] in italiano e in portoghese, [wa] in francese (con grafia oi), una e semiaperta in spagnolo. Accertata la costanza dei rapporti, si può parlare di legge fonetica così come si parla di legge fisica; il paragone con le scienze positive è appropriato anche in questo, che una legge fonetica è enunciata correttamente solo se specifica le condizioni in cui si è verificato il mutamento descritto («il volume di un gas aumenta linearmente all’innalzarsi della temperatura se la pressione rimane costante» [prima legge di Gay-Lussac]): in questo senso, il precedente enunciato che ogni [e] del latino volgare ha dato [wa] in francese è inesatto se non si precisa che tale evoluzione è avvenuta in sillaba libera. Dunque, esempi come franc. è(s)che < ĒSCAM, (il) met < MǏTTIT, vert < VǏR(I)DEM non sono eccezioni: semplicemente non rientrano nell’ambito di applicazione della legge, perché in queste parole la vocale tonica si trovava in sillaba implicata. La somiglianza con le leggi naturali, peraltro, finisce qui, perché le leggi fonetiche non enunciano verità d’ordine generale, non hanno valore predittivo, non si applicano a priori alla realtà linguistica: esse si limitano a registrare i fatti avvenuti nella storia di una lingua, evidenziando a posteriori la regolarità del cambiamento. In questo senso è lecito parlare di ineccepibilità delle leggi fonetiche, secondo la celebre affermazione dei neogrammatici: «ogni mutamento fonetico, fino a dove procede meccanicamente, si compie secondo leggi ineccepibili» (Osthoff e Brugmann 1878, p. 167). Tale formula, nell’inciso, contempla la possibilità di eccezioni, da giudicarsi però, in questa prospettiva, apparenti, cioè razionalizzabili, o perché effetto di altre ‘leggi’ più speciali (per es. CĒRAM e PLACĒRE hanno dato in francese cire e plaisir, a causa del condizionamento esercitato sulla tonica dalla palatale precedente) o per l’intervento di un diverso ordine di fattori, come il ricorso a prestiti (che per le lingue romanze significa soprattutto latinismi, le cosiddette ‘parole dotte’) o l’interferenza analogica, nelle sue varie manifestazioni: la parificazione paradigmatica (per es. di(t)to di molti dialetti italiani su dire, dico), il rifacimento di un lemma sul suo opposto semantico (*GRĔVIS su LĔVIS, *RENDERE su PRE(HE)NDERE), l’etimologia popolare (it. nòzze invece di nózze < NŬPTIAE, per influenza di NŎVUS: cfr. spagn. novio ‘fidanzato’), e così via. Sarà opportuno infine richiamare, seppur brevemente, le due principali prospettive di spiegazione dei mutamenti fonetici e più in generale linguistici, di cui vedremo nei successivi paragrafi varie applicazioni. Assumendo una prospettiva interna, immanente alla struttura linguistica, astraiamo dalla contingente realtà dei singoli mutamenti e dal modo in cui essi si 4 VITTORIO FORMENTIN producono e si diffondono, limitandoci a confrontare le corrispondenze/differenze tra il punto di partenza e il punto d’arrivo, cioè tra due diversi sistemi fonologici distanziati nel tempo. Se adottiamo invece una prospettiva esterna, di tipo geo- e sociolinguistico, mettiamo l’accento «sull’osservazione empirica del mutamento nel suo svolgersi entro la società» (Loporcaro 2003, p. 69), cercando di seguire la vicenda di una variante diastratica e diafasica entro un determinato spazio sociale fino alla sua (eventuale) fonologizzazione. 1.2. Cronologia relativa e cronologia assoluta. Le leggi fonetiche descrivono quindi trasformazioni concluse nel tempo, sigillate nel corpo della lingua. Un determinato mutamento fonetico, infatti, non dura indefinitamente, ma si compie in un periodo di tempo limitato: nel segmento temporale compreso tra i due momenti A e B, il suono x si è trasformato nel suono y in tutti i casi possibili; ma se in un momento C successivo a B – per effetto di un’altra legge fonetica o per qualsiasi altro motivo – si vengono a creare nella lingua nuovi esempi di x, questi non sono più colpiti dal mutamento. Un esempio classico di tale limitazione nel tempo dell’operatività di una legge fonetica è il dittongamento toscano di [ɔ] in sillaba libera (per la terminologia rinviamo al § 1.4): il dittongo si è prodotto in tutte le parole di tradizione ininterrotta che continuano una Ǒ lat. (fuoco, ruota ecc.), mentre non si è verificato nelle parole con [ɔ] da AU (cosa, lode, oro ecc.), evidentemente perché AU è passato ad [ɔ] quando il fenomeno del dittongamento si era ormai concluso. Il monottongamento di AU vale quindi come terminus ante quem per il dittongamento di [ɔ]: un’argomentazione di questo tipo, che, dati due mutamenti, ne precisa l’ordine di successione nel tempo, si dice di cronologia relativa. Nella fattispecie, grazie a uno studio esemplare di Arrigo Castellani condotto sulle carte latine della Toscana altomedievale, è possibile situare nel tempo i due fenomeni anche in termini di cronologia assoluta: «il monottongamento di AU in ò, attestato dal 726 [gora ‘canale d’acqua’, da un prelatino *GAURA], si sarà prodotto, al più tardi, verso l’inizio del sec. VIII o la fine del sec. VII. Ciò significa che il dittongamento di ò in uo, insieme, verosimilmente, a quello di è in ie, doveva esser terminato avanti l’ultimo quarto del sec. VII» (Castellani 1980 , I, p. 94). 