Fabio Dei - Cultura Popolare in Italia PDF
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Università degli Studi di Firenze
Fabio Dei
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This document summarizes Fabio Dei's work on Italian popular culture, tracing the evolution of its study from the 19th century to the present. It examines key figures like Gramsci and De Martino, highlighting their contributions to understanding popular culture as a dynamic and often resistance force. The text also emphasizes the importance of oral tradition and fieldwork in understanding popular culture.
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lOMoARcPSD|19209268 Fabio Dei - Cultura popolare in Italia Antropologia culturale (Università degli Studi di Firenze) Studocu is not sponsored or endorsed by any college or university Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]...
lOMoARcPSD|19209268 Fabio Dei - Cultura popolare in Italia Antropologia culturale (Università degli Studi di Firenze) Studocu is not sponsored or endorsed by any college or university Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Cultura Popolare in Italia Da Gramsci all'Unesco. Cultura popolare: un panorama storico Folklore, etnografia, “popolaresca”: gli studi sulle tradizioni culturali dall'800 al Fascismo Nel 1911, per il cinquantennale dell'unità d'Italia si tenne a Roma un'esposizione universale e tra le iniziative ci fu quella della Mostra etnografica delle regioni, organizzata da Lamberto Loria (viaggiatore e intellettuale che aveva aperto pochi anni prima a Firenze il museo etnografico italiano). La Mostra intendeva ricordare le differenze culturali ancora presenti nel paese, viste non come un “limite” ma come un “bene culturale” da esporre accanto ai più prestigiosi beni archeologici e storico-artistici. Come quest'ultimi anche i beni etnografici erano pensati come oggetti di una specifica disciplina scientifica. La Mostra e il Congresso del 1911 rappresentano il culmine di una lunga stagione di studi di impronta positivistica. Verso la fine del secolo XIX, soprattutto con il lavoro di Giuseppe Pitrè, l'interesse dei folkloristi si amplia fino ad includere una più ampia gamma di tratti culturali, da solo poesia e narrativa popolare a feste, spettacoli, lavoro, cultura materiale, medicina, religione popolare, cerimonie del ciclo dell'anno e della vita. Pitrè a Palermo inaugura un insegnamento universitario chiamato “Demopsicologia”. Vi sono tutte le condizioni per il consolidamento del campo di studi etnografico che sembra indirizzarsi verso il più vasto ambito delle scienze sociali. Tuttavia ciò non accadrà, la Prima guerra mondiale interrompe bruscamente questa stagione creativa e negli anni '20 e '30 l'influenza culturale dello storicismo idealistico di Benedetto Croce (che diffida di ogni studio che intenda applicare i metodi delle scienze naturali a un ambito che si presta esclusivamente all'intelligenza storica) e l'affermazione del fascismo contribuiscono allo stallo della ricerca antropologica. Le politiche autarchiche del regime isolano la cultura italiana dai più vivaci contesti internazionali. La cultura italiana si provincializza e il discorso antropologico si attarda su un paradigma evoluzionista (subendo quindi ulteriori diffide da parte dello storicismo). Il fascismo d'altra parte è interessato ad appropriarsi del folklore sul piano ideologico. La valorizzazione della tradizione regionale è un punto di forza delle politiche fasciste di educazione di massa e costruzione del consenso con ripresa e invenzione di feste tradizionali e sviluppo di un'ideologia ruralista e conservatrice. Politica svolta dall'Ond (Opera nazionale dopolavoro). La folkloristica italiana fu quasi interamente inglobata nell'apparato ideologico del regime, fino ad accettare di cambiare la propria stessa denominazione in “popolaresca” e fu sfruttato anche per il sostegno alle politiche di razza. Il paradigma gramsciano Dopo la Seconda guerra mondiale l'interesse per la cultura popolare ripartirà su basi nuove. Una di queste, la prima, consiste in alcune pagine delle “Osservazioni sul folclore” che Antonio Gramsci scrisse nelle carceri fasciste, negli stessi anni in cui i folkloristi istituzionali si dedicavano all'esaltazione della razza e dell'impero. I Quaderni del carcere furono pubblicati a partire dal 1948 ed esercitarono una grande influenza sulla cultura italiana dell'epoca. L'aspetto più innovativo del suo approccio consiste nel sottolineare la complessità degli apparati culturali attraverso i quali le classi dominanti esercitano il loro potere. L'egemonia forgia in profondità tutti gli aspetti della vita culturale compresa quella delle classi subalterne. Ogni aspetto della cultura si apre ad un'analisi storico-politica e al tempo stesso l'emancipazione delle classi subalterne può apparire come un progetto culturale ed educativo. Gramsci, parlando del “folklore” afferma che questo non vada Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 “raccolto” come “materiale pittoresco” come la tradizione di studi erudita e classificatoria vorrebbe ma studiato. Il popolo, cioè l'insieme delle classi subalterne e strumentali, non può avere concezioni del mondo elaborate, sistematiche e organizzate. Le risorse per produrle sono nelle mani dei ceti dominanti. Per questo il folklore si configura come un agglomerato indigesto di frammenti, un qualcosa che si costituire per “caduta” di elementi residuali e talvolta fossilizzati della cultura alta. Il folklore è un insieme disorganico, chiuso e angusto che merita di essere studiato solo per poterlo meglio combattere e superare. Tuttavia Gramsci afferma anche che esso è in grado di esprimere una serie di innovazioni, creative e progressiste e in quanto riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo, manifesta una differenza rispetto al progetto culturale egemonico. Da un lato agglomerato indigesto e dall'altro oggettiva espressione di una resistenza alle strategie egemoniche, forma di cultura non puramente inerte o fossilizzata ma capace di svilupparsi creativamente. Con Gramsci si passa da un folklore conservatore, volto ad esaltare i valori fascisti della guerra, della razza e della sottomissione della donna, a un folklore contestativo e rivoluzionario, implicitamente socialista. Un radicale mutamento di paradigma. Ernesto de Martino e le “plebi rustiche del Mezzogiorno” Il tema del folklore progressivo (educazione e emancipazione dei ceti subalterni) richiede di introdurre un altro protagonista della ripresa postbellica, padre fondatore dei moderni studi Dea (demoetnoantropologici) italiani, vale a dire Ernesto de Martino. Di formazione filosofica e storico religiosa fu tra gli allievi di Benedetto Croce. Nei suoi primi scritti degli anni '40 si dedicò alla critica dei presupposti “naturalistici” dell'etnologia classica e al tentativo di una sua rifondazione in senso storicista. Pubblica “Il mondo magico” → approccio al tema del pensiero magico e delle pratiche rituali. De Martino comincia a occuparsi di cultura popolare negli anni successivi, influenzato da Gramsci e dal marxismo, ma soprattutto dalle esperienze di ricerca e di attivismo politico che compie nel Mezzogiorno d'Italia. Il Sud era ancora “sottoviluppato” e considerato uno scandalo per un paese avviato a intraprendere la strada della modernizzazione. Era un problema difficilmente gestibile anche dai partiti della sinistra che puntavano sulla classe operaia delle città del Nord. Il disagio della questione meridionali era espresso bene dal romanzo di Carlo Levi “Cristo si è fermato ad Eboli”. Medico e intellettuale torinese, Levi era stato confinato nel 1935 per la sua attività antifascista in un villaggio lucano e il libro descrive la sua esperienza come una sorta di incontro antropologico con un'alterità locale. La piccola società del paese è rappresentata come fuori dalla storia, con una mentalità primitiva. La primitivizzazione dei contadini del Sud fu assai criticata dalla sinistra marxista. Critiche condivise da de Martino che tuttavia era interessato a evidenziare la dimensione culturale della questione meridionale contro un troppo schematico determinismo economico. Le plebi rustiche del Mezzogiorno andavano studiate non come una collezione di tratti arcaici e pittoreschi, bensì come aspetti centrali della loro condizione storica e sociale. Questo è ciò che de Martino tenta di fare nelle tre grandi monografie sul Mezzogiorno che pubblica tra gli anni '50 e '60. Il mondo magico-religioso dei contadini poveri del sud appare, dagli scritti di de Martino, come tutt'altro che irrazionale o residuale: de Martino ne mostra in modo assai convincente la natura di dispositivo di radicamento esistenziale e di protezione della “presenza” in un mondo dominato dall'incombere quotidiano della miseria e dell'oppressione. Pone in costante relazione, inoltre, le pratiche popolari e subalterne con lo sviluppo storico del discorso egemonico. La persistente vivacità dell'elemento magico e del paganesimo sincretico può essere letto come una forma di penetrazione della cultura dominante. La religione e la magia popolare sono razionali e persino efficaci, secondo quanto scrive de Martino, svolgono bene il lavoro della cultura che è quello di tenere radicati gli esseri umani nel mondo. La magia protegge esistenzialmente le comunità subalterne, ma allo stesso tempo le tiene confinate fuori dalla storia vale a dire fuori dalla possibilità di risolvere i loro problemi nella dimensione della politica, attraverso un reale processo emancipativo. In alcuni scritti de Martino apre alla possibilità di un uso progressivo del folklore. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Un folklore usato per dar voce a quella che i marxisti allora chiamavano “coscienza di classe”. Nel “folklore progressivo” de Martino vedeva la soluzione al dilemma posto da Gramsci, se e in che modo le classi subalterne possono usare una propria distintiva e oppositiva cultura nella lotta per la liberazione. Ma lo stesso de Martino non coltivò a lungo la nozione di folklore progressivo che tuttavia ebbe larga influenza sia nel campo della ricerca che in quello della produzione culturale e artistica. Elogio del magnetofono: Gianni Bosio e la storia dal basso Studiare la cultura popolare significa partecipare alla battaglia educativa e politica per l'emancipazione dei ceti subalterni. Il nuovo folklorista si fa “intellettuale organico” alle classi subalterne. Deve “rendersi partecipe” dando “voce” ai contadini poveri del Sud, operando una mediazione altrimenti impossibile tra il livello subalterno e quello egemonico. La poetica e la politica di “dar voce” sta al centro degli interessi per la cultura popolare tra anni '50 e '60, coniugando la passione etico-politica con una nuova visione della storia e delle scienze umane e ciò non vale solo per il Mezzogiorno. Nell'Italia del Nord opera Gianni Bosio, intellettuale, politico e organizzatore di cultura che persegue il progetto di una storia dal basso. Bosio non ha lasciato opere di ampio respiro ma una serie di scritti e di attività di ricerca sul territorio. Influente è stato il suo “Elogio del Magnetofono” testo introduttivo a una raccolta di fonti orali che esprime una poetica (per non dire un metodo) che sarà condiviso per generazioni di studiosi. Bosio lavorava in contesti contadini e operai con consolidate tradizioni di organizzazione politica e sindacale, il tema della “consapevolezza” era più accentuato e il carattere progressivo della cultura popolare per lui non era un'occasionale eccezione. Era interessato molto più ai fenomeni di trasformazione del folklore, alla sua potenzialità creativa, piuttosto che a quelli di permanenza. Il magnetofono è lo strumento magico che consente di invertire il rapporto tra cultura alta e cultura bassa che spinge l'intellettuale a imparare dalle classi subalterne e non solo a insegnare. La diffusione di mezzi di registrazione audio a costi accessibili fa intravedere nuove possibilità documentarie, relative alle forme classiche della tradizione orale come il canto