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Questo documento presenta un'introduzione all'economia ambientale, discutendo le origini neoclassiche, il modello ricardiano e la sostenibilità. Vengono esaminate le nozioni di economia circolare e la curva di Kuznets ambientale.
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Economia ambientale INTRODUZIONE Le origini Gli economisti neoclassici: i classici sono pessimisti sulle prospettive di crescita di lungo periodo a causa di vincoli ambientali (Malthus, Ricardo, Stuart Mill). In tutta la discussione classica, l’ambiente è rappresentato dalla terra come risorsa sc...
Economia ambientale INTRODUZIONE Le origini Gli economisti neoclassici: i classici sono pessimisti sulle prospettive di crescita di lungo periodo a causa di vincoli ambientali (Malthus, Ricardo, Stuart Mill). In tutta la discussione classica, l’ambiente è rappresentato dalla terra come risorsa scarsa l’economia ambientale è tutta neoclassica Il modello Ricardiano senza progresso tecnico: il mondo di Ricardo è una fattoria che sfrutta terra si diversa fertilità usando lavoro e capitale: lo sfruttamento progressivo di terra marginale porta allo stato stazionario in cui si azzerano profitto e crescita. La sopravvivenza dipendeva da quante patate si coltivavano = quanta terra fertile, il che dipendeva dai proprietari. La sostenibilità: i classici mettono in discussione (indirettamente) la sostenibilità di questo modello di produzione. Tuttavia, lo fanno senza menzionare l’ambiente e concentrandosi sulla pressione del sistema sulle risorse scarse, appaiata alla presenza/assenza di progresso tecnico pensano ad un sistema limitato. I neoclassici – la rivoluzione marginalista introduce strumenti e concetti totalmente nuovi: razionalità individuale, efficienza paretiana e i fallimenti di mercato (= esternalità negative). La curva di Kuznets ambientale: l’idea originale ipotizzava un legame concavo e unimodale della disuguaglianza D all’aumentare del reddito procapite R. La versione ambientale rappresenta in modo analogo l’andamento delle emissioni E all’aumentare del reddito procapite R. Concavità – i poveri consumano troppo poco per inquinare, la fascia benestante in Europa è la più densa e rappresentato nella parte centrale della curva C’è speranza, la crescita economica non è necessariamente un disastro. L’economia circolare 4 mattoni per descrivere un sistema economico “senza ambiente”: Dotazione di capitale produttivo (K), produzione (P) e consumo (C). il capitale consente la produzione, che alimenta i consumi, cha a loro volta producono l’utilità U(C) Mettiamo da parte K e U (per semplicità), e facciamo entrate nello schema l’ambiente, sotto forma di risorse naturali, N: N P C Le risorse naturali “rimpiazzano” il capitale fisico nel nostro modo di immaginare il modello economico di produzione e consumo, ma in realtà è ovvio che ne fanno parte. Prendendo in considerazione la prima legge della termodinamica = il principio di conservazione dell’energia, e quindi della materia questo comporta che la quantità totale di rifiuti R ria uguale alla quantità di risorse utilizzate 𝑁=𝑅 =𝑅 +𝑅 +𝑅 Ma siccome si vede la terra come sistema chiuso, ricicliamo? Si ma non si riuscirà mai a riciclare 100%, e il riscaldamento globale è anche dovuto alla dispersione termica. Sostenibilità e benessere Come utilizzare l’ambiente per aumentare il benessere in modo sostenibile? Bisogna rispettare due semplici regole: Il tasso di sfruttamento dev’essere non maggiore del tasso di riproduzione naturale Il flusso dei rifiuti (emissioni incluse) deve essere non maggiore del tasso di assimilazione o assorbimento dei pozzi del carbonio del pianeta Dal momento che alcune risorse naturali non si rinnovano, il sistema deve affidarsi anche a risorse rinnovabili questo introduce l’idea di sostituibilità, che però deve fare i conti con la crescita della popolazione spinta dal benessere economico, cure mediche, aumento della speranza di vita e diminuzione della mortalità infantile. Accordi come Kyoto e Parigi per incentivare la cooperazione fra paesi sviluppati a prestare maggiori attenzioni sul problema dell’ambiente. Cosa intendiamo per sostenibilità? Jacobs (1993): un sistema economico sostenibile deve tutelare innumerevoli generazioni future che non