1.3. Fonetica e morfologia: il dittongamento metafonetico. Poiché però la fonetica non è l’unica dimensione della lingua, accade che mutamenti di natura originariamente fonetica interagiscano con altri livelli della struttura linguistica, per es. con la morfologia: in questo caso il fenomeno, invece di compiersi una volta per tutte in un periodo determinato, può continuare a manifestarsi, categoricamente o tendenzialmente, anche quando sia venuta meno l’iniziale motivazione fonetica. È questo il caso della metafonesi in generale e del dittongamento metafonetico in particolare, caratteristico del napoletano e di molte altre varietà dialettali centro-meridionali, in cui Ĕ ed Ŏ, davanti a -Ŭ e -Ī, hanno dato ie e uo in sillaba sia aperta che chiusa. Si discute se la metafonia per dittongamento di tipo napoletano e la metafonia per innalzamento di tipo sabino ([ε] > [e], [ɔ] > [o], se -u, -i) si debbano considerare esiti indipendenti (Rohlfs 1966-1969, I, §§ 101 e 123) o l’una sviluppo dell’altra ([je] > [e], [wo] > [o]: Merlo 1920, p. 232, e Castellani 1976, p. 83; al contrario sostengono la precedenza del tipo sabino Barbato 2008 e Loporcaro 2009, pp. 122-123). Fatto sta che, in napoletano, il dittongo è stato applicato ai nuovi casi lessicali di [ε], [ɔ], integrati entro i paradigmi flessivi nominali e verbali, indefinitamente dal medioevo ad oggi, cioè dopo il passaggio delle desinenze etimologiche metafonizzanti a -o (poi -ә) e a -ә, vocali intrinsecamente incapaci di produrre metafonia (lo stadio -o < -u, -ә < -i è documentato a FONETICA STORICA 5 Napoli già nel sec. XIV, ed era stato probabilmente raggiunto molto tempo prima): il dittongo compare dunque in voci dotte, prestiti e neologismi, dal Trecento (exiercito, iuorno < francese e occitanico ant. jor(n)) ad oggi (tәljéfonә ‘(tu) telefoni’). La sopravvivenza del dittongo e della correlata alternanza vocalica all’opacizzazione del contesto fonologico armonizzante è certo in rapporto con le funzioni morfologiche associate alle vocali finali originarie (indicazione del plurale, in coppie del tipo PĔDEM/*PĔDI; indicazione del maschile, in coppie del tipo NŎVUM/NŎVAM; indicazione della persona verbale, in coppie del tipo DŎRMĪS/DŎRMĬT): la trasvalutazione strutturale della metafonia l’ha così svincolata dall’iniziale condizionamento fonetico. La metafonesi, da regola foneticamente motivata, è dunque diventata assai per tempo una regola determinata morfologicamente: con una leggera forzatura, potremmo dire che si è passati da un processo di Umlaut, o metafonia (= assimilazione, o armonizzazione, della vocale tonica all’atona finale), ad un processo di Ablaut, o apofonia, cioè ad un’alternanza della vocale radicale che serve a scopi morfologici, come nei gradi apofonici del verbo greco (λειπ-/λοιπ-/λιπ- ‘lasciare’), latino (făciō/fēcī) o inglese (sing/sang/sung ‘cantare’), con riscontri anche nella classe nominale (ingl. song; lat. těgō ‘copro’ e tǒga ‘veste’ ecc.). Viceversa, il dittongamento toscano (fenomeno che non si prestava alla rianalisi morfologica, perché indipendente dalla qualità delle vocali finali, dotate di funzione morfemica), non era più attivo, come abbiamo visto, già alla fine del sec. VII: sicché il dittongo, in parole italiane come pietra e ruota, si può considerare un vero e proprio fossile fonetico. 1.4. Dal latino all’italoromanzo: fenomenologia e terminologia del mutamento fonetico. Per quanto pertiene al vocalismo, prendiamo come punto di partenza, in sede tonica, il sistema qualitativo a sette vocali detto panromanzo, perché comune a gran parte della Romània: Ī > /i/, Ĭ ed Ē > /e/, Ĕ > /ε/, A > /a/, Ŏ > /ɔ/, Ō ed Ŭ > /o/, Ū > /u/; in posizione atona il precedente schema si riduce a cinque elementi, perché fuori d’accento è stata neutralizzata l’opposizione tra medie chiuse e aperte: Ī > /i/, Ĭ, Ē ed Ĕ > /e/, A > /a/, Ŭ, Ō ed Ŏ > /o/, Ū > /u/. Si ricorderà inoltre che la quantità fonologica del latino classico (LĔVIS ‘leggero’ ~ LĒVIS ‘liscio’ e LĔVĀRE ‘sollevare’ ~ LĒVĀRE ‘levigare’) è stata sostituita da una nuova quantità allofonica, priva quindi di valore distintivo, determinata automaticamente dalla presenza dell’accento e dalla struttura sillabica (['V:] in sillaba libera, ['V] in sillaba impedita: ['ru:pe] ~ ['rup:e]). Una vocale tonica si può dividere in due segmenti per un processo di dittongazione: il dittongo risultante può essere ascendente, coll’accento sul secondo elemento (piède < PĔDEM), oppure discendente, coll’accento sul primo elemento (piemontese candéila < CANDĒLAM); il fenomeno inverso, cioè la fusione dei due segmenti di un dittongo in un unico suono vocalico, si dice monottongazione (AURUM > oro). In riferimento all’elevazione della lingua, una vocale può subire un innalzamento (tonica e atona del siciliano vuci < VŌCEM) o un abbassamento (bolognese dek < DĪCO); quanto invece al punto di articolazione tra velo (posteriore) e palato (anteriore), una vocale può palatalizzarsi (FŪSUM > milan. ['fy:z]), velarizzarsi (la protonica di *FŎCILEM > fucile; si è velarizzata e labializzata insieme la prima vocale di DEMANDARE > domandare) o centralizzarsi (atona finale del napol. ['kandә] < CANTO). Una vocale, infine, può subire nasalizzazione, se passa da una risonanza orale a una risonanza appunto nasale, come nel franc. ['bõ] < BŎNUM. Nel settore del consonantismo può cambiare il modo di articolazione, secondo il quale si distinguono consonanti occlusive, fricative, affricate, laterali, vibranti, nasali: avremo dunque fenomeni di spirantizzazione quando un’occlusiva passa a fricativa (HABERE > avere, [a'mi:ko] > [a'mi:ho]), affricazione (veneto ant. ['tsento] < CENTUM [in questo caso, in cui il risultato è un’affricata alveolare, si parla anche di assibilazione]), deaffricazione (ovvero la 6 VITTORIO FORMENTIN perdita dell’elemento occlusivo di un’affricata: veneto mod. ['sento] < ['tsento]), rotacizzazione (napol. ['pε:rә] < PĔDEM), nasalizzazione (roman. antro < ALT(E)RUM); una consonante può perfino vocalizzarsi, passando alla semivocale anteriore o posteriore: FACTUM > *['façtu] (spirantizzazione) > piemontese fait [fat], ALT(E)RUM > napol. autro. Quanto al luogo di articolazione, una consonante può subire