e la fiaba. Le possibilità documentarie del magnetofono si estendono ai racconti di guerra e della Resistenza, alle storie di vita, alla fenomenologia della vita quotidiana. Non è solo l'antropologia a scoprire le fonti orali, ma ovviamente anche la storia e anche nella storiografia la nozione di cultura popolare ha grande fortuna soprattutto a partire dagli anni '60. La storia dal basso delle classi subalterne viene proposta da marxisti inglesi come Eric Hobsbawm ed Edward P. Thompson e l'ampia influenza della scuola francese delle Annales. Carlo Ginzburg afferma come la cultura popolare sia una moda della storiografia internazionale e italiana, moda che nel nostro paese si era innestata a partire dai testi gramsciani e dal tipo di antropologia praticata dal de Martino. Proprio Carlo Ginzburg è stato il principale, o almeno il più noto, interprete dell'interesse storico per il popolare (es. I benandanti e Il formaggio e i vermi). La necessità di leggere le fonti interpretando il non detto e lavorando sulle incongruenze del discorso egemonico accentua il contrasto tra le due culture, quella egemonica e quella subalterna. Alberto M. Cirese e il consolidamento della nuova demologia Negli anni '60 il dibattito sul folklore ha ormai preso le sembianze della passione per la “storia dal basso” e per il progetto di dar “voce” alle classi subalterne; passioni accentuate dalle trasformazioni in atto all'epoca e non è solo il clima del '68 a farsi sentire. Si resta però ancora un po' nell'ambito della definizione accademica del campo di studi. De Martino muore improvvisamente nel 1965 e per quanto avesse costantemente lavorato sulla cultura popolare non si era mai sentito o dichiarato folklorista. Per de Martino la cultura popolare non definiva una disciplina, era più che altro un ingrediente fondamentale di un campo di studi ben più ampio. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Dopo di lui alcuni studiosi sentono invece il bisogno di dare nuova sistematicità e unità allo studio della cultura popolare. Il principale interprete di questa esigenza è probabilmente Albero M. Cirese, figlio d'arte (il padre Eugenio era poeta dialettale e editore di una rivista di tradizioni popolari, “La Lapa”), è studioso di ampio respiro: pratica il campo del folklore regionale ma è molto attivo anche nel dibattito politico-culturale attorno al meridionalismo ed è tra i primi a traghettare in Italia importanti indirizzi dell'antropologia internazionale (semiotica e strutturalismo). Il suo testo più noto è il manuale “Cultura egemonica e culture subalterne” (1973) su cui si sono formate intere generazioni di antropologi in Italia. Evidente il legame col paradigma gramsciano, Cirese ritene la pubblicazione delle Osservazioni sul folclore il “momento teorico determinante” per il rinnovamento degli studi demologici italiani. Cirese era convinto che la definizione gramsciana potesse offrire una rigorosa delimitazione dell'oggetto di studio della rinnovata disciplina, che preferiva chiamare “demologia”. Cirese riformula i principi gramsciani attraverso la teoria dei “dislivelli interni di cultura”, ovvero i comportamenti e le concezioni degli strati subalterni periferici della società, mentre con “dislivelli esterni” si intende il rapporto con le società etnologiche o “primitive”. L'etnologia studia i dislivelli esterni, la demologia quelli interni. Più precisamente quest'ultima studia la diversità culturale che si accompagna alla diversità della condizione sociale. Cirese evita di stabilire un rapporto troppo meccanico e deterministico tra appartenenza di classe e livelli culturali, è attento a non essenzializzare la cultura subalterna. La sua è una definizione relazionale. Se un oggetto è popolare o no dipende dal suo posizionamento nella dinamica egemonico-subalterno all'interno di un preciso contesto storico: può anche accadere che il medesimo fatto culturale risulti egemonico in un contesto e popolare in un altro. Tuttavia Cirese è anche preoccupato di delimitare la disciplina demologica sulla base di un oggetto peculiare e distintivo, il che lo porta a sovrapporre alla definizione relazionale una più essenziale e sostantiva. La prima spingerebbe a studiare non un oggetto specifico ma le dinamiche storiche che producono la frattura egemonico-subalterno (processi di differenziazione e relazioni tra classi); la seconda definizione spinge a porre al centro dell'attenzione solo alcuni fatti culturali che andrebbero poi a costituire una “cultura” popolare che può e deve essere studiata in modo autonomo e separato rispetto a quella egemonica. Cirese adotta quindi una epistemologia naturalistica secondo la quale ogni scienza deve isolare con chiarezza un proprio oggetto sul quale compiere operazioni di descrizione, classificazione e generalizzazione. Ma naturalmente isolare certi fatti culturali dalla dinamica storica complessiva è proprio quanto la teoria gramsciana vieta di fare. La questione della cultura operaia Verso la fine degli anni '70 la rifondazione della demologia sulla base del “paradigma” gramsciano è largamente condivisa nel panorama degli studi italiani, sono anni di intenso sviluppo della disciplina sia in ambito di ricerca che di insegnamento universitario. La scuola di Cirese si differenzia piuttosto nettamente dagli studiosi, specie meridionalisti, che si riconoscono nell'eredità di de Martino (Clara Gallii, Luigi Lombardi Satriani, Elsa Guggino). Ulteriori orientamenti sono quelli influenzati dall'antropologia culturale anglosassone per lo più antistoricisti e vicini alla sociologia (come Tullio Tentori). Vi sono poi singole figure di studiosi scarsamente riconducibili a schieramenti che sviluppano gli interessi per la cultura popolare in relazione a specifici ambiti tematici (antropologia della religione a cui si dedicano Vittorio Lanternari e Alfonso di Nola, l'antropologia medica a cui si dedica Tullio Seppilli e etnomusicologia per Diego Carpitella e Roberto Leydi). Questa generazione di studiosi pur con accenti molti diversi sembra condividere il progetto della nuova demologia ed è accomunata dal considerare la questione della cultura popolare come il fulcro della tradizione antropologica italiana. Nel 1980 nasce la rivista “La ricerca folklorica” il cui direttore, Glauco Sanga, propose ad alcuni studiosi di rispondere a un questionario che enunciava i Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 principali problemi aperti nel dibattito sul paradigma gramsciano. Il questionario si sofferma sulla nozione di popolo, accettando la caratterizzazione del popolo come classe, come si configura la “cultura del popolo”? Si tratta di un'entità unitaria oppure si dovrà pensare che ad ogni ceto sociale corrisponda una particolare cultura e dunque che le culture subalterne siano molte? Si sofferma anche sulla questione della classe operaia, va collocata nell'ambito della cultura popolare? In realtà escludere la cultura operaia garantisce la continuità con la tradizione folklorica ma si può applicare il concetto moderno di classe alle realtà rurali precapitalistiche? E se si considera la cultura operaia parte integrante del campo di studi demologico sorgono altre difficoltà, infatti è possibile attribuire ad essa quel carattere di alterità, quella natura peculiare e distintiva che si è soliti attribuire alla cultura contadina tradizionale? Ha senso considerare quella operaia come una cultura in senso antropologico, cioè autonoma, altra, compatta e demarcata da confini relativamente netti? Qualità, queste, che apparivano come appartenenti alla cultura contadina e il mondo operaio, specie in quella fase della storia caratterizzata dall'accesso al consumo e ai mezzi di comunicazione di massa e da confini sempre più sfumati rispetto ad altri segmenti sociali come i ceti-medio bassi, non sembrava poterne far parte. Il questionario della “Ricerca folklorica” mentre finge di porre domande ad ampio spettro partendo da un nucleo teorico condiviso, mette a fuoco una contraddizione fondamentale: la visione gramsciana non legittima l'assunzione di una “cultura subalterna” come separata e autonoma che possa rappresentare l'oggetto distintivo di una scienza specifica. Tra uno studio classificatorio dei repertori della tradizione contadina e una teoria della cultura popolare nella realtà contemporanea si apre una disgiunzione, derivata dalle trasformazioni nella realtà operaia. Cultura popolare e cultura di massa C'è chi propone , Pietro Clemente, allievo di Cirese, un ridimensionamento del concetto di folklore, carico di implicazioni arcaicizzanti e ruraliste, e l'assunzione del proletariato industriale dentro l'area di interesse demologico. Per lui la demologia, traendo sempre spunto dall'analisi gramsciana, dovrebbe allontanarsi dalle implicazioni ruraliste e arcaicizzanti del folklore per sconfinare in un'antropologia della dimensione quotidiana dei ceti subalterni contemporanei. L'attenzione alla cultura operaia a quel tempo è praticamente inesistente, con alcune eccezioni come nel caso di Paolo Atzeni, e le forme di cultura di massa restano un oggetto opaco, presente nella consapevolezza degli studiosi ma inafferrabile. Cultura popolare e cultura di massa → Amalia Signorelli (1983) → critica alla visione interclassista della cultura di massa e alle capacità di resistenza opposta ai media e all'industria culturale da parte delle tradizioni locali e delle istante subalterne. Ma è come se l'antropologia fosse legittimata a occuparsi di cultura di massa solo quando questa interviene a modificare il suo oggetto classico, ovvero la cultura popolare. Sembrano invece assenti degli studi sulle culture subalterne basati sull'etnografia del consumo della cultura di massa tra gli strati popolari. In realtà la nuova demologia italiana sembra più preoccupata a demarcare il proprio campo di studi e gli studiosi sentono i contorni della cultura di massa come un confine invalicabile per non sfociare nella sociologia, nella scienza della comunicazione, inoltre molti sono dell'idea che il consumo culturale di massa costituisca una forza ideologica al servizio del dominio e volta all'anestetizzazione delle coscienze. La vera cultura deve essere studiata e valorizzata perché in contrasto col consumo culturale di massa visto come cultura egemonica. Un'altra motivazione è derivata dal fatto che la cultura di massa è oggetto anche di disgusto estetico oltre che di critica teorico-politica. Disgusto verso gli aspetti seriali, artificiosi, inautentici e kitsch della cultura di massa con relativa ricerca, nel folk, di quell'autenticità e spontaneità che sentono mancare nell'altro ambito. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 L'antropologia culturale italiana oggi: quale spazio per la cultura popolare? La demologia nasce attorno a una cruciale tensione sia teorica, sia poetica. Da un lato vi è la fondazione teorica gramsciana che la spingerebbe a concentrarsi sui mutamenti culturali più recenti seguendo le articolazioni del rapporto egemonico-subalterno. Dall'altro vi sono invece la poetica e la politica della salvaguardia e valorizzazione di tratti culturali tradizionali rispetto alla penetrazione dei media e dell'industria culturale. Questa tensione irrisolta finisce per indebolire la stessa categoria di “cultura popolare”, a partire dagli anni '80 infatti la situazione cambia. I tentativi di definire e demarcare il popolare sembrano condurre in vicoli ciechi, oppure fuori dai confini invalicabili della disciplina. Ci si sposta verso altri centri di gravità come le ricerche di etnologia extraeuropea. Gli sviluppi della demologia hanno imboccato altre direzioni, viene sempre posta al centro dell'attenzione la tradizione folklorica ma collocata in quadri interpretativi innovativi e più raffinati. C'è stata una progressiva rinuncia, a partire dagli anni '90, della ricerca di autenticità: gli studi hanno piuttosto sottolineato la capacità di rinnovamento e la tendenza ad intrecciarsi con le dinamiche della cultura mediale e globalizzata della tradizione popolare. L'attenzione dei demologi si è spostata sulle pratiche di rappresentazione e patrimonializzazione della tradizione. Si è sviluppato un filone di antropologia museale a partire da un'opera di Cirese, la quale ha trovato i suoi punti di forza nelle università e in una rete di musei etnografici locali. Alle pratiche museali si è accompagnata una riflessione sui processi di patrimonializzazione della tradizione e dei beni etnografici in dialogo critico con le politiche culturali dell'Unesco relative ai “tesori viventi” e al “patrimonio intangibile”. Studi che continuano ad assumere la tradizione contadina e folklorica come oggetto distintivo dell'approccio demologico o antropologico. Tutto questo fa perdere di vista l'obiettivo teorico attorno alla quale la nuova demologia si è costruita tra gli anni '60 e '70: vale a dire l'ambizione di porre in relazione le differenze culturali con quelle sociali e il tentativo di seguire l'articolazione egemonico-subalterno ben oltre il mondo contadino. Tuttavia blocca la paura di scadere nella generica “sociologia”. Mentre la demologia aveva come punti di forza il marxismo, la semiologia e lo strutturalismo, gli attuali studi di antropologia della cultura di massa poggiano sugli approcci interpretativi di stampo geertziano, oppure su una qualche forma di teoria delle pratiche”. Mentre la prima tendeva a produrre repertori documentari e filologici, i secondi puntano sull'etnografia in profondità di singoli casi. L'ideale, per un ulteriore e concreto sviluppo dell'antropologia italiana, sarebbe arrivare a pensare cose apparentemente inconciliabili (il teatro contadino con le partite di calcio, i canti popolari e le soap operas, le fiabe orali e quelle di Walt Disney) all'interno di una medesima cornice interpretativa. La stagione del folklore: romanticismo, positivismo, fascismo Invenzione della cultura popolare: l'interesse popolare nasce in Europa almeno a partire dalla seconda metà del '700 dal momento in cui i ceti dominanti e intellettuali cominciano a pensare sé stessi come moderni, ovvero come le avanguardie di un percorso di progresso materiale e spirituale che si lascia alle spalle i residui arcaici. Capitalismo, tecnologia e industrializzazione, liberismo e illuminismo sono i capisaldi di una nuova visione del mondo che però procedono in modo disuguale lasciando dietro di sé zone d'ombra o residuali: i dislivelli di cultura, citando Cirese. Le forme culturali considerate come sopravvivenze di civiltà passate cominciano a interessare gli intellettuali moderni: vulgares antiquitates o popular antiquities, poi denominati “folklore”, termine coniato nel 1846 da William J. Thoms, studioso inglese. Lo studio della cultura popolare prende corpo fra '700 e '800 nella grande stagione del Romanticismo, si può dire che sia stata inventata più che scoperta è in quest'epoca che infatti si fa Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 strada l'idea di una cultura peculiare e distintiva prodotta dal popolo come entità collettiva. Il volksgeist è ispirato della vita artistica come di quella politica. Alle origini della folkloristica italiana: Niccolò Tommaseo e Beatrice di Pian degli Ontani In Italia questo spunto arriva con qualche ritardo, l'atto di nascita di un campo autonomo della cltura popolare è forse rappresentato dalla Gita nel Pistojese, testo pubblicato nel 1832 dal filologo Niccolò Tommaseo che narra il suo incontro con Beatrice di Pian degli Ontani, la poetessa pastora. L'antichità, l'istinto, la natura, il popolo: vi è una continuità essenziale tra questi elementi che concorrono a costituire per Tommaseo un'idea di bellezza autentica da riscoprire contro la modernità sempre più industriale, con una critica all'infiltrazione degli elementi estranei. Tuttavia non sono i montanari o i contadini che interessano a Tommaseo ma una specie di valore eterno che essi incarnano quasi indipendentemente dalla loro volontà. Un popolo astratto si potrebbe dire che rappresenta sia un soggetto artistico che politico, infatti Tommaseo colorerà il suo lavoro di toni risorgimentali e irredentistici con la pubblicazione di quattro volumi basati sulla raccolta di canti popolari toscani, còrsi, illirici e greci negli anni '40 dell'800. Nel suo scritto Tommaseo, però, non pensa per un attimo di potersi rivolgere “a loro”; parla invece “di loro” per un pubblico e interlocutori diversi e per finalità estranee al mondo popolare. Storie degli studi “interne” ed “esterne” Le storie degli studi presentano questo momento come il primo riconoscimento dell'importanza dell'oggetto di studio, la cultura popolare per l'appunto. Si tende poi a considerare l'oggetto di studio come qualcosa di già esistente ma non ben inquadrato, cercando a dimostrazione dei precursori o dei proto-folkloristi, scrittori che hanno ciò documentato aspetti della vita culturale del popolo pur in assenza di una cornice sistematica di studi, si include così, in Italia, Ludovico Muratori e Michelangelo Carmeli. Il passaggio da un interesse polemico e accusatorio nei confronti delle credenze e dei costumi popolari ad un atteggiamento più neutralmente descrittivo e documentario viene considerato il momento decisivo e fondante della nascita degli studi folkloristici. Con la fase romantica si assiste all'apertura di un nuovo spazio di ricerca nel quale è possibile collocare la nozione di popolare, estetico e politico ancor prima che filologico → interesse dei nuovi ceti dirigenti per questioni di consenso e identitarie, pur sentendosene radicalmente separati. Gli intellettuali romantici tendono o a provare ammirazione estetica per la semplicità e autenticità delle forme folkloriche o a provare disprezzo o ironia verso l'ignoranza, l'arretratezza, i pregiudizi e le superstizioni. Capita anche che questi due atteggiamenti si possano combinare in modo non contraddittorio. Il folklorista, inoltre, tendono a immaginare sé stessi come gli ultimi in grado di documentare un'antica tradizione che si va disperdendo e che sarà scomparsa nel giro di una generazione. In Italia lo spirit romantico alimenta per tutto il secolo un robusto filone di studi sul canto popolare, nella seconda metà del secolo lo slancio emancipativo risorgimentale si rovescia talvolta in una contemplazione nostalgica del mondo contadini di segno decisamente conservatore. Negli ultimi decenni del XIX secolo questi studi assumono un più solido impianto positivistico e filologico: più che sugli effetti estetici, l'accento viene posto sull'analisi linguistica, sul confronto delle varianti, sulle ipotesi di diffusione storico-geografica. La stagione positivista A cavallo tra i due secoli in Italia si sviluppano due scuole di studi folklorici: la scuola siciliana, il cui membro rappresentativo fu il medico palermitano Giuseppe Pitrè (nel 1911 introduce nell'Università un insegnamento che trae il “popolo” a proprio soggetto, denominandolo Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 demopsicologia); la scuola fiorentina, che discende dagli insegnamenti di Paolo Mantegazza che fin dal 1871 aveva fondato una Società italiana di antropologia ed etnologia. Lamberto Loria, viaggiatore e intellettuale, dopo lunghe missioni all'estero decide di dedicare la propria attenzione alle regioni italiane. Nel 1906 Loria fonda a Firenze il Museo di etnografia italiana i cui materiali confluiscono a Roma nella Mostra etnografica delle regioni organizzata per il cinquantenario dell'Unità italiana (1911). Giovenale Vegezzi Ruscalla fu il primo a introdurre in Italia il termine etnologia con riferimento tanti ai popoli di cultura che a quelli di natura. L'antropologia di Mantegazza, della scuola fiorentina, era fisica, scientifica, si pensava e programmava come generale sottoponendo al metodo naturalistico, al dominio biologico, anche i fatti e i comportamenti culturali. Proposte strategiche di convergenza dei vari filoni di indagine andarono concretizzandosi agli inizi del '900 unitamente alla presa d'atto che il metodo fisico-naturalistico non poteva coprire i fenomenti della realtà sociale. Aldobrandino Mochi, nel 1902, esprime l'esigenza di guardare “vicino” al “popolo” italiano contadino, quello della campagna, nei monti. Fu esattamente quello il punto ripreso da Loria nelle sue ricerche. Frutto di questo mutamento di orizzonti sarà nel 1910 la Società di etnografia italiana. Sia la Società che la Mostra etnografica sono simbolo di una complessiva volontà di aperture, innovazioni, prospettive per impegni di alto profilo. Alle intenzioni non seguirono però i fatti, mancò infatti un vero e proprio sviluppo delle scienze antropologiche. Vennero improvvisamente e rapidamente a mancare figure di rilievo, nel 1913 Lamberto Loria, nel 1915 Francesco Novati, suo successore alla presidenza della Sie (società italiana di etnografia), nel 1916 Giuseppe Pitrè. Così come sembra doversi a pigrizia interpretativa la ricorrente constatazione secondo cui “a causa della Prima guerra mondiale intercorsero vari anni di stati”. Giuseppe Pitrè: fortuna e oblio Nato a Palermo, morirà nella stessa città nel 1916, a settantacinque anni, città dal quale si era raramente mosso. Di formazione scientifica, aveva esercitato tutta la vita la professione medica ma fin da giovane aveva anche coltivato passioni letterarie. L'attività medica lo tiene in contatto costante con il “popolo” di cui documenta modi di parlare, repertori di tradizione orale, usi e costumi, riti e cerimonie e via dicendo. Alla sua morte Pitrè si lascia dietro un'opera immensa sulle tradizioni popolari della sua Sicilia e di altre regioni: Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane (venticinque volumi, 1871-13), Bibliografia delle tradizioni popolari d'Italia (1894) Novelle popolari toscane, Curiosità popolari tradizionali. Pitrè però era relativamente poco discusso nella comunità demologica e antropologia italiana, viene costantemente nominato come una sorta di curioso e preistoico antenato, è così almeno a partire dal radicale rinnovamento degli studi italiani nel secondo dopoguerra. Il medico palermitano sta inoltre al centro di un dibattito degli anni '50 tra Ernesto de Martino e Paolo Toschi, il primo sostiene la necessità di rifondare l'etnologia italiana a partire dalla tradizione storicista De Sanctis-Croce-Gramsci, il secondo invece nega questa necessità, affermando che gli studi antropologici italiani avessero già una genealogia precisa, nella quale include anche Pitrè oltre a Comparetti, D'Ancora, Novati e Barbi. Su Pitrè si scarica la replica di de Martino che allo scrittore siciliano attribuiva un attardamento in “antichi miti romantici sul popolo, nonché parecchi detriti positivisti, e un concetto sostanzialmente erudito e filologico del lavoro storico”. Una fallacia epistemologica che de Martino vedeva anche in Toschi. Se de Martino voleva portare la disciplina verso l'impegno teorico dei moderni studi sociali, Toschi la teneva ancorata a una tradizione filologica e classificatoria. Lo scontro venne vinto da de Martino e il suo appassionato impegno per l'emancipazione delle plebi rustiche del Mezzogiorno appare gli antipodi delle divertite e paternalistiche annotazioni pitreiane sullo spirito popolare. Eppure Pitrè è stato tirato scorrettamente in ballo sia dall'uno che dall'atro. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Da un lato de Martino minimizza l'opera di Pitrè non considerando il suo peculiare posizionamento che tutto sommato lo porta a “far storia” senza limitarsi al contesto positivista. Anche Toschi trascura i contesti di riferimento, dimenticando che Pitrè si muoveva in uno spazio teorico avanzato, in contrapposizione con quella scuola folklorica più chiusa e provincializzata sostenuta da Toschi. Il populista Pitrè Forse è proprio quel dibattito che ha ostacolato un pieno apprezzamento storiografico del ruolo di Pitrè negli studi italiani. Si è spesso considerato Pitrè il paradigma dell'atteggiamento paternalistico verso il popolo che caratterizzava gli intellettuali liberali ottocenteschi. Si è parlato di un “orientalismo” in Pitrè, ovvero di una tendenza a rappresentare il popolo studiato come “altro” e “barbaro”, come a volerlo distanziare dal ceto dirigente e considerare funzionale alle strategie di dominio. Le cose però sembrano più complesse, infatti in Pitrè si può sì notare questo distanziamento oggettivante dalla vita e dalla cultura popolare ma anche un certo grado di inclusione e partecipazione. L'autore non osserva chi studia dall'alto, mostra sì di non appartenere socialmente a quel mondo ma allo stesso tempo di farne parte in un altro senso dimostrando un elevato grado di intimità culturale, differenziandolo da studiosi come Frazer o Niccolò Tommaseo, il primo mantiene una distanza fisica e l'altro una distanza mentale, comportamentale. Pitrè si ritrova anche a difendere quel “suo” popolo siciliano dalle esplicite o implicite accuse di arretratezza e “barbarie” anche a costo di “culturalizzare” qualcosa di criminoso come la mafia. Pitrè si schiera con l'apparente irrazionalità del popolo per prendere la distanza da forme di governo che pretendono a una razionalità considerata “esterna” all'anima siciliana. Qua emerge un elemento populista nel suo pensiero, proprio nel senso moderno e politico del termine. Ma difficilmente il posizionamento retorico di Pitrè potrebbe ridursi a un “orientalismo” interno. Fascismo e folklorismo di Stato La Prima guerra mondiale rappresenta uno spartiacque decisivo che interrompe la migliore vena degli studi positivistici e apre una fase di stagnazione e isolamento accentuata dalla forte citica di Benedetto Croce all'approccio naturalistico degli studi folklorici del tempo, influenzati dal positivismo. Riteneva impossibile una conoscenza dei fenomeni umani e sociali mediante pretese naturalistiche, Croce inoltre considera le scienze sociali come pseudo-scienze. Infine ci fu il fascismo che si appropriò del folklore italiano sul piano ideologico a scopo di propaganda: il nazionalismo, il ruralismo, il ruolo subalterno della donna vennero valorizzati come elementi tradizionali. I folkloristi si legarono irrimediabilmente e non in maniera superficiale al nuovo regime fascista che concedeva loro spazio in ambito universitario e di ricerca, supportando anche le sue posizioni sempre più razziste anche durante la Seconda guerra mondiale. Un museo di frammenti: Antonio Gramsci e la cultura popolare Il concetto di cultura in Gramsci Il radicale rinnovamento degli studi antropologici italiani nel dopoguerra è segnato dalle pagine dei Quaderni del carcere che Gramsci intitola “Osservazioni sul folclore”. In questi passi si può individuare una tensione fra un'accezione positiva e una negativa del concetto di cultura popolare e di folklore. Tensione cruciale per comprendere l'influenza che essi eserciteranno sugli studi etnoantropologici. Il folklore viene definito da Gramsci come “concezione del mondo e della vita” Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 espressione che oggi potrebbe essere accostata al concetto antropologico di cultura. In Gramsci il termine “cultura” non compare mai nell'accezione antropologica e relativista, cioè come un sistema di significati che struttura sfere di percezione del mondo e di pratiche quotidiane. Cultura è per lui qualcosa di simile a una morale, ad una filosofia in grado di produrre effetti politici (di consenso o opposizione) e di muovere l'azione storica. Questo aspetto del pensiero gramsciano sta alla base della sua riscoperta da parte della “antropologia critica” contemporanea, quella che si fonda sulla “decostruzione” del concetto classico di cultura a favore della centralità dell'economia politica. Antropologia è usata da Gramsci in senso filosofico, come studio delle modalità storiche di costituzione dell'umano, ma siamo molto lontani dall'idea di una scienza sociale positiva. In Gramsci la cultura non rappresenta un dominio autonomo, piuttosto un precipitato che si genera costantemente nel corso della storia. I modi di essere e di vivere il mondo sono forme particolari assunte in un certo momento del tempo dalla interazione di una moltitudine di processi storici. Le differenze culturali sono prodotte da un processo storico complessivo che le articola lungo una linea egemonia-subalternità. Inoltre Gramsci mira a rendere più fluide le distinzioni culturali, il popolo per lui non è da considerare come un'unità ben delimitata ma come un insieme di tanti segmenti ognuno con le sue peculiarità. C'è una pluralità di gradi o livelli che sembrano sfumare uno nell'altro. Gramsci etnografo? Il popolo, l'insieme di classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistità, non può avere concezioni del mondo elaborate, sistematiche e organizzate. Le risorse per produrle sono nelle mani dei ceti dominanti. Per questo il folklore si configura come “agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia”. Si costituisce per “caduta” di elementi residuali e fossilizzati della cultura alta. Nella visione gramsciana tuttavia il folklore non è solo un deposito inerte di disorganiche sopravvivenze, esso è anche in grado di esprimere una serie di innovazioni, spesso creative e progressiste. In quanto riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo, il folklore manifesta una differenza irriducibile rispetto al progetto culturale egemonico, ne rappresenta un limite. Da notare come Gramsci non parli mai di “folclore” quando si inoltra nei dettagli etnografici della vita popolare o nelle forme espressive radicate nel mondo locale della Sardegna. Ma è chiaro che si stia riferendo a qualcosa di simile a un concetto di cultura che noi chiamiamo “antropologico”, inteso come radicamento in un mondo locale di significati. Questa sembra, anzi, per Gramsci la base di ogni autentica cultura, inclusa quella alta. Lo scrittore sardo manifesta interesse per quei generi espressivi della cultura popolare che possono divenire veicolo di un discorso più esplicitamente politico. La cultura popolare viene definita in termini di contrapposizione tra piano ufficiale e non ufficiale. Per Gramsci la cultura popolare lavora sottobanco, in modo interstiziale, riplasmano in relazione alle sue esigenze la materia prima ufficiale o istituzionale. Contrapposizione tra due aspetti della cultura popolare: una fase spontanea, non ufficiale o persino “naturale”, caratterizzata da vitalità creativa, e una fase in cui essa viene rappresentata in modo oleografico, ufficializzato e ingessato verso la quale Gramsci è molto critico. Folklore, senso comune, educazione del popolo Gramsci accosta spesso il concetto di folklore a quello di senso comune. I due concetti sono accomunati dalla natura frammentaria, disorganica, contraddittoria: vale a dire dal non risultare composti in un sistema di sapere ufficiale, elaborato da professionisti, entrambi sono un sedimento che le concezioni sistematiche e ufficiali lasciano dietro di sé nel loro trascorrere storico. Folklore e senso comune sono entrambi socialmente caratterizzati, ogni strato sociale ha il proprio. Verso entrambi Gramsci si esprime più volte nel senso di un loro necessario superamento. L'educazione Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 popolare deve partire dall'analisi critica del senso comune e anche il folklore va preso sul serio per poterlo meglio superare. Quando parla di folklore Gramsci si riferisce all'oggetto creato dalla “scienza” della relativa tradizione di studi italiani in merito alla cultura popolare, fossilizzato e destoricizzato, che egli si sforza di distinguere e districare da un concetto più vivo e storico di cultura popolare. Il folklore va restituito alla storia, al confronto con la modernità. Solo così può smettere di essere un agglomerato indigesto, di vivere nell'isolamento dal flusso culturale. Nazionale, provinciale, folkloristico Per Gramsci lo studioso di cultura popolare si deve liberare dalla paura che la modernità gli distrugga l'oggetto della sua scienza. Questo lo porta ad entrare in polemica contro un folklorismo che isola il suo oggetto dalla modernità e dai vivi processi culturali. La “cultura del popolo” viene valorizzata a patto che il “popolo” stia al suo posto e non la rovini con “volgari” processi di modernizzazione. Il che significa che lo sguardo folkloristico è strutturalmente rivolto verso il passato. Gramsci rimarca non tanto l'esistenza del folklore come cultura antropologica separata o parallela rispetto a quella delle classi dominanti; bensì l'esistenza di uno scarto all'interno della storia della cultura italiana o europea per cui si presentano “concezioni” che non corrispondono a quelle ufficiali ed egemoniche. A questo scarto, produttore di differenza, si contrappone l'operazione dei folkloristi che invece neutralizzano questa materia prima attraverso rappresentazioni oleografiche e fossilizzanti. Nazionale: un carattere è nazionale quando è contemporaneo a un livello mondiale determinato di cultura ed ha raggiunto questo livello. Provinciale: carattere anacronistico, un'immagine esteriore stravagante, bizzarra, teatrale, tutte caratteristiche del fascismo, si noterà. Sono gli intellettuali a produrre quell'immagine “pittoresca” della cultura popolare, che ostacola la possibilità di studiarla come concezione del mondo e della vita delle classi subalterne. Gramsci considera l'ingessatura della cultura popolare e la messa in scena melodrammatica di caratteri da romanzo d'appendice come aspetti di uno stesso processo politico-culturale che rende provinciale la cultura italiana e le impedisce di accedere a un'autentica dimensione nazionale. Letteratura popolare Gramsci nei suoi Quaderni si impegna a tracciare differenze tra segmenti diversi di pubblico che consumano generi diversi di romanzi popolari. La sociologia della letteratura non viene tracciata da Gramsci secondo una logica dicotomica ma come un campo di sottili distinzioni, con molteplici sfumature e chiaroscuri. Alto e basso,colto e popolare, non sono affatto “unità culturali” ben distinte e internamente autonome e coerenti, ma qualità che si combinano variamente e che assumono significato solo in modo relazionale, vale a dire l'una in rapporto all'altra. Il relativo isolamento degli strati sociali più alti e più bassi tende a produrre maggiore compattezza e stabilità delle rispettive configurazioni culturali. Un certo grado di isolamento è proprio ciò che caratterizza il modo di vita contadino, vale a dire il regno della tradizione folklorica in senso stretto. Nell'isolamento comunicativo dei contadini e nella loro esclusione dall'istruzione e dagli strumenti della produzione culturale alta stanno le condizioni di esistenza di un cultura folklorica distinta e demarcata. Riguardo al mondo contadino il rapporto egemonia-subalternità prende la forma di configurazioni culturali relativamente chiuse e compatte: si capisce così anche l'uso dell'aggettivo “folcloristico”per prodotti della cultura più alta, aristocratica o borghese che includono motivi di isolamento rispetto al livello nazionale-europeo-mondiale. La televisione è uno strumento tipicamente nazionalpopolare che rompe una volta per tutte Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 l'isolamento culturale di certi strati popolari. Ma nel nuovo contesto di una circolazione globale delle comunicazioni di massa, il consumo esclusivo di una televisione fatta di pochi canali nazionali diventa fattore di chiusura e produce tendenze “folcloristiche” largamente usate dalla politica cosiddetta populista. Paradossalmente, secondo la logica dei Quaderni, l'ampio successo del folk nel dopoguerra non potrebbe invece essere giudicato in termini di “folclorismo”; la consapevole ripresa delle tradizioni in contrapposizione alla cultura pop e di massa esprime un'esigenza “alta”, per molti versi egemonica, prodotta da emancipazione e da più larghe vedute e non certo dall'isolamento. “Folclorismo” nella storia recente, sarebbe quindi da individuare nella costruzione di sfere di consenso basate sull'isolamento da più ampie sensibilità europee o globali. Gramsci e la demologia Gramsci attribuisce grande importanza al radicamento locale e tradizionale della cultura; il che lo porta ad assegnare un positivo valore educativo ed espressivo alle forme del popolare, dal dialetto