hanno voce. Versione debole: evitare catastrofi future Versione forte: garantire alle generazioni future l’accesso a un capitale naturale almeno pari a quello a nostra disposizione Complementarietà e tradeoff: Il grafico vuole rappresentare un ragionamento che legava lo stato del pianeta e le condizioni di vita del pianeta stesso. Asse X: il capitale naturale disponibile (indice troppo complesso per essere costruito) Asse Y: il livello di vita (=PIL) Kmin = il livello di sussistenza La curva fra L e Kmin: si rischia l’estinzione dell’uomo, condizioni di vita mortali Tradeoff: se volete più reddito dovete rinunciare ad una porzione di capitale naturale. Paradigma della sostenibilità: un punto qualsiasi in quel cono (assi inclusi) è Pareto efficiente e si molesta meno il pianeta, ma richiede un cambiamento tecnologico che sostituisce lo sfruttamento con tecnologie non impattanti sul pianeta. Misurazione del danno ambientale: attribuire un valore monetario del danno ambientale ha un valore strumentale. Questo può urtare la sensibilità si molti perché è comune attribuire alla valutazione economica un valore come obbiettivo. L’ESTERNALITÀ NELL’OTTIMO SOCIALE Il livello ottimale di inquinamento L’inquinamento è un’esternalità negativa che, in assenza di regolazione, non viene internalizzata e quindi nemmeno compensata da parte di chi la produce. Quindi, ha senso chiedersi se esista qualcosa come un livello ottimale di inquinamento? La definizione di un livello socialmente efficiente o ottimale di inquinamento risente certamente del pensiero neoclassico; immaginiamo con tale locuzione un livello cosiddetto “efficiente” in quanto in corrispondenza di quella quantità il sistema si colloca in una situazione di ottimo paretiano, ovvero una situazione per cui il welfare è massimizzato: questo stato delle cose sarebbe il risultato del bilanciamento tra prezzo e costi marginali in un contesto di concorrenza perfetta a cui però segue la necessità di far fronte ad un certo livello di esternalità negativa associata all’inquinamento che i neoclassici attribuiscono esclusivamente al processo di produzione, trascurando quindi la possibilità (reale) che parte dell’inquinamento sia provocata anche dal consumo. L’inquinamento “fisico” e quello “economico” non sono la stessa cosa. Mentre è ovvio che sia desiderabile azzerare quello fisico, in generale non vale la stessa considerazione per quello economico (che è la monetizzazione del primo). Questo rivela la criticità dell’attribuzione di un valore economico al danno esterno. L’esternalità ottima nel modello neoclassico ’= profitto marginale dell’inquinatore D’ = costo marginale esterno A = area massima del beneficio netto B = area che identifica il livello ottimo di esternalità Il profitto marginale diminuisce all’aumentare dell’output Q prodotto; in particolare, in corrispondenza del livello di produzione pari a Q i profitti marginali sono nulli, ovvero l’impresa sta uguagliando costi marginali e benefici marginali. Il punto di intersezione identifica la quantità di output ottimale il livello socialmente ottimo dell’esternalità, la cui entità è rappresentata dall’area B. In un punto qualsiasi a destra di Q, il valore economico del danno marginale è superiore al profitto marginale, vale a dire il valore del danno marginale eccede sempre più il valore industriale dei profitti dell’impresa. I neoclassici prendono in considerazione solo il lato dell’offerta e non considerano i consumatori analisi in concorrenza perfetta = con curva di domanda perfettamente elastica, il consumer surplus non conta. Il welfare sarà quindi dato da: surplus del produttore – esternalità marginale totale Definiamo il prezzo p di mercato del bene prodotto: 𝜋 = 𝐷 → 𝑝 = 𝑐𝑚𝑠 = 𝑐𝑚 + 𝐷′ In cui cms = costo marginale sociale nel punto di ottimo paretiano il prezzo coincide con il costo marginale sociale (dato dalla somma del costo marginale sociale tecnologico cm e del costo marginale ambientale D’), ovvero il prezzo p deve aumentare esattamente dell’entità del costo marginale sociale in Q* Modello con processo di abbattimento naturale I neoclassici e Pigout non tennero conto nella loro analisi del funzionamento del pianeta, ovvero dei cosiddetti polmoni verdi a pozzi di assorbimento del carbonio del pianeta. Perciò è doveroso considerare nel modello anche un processo di “riciclo” automatico che arriva ad abbattere un certo livello di scorie RA. In corrispondenza del livello RA naturale di livello di danno ambientale al mergine non c’è perché non è compito nostro (se ne occupa il pianeta). 