palatalizzazione (CĒRAM ['ke:rãm] > cera ['ʧe:ra], dove, riguardo al modo, si noterà l’affricazione), velarizzazione (velarizzato è l’allofono preconsonantico di /l/ in molti dialetti italiani), labializzazione (AQUAM > sardo abba). Riguardo poi al grado di articolazione, una consonante sorda può sonorizzarsi (LŎCUM > luogo) e una sonora desonorizzarsi (TĔPIDUM > calabr. tiépitu). Il cambiamento può riguardare anche la durata di una consonante: dunque una doppia può scempiarsi, come nella tipica degeminazione settentrionale (BŬCCAM > venez. ['bo:ka]), e una scempia raddoppiarsi, subendo geminazione (AMŌREM > napol. [a'm:orә]). Un capitolo importante della fonetica storica è rappresentato dai cosiddetti fenomeni generali, etichetta con cui si designa un insieme di modificazioni tendenzialmente impredicibili perché non sistematiche. Si tratta prima di tutto di una serie di fenomeni che a) riducono o b) incrementano la massa fonica di una parola: a) l’aferesi, ovvero la caduta della vocale o della sillaba iniziale (ital. popolare ’na per una); la sincope, cioè la cancellazione di una vocale o di una sillaba interna (vedrò < vederò, cittate < CIVITATEM); l’apocope (o troncamento), ossia la caduta della vocale o della sillaba finale (buon per buono, cantà per cantare); b) la prostesi, cioè l’aggiunta di una vocale o di una consonante all’inizio di parola (SPERARE > isperare, ŎCTO > milan. vòtt); l’epentesi, che consiste nell’inserzione di un suono all’interno di parola (ENCAUSTUM > inchiostro, FABRUM > padov. fàvaro); l’epitesi, con cui si indica l’aggiunta di una vocale o di una sillaba in fine di parola (AMAN(T) > amano, SĪ(C) > dialetti centro- meridionali sine). Rientrano nei fenomeni generali anche la metatesi, con cui si intende il cambio di posto subìto da un segmento, per lo più consonantico (CAPRAM > dialetti meridionali crapa), e i vari effetti dell’assimilazione e della dissimilazione, per le quali un suono modifica la propria qualità uguagliandosi a o differenziandosi da un altro suono contenuto nella parola, sia a contatto che a distanza. Più in dettaglio, dato l’ordine s1, s2 (dove s sta per un segmento qualsiasi), si parla di assimilazione e dissimilazione progressiva se s2 subisce l’influenza di s1, di assimilazione e dissimilazione regressiva se è invece s1 a modificarsi per influenza di s2: abbiamo dunque assimilazione progressiva a contatto in QUANDO > sicil. quannu, PLŬMBUM > sicil. kjummu, assimilazione regressiva a contatto in FACTUM > fatto, RŬPTUM > rotto (si noterà di passaggio che molte geminate italoromanze si sono originate appunto dall’assimilazione di nessi consonantici latini); sono casi di dissimilazione a distanza ARMARIUM > armadio (progressiva), VENENUM > veleno (regressiva), e così via. Forme come quannu e fatto sono poi esempi di assimilazione totale, in cui cioè il segmento assimilato si è senz’altro uguagliato a quello assimilante; ma l’assimilazione può anche essere parziale, quando il segmento assimilato assume soltanto uno dei tratti del segmento assimilante, per es. la sonorità, come in CANTUM > napol. ['kandә] (progressiva), SECRETUM > segreto (regressiva). Un caso particolare di assimilazione regressiva a distanza è la metafonesi, fenomeno per cui la vocale tonica di una parola si innalza in presenza di una vocale finale alta: SĬCCUM > *['sek:u] > reatino ['sik:u] (assimilazione parziale, limitata al tratto [+ alto]), SĬCCI > *['sek:i] > reatino ['sik:i] (assimilazione totale). 2. Fonetica storica della lingua italiana. 2.1. Dal latino al fiorentino trecentesco. FONETICA STORICA 7 Il vocalismo tonico del fiorentino antico – la varietà che costituisce, come si diceva, il fondamento dell’italiano – si è sviluppato a partire dal suddetto sistema romanzo comune, di cui riproduce fedelmente lo schema qualitativo a sette vocali: Ī > /i/ (VĪTAM > v[i:]ta), Ĭ ed Ē > /e/ (PĬLUM > p[e:]lo, TĒLAM > t[e:]la), Ĕ > /ε/ (TĔRRAM > t[ε]rra), A > /a/ (CANEM > cane), Ŏ > /ɔ/ (ŎCTO > [ɔ]tto), Ō ed Ŭ > /o/ (FLŌREM > fi[o:]re, CRŬCEM > cr[o:]ce), Ū > /u/ (LŪNAM > l[u:]na). Per completare il quadro occorre precisare che /ε/ e /ɔ/ in sillaba libera si sono dittongate (PĔDEM > piede, BŎNUM > buono) e che /e/ si è innalzata a /i/ innanzi a [ɲ:] da -NJ- e [ʎ:] da -LJ- (gramigna < gramégna < GRAMĬNEAM, famiglia < faméglia < FAMĬLIAM) e innanzi a n + velare etimologica (lingua < léngua < LĬNGUAM, vince < vénce < VĬNCIT); anche /o/ è passata a /u/ davanti a -NG- (fungo < FŬNGUM, giungo < IŬNGO, unghia < ŬNG(U)LAM ecc.), mentre innanzi a -NC- di regola si è conservata (giunco < IŬNCUM, però spelonca < SPELŬNCAM, tronco < TRŬNCUM, oncia < ŬNCIAM ecc.): l’innalzamento in tali condizioni di /e/ e /o/ toniche del latino volgare si suole denominare anafonesi, secondo la proposta terminologica di Castellani (1980) , I, pp. 73 segg. Le eccezioni al dittongamento che troviamo in alcune parole sdrucciole come pecora, opera, rimprovera si spiegano con il fatto, di rilievo fonetico generale, che in sillaba libera una vocale tonica è più breve in un proparossitono che in un parossitono e perciò [ε] e [ɔ], in uno sdrucciolo, sono meno soggette a dittongarsi (il che non ha del resto impedito che il dittongo si producesse secondo la regola generale in lievito, suocero ecc.). Per le eccezioni presenti tra i parossitoni (pochissime, se si prescinde dai latinismi come rosa) sono state proposte spiegazioni ad hoc: per nove < NŎVEM si è pensato a un influsso del latino; bene < BĔNE potrebbe aver risentito dell’uso prevalentemente proclitico dell’avverbio (ben detto); lei < ILLAEI (e colei, costei) potrebbe spiegarsi col passaggio a iod della -i di lei e conseguente chiusura della sillaba (in alternativa, si potrebbe pensare a