alle etnoscienze ai generi estetici ed espressivi. Queste forme sembrano le basi necessarie per il salto culturale che Gramsci auspica per il conseguimento dell'educazione. Ma per riferirsi a queste forme vive di cultura radicata in tradizioni e in mondi locali, Gramsci non usa il termine folclore. Quest'ultimo nei Quaderni ha spesso una connotazione negativa, associato al senso comune, al provincialismo. Viene quindi valorizzata la cultura popolare e criticato il concetto di folklore. Si mantiene l'idea del folklore come insieme disorganico di fossili destorificati, totalmente dipendenti dalla cultura egemonica, da superare. Si fa strada l'idea di una autonoma capacità creativa, innovativa e progressista dovuta al legame storico con le classi subalterne, tolto il legame diventa solo un agglomerato indigesto da superare. Lo scarto strutturale fra il livello ufficiale e quello delle pratiche e dei saperi diffusi costituisce la teoria della cultura popolare. Il progetto egemonico non aderisce mai fino in fondo alla superficie dell'esistenza quotidiana dei ceti popolari. Questo concetto gramsciano legittima l'uso che nella seconda metà del '900 ne verrà fatto in Italia? Legittima la costituzione di una scienza demologica basata su una rigida demarcazione del proprio oggetto, distinta dall'antropologia per il fatto di studiare i dislivelli interni, dalla sociologia e dall'analisi delle comunicazioni di massa per il fatto di studiare solo la cultura subalterna e non quella egemonica? La risposta sembra decisamente negativa. Quando Gramsci dice che il folklore andrebbe studiato piuttosto come concezione del mondo e della vita non sta semplicemente proponendo una differente definizione di un “oggetto”. Sta invece mettendo in discussione proprio quel processo di oggettivazione e fossilizzazione, sta sostenendo che quelle concezioni e quei frammenti indigesti non possono essere compresi separatamente dalla cultura egemonica, dalla storia degli intellettuali, dai processi di modernizzazione che ne rappresentano la base e il contesto. La nascita di questa disciplina con forti tratti di continuità col passato, orientata allo studio di una tradizione contadina dai tratti arcaici, ossessionata dal problema della demarcazione del proprio oggetto rispetto alla cultura di massa e da quello della difesa del vero folklore rispetto al falso folklorismo sicuramente è derivata anche dal clima culturale nell'immediato dopoguerra, dominato dalla questione meridionale. L'impatto di Gramsci sulla nuova demologia del dopoguerra è stato meno forte di quanto siamo soliti rappresentarci. La disciplina non ha raccolto fino in fondo gli spunti critici e le sollecitazioni teoriche ed empiriche proposte nei Quaderni. Si è attardata in una delimitazione rigida e essenzialista del proprio oggetto e la rottura col proprio passato è stata solo parziale. Gramsci venne usato e citato in modo superficiale senza andare ad intaccare veramente l'inerzia di tradizioni disciplinari profondamente incistate nelle istituzioni e nel senso comune. C'è quindi da chiedersi se la rivoluzione gramsciana ci sia stata veramente. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 Popolo, popolare, populismo: il dibattito sul folklore Ernesto de Martino e il “dibattito sul folklore” I Quaderni del carcere sono pubblicati a partire dal 1948; le Osservazioni compaiono invece nel 1950. Sono scritti che documentano le condizioni delle classi subalterne e illustrano il funzionamento del progetto egemonico; la loro analisi acquista significato nel quadro di una più vasta indagine delle disuguaglianze sociali. Gli studi di folklore non venivano reputati come una branca di studi autonoma, Il folklore per Gramsci non è una cultura isolata e compatta ma un frammentario insieme di residui dei processi di formazione dell'alta cultura. Tanto meno rappresenta una sorta di cultura rivoluzionaria da difendere o rivendicare in contrapposizione alle classi dominanti. Ernesto de Martino lo affronta apertamente, la sua lettura a caldo del testo gramsciano ne coglie soprattutto gli accenti di critica al folklore: quest'ultimo sarebbe un “ostacolo che deve essere rimosso” di fronte al compito di costruzione di una nuova cultura nazionale che unifichi intellettuali e popolo. Il folklore è per Gramsci servitù ideologica, disgregazione culturale, testimonianza della limitazione umanistica della cultura borghese. Che senso può avere allora una scienza del folklore? La risposta che de Martino propone riguarda il concetto di “folklore progressivo”, sul quale stava lavorando in quegli anni in relazione a una ricerca in Emilia-Romagna. Nel clima culturale che fa seguito alla Resistenza, con i movimenti dal basso che riavvicinano intellettuali e popolo, anche il folklore può assumere connotazioni progressiste: creazione dal basso di elementi culturali che “nascono come protesta del popolo contro la sua condizione subalterna, o che commentano, esprimono culturalmente, le lotte per l'emancipazione.”. Gli esempi che de Martino riporta sono canti tradizionali modificati per esprimere istanze sindacali o politiche. De Martino tuttavia abbandonerà presto questo tipo di interesse e il concetto stesso di folklore progressivo, anche attraverso un'autocritica esplicita. Fa ogni sforzo per distanziarsi dall'immagine dei classici raccoglitori di credenze e pratiche tradizionali. La magia, il lamento funebre e il tarantismo gli appaiono come sistemi culturali intimamente connessi alla condizione esistenziale delle “plebi rustiche del Mezzogiorno”. Non vi è nulla di intrinsecamente “progressivo” in essi: al contrario, si possono leggere come sintomi della secolare oppressione dei contadini meridionali, però è importante studiarli non solo come elementi costitutivi della loro storia ma anche nella prospettiva della piena inclusione di quei ceti sociali nella nuova coscienza nazionale che i movimenti progressisti cercano di costruire. Giuseppe Giarrizzo avveva colto l'occasione di una recensione-stroncatura del testo di Cocchiara sulla Storia del folklore in Europa per lanciare un attacco piuttosto scomposto all'interno campo degli studi sulle culture popolari e alla possibilità di una loro autonomia disciplinare. Le culture folkloriche, così come quelle “primitive”, non sono forme autonome di creazione, ma semplicemente la “prmanenza in aree laterali dei ruderi di uno stadio precedente”. Da ciò si dovrebbe concludere che “non ha senso uno studio autonomo di tutto ciò che è popolare”. I singoli tratti folklorici potrebbero e dovrebbero piuttosto essere studiati all'interno di discipline già esistenti. Giarrizzo se la prende proprio con de Martino e lo critica su punti che toccano nervi scoperti. Non manca di far riferimento alla definizione gramsciana di folklore come agglomerato indigesto, chiedendosi come si possano riportare a unità questi frammenti. In definitiva, conclude Giarrizzo, neppure il richiamo al “popolo” come forza sociale attiva, e magari molla del mutamento e del progresso, basta a conferire unità e autonomia alla sua cultura. Ora è curioso osservare come sul fronte opposto, quello marxista e materialista, si raggiungessero conclusioni analoghe. Il “dibattito sul folklore” è quello dell'intellettuale e dirigente comunista Mario Alicata pubblicato su “Cronache meridionali” nel 1954. Presa di distanza dal meridionalismo alla Carlo Levi, che indugia eccessivamente su un'immagine arretrata, ignorando i suoi elementi di modernità e dinamicità. Anche de Martino è trascinato nella polemica, pur facendogli dei complimenti, Alicata lo accusa di conferire autonomia alla magia popolare. Resta incompreso l'obiettivodi de Martino che era piuttosto quello di correggere la ragione progressista fino a ricomprendere le istanze esistenziali poste dalla magia e dalla religione popolare. Alicata sottolinea tre precetti metodologici che Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 sembrano scaturire dal Quaderno 27 di Gramsci: bisogna guardarsi dal postulare l'esistenza di un mondo culturale unitario; secondo, i diversi contesti culturali delle campagne meridionali vanno studiati in rapporto ai legami in cui essi si trovano con i mondi culturali “ufficiali”; terzo, in tali contesti occorre distinguere gli aspetti vivi e morti, positivi e negativi, aiutando i secondi a scomparire e i primi a progredire. Lo sproposito del folklore come scienza autonoma Giarrizzo e Alicata convergono nell'attacco verso una “scienza del folklore”, che sembrano interpretare come una forma di populismo. Il primo a difesa della ragione progressista e il secondo del materialismo storico. Autonomizzare il folklore equivale al rifiuto di riconoscere il ruolo direttivo delle élite, le uniche in grado di elaborare una cultura organica e una coscienza storica produttrice di progresso, inclusa la coscienza di classe. Dietro il gesto apparentemente innocuo del folklorista potrebbe nascondersi la legittimazione di un popolo indisciplinato. Come risponde de Martino? In sintesi difende il popolo ma abbandona il filklore. Da un lato prende risolutamente le parti delle plebi rustiche del Mezzogiorno ma dall'altro prende le distanze da quella scienza del folklore sulla quale i suoi critici sembrano volerlo appiattire. La risposta ad Alicata, da parte di de Martino, si risolve in un attacco pesantissimo a Giuseppe Pitrè, fondatore degli studi positivistici italiani sul folklore. Nella risposta a Giarrizzo critica duramente gli studi folklorici, riconoscendo di essere rimasto lui stesso “impigliato in queste illusioni” da cui si è liberato con fatica e conclude affermando che gli aspetti positivi del “risveglio folklorico” prevalgono sui rischi, nell'ottica di un'esigenza di un umanesimo più ampio. Il folklore non è una scienza, né è in sé storia: è una “particolare istanza documentaria”, così come l'etnografia è una tecnica di raccolta. De Martino, anche nel suo Sud e magia, si pone al di fuori della tradizione folklorica e all'interno di un'idea di storiografia. Tuttavia resta in quei lavori una coerenza con l'interpretazione dello storicismo gramsciano maturata nel “dibattito sul folklore” dei primi anni '50, nonostante sembri allontanarsi anche da Gramsci. Il punto fermo è il rifiuto di isolare una scienza del folklore da una comprensione più ampia delle dinamiche sociali e di preparare lo studio degli aspetti subalterni della cultura da quello dei processi egemonici. De Martino tratta il materiale popolare non come unità autonoma ma nella sua costante interazione storica con le categorie egemoniche e con gli intellettuali che di tale interazione sono stati protagonisti. Fenomeni moderni, frutto di un rapporto costante tra classi sociali e livelli culturali. 3.L'interpretazione demologica di Gramsci Il dibattito successivo alla pubblicazione dei Quaderni si concentra sul dilemma dell'autonomia del folklore. Gramsci valorizza il tema e invita a considerarlo una “cosa seria” e conferisce al campo un denso spessore teorico, d'altra parte non lo può considerare come un oggetto unitario e separabile da altri momenti della cultura. Tuttavia molti commentatori, sia crociani che marxisti, tornano a considerarlo come una sorta di relitto evolutivo, residuo di inciviltà di cui occorre disfarsi. De Martino, al contrario, fonda su questa tensione il suo progetto di etnografia e storia religiosa del Mezzogiorno. La sua soluzione consiste nel valorizzare i temi della cultura popolare nel quadri di un ampliamento della coscienza storiografica dell'Occidente ma alla condizione di strapparli dalla tradizione naturalistica degli studi folklorici, considerati non autonomi. Il folklore per de Martino è un agglomerato di avanzi di cui non si può fare storia, ma solo perché questi avanzi sono stati isolati dagli studiosi. Per questo de Martino cerca di rifondare una pratica di studi sulla cultura popolare recidendo i legami con la tradizione folklorica che già Gramsci accusava di indulgere nella ricerca del “pittoresco” e di limitarsi a selezione e classificazione. Tuttavia, dopo la morte di de Martino nel 1965, alcuni studiosi che si erano imbarcati nel suo progetto intraprendono una strada diversa: tentativo di ricostruire su basi gramsciane un'unità dell'oggetto folklorico e della sua “scienza”: si forma così la “demologia”. Alla fine degli anni '60 il folk è diventato un tema o un genere di successo nel quadro del movimentismo politico e delle forme di cultura alternative. D'altra parte antropologia culturale e demologia cercano un loro posto stabile in una università che sta diventando di massa e nella quale si riconfigura il sistema dei saperi Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 scientifici. Comincia a essere “patrimonializzato” e lo si usa per certe combinazioni con le culture giovanili in protesta. Si avverte un'esigenza di autonomia, mostrandolo come una cultura separata e alternativa a quella dominante. Esempio: Luigi M. Lombardi Satriani. Per Lombardi Satriani la consapevolezza del dominio di classe fa tutt'uno con la lotta all'etnocentrismo e all'esclusivismo culturale che caratterizza il pensiero antropologico: antropologia e demologia come principali interpreti della coscienza di classe legata alla visione marxista del mondo. Esattamente al contrario rispetto all'accusa di populismo da parte dei dirigenti comunisti degli anni '50. Difficile parlare di cultura subalterna se non in un discorso egemonico. Alberto M. Cirese è l'autore che più si impegna nella fondazione teorica di una nuova demologia su basi gramsciane: anni '50 posizione “populista”, rivendica l'autonoma capacità creativa del proletariato affermando che “il mondo del folklore non è la degradazione del mondo egemonico: è un mondo cresciuto su sé stesso con movimenti che hanno una fisionomia propria”. Cultura insomma. Ma Cirese si rende conto che un'interpretazione del genere deve fare i conti con le tensioni del testo gramsciano: come trasformare in una cultura l'”agglomerato indigesto”? La via di uscita dalla tensione tra agglomerato indigesto e forma di resistenza alla cultura dominante consiste nel fatto che Gramsci usi spesso il termine associandolo all'espressione “concezione del mondo”. Unità di fatto: ciò che appare come agglomerato indigesto all'intellettuale che lo osserva dall'esterno, è invece unità organica per chi ci vive dentro. L'antropologia, col suo sguardo del nativo, ha il diritto di studiarlo. Secondo Cirese “Gramsci opera la legittimazione di un oggetto e di un settore di studi sulla base di una definizione dell'oggetto stesso”. 4.Jeans Rodeo e James Bond: dove si inceppa l'impianto teorico della demologia Cirese su questo punto torna pochi anni dopo nel suo Cultura egemonica e classi subalterne, manifesto e monumento della demologia “gramsciana”. Insiste sulla demarcazione dell'oggetto di studio come fondativa della disciplina: “gli studi demologici tra tutti i comportamenti e le concezioni culturali, isolano e studiano quelli che hanno uno specifico legame di “solidarietà” con il “popolo”.” Ne esce l'idea di demologia come scienza che assume a proprio oggetto, sia pure sulla base di un approccio teorico radicalmente rinnovato, un repertorio classico di dati culturali: unità culturali di fatto prodotte dal relativo isolamento sociale ed esistenziale dei ceti subalterni rurali. Vero che tra la sfera dell'alta cultura e quella del mondo contadino filtrano contenuti, ma questi sono concettualizzati come casi speciali. Un'obiezione possibile riguarda il fatto che la stessa idea di isolamento è una costruzione degli stessi intellettuali che producono un discorso sul “popolo”. Se l'ideale comunità rurale chiusa e autosufficiente non è mai esistita, ciò non significa che non si possa parlare di condizioni storiche di relativo isolamento, ad esempio in riferimento alla vita nei villaggi di montagna o nei poderi mezzadrili. Il problema è semmai un altro: che accade alle “unità di fatto” quando, con l'urbanizzazione e l'industrializzazione, il mondo contadino si disgrega e la condizione subalterna non si trova più a coincidere con contesti di compatto isolamento geografico, comunicativo e culturale? Non sono più immersi in una cultura propria e distintiva? È ancora possibile mantenere la finzione di una cultura popolare da descrivere come unità di fatto antropologica? Il paradosso è che la demologia si costituisce e si istituzionalizza nel bel mezzo di questo processo, quindi nel momento in cui il suo oggetto classico scompare. Nell'Italia degli anni '70 la classe subalterna è soprattutto quella operaia, la cui vita culturale consiste nel consumo dei beni di massa. Che ne è quindi della “diversità culturale che accompagna o corrisponde alla diversità sociale?”. Due risposte possibili: 1.lo sviluppo di una critica della cultura di massa; 2.etnografia della cultura di massa che ne studi le modalità di consumo da parte di diversi soggetti sociali e i significati che per essi acquisisce. Nel primo caso la cultura di massa è vista come uno strumento egemonico che cancella differenze, una modalità di dominio perfetta e strumento populista per eccellenza. Nel secondo caso il consumo di massa è una pratica non del tutto passiva e di imposizione dell'alto. I significati delle pratiche di consumo, piuttosto, sono costantemente negoziati rispetto alle categorie culturali e al posizionamento sociale dei consumatori. Stuart Hall apre la strada, coi Cultural studies britannici, allo studio delle modalità sociali del consumo. La demologia italiana ha scelto Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 con grande nettezza la prima strada, escludendo la cultura di massa dall'ambito dei propri interessi, considerandola anzi un elemento perturbante che si insinua nella vera cultura popolare. Eppure nell'interpretazione di Gramsci lo studio del folklore e quello del romanzo d'appendice e di altre forme di cultura popolare non rappresentano campi diversi e separati, sono aspetti di un medesimo problema. La demologia resta ancorata invece al proprio oggetto tradizionale, un'idea di civiltà contadina che si sente di dover salvare e valorizzare, ignorando lo stile di vita degli operai e dei ceti medio-bassi. L'attenzione al lavoro operaio e a un'antropologia dei distretti industriali si svilupperò più avanti e al di fuori del quadro demologico. Quando elementi della cultura di massa irrompono nei contesti tradizionali, sono considerati come intrusioni pericolose. Luigi M. Lombardi Satriani, Annabella Rossi e Michele Risso sono tra i più importanti studiosi che in quegli anni sviluppano il progetto demartiniano relativo alle pratiche magico-religiose nel Mezzogiorno e un loro testo del 1972 si apre con delle considerazioni sull'intrusione della cultura di massa in due note pratiche folkloriche: tarantismo (danzatori con dei jeans rodeo durante la festa di San Paolo a Galatina) e il pellegrinaggio al Santuario di Vallepietra tra Lazio e Abruzzo (presenza di ragazzi che portavano copricapi col distintivo di James Bond e ornati di medaglie sacre e fiori di carta ma nessuno di loro era in grado di dire chi fosse James Bond). Gli autori vedono in tutto ciò una sorta di “grottesca mescolanza” in cui i prodotti della società dei consumi vengono gettati nel mondo magico, dal quale vengono fagocitati come corpi estranei senza però essere assimilati o integrati. Si avverte una preoccupazione per l'invadenza imperialistica della cultura di massa. Preoccupazione che li porta a ignorare il fatto che l'ingresso dei jeans Rodeo e dei cappellini di James Bond è l'aspetto più interessante del resoconto etnografico: mostra la capacità del rito di integrare nel suo macchinario generativo sempre nuove risorse (la “tradizione” è già risultato di un costante processo storico di ibridazione). L'estraneità radicale di questi oggetti culturali è percepita solo dagli osservatori e non dagli attori sociali. 5.Elitismo e populismo culturale Crisi del meccanismo demologico derivato alla contraddizione interna tra studio della cultura subalterna e rifiuto di quella di massa. Si trasforma in qualcosa di diverso, un'antropologia del patrimonio culturale che pone al centro il repertorio della “tradizione”. L'ambito di studi che si configura sembra aver perso ogni contatto con la problematica fondativa della demologia: l'articolazione del rapporto egemonico-subalterno, la corrispondenza tra le differenze sociali e quelle culturali. Nei dibattiti degli anni '50 de Martino rivendicava un certo grado di autonomia culturale del popolo, una non completa riducibilità del folklore alle categorie egemoniche, contro crociani e marxisti, portatori di una posizione “elitista” che vede il folklore come deposito di rifiuti della storia. Tutto l'impianto gramsciano si allontana da una simile idea di falsa coscienza, legata agli approcci che Gramsci chiama economicisti. La visione del mondo di particolari segmenti popolari è affrontata nei Quaderni come frutto di dinamiche di egemonia e conflitto nelle quali si assume la piena coscienza o razionalità del “popolo”. Non si può ridurre il punto di vista popolare a una falsa coscienza. De Martino si pone su questo stesso terreno: l'analisi della cultura dei ceti subalterni implica per lui l'esame dei rapporti etico-politici e non il semplice smascheramento di un'ideologia che “inganna” il popolo. I suoi successori da un lato ereditano questo atteggiamento antielitista, dall'altro però lo reintroducono nella presa di distanza dalla cultura di massa. Dunque la demologia mette a fuoco solo la vera cultura del popolo che intende separare da quella inautentica: e naturalmente i criteri di questa separazione sono quelli degli intellettuali. Il che riporta al vecchio paradosso della folkloristica: il popolo va bene, ma solo se corrisponde alle aspettative degli intellettuali, di una componente specifica dei ceti egemonici. Così il folklore – quello “vero” - può giungere a trasformarsi in un tratto d'élite. La fortuna che la demologia riscuote negli anni '70 anche al di fuori dell'ambito strettamente accademico è legata proprio a questo: la capacità di riconoscere e apprezzare il vero canto popolare tradizionale rispetto alle canzonette televisive, gli abiti o i mobili o i cibi contadini rispetto ad altro. Distinzione, per l'appunto, dalla volgarità di quei ceti più bassi che sono preda dell'industria culturale e del kitsch. Il rischio è disprezzare le pratiche culturali dei subalterni reali con quella stessa imputazione di “volgarità” che ha da sempre contraddistinto i Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 rapporti tra mondo urbano e mondo rurale, o tra borghesia e proletariato. 6.Da Pasolini a Berlusconi L'autore degli Scritti corsari esprime la difesa del popolo contro il popolo stesso, trasformato dalla rivoluzione antropologica del consumismo in una piccola borghesia conservatrice e conformista. Scrive che la cultura di classe è stata sostituita da una nuova cultura interclassista che si esprime attraverso il modo di essere degli italiani, la loro nuova qualità di vita. Questa “nuova cultura interclassista” è legata a un “nuovo potere che mi è difficile definire: ma di cui sono certo che è il più violento e totalitario che ci sia mai stato”. Ciò porta Pasolini a disprezzare e accusare gli elementi di “progresso” ed “emancipazione” che le classi popolari vanno ricercando ed ottenendo in quegli anni. Da un lato si pone come critico radicale dello stile “borghese”, da cui dice di essere fuggito e giungendo quindi a fare esperienza del mondo popolare. Intende così distinguersi dagli altri scrittori italiani. D'altro lato è chiaro che questa sua scelta distintiva è profondamente borghese ed elitista. Lontano dal fuggire la sua condizione o “predestinazione” borghese come pretende di fare, Pasolini ne applica in modo estremo i requisiti, rompendo il conformismo e infrangendo le regole per sottrarsi al mondo culturale al quale si stanno avvicinando masse popolari che ne minacciano l'esclusività. Gli Scritti corsarsi sono un'opera antipopulista. Il popolare viene visto come una cultura residuale che resiste solo in pochi angoli ancora non raggiunti da una nuova cultura interclassista, dalla quale è contaminato. Riflessioni che fanno parte di una recensione a un libro di scrittura popolare, Avventure di guerra e di pace di F. De Gaetano. Memorie di guerra di un contadino beneventano. La poesia del popolare, percepita qui da Pasolini, viene considerata inconsapevole. Pasolini apprezza la “vera” anima popolare di De Gaetano, ma non i suoi tentativi di conseguire una cultura diversa che vede come più alta. In tutta l'opera di Pasolini la verità e la bellezza si nascondono negli anfratti culturali arcaici, marginali o devianti; nessuna pietas storica è concessa a quelle masse di operai e contadini inurbati che cercano una vita migliore negli appartamenti di periferia con acqua e riscaldamento, mobili di plastica, cibi inscatolati, nelle notizie e negli spettacoli della televisione, nella possibilità di mandare i figli a scuola e magari all'Università. Queste masse anelano a quella condizione da cui Pasolini dice di essere fuggito. Ma cosa c'è di più élitista, e dunque più da “borghese” di questo atteggiamento? Pasolini compie in realtà le scelte distintive più estreme che la sua condizione gli impone. La poetica pasoliniana rappresenta il momento estremo di elitismo che usa la cultura popolare per tenere lontano il popolo. Di questo paradosso Pasolini ne era consapevole e lo individuava anche sul lato opposto: figli della borghesia che contestano e i proletari-poliziotti che difendono l'ordine costituito. Il dominio di classe si manifesta nella possibilità di assumere un atteggiamento rivoluzionario in nome del popolo. Il paradosso del populismo irrisolvibile in cui la demologia ci è transitata dentro finendo per perdersi. Le élite combattono per gli interessi del popolo ma contro il popolo. L'affettività e l'irrazionalità delle risposte popolari, gli appelli alla “pancia della gente”, il ruolo dell'indottrinamento. Solo una qualche forma di falsa coscienza potrebbe spiegare questo divario fra popolo ideale e popolo reale. Le paure e le preoccupazioni di quest'ultimo sarebbero sfruttare e mal indirizzate da dei demagoghi, sempre sull'assunto che il popolo sente e non ragiona. Allo stesso modo i demologi continuano a non capire perché le masse preferiscano le soap operas alle fiabe tradizionali, o la musica pop al repertorio folkloristico contadino così come il perché il popolo non voti a sinistra. I dilemmi del populismo politico e di quello culturale sono parti di uno stesso problema? Si potrebbe osservare che la progressiva eclissi della demologia e dell'interesse per il popolare, verso la fine del '900 ha coinciso con l'avviso di una sistematica trasformazione in senso “populista” della vita politica. Una trasformazione che è stata inizialmente classificata sotto la categoria di “berlusconismo”, dal momento che Silvio Berlusconi ne è stato il pioniere e fautore, il quale comunque ha progressivamente investito buona parte del sistema politico. Il berlusconismo si può interpretare come frutto della sconfitta della sinistra nei suoi tentativi di stabilire una egemonia culturale sulle masse; o, per meglio dire, dell'abbandono di quei tentativi, a favore di una destra che avrebbe invece conquistato il campo con estremo successo, puntando sui mass media e sul mondo Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 dello spettacolo. La demologia, o quanto ne è rimasto, si è trovata priva di strumenti per comprendere quanto stava accadendo. In compagnia, peraltro, di tutta quella cultura critica che ha deciso di fare del consumo di massa un getto di disgusto estetico piuttosto che campo cruciale per comprendere i nuovi rapporti tra egemonia e subalternità. 5 Dalla demologia al patrimonio 1.La demologia come scienza normale Cultura egemonica e culture subalterne di Alberto M. Cirese è stato il principale manuale di riferimento per più generazioni di studenti italiani di antropologia e tradizioni popolari. Tuttavia, specie l'edizione del 1973, il libro ha natura tutt'altro che meramente didattica, si presenta come una sistematizzazione originale e innovativa della materia: il suo obiettivo esplicito è rappresentare un nuovo e articolato quadro o paradigma di studi folklorici. Il testo appare strumento cruciale di “normalizzazione” scientifica. Nelle esplicite intenzioni dell'autore, esso esprime la “rivoluzione paradigmatica” aperta da Gramsci e dalla sua rilettura del folklore in relazione ai processi egemonici e agli scarti culturali legati alla condizione di subalternità socioeconomica dei ceti popolari. Cirese intende rifondare completamente la scienza folklorica come disciplina normale, empirica e cumulativa. Tutto è costruito, nel libro, in una cornice “progressista”: il libro traccia la storia degli studi come un'evoluzione che passa attraverso vari gradi di consapevolezza teorica, avvicinandosi per tappa al paradigma attuale: prima gli interessi antiquari, poi il romanticismo che tematizza lo spirito del popolo, poi il positivismo che introduce alla documentazione sistematica eccetera, fino agli strumenti gramsciani che non consentono di comprendere la vera natura del folklore, ossia la sua connotazione di classe. Rispetto alla tradizione rappresentata dallo stesso maestro di Cirese, cioè Paolo Toschi, il libro è fortemente innovativo, persino dirompente, ponendosi esplicitamente proprio dalla parte di quegli approcci teorici che Toschi detestava. Tutti gli studiosi che si rifanno alla linea Gramsci-de Martino, compreso Cirese, si collocano in uno scenario marxista che prende radicalmente le distanze dalla precedente tradizione folklorica. Tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80, del resto, l'antropologia italiana individua nella prospettiva marxista la propria peculiarità: ne sono testimoni due volumi “Problemi del socialismo” che escono nel 1979 col titolo Orientamenti marxisti e studi antropologici italiani e Studi antropologici italiani e rapporti di classe. Così come ne sono testimoni le prime annate della rivista “La ricerca folklorica” a partire dal 1980. Al paradigma demologico e al marxismo resterà invece del tutto estranea la rivista “Lares” che Paolo Toschi dirigeva fin dal 1930. La separazione fra i due indirizzi o campi dello studio delle tradizioni popolari è nettissima almeno fino al 1974, anno della scomparsa di Toschi: solo con la nuova direzione di “Lares” da parte di Giovanni Battista Bronzini vi saranno aperture e intrecci, pur restando fermo l'aggancio allo stile delle “ricerche tradizionali”. Si è ampiamente visto che Ernesto de Martino, principale ispiratore della “nuova tematica socioculturale”, non aveva mai creduto all'autonomia del folklore come disciplina, ricomprendendolo piuttosto nell'etnologia o nella storia delle religioni. Cirese, al contrario, vuole sostenere proprio una tale autonomia che è per lui al tempo stesso epistemologica e accademica. Una “scienza popolare” in sé però non avrebbe senso, è una posizione che non lascia spazio a uno studio antropologico della cultura. L'obiettivo di Cirese e di Cecs è sfuggire a questo riduzionismo e legittimare pienamente l'autonomia metodologica, teorica e istituzionale della demologia, allontanata dalla storia e ricondotta verso le scienze sociali e umana. Cecs intende riassorbire nel nuovo paradigma la tradizione folkloristica europea in generale e italiana in particolare, da Niccolò Tommaseo a Paolo Toschi. Cirese tenta di ricucire l'unità di una storia degli studi. Nel ribattezzare “demologia” la rinnovata disciplina egli intende proprio sostenere la rivoluzione paradigmatica senza dover rinunciare alla continuità. La teoria gramsciana è usata al servizio del folklore-demologia, non contro di esso e lo stesso vale per le teorie antropologiche passata in rassegna nel Cecs. Cirese attenua molto le differenze fra i due indirizzi che in quegli anni si contrapponeva con più forza: lo storicismo (gramsciano e demartiniano) e dall'altro la semiologia Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 e lo strutturalismo (Roman Jakobson, Vladimir Propp, Claude Lévi-Strauss, tutti presenti nel Cecs). La sintesi tra storicismo e strutturalismo ha rappresentato uno degli obiettivi del Cecs di Cirese, fin dall'inizio. Provenendo da una formazione storicista, è stato il primo a introdurre in Italia Lévi- Strauss. Sin dagli anni giovanili ha avversato il rifiuto aprioristico degli approcci basati sulla generalizzazione e sulla ricerca di invarianti, prendendo le distanze dallo storicismo più ortodosso dello stesso de Martino. Nella maturità questi tentativi di sintesi hanno lasciato il posto a una propensione per gli studi nomotetici e per un'epistemologia dichiaratamente neopositivistica. Si può pensare che la volontà di unificare le risorse esistenti sotto un nuovo e autonomo paradigma, la demologia, spinga Cirese a una sistematizzazione concettuale della storia degli studi. L'obiettivo della continuità lo spinge a minimizzare il grado di fascistizzazione del folklore durante il ventennio e anzi a non parlarne proprio? Questa è la lacuna maggiore della sua ricostruzione storico-critica. Non si fa menzione né della convinta adesione di alcuni studiosi al fascismo e alle sue ideologie neoruraliste e razziali, né degli effetti dell'autarchia sulla chiusura delle scienze sociali italiane. 2.La ricezione di “cultura egemonica e culture subalterne” Sul piano didattico il libro ha grande fortuna: viene massicciamente adottato e rappresenterà il manuale di riferimento per eccellenza. Nel dibattito scientifico e più generalmente culturale l'accoglienza è positiva. Un prodotto di sistematizzazione e legittimazione di uno scenario che è già largamente accolto e appare quasi “naturale” ai più. L'esame della produzione demoetnoantropologica nei 10-15 anni successivi all'uscita di Cecs mostra un quadro di posizioni: A: gli studiosi che si collocano in continuità con la tradizione folklorica accettano con convinzione il quadro demologico di ispirazione gramsciana: Luigi M. Lombardi Satriani, Giovanni Battista Bronzini. All'interno di questo campo vi sono differenze e disaccordi di metodo e di stile intellettuale molto forti, anche dispute teoriche: ma tutto ciò all'interno della cornice disegnata dal Cecs. B: gli studiosi che si pongono al di fuori da questo scenario, o in polemica con esso, sembrano comunque accettare la costruzione della demologia come proposta dal Cecs: Liliana Bonacini Seppilli, Tullio Seppilli, Amalia Signorelli ecc; sostenevano un'idea di antropologia impegnata nei grandi problemi del mondo contemporaneo e prendevano le distanze dalla tendenza della disciplina a chiudersi nello studio di piccole unità culturali “tradizionali”. Tali indirizzi e autori avvertono con disagio questa chiusura in ristretti universi folklorici, separati dai più ampi mutamenti sociali e della cultura di massa. C: parallelamente, il paradigma che Cecs rappresenta si diffonde anche in altre discipline come la sociologia e la storia. C'è un clima di interesse per il folk nel quale Cecs si inserisce in modo perfettamente coerente, legittimandolo e al contempo venendone legittimato. In definitiva né i sostenitori del paradigma demologico, né i suoi critici o detrattori mettono in discussione il fatto che esso rappresenti il più coerente sviluppo delle posizioni di Gramsci e de Martino ma come si è visto non è esattamente così. Riguardo a Gramsci si può dire che è del tutto evidente che nulla della sua opera legittima l'idea del folklore come repertorio autonomo e separato, da trarre a oggetto di un sapere specifico, o di forme di salvaguardia patrimoniale o museale.Quella tra egemonico e subalterno è una linea di frattura mobile, che individua non due unità positive ma una serie di graduali posizionamenti contrastivi. Per quanto riguarda de Martino egli prendeva risolutamente le distanze dalla tradizione folklorica, proprio nel momento in cui era impegnato, in quegli anni, nelle “spedizioni etnografiche” al Sud. De Martino è coerentemente gramsciano nella sua convinzione di poter comprendere il popolo solo nella più ampia dinamica storica, rifiutando l'autonomia epistemologica di una “scienza” che pretende di isolare i propri oggetti in repertori estratti dal flusso storico. De Martino si trova suo malgrado ad essere citato come padre nobile dell'antropologia e della demologia italiane, nonostante lui si definite etnologo e storico delle religioni. Pare che sia stata la “normalizzazione” demologia a separare lo studio dell'”interno” da quello dell'”esterno” disperdendo le potenzialità etnologiche e comparative e il complessivo impianto storicista del pensiero demartiniano. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 3.Lo stallo teorico della demologia Dunque, Cecs mette a frutto il rinnovamento postbellico degli studi trasformando una molteplicità di stimoli teorici e metodologici in un ampio e sistematico impianto disciplinare. Al tempo stesso la sua difficoltà consiste nel fatto che il dispositivo teorico gramsciano non giustifica una disciplina centrata su un oggetto statico come il repertorio contadino tradizionale: chiederebbe invece di seguire i mutamenti storici dello scarto egemonico/subalterno fino ad oggi. Mentre Cecs ridefinisce l'oggetto di studio e dà nuova legittimità al repertorio folklorico classico, questo oggetto sta scomparendo di fronte alla modernizzazione. Non scompare la cultura subalterna ma la possibilità di identificarla con quel particolare repertorio. La folkloristica in sé nasce come strutturalmente legata al processo di modernizzazione: nel senso che la nostalgia e la valorizzazione estetica di ciò che resta dietro lo spartiacque del moderno è essa stessa un prodotto moderno. La “scomparsa imminente” del folklore fa parte da sempre dell'ideologia folklorica. Questo meccanismo strutturale si diffonde con grande forza nell'Italia degli anni '70. La società di massa e il mercato culturale hanno cancellato le condizioni che consentivano la costituzione di “bolle culturali” subalterne relativamente autonome. I ceti subalterni consumano la cultura di massa e quindi che ne è della cultura subalterna? Non si può dire che scompaia ma più che altro che è mutato, nascondendosi nelle nuove condizioni socioculturali. Ma questo percorso di studio non viene seguito dalla demologia, che resta ancorata a una definizione classica dell'oggetto come repertorio di tratti della tradizione rurale. Una scienza della cultura subalterna che esclude dal suo ambito di interesse i consumi di massa, vale a dire la gran parte della vita culturale dei ceti subalterni di oggi. La preoccupazione principale tra gli anni '50 e '70 rimane distinguere il folklore “vero” dalle forme di cultura di massa e della produzione industriale in serie. La demarcazione cruciale, in altre parole, è quella tra il folk e il pop. Questa percezione appare più un coerente sviluppo della posizione gramsciana. Infatti la cultura di massa non può essere concettualizzata come “subalterna”: certamente non come “progressiva” o “contestativa”, ma neppure come indice di una oggettiva “resistenza” delle classi popolari all'egemonia borghese. Essa esprime appieno proprio quell'egemonia e ne è il veicolo, più efficace della vecchia cultura d'élite nella capacità di imporsi senza residui. Dunque la cultura di massa, il consumo, la borghesizzazione, sono fenomeni da combattere e non da studiare; deculturazione e non cultura. La demologia nel suo complesso si allinea a questo approccio, finendo per rappresentare un supporto alla costituzione del folk come genere distintivo e, potremmo ben dire, borghese. La macchina demologica si inceppa a causa di uno stallo interno al proprio stesso motore teorico: la ricerca delle connotazioni subalterne nella circolazione culturale spingerebbe necessariamente verso terreni dai quali ci si vuole tenere ben lontani. 4.Oltre la crisi della demologia: antropologia critica e studi culturali L'abbandono del paradigma della demologia non è stato ufficialmente dichiarato da nessuno dei suoi sostenitori; né il suo campo è stato occupato da teorie nuove e alternative che l'abbiano relegato in secondo piano. Tuttavia il suo esaurimento è palese. Lo stesso Cirese, nella sua fase più matura, non persegue più il programma “normale”, inseguendo piuttosto un'antropologia universalista e “deduttiva”. Ma anche i suoi allievi più diretti abbandonano il paradigma demologico seguendo altre strade come Pietro Clemente che fino al 1991 almeno 15 titoli dei suoi saggi e articoli contengono i termini “demologia” o “demologico”: dopo quella data, la voce scompare completamente dai titoli e diventa rara anche nel corpo dei testi. Risulta evidente una perdita di fiducia nell'autonomia epistemologica della disciplina, in termini di statuto teorico e demarcazione di uno specifico oggetto di studio. Si farà strada però una nuova categoria unificante che riassorbe oggetti e pratiche della tradizione demologico-folklorica, quella di “patrimonio culturale”. A maggior ragione, questo allontanamento agisce per quegli studiosi che, pur lontani già da Cirese e dalla sua scuola, si erano posizionati del quadro della normalizzazione demologica. Gli studi sulla fenomenologia magico-religiosa del Mezzogiorno si arenano nei primi anni '90. A inizio degli anni '90 questo interesse declina, insomma e gli autori che continuano a occuparsi di Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 queste tematiche lo fanno costruendosi nuove cornici metodologiche e interpretative, escono dal paradigma insomma. Questo è il caso di Tullio Seppilli che incorpora la tradizione delle monografie meridionaliste demartiniane nel più vasto campo dell'antropologia medica e dell'etnopsichiatria; di Elisa Guggino (magia tradizionale siciliana) e di Paolo Apolito (apparizioni mariane). Anche i classici generi della tradizione orale formalizzata, come i canti, la fiabistica e il teatro popolare escono dal campo demologico occupando sia ambiti di studio specializzato ma anche spostandosi verso il campo delle Performing arts. L'impianto demologico appare soppiantato da due diverse, solo in parte sovrapponibili, cornici: una è quella del “patrimonio culturale intangibile” l'altra è una cornice etnografica critica che mira alla produzione di ricerche centrate non su statici repertori tematici ma su “pratiche” politico-culturali. Questo tipo di approccio, vicino ai più attuali indirizzi dell'antropologia critica internazionale, ha il merito di riaffermare la relazione inscindibile tra piano egemonico e subalterno aprendo stimolanti scenari etnografici. Tuttavia il rilievo dato alle relazioni di potere rischia talvolta di lasciare in secondo piano il ruolo della dimensione simbolico-culturale. L'idea che tutta l'antropologia sia antropologia politica riduce le differenze culturali a mere funzioni o spettri del potere. Un'ottica diversa a Gramsci, che quando parla di potere lo identifica sempre con precisi e concreti gruppi sociali in precisi contesti storici di conflitto. In ogni caso l'approccio “critico” sembra accantonare come irrilevante la domanda cruciale del progetto demologico: indagare i nessi tra differenze sociali e differenze culturali, i modi in cui esse continuano ad agire nella dimensione quotidiana dell'esistenza. Pierre Bourdieu è un punto di partenza in merito, con la sua idea-chiave: la circolazione disuguale di beni materiali e simbolici non configura universi culturali chiusi e statici nei quali gli attori sarebbero imprigionati ma un'arena di risorse fluide che gli attori stessi sfruttano in modi creativi e mutevoli. Ancora più importante è il contributo teorico offerto da Stuart Hall, uno dei fondatori della moderna scuola di Cultural studies, proprio perché parte specificatamente da Gramsci. “Scrivere una storia della cultura delle classi popolari esclusivamente dall'interno di quelle classi, senza comprendere i modi in cui queste sono tenute costantemente in rapporto con le istituzioni della produzione culturale dominante, significa essere fuori dal XX secolo”. La cultura popolare indicherebbe, per cui, tutto ciò che il popolo fa o ha fatto”, “la cultura, le usanze, le abitudini, e le tradizioni (folkways) del popolo, ciò che definisce il suo stile di vita particolare”. Si tratta di una definizione puramente descrittiva: sembra implicare un inventario potenzialmente infinito di tratti culturali. Occorre saper distinguere tra ciò che conta e non conta come attività o forma culturale d'élite. Tali distinzioni o categorie sono sostenute da un intero complesso di istituzioni e processi istituzionali che marcano costantemente la differenza fra di esse. Non si può congelare la cultura popolare all'interno di un qualche contenitore descrittivo atemporale: occorre invece cogliere i rapporti di potere che punteggiano e dividono il dominio della cultura nelle sue categorie privilegiate e residuali (preferred/residual). Né si può accontentarsi di una definizione che equipari popolare e “di massa” riferendosi senz'altro ai consumi delle classi popolari. Hall afferma che sono popolari quelle forme e attività che hanno le loro radici nelle condizioni sociali e materiali di determinate classi: forme e attività incorporate in tradizioni e pratiche popolari. Ciò che definisce la cultura popolare sono le relazioni in continua tensione con la cultura dominante. La demologia finisce per dimenticarsi di questo e per costruire repertori di tratti culturali pensati come parti di un insieme relativamente stabile e coeso. Laddove Hall legge più correttamente Gramsci, quando interpreta la scuola, la comunicazione mediale, gli apparati letterari e accademici e così via come istituzioni che pongono la lotta per l'egemonia su piani nuovi e certamente più complessi rispetto al passato, non come dispositivi totalizzanti che semplicemente cancellano la cultura popolare. In direzione analoga convergono altri indirizzi di più o meno recente sviluppo. Ricucire la tradizione italiana rispetto a questi e altri indirizzi sembra oggi un passo cruciale per un superamento della crisi della demologia che non ne mandi del tutto perduta l'identità. Downloaded by Daniele De Felici ([email protected]) lOMoARcPSD|19209268 5.Patrimonio intangibile Patrimonio immateriale o intangibile (Intangible Cultural Heritage) è una categoria entrata solo di recente nel discorso delle politiche culturali, nonché delle discipline scientifiche che si occupano di cultura nel senso etnografico o antropologico del termine. La diffusione è legata alla centralità che le ha assegnato l'Unesco che a partire dagli anni '90 ha cominciato proprio a dedicarsi ai beni etnografici – quelli, cioè, che non consistono in opere materiali e durevoli, ma saperi, performance, forme espressive tramandate dalla tradizione orale e legate esclusivamente a memoria, pratiche e linguaggio di “portatori” viventi. Primi documenti Unesco in proposito “Raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore” 1989. Il concetto di “intanbile” finisce per inglobare tutti gli altri nel documento fondamentale adottato nel 2003 “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile” che istituisce una “lista rappresentativa” analoga a quella del patrimonio materiale. Il documento stabilisce una definizione “costituzionale dei beni intanfibili”: pratiche, presentazioni, espressioni, conoscenze e saperi che comunità, gruppi o individui riconoscono come facenti parte del proprio patrimonio culturale. Si deve notare la forte connotazione antropologica di questo documento che apre a molteplici processi e prodotti culturali, con un elenco tendenzialmente aperto; insiste sui gruppi e sulle comunità come soggetti “portatori” di tali beni e precisa che il patrimonio è da intendersi come radicato nell'ecologia dei gruppi sociali; specifica le modalità di trasmissione, orale e generazionale e infine propone un richiamo forte al concetto centrale della tradizione antropologica: conoscenza e rispetto della diversità culturale. Rispetto alla lista “materiale” vi sono differenze: si tratta di una lista “rappresentativa” che non pretende di selezionare delle assolute “eccellenze” ma di segnalare più ampi complessi culturali. Inoltre al centro dell'attenzione patrimonializzante stanno non tanti degli oggetti quanto dei processi culturali. La salvaguardia viene intesa come modo per favorire il passaggio dei saperi fra generazioni. C