2 implicazioni: Dobbiamo garantire a lungo termine che la terra non si accorga più di noi Il riciclo naturale di una parte di CO2 (ed equivalenti) complica la vita al regolatore che deve approssimare una tassa da far pagare agli inquinatori. Concorrenza ed esternalità Valutiamo il caso di esternalità in un mercato con bene omogeneo e domanda lineare (inclinata a 45°) Nel momento in cui il ”dittatore benevolo” risolve la condizione del primo ordine della massimizzazione del benessere sociale si accorge che il prezzo è la somma dei costi marginali (interni ed esterni) e che quindi ha molto culo (il prof potrebbe non aver usato esattamente questa espressione, nda): in questi casi prende di fatto due piccioni con una fava, perché arriva in ogni caso, sia che massimizzi il benessere sociale, sia che massimizzi l’internalizzazione delle emissioni, agli stessi p∗ e q∗; quindi, il punto di ottimo del punto di vista dell’esternalità derivante dalla produzione incorpora già anche il costo marginale esterno. Come vedremo, questo `e un caso eccessivamente semplificato perché, soprattutto sulla scia di Pigout, prende la tecnologia per data cercando di individuare un prezzo p che sia legato alla quantità q. Nella realtà, però, lo stimolo della policy deve portare a far cambiare la tecnologia e dovrebbe farlo anche nell’ipotesi in cui settori industriali/industrie rilevanti in termini di emissioni vengano nazionalizzati. Caso con costi convessi Un caso in cui i costi di produzione e i costi esterni sono quadratici rispetto alle quantità prodotte. Le imprese, per massimizzare i loro profitti, fissano il prezzo in corrispondenza del costo marginale. Tuttavia, un pianificatore benevolo (o autorità pubblica) che internalizza i costi delle esternalità, come l'inquinamento, riduce la quantità prodotta rispetto a quella scelta dalle imprese, abbassando così l'inquinamento. Questo approccio massimizza il benessere sociale solo con rendimenti di scala costanti. Se i rendimenti sono decrescenti, l'internalizzazione del danno esterno può ridurre il benessere. Non sempre il prezzo che minimizza l'inquinamento coincide con quello che massimizza il benessere sociale, specialmente con un numero finito di imprese. Per questo, è necessario valutare altre politiche, come incentivare il cambiamento tecnologico, evitando effetti collaterali indesiderati, come la formazione di cartelli tra imprese. STRUMENTI DI POLICY strumenti di policy che il decisore politico può decidere di utilizzare nell’ottica del suo obiettivo di riduzione dell’ esternalità, ovvero delle emissioni e quindi l’inquinamento. Il teorema di Coase Secondo Coase, è possibile che un mercato si autoregoli convergendo all’equilibrio socialmente efficiente a prescindere dalla struttura dei diritti di proprietà. Diritti di proprietà: diritti all’uso, privati oppure comuni, di un certo bene, in particolare delle risorse private. Più precisamente, l'enunciato di Coase afferma che se i costi di negoziazione e transazione sono nulli, la contrattazione tra agenti economici porterà a soluzioni efficienti da un punto di vista sociale (dette Pareto-efficienti) anche in presenza di esternalità ed a prescindere da chi detenga inizialmente i diritti legali. Diritti detenuti dagli inquinanti Quando si parla di diritti di proprietà si sta dicendo sostanzialmente che esiste una porzione di capitale naturale a cui ha accesso una popolazione di individui che ne detiene i diritti di proprietà o diritti all’uso; i diritti di proprietà potrebbero, ad esempio, essere detenuti da un’autorità pubblica, mentre i diritti all’uso dai cittadini (pensa all’esempio di un semplice parco comunale). Quindi, in un primo momento consideriamo il caso in cui sia l’inquinato a detenere i diritti di proprietà o i diritti all’ uso (o entrambi). Nel grafico notiamo due curve decrescenti, la curva di profitto marginale π′ (inclinata negativamente) e la curva del danno marginale D′ (inclinata positivamente). Il punto di ottimo privato è individuato dal punto Qπ in cui i profitti marginali delle