un’attrazione analogica esercitata da lui < ILLUI, all’interno di una coppia di opposti sintatticamente connessa, come è avvenuto in su e giù, spagn. a diestro y siniestro ‘a casaccio’ [§ 1.1]: dunque lui e lei, con i due pronomi parificati nella struttura fonologica /lVi/, dove V = vocale). Sono invece casi di antica monottongazione: uo > o dopo un suono palatale (figliuolo > figliolo: XIII sec.); iera, ierano > era, erano (inizio del sec. XIV); in forme verbali rizotoniche del tipo leva < lieva, copre < cuopre la riduzione è dovuta a un conguaglio radicale (sulle forme rizoatone del tipo levare, coprire); per ie > e, uo > o dopo consonante + r si veda il § 2.2. Sappiamo, infine, che AU latino si è monottongato in [ɔ] quando si era già chiusa la dittongazione delle mediobasse (§ 1.2). Le vocali toniche, a contatto con un’altra vocale che non sia -i, tendono a chiudersi: io, mio, mia, tuo, tua ecc., ma miei, tuoi, suoi, con regolare dittongazione di Ĕ ed Ŏ (nomi come Matteo, Andrea, Bartolomeo, romeo sono latinismi). Fenomeno caratteristico del vocalismo atono è l’elevazione di e (non finale) a i, anche in fonosintassi (dicembre, di maggio, femmina). Se prescindiamo anche qui dai latinismi (felice, negozio, sereno ecc.), tra le ‘eccezioni’ alla ‘legge’ vanno segnalati i casi di parificazione paradigmatica (questa volta sulle forme rizotoniche: vedere su vede, fedele su fede); e le poche parole senz’altro popolari in cui una e protonica primaria si è conservata a lungo, fino alla metà del XIV o all’inizio del XV sec. (Castellani 1952, I, pp. 118-120): megliore, nepote, pregione ‘prigioniero’ e ‘prigione’, segnore, per la cui e si è pure pensato (Formentin 2002, p. 301) alla traccia residua di un’antica solidarietà paradigmatica con forme nominativali accentate sulla radice (MĔLIOR > meglio [in frasi come ital. popolare «la meglio mela va sempre al peggio porco»: e cfr. peggio - peggiore, ital. ant. maggio < MAIOR - maggiore], 8 VITTORIO FORMENTIN NĔPOS > *niepo [cfr. veneto ant. nievo - nevodo], PRĔHĒ(N)SIO > *pregio, SĔNIOR > *segno). Tipicamente fiorentina è l’evoluzione di ar a er sia prima sia dopo l’accento (amerò, amerei, Margherita, Lazzero; suffissi -erìa, -erello ecc.); -ER- resta saldo nei proparossitoni (lettera, leggere, dissero). Passando al consonantismo, le occlusive sorde intervocaliche e tra vocale e r di regola si conservano, com’è indicato con evidenza dalla toponomastica, che costituisce lo strato fonetico locale più genuino (/k/ Dicomano < DECUMANUM; /p/ Ripoli < RĪPAM; /t/ Roveta < RŬBĒTA; /tr/ Bàlatro < BARAT(H)RUM ecc.). Si noti che la cosiddetta ‘gorgia’, ossia la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (['fɔ:ho], ['ra:φa], ['pra:θo]), non è testimoniata con sicurezza prima del XVI sec. (nel Polito di Claudio Tolomei, 1525). D’altro canto, i vari casi di sonorizzazione del fiorentino antico ereditati dalla lingua nazionale (lago, luogo, riva, padre, madre, strada ecc.) sono stati spiegati plausibilmente come il risultato di un’influenza, d’età molto antica (V-VI sec.), del tipo linguistico settentrionale, ritenuto allora prestigioso e dunque imitabile. La stessa origine andrà riconosciuta alla sonorizzazione della s intervocalica (['mu:zo], [pa'e:ze], ['vi:zo] ecc., di contro a ['ka:sa], ['na:so], suffisso -oso [- 'o:so] ecc.), con la differenza che, in questo caso, la «variante sonora è penetrata più profondamente nel tessuto linguistico toscano, e compare in buona parte dei nomi di luogo» (Castellani 2000, p. 136), forse perché (Formentin 2002, p. 299) nel caso della sibilante, supposta la sorda come originariamente esclusiva (come nel Sud), non vi era l’argine di una correlazione di sonorità da tutelare, come invece per le occlusive (/k ~ g/ ecc.). Quanto agli esiti dei nessi di consonante + J, le consonanti diverse da R e S si sono raddoppiate innanzi a iod nel II sec. d.C. (Castellani 1980 , I, pp. 95-103). Questo stadio arcaico, con geminazione della consonante e conservazione di [j], è riflesso dalle labiali: SĒPIAM > seppia, (H)ABEAT > abbia, CAVEAM > gabbia, VINDEMIAM > vendemmia; in altri casi al raddoppiamento si accompagnano l’assorbimento di iod e una modificazione articolatoria della consonante, che ha subito affricazione (FACIAT > faccia, CORRĬGIAM > correggia), assibilazione (PŬTEUM > pozzo) o palatalizzazione (VĪNEAM > vigna ['viɲ:a], FŎLIUM > foglio ['fɔʎ:o]). Al nesso -DJ- corrisponde una duplice serie di esiti: 1. [d:ʒ], come in raggio < RADIUM, poggio < PODIUM; 2. [d:z], come in mezzo < MEDIUM, rozzo < *RUDIUS; la prima serie muove da una pronuncia popolare, che si diffuse nel latino del I sec. d.C., di -DJ- come semplice -J- (e infatti [d:ʒ] è il riflesso anche di -J- primario: MAIOREM > maggiore); la seconda comprende invece i lemmi in cui il nesso si è formato più tardi (*RUDIUS) o è stato preservato da una pronuncia più sorvegliata fino al momento, appunto nel II sec. d.C., in cui si verificò la geminazione consonantica davanti a J, sicché il nesso *-DDJ- si assibilò, proprio come avvenne per *-TTJ- (Castellani 1980, I, pp. 113-118). Caratteristica della Toscana e di alcune zone contigue dell’Italia centrale (Umbria, Urbino, Lazio settentrionale) è la riduzione di -RJ- al solo iod: AREAM > aia, CŎRIUM > cuoio, -ARIUM > -aio (fornaio ecc.). Doppio è l’esito di -SJ- (Castellani 1980 , I, pp. 222-244): da un lato la sibilante palatale sorda [ʃ] (BASIUM > bascio), dall’altro la sibilante palatale sonora [ʒ] (OCCASIONEM > cascione o casgione); a questo proposito sarà opportuno ricordare che in queste parole in cui si continua -SJ- la pronuncia fiorentina è ed è sempre stata [ʃ] o [ʒ], adeguatamente rappresentata appunto dalle grafie antiche del tipo bascio, casgione, divergente dunque dalla pronuncia ufficiale dell’italiano, che impiega un’affricata palatale, rispettivamente sorda e sonora (si veda il § 2.2). Quanto alla fonologia di giuntura, la prostesi di i davanti a s + consonante ricorre regolarmente dopo consonante e dopo pausa (per ispesa, Ispesi dr. xx), cioè nelle condizioni FONETICA STORICA 9 fonosintattiche originarie (Lausberg 1976, I, §§ 104 e 353), ma si presenta (facoltativamente) anche dopo vocale (Bartolo ispeziale). Caratteristica del fiorentino antico è l’epitesi di e ai monosillabi tonici e ai polisillabi ossitoni (del tipo piùe, èe, cantòe). L’apocope vocalica avviene dopo liquida e nasale e mai davanti a pausa: «Io non so ben ridir com’i’ v’entrai, / tant’era pien di sonno a quel punto» (l’apocope in fine di verso è un artificio poetico moderno: Serianni 2001, p. 111). Il raddoppiamento fonosintattico fin dai testi più antichi è sia di tipo assimilativo, dopo parole che in latino terminavano in consonante (a ccasa < AD CASAM, carne e ppesce < CARNEM ET PISCEM ecc.), sia di tipo condizionato dall’accento (dopo monosillabi tonici e polisillabi ossitoni: tu ssai, farò ttardi). 2.2. Dal fiorentino all’italiano. Se si prende come punto di riferimento della norma odierna il cosiddetto italiano standard, prescindendo dunque dalle diverse pronunce regionali influenzate dai relativi sostrati dialettali e dalle variabili pressoché infinite correlate al livello socioculturale dei parlanti e alla situazione e allo stile del discorso, non sono molti i cambiamenti da registrare rispetto al quadro del fiorentino medievale appena tracciato; ed è degno di nota che anche questi pochi cambiamenti confermano la centralità di Firenze nella storia della lingua nazionale, perché si tratta per lo più di fenomeni propri del cosiddetto «fiorentino argenteo», cioè del fiorentino così come si è evoluto dopo la morte del Boccaccio (Castellani 1980 , I, pp. 17-35). Così per la monottongazione di ie e uo dopo occlusiva + r (priego > prego, truovo > trovo): il tipo prego ha soppiantato il tipo priego, nell’uso fiorentino, «nella seconda metà o verso la fine del Quattrocento», mentre trovo e simili si sono imposti sui concorrenti dittongati «tra il secondo e il terzo quarto del Cinquecento» (ibid., p. 22); tale innovazione fu recepita favorevolmente dagli scrittori italiani fin dal XVI sec. e divenne normale nella lingua letteraria, nonostante l’esempio contrario del Bembo, forse anche per la coincidenza con il modello non dittongante del Petrarca (che ha solo prego e trovo) e con usi locali. A giudicare dalle forme moderne ragliare < *RAG(U)LARE, teglia < TEG(U)LAM, vegliare < VIG(I)LARE ecc. parrebbe che l’esito fiorentino di -GL- intervocalico diverga dal risultato che il medesimo nesso ha avuto in posizione iniziale (ghiaia < GLAREAM) e dopo consonante (cinghia < CING(U)LAM): che la [ʎ:] della prima serie non sia però lo schietto esito fiorentino di -GL-, bensì il risultato di un’innovazione cinquecentesca con cui Firenze città reagì all’uso ‘rustico’ del contado di pronunciare [ɟ:] o [g:j] in luogo di [ʎ:] da -LJ- etimologico (cioè agghio per aglio, famigghia per famiglia ecc.), è stato dimostrato da Castellani 1980 , I, pp. 213-221 (in Inf., XXIX 74, 76 e 78 tegghia rima infatti con stregghia < *STRIGLAM e vegghia). Le modificazioni fin qui esaminate non hanno avuto conseguenze sull’inventario fonematico della lingua di Dante. Nel tardo medioevo, però, il sistema fonologico del fiorentino fu interessato da un vero e proprio riassestamento nel settore delle ostruenti palataloalveolari, che ha avuto effetti importanti sull’assetto fonologico dell’italiano moderno. Infatti, per effetto della spirantizzazione delle affricate palatali intervocaliche, realizzatasi prima per /ʤ/ (probabilmente già entro il sec. XI) e poi per /ʧ/ (durante il sec. XIV: Castellani 1952, I, pp. 29-33), si neutralizzarono le opposizioni fonologiche /ʤ ~ ʒ/ e /ʧ ~ ʃ/: le due sibilanti palatali provenienti da -SJ-, data la collisione fonetica con gli allofoni intervocalici spirantizzati di /ʧ/ e /ʤ/, vennero rianalizzate come varianti combinatorie delle due affricate palatali, con la conseguenza che non ci fu più bisogno di distinguere graficamente (secondo l’uso, per es., degli autografi boccacceschi) i tipi bascio, cascione (da -SJ-) dai tipi pace, agevole (da -C-, -G- 10 VITTORIO FORMENTIN + e, i), e si pervenne dunque a generalizzare le grafie ‘fonematiche’ con c, g (bacio, cagione), a cui nel resto d’Italia – che il fiorentino l’ha imparato mediante la scrittura – s’applicò la stessa pronuncia riservata a Firenze a /ʧ/ e /ʤ/ iniziali di parola isolata (o di frase) e in posizione postconsonantica. Questa vicenda linguistica e culturale spiega dunque perché quelle che in fiorentino sono sempre state, prima fonologicamente e poi solo foneticamente, fricative (cami[ʃ]a, pi[ʒ]one), in italiano sono divenute affricate (D’Ovidio 18953, pp. 192- 193; Loporcaro 2006). Un caso come quello appena esaminato può esser fatto rientrare nella regola generale per la quale la scrittura tende a rappresentare soltanto le opposizioni fonologicamente distintive: de minimis non curat praetor, e dunque – qualunque sia l’età in cui è insorta la ‘gorgia’ – uno scrivente toscano non ha mai avvertito la necessità di distinguere graficamente le varianti allofoniche di /k/, /p/ e /t/, ovvero la [k] di in casa dalla [x] o [h] di la casa; di conseguenza, poiché la pronuncia dell’italiano si è formata sulla grafia degli scrittori toscani (o in toscano), non sorprende che i fenomeni di variazione combinatoria propri del fiorentino (come la spirantizzazione delle occlusive sorde e la palatalizzazione di /ʧ/ e /ʤ/ tra vocali) sono rimasti estranei alla pronuncia italiana ufficiale, che riproduce il modello del cosiddetto ‘fiorentino emendato’ (emendato, appunto, dalle particolarità subfonematiche del fiorentino parlato). Conferme dell’importanza decisiva del tramite grafico per la costituzione e la preservazione della fonologia dell’italiano vengono dal rilievo che gli attuali punti deboli del sistema, le coppie oppositive – per così dire – in cattivo stato di manutenzione, coincidono con quelle distinzioni fonematiche che la grafia del fiorentino non ha mai rappresentato. La principale ragione per cui, nell’italiano dei Settentrionali e dei Meridionali, le opposizioni /e ~ ε/, /o ~ ɔ/, /s ~ z/, /ts ~ dz/ sono vacillanti (ovvero – in particolare per le vocali medie – hanno nei corrispondenti italiani regionali una distribuzione lessicale diversa rispetto alla pronuncia ufficiale) sta proprio nella loro opacità grafica, che ha reso più evidente una debolezza congenita (si tratta infatti di distinzioni fonematiche che già nel sistema fiorentino medievale avevano verosimilmente un basso rendimento funzionale), aggravata dall’esiguo o nullo valore funzionale che hanno nei rispettivi sostrati dialettali (per rendimento funzionale di un’opposizione s’intende il numero delle coppie minime – del tipo /'botte/ (del vino) ~ /'bɔtte/ ‘percosse’ – generate da quella opposizione; il valore funzionale è invece la «frequenza e importanza dei contesti [= situazioni di libera scelta comunicativa] nei quali si può avere l’uno o altro fonema»: Castellani 1980 , I, p. 46). Non c’è dubbio che, se nel Cinquecento si fosse imposta la riforma ortografica proposta dal Trissino o altra analoga, oggi sarebbe naturale o quasi per gli italofoni del Veneto e della Sicilia tener distinta nella pronuncia, come solitamente non fanno, la /'peska/ del pesce dalla /'pεska/ del pesco. Si può osservare, per concludere, che queste crepe nella struttura fonologica della lingua nazionale non sono recenti: ce lo dice lo studio della rima nella tradizione poetica prima toscana e poi italiana. Lasciamo pur da parte l’istituto, costitutivo della nostra poesia fin dalle origini, della cosiddetta rima ‘italiana’ di é con è (e iè) e di ó con ò (e uò), e consideriamo le imperfezioni rimiche che riguardano le consonanti. Già nella poesia toscana antica la rima di s sorda con s sonora non è rara (nella Commedia cfr. Inf. XXII, chie[z]a 14 : inte[s]a 16; Purg. XII, qua[z]i 119 : ra[s]i 123; Purg. XXIX, co[s]e 58 : spo[z]e 60 ecc.), e si tratterà forse di un altro effetto del ‘toscaneggiamento’ subìto dalla poesia dei Siciliani (Menichetti 1993, pp. 508-509); ma sarà poi un caso che i primi esempi di rima imperfetta del tipo ro[d:z]o : po[t:s]o risalgano al Cinquecento e che un tale uso si affermi poi nella poesia del napoletano Marino (D’Ovidio 1932, pp. 77-119), all’epoca cioè della definitiva accettazione del fiorentino come lingua letteraria da parte degli scrittori non toscani d’Italia? FONETICA STORICA 11 3. Uno sguardo all’Italia dialettale. 3.1. I sistemi vocalici dell’Italoromània. Prima di passare in rassegna le principali caratteristiche dei dialetti italiani – includendo tra questi, sulla base del criterio della lingua tetto o lingua guida, anche varietà dotate di una spiccata individualità strutturale come il friulano e il sardo –, ricordiamo la presenza, sul territorio nazionale, di sistemi vocalici diversi da quello romanzo comune descritto all’inizio del § 2.1; è anzi notevole che, a conferma della centralità linguistica dell’area italiana nel quadro generale della Romània, le varietà dialettali italiane «presentino, a volte a pochi chilometri di distanza, tutte le principali opposizioni strutturali documentate, in particolare per il vocalismo, dalle lingue romanze» (Loporcaro 2009, p. 71). Il vocalismo tonico sardo ha semplificato drasticamente, dimezzandolo, il patrimonio fonematico delle dieci vocali latine (esempi logudoresi): Ī Ĭ > i (['fi:lu] ‘filo’, ['pi:ra] ‘pera’), Ē Ĕ > e (['kε:na] ‘cena’, ['bε:nε]), A > a, Ŏ Ō > o (['bɔ:na] ‘buona’, ['sɔ:lε] ‘sole’), Ŭ Ū > u (['ru:ɣε] ‘croce’, ['lu:ɣε] ‘luce’). Lo stesso sistema si ritrova, come ha indicato Lausberg (1939), in una zona montagnosa a cavallo del Pollino, distesa tra la Lucania meridionale e la Calabria settentrionale e affacciata sullo Ionio tra la foce dell’Agri a nord e quella del Crati a sud. Ancora in Lucania, in un’area disposta intorno a Castelmezzano (a est di Potenza, lungo il corso del Basento), è invece documentato un vocalismo simile a quello rumeno (sistema ‘di compromesso’ o ‘asimmetrico’), in cui, mentre le vocali velari hanno avuto un’evoluzione di tipo sardo (Ŏ Ō > o: ['ko:rә], [nә'po:tә]; Ŭ Ū > u: ['surda], ['mu:rә]), le vocali palatali mostrano una fusione timbrica affine a quella romanza comune (Ī > i: ['fi:lә]; Ĭ Ē Ĕ > [e]: ['se:te], ['se:ra], ['me:le] ‘miele’). Secondo un’interpretazione diffusa, anche il sistema vocalico siciliano – proprio dei dialetti siciliani, salentini e calabresi meridionali, e così importante per la storia della lingua poetica italiana – sarebbe uno sviluppo autonomo del vocalismo latino: Ī Ĭ Ē > i (filu, siti, tila), Ĕ > e (p[ε]di), A > a, Ŏ > o (n[ɔ]va), Ō Ŭ Ū > u (vuci, cruci, luci). Fanciullo (1996 , pp. 11-29) ha però persuasivamente argomentato a favore della (relativa) recenziorità del vocalismo siciliano: esso si sarebbe evoluto nell’alto medioevo, in un contesto di bilinguismo romanzo- greco, a partire dal sistema comune a sette vocali e a quattro gradi di apertura in séguito alla chiusura delle vocali medioalte dovuta a un adeguamento al modello prestigioso del greco bizantino. Comunque sia, si noterà che i vocalismi alternativi a quello panromanzo reperibili in Sardegna e nell’Italia meridionale sono accomunati dal fatto di presentare tutti un sistema fonologico a cinque vocali e a tre gradi di apertura. 3.2. Principali caratteristiche dei dialetti settentrionali. L’area dialettale settentrionale, delimitata a sud dalla linea La Spezia-Rimini, solidale tipologicamente con la cosiddetta Romània occidentale (Galloromània, Iberoromània, romancio), comprende, secondo la classica sistemazione di Pellegrini (1977), i dialetti gallo- italici (il piemontese, il lombardo, l’emiliano più, in posizione defilata, il ligure), i dialetti veneti e i dialetti friulani. Nel vocalismo tonico, sviluppatosi dal tipo romanzo comune, è ampiamente diffusa la metafonesi indotta da una -Ī finale etimologica, per cui una vocale medioalta ha subìto innalzamento (padov. rustico: ['to:zo/'tu:zi] ‘ragazzo/-i’, ['se:ko/'si:ki] ‘secco/-cchi’) e una vocale mediobassa si è franta in un dittongo, che si è poi per lo più monottongato (bologn. [mar'tεl/mar'ti] ‘martello/-i’, ['ɔrp/'urp] ‘orbo/-i’); meno estesa, ma comunque ben 12 VITTORIO FORMENTIN rappresentata al Nord, è la palatalizzazione metafonetica di a (romagn. ['fat/'fεt] ‘fatto/-i’). In tutti i dialetti settentrionali la metafonia appare, e da tempo, in regresso: le parlate urbane, per influenza del modello italiano, tendono ad eliminarla, sicché la metafonesi da -Ī è oggi facilmente registrabile solo nelle varietà del contado. In tutta l’area manca naturalmente il condizionamento anafonetico (milan. tenca ‘tinca’, gremegna, fameja). Propria di tutto il settore nord-occidentale è la palatalizzazione di Ū (genov. ['lyŋa] ‘luna’, torin. ['bry:ŋa] ‘bruna’, milan. ['my:r] ‘muro’) e Ŏ (genov. ['rø:da] ‘ruota’, torin. ['fø] ‘fuoco’, milan. ['nø:f] ‘nuovo’), dunque, in sincronia, la presenza di fonemi vocalici anteriori arrotondati. La palatalizzazione di a in sillaba libera s’incontra in due sub-aree del gruppo gallo-italico, ovvero nel piemontese (con restrizione morfologica ai verbi della I coniugazione in -èr < - ARE) e nell’emiliano-romagnolo (bologn. ['nε:z] ‘naso’). Connessa ai fenomeni dell’allungamento vocalico in sillaba tonica libera (§ 1.4), della degeminazione delle consonanti doppie e della caduta delle vocali atone finali diverse da -A è la rifonologizzazione della quantità vocalica in sede tonica, che ricorre in tutta l’area settentrionale tranne il Veneto: genov. ['le:ze] ‘leggere’ ~ ['leze] ‘légge’, piem. (alto- canavesano) ['pεs] ‘appassito’ ~ ['pε:s] ‘perso’, milan. ['ka:l] ‘calo’ ~ ['kal] ‘callo’, emil. ['me:la] ‘miele’ ~ ['mela] ‘mila (migliaia)’, friul. ['pas] ‘passo’ ~ ['pa:s] ‘pace’ (si noterà che il genovese e l’emiliano presentano l’opposizione anche in parossitono, mentre negli altri dialetti la quantità distintiva è limitata alla sillaba finale). Se si eccettuano il ligure (che ne è esente) e il veneto centrale e lagunare (che la conosce con forti restrizioni, simili a quelle del toscano), è caratteristica dei dialetti settentrionali l’apocope delle vocali finali diverse da -A spinta fino alla fonologizzazione, per cui la vocale finale caduta non è più recuperabile in sincronia (diversamente dalla -o di filo nell’italiano fil di ferro). Passando al consonantismo, sono tratti pansettentrionali: la degeminazione delle geminate, primarie o originatesi dall’assimilazione di nessi consonantici latini (è da segnalare a questo proposito che in vari dialetti si colgono ancora indizi rilevanti della seriorità dello scempiamento di /ll/, /rr/, /nn/, a conferma della nota ricostruzione di Martinet 1952); la lenizione/sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (venez. digo < DICO, cavéi < CAPILLI), che nel caso della dentale si spinge spesso, come per -D- primaria, fino al dileguo (lig. munèa ‘moneta’ come rìe ‘ridere’, lomb. spüà ‘sputare’ come raìs ‘radice’); l’assibilazione delle affricate palatali protoromanze derivate da (-)C- e (-)G- + e, i (venez. ant. ['tsento], ['dzente] > venez. mod. ['sento], ['zente]; ['di:ze] < DICIT, ['lε:ze] LEGIT); la tendenza a desonorizzare le consonanti sonore riuscite finali per l’apocope delle vocali atone finali diverse da -A (af < ave < APEM; grant < GRANDEM). La palatalizzazione del nesso -CT-, nelle due forme [̯t] e [ʧ], è propria dei dialetti gallo-italici nord-occidentali: lig. ['la̯te], piem. ['la̯t], lomb. ['laʧ]. Quanto alla conservazione di -S, così caratteristica della flessione nominale e verbale del friulano (cjase/cjasis ‘casa/-e’, tu tu ridis ‘(tu) ridi’, vualtris ’o ridéis ‘(voi) ridete’), ne rimangono tracce, agli estremi occidentale e orientale della pianura padana, nella 2a pers. sing. monosillabica dei verbi irregolari del piemontese ((i)t sas ‘sai’) e del veneziano (solo nella forma interrogativa: sas-tu? ‘sai?’). 3.3. Principali caratteristiche dei dialetti centro-meridionali e del sardo. L’area dialettalmente centro-meridionale si estende a sud della Toscana e delle Marche centrali fino alla Sicilia: questa vasta regione linguistica si suddivide tradizionalmente in tre sezioni, l’area mediana, l’area (alto-)meridionale e l’area meridionale estrema, che condividono con il toscano alcuni importanti tratti conservativi come la saldezza delle vocali atone finali e il mantenimento delle consonanti sorde e geminate intervocaliche, mentre nel FONETICA STORICA 13 vocalismo tonico ignorano l’anafonesi e il dittongamento in condizioni toscane delle mediobasse, partecipando invece largamente alla metafonesi delle vocali medie, provocata da sola -Ī in alcuni dialetti abruzzesi, laziali e marchigiani, da -Ī e da -Ŭ altrove. Per quanto riguarda la metafonia delle mediobasse, essa avviene nei due modi già indicati nel § 1.3: per innalzamento (metafonesi ‘sabina’, maggiormente diffusa nella zona mediana) o per dittongazione, attiva sia in sillaba libera che in sillaba implicata (metafonesi ‘napoletana’, tipica appunto dell’alto-Meridione, ma presente anche al Centro, in Calabria e – almeno modernamente – nella Sicilia centro-orientale); si tenga presente infine che il dittongo d’origine metafonetica in vari dialetti si è monottongato, come abbiamo già visto accadere al Nord. Da rilevare che anche al Sud, come al Nord, la metafonesi appare oggi in regresso nelle aree urbane (per Napoli, si veda Del Puente 1995). Il tratto più caratteristico del vocalismo tonico sardo, cioè il semplice dimezzamento del repertorio fonematico latino per neutralizzazione delle quantità senza fusione timbrica di Ĭ ed Ē e di Ŭ e Ō, si è già visto al § 3.1, con esempi logudoresi; degno di nota è il fatto che in logudorese le vocali medioalte sono tuttora derivate in sincronia dalle rispettive mediobasse, per innalzamento metafonetico (e hanno dunque statuto puramente allofonico): ['be:ni] ‘vieni!’, ['bo:nu] ‘buono’. A sud della cosiddetta fascia di transizione ‘perimediana’ (comprendente l’anconetano, l’umbro settentrionale e il laziale settentrionale), che presenta vari fenomeni di provenienza settentrionale o toscana come la palatalizzazione di a tonica in sillaba libera (perug. ['mε:le] ‘male’), l’indebolimento delle vocali atone, l’unico esito -o di -O e -U, la degeminazione (generalizzata o limitata alla sede protonica), il passaggio -RJ- > [j] (cfr. il par. 2.1), nell’area mediana propriamente detta si distingue -u da -o su base etimologica, opponendo dunque dreto < DE RETRO, metto < MĬTTO, cantanno < CANTANDO a amicu < AMICUM, issu < IPSUM, mittu < MĬTTUNT. Tipica della regione alto-meridionale è invece la neutralizzazione di tutte le vocali atone finali in [ә], anche se molti dialetti dell’area ancora distinguono (o possono, in determinate condizioni fonosintattiche, distinguere) la vocale derivata da -A come [a] o [ɐ]; nella zona meridionale estrema si ha un unico esito per -O e -U > [u], «mentre la confluenza simmetrica di -E, -I > [i], largamente maggioritaria, risparmia il Cosentino e il Salento centrale e meridionale» (Loporcaro 2009, p. 150). Per la Sardegna, il tipo campidanese ha innalzato le vocali medie finali (-E, -O > -i, -u: ['kru:ʒi] ‘croce’, ['bɔ:ʒu] ‘voglio’). Quanto al consonantismo, ricorderemo il cosiddetto betacismo, cioè il regime di variazione dell’unico fonema in cui sono originariamente confluiti i due fonemi /v/ e /b/ del latino in posizione iniziale: a seconda del contesto fonosintattico, tale fonema si realizza come variante ‘debole’ [v] in posizione iniziale assoluta, tra vocali e, all’interno di parola, dopo r (per es. vocca ‘bocca’, la vocca; voce, la voce; erva ‘erba’) e come variante ‘forte’ [b] e [bb] rispettivamente dopo consonante diversa da r e nel raddoppiamento fonosintattico ([m bu'k:u:nә] ‘(in) bocconi’, ['tre 'b:ok:ә] ‘tre bocche’; cfr., all’interno di parola ma in presenza di un confine morfemico, napoletano [zbәn'dra] ‘sventrare’, [ab:ә'ni] < ADVENIRE). Va detto peraltro che tale meccanismo di variazione è stato da tempo messo in crisi dall’interferenza del sistema fiorentino-italiano (che ha /v-/ e /b-/ iniziali distinti su base etimologica), influenza che in un grande centro urbano come Napoli è già rilevabile, per questo specifico tratto, nel Quattrocento. Diffusa nell’intero Centro-Meridione è l’assimilazione dei nessi -ND- e -MB- in -nn- e -mm-, a cui si sottraggono soltanto la Calabria centro-meridionale, l’angolo nord-orientale della Sicilia e una fascia del Salento centro-settentrionale: un’attenta ricognizione degli antichi testi meridionali e delle condizioni dialettali odierne ha permesso a Vàrvaro (1979) di concludere a favore dell’ipotesi di un’irradiazione del fenomeno assimilativo dall’Italia mediana verso il Sud in età tardomedievale. Leggermente meno estesa dell’area assimilativa è quella in cui ogni consonante sorda si sonorizza dopo nasale (['kambә] 14 VITTORIO FORMENTIN ‘campo’, ['kandә] ‘canto’, ['paŋga] ‘panca’ ecc.). Caratteristico dell’area centro-meridionale è l’esito conservativo di J (napol. jәttà ‘gettare’, juvә ‘giogo’, majә ‘maggio’), con cui converge il trattamento di (-)G- + e, i (napol. jendә ‘gente’, fujәrә ‘fuggire’); sul versante adriatico in queste serie a /j/ corrisponde /ʃ/: barese [ʃә't:a] ‘gettare’, ['ʃe:kә] ‘gioco’ ecc. Per i nessi di consonante + J si segnalano, tra gli esiti più diffusi, -RJ- > r (-ARIUM > -aro/-arә/-aru) e -PJ- > [t:ʃ] (APIUM > napol. ['at:ʃә]). Di grande rilievo è la conservazione in sardo delle velari latine innanzi a vocale palatale: logud. ['kε:na] ‘cena’, campid. ['kit:si] ‘presto’ < CITI(US); e di -S nella flessione nominale e verbale, a cui si accompagna epitesi vocalica (logud. [sɔs 'ka:nεzε] ‘i cani’, ['kantaza] ‘(tu) canti’) e di -T nella terza persona dei verbi, pure con epitesi (logud. ['pja:ɣεðε] ‘piace’). In tutto il Centro-Sud, come in sardo, il raddoppiamento fonosintattico è solo di tipo assimilativo ([a 'm:e] ‘a me’, [kә 'd:i:tʃə] ‘che dici?’), mentre è inefficace l’accento (['tu 'kandə] ‘tu canti’). FONETICA STORICA 15 [TABELLA 1] Latino Italiano Francese Spagnolo Portoghese TĒLAM tela franc. ant. teile tela teia > toile > ['twal] (HAB)-ĒRE -ere franc. ant. -eir > -er -er -oir > [-'waʁ] PǏLUM pelo franc. ant. peil > pelo pelo poil > ['pwal] VǏDET vede franc. ant. veit > ve ve voit > ['vwa] BIBLIOGRAFIA BARBATO, Marcello (2008), Metafonia napoletana e metafonia sabina, in A. De Angelis (a cura di), I dialetti meridionali tra arcaismo e interferenza, Atti del Convegno internazionale di dialettologia (Messina, 4-6 giugno 2008), Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, pp. 275-289. 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