imprese sono nulli. I soggetti inquinati, a questo punto, visto il danno subito capiscono che è possibile ricevere una forma di risarcimento pari all’entità del danno totale causato; l’inquinatore quindi può compensare il danno producendo fino ad un livello Q*: oltre questo punto, infatti, il profitto marginale è inferiore al danno marginale e quindi l’inquinatore si ferma, pagando ai soggetti inquinati un ammontare pari al triangolo evidenziato. Diritti detenuti degli inquinatori Potrebbe però verificarsi una situazione opposta in cui i diritti di proprietà sono detenuti direttamente dall’ inquinatore e altri soggetti, inquinati, subiscono gli effetti inquinanti del processo produttivo: in questo caso il processo negoziale si ribalta, ovvero diverrebbe necessario che, per indurre l’inquinatore a non inquinare/inquinare meno siano gli inquinati a dover risarcire la perdita di profitto dello stesso inquinatore, il quale detiene infatti il capitale naturale. Gli inquinati, in particolare, sono disposti a pagare un ammontare massimo pari all’area del triangolo evidenziato in modo da ridurre il livello di produzione fino a Q* ed evitare così un danno pari all’area evidenziata in rosso: non è possibile spostarsi ulteriormente a sinistra in quanto il beneficio marginale che ne trarrebbe l’inquinato sarebbe inferiore al profitto marginale “richiesto” dall’inquinatore. Si può comunque concludere che è vero in entrambi i casi che sarà il soggetto che NON detiene i diritti di Proprietà a compensare l’altro soggetto per spostarlo dalla sua posizione. Esiste quindi, secondo Coase, a prescindere dalla distribuzione dei diritti di proprietà, una tendenza del mercato a collocarsi nell’equilibrio socialmente ottimale attraverso il sistema negoziale. Se questo è vero allora non è necessario alcun intervento del regolatore per modificare i comportamenti individuali e quindi nemmeno il livello di esternalità risultante. Critiche al teorema di Coase La prima obiezione più “naturale” consiste nel domandarsi se sia effettivamente sensato pensare che avvenga una negoziazione spontanea tra imprese che inquinano e i soggetti che subiscono l’inquinamento. Inoltre, nei casi di analisi che abbiamo considerato in precedenza si assumeva che la curva del profitto marginale π’ sia lacurva di contrattazione dell’impresa; ma se non fossimo in concorrenza perfetta il risultato quale sarebbe? Lo vedremo nella sezione successiva. Il teorema di Coase in monopolio Per smontare l’apparato di Coase, Buchanan considera la struttura di mercato diametralmente opposta, ovvero tratta la questione in monopolio (il che è anche un escamotage per avere una curva di domanda non perfettamente elastica): la critica a Coase si basa sostanzialmente non tanto sul numero delle imprese ma quanto sulla forma della funzione di domanda. In particolare, in questo modello vediamo come l’esternalità D’ è sempre più piccola del costo marginale tecnologico (cm), vale a dire che l’impatto ambientale della produzione non è necessariamente alto. Nel punto in cui i costi marginali sociali (cms) intersecano la domanda, si ha un prezzo che incorpora entrambi i costi marginali. In ogni caso c’è un problema: se supponiamo che il detentore dei diritti di uso sia l’inquinato, il quale è al contempo consumatore, c’è una cosa importante da notare ovvero che, paradossalmente, se non si è in concorrenza perfetta e quindi si ha una curva di domanda negativamente inclinata (quindi non piatta), allora il soggetto danneggiato e il consumatore, che sono la stessa persona, non sono d’accordo. La mente del danneggiato, infatti, vorrebbe che le imprese riducessero la produzione per diminuire l’inquinamento mentre la mente del consumatore vorrebbe che le imprese aumentassero la produzione per far sì che il consumer surplus aumenti. L’accordo in questo contesto non si raggiungerà mai perché c’è una sorta di sdoppiamento della personalità del consumatore. la presenza di potere di mercato lungo una funzione di domanda decrescente implica una negoziazione a tre parti tra inquinatore, inquinati e consumatori del bene finale: il problema è che gli ultimi due possono coincidere. La tassa Pigouviana Le origini dello strumento di policy noto come Tassa Pigouviana vanno fatte risalite al testo del 1920 ‘Economics of Welfare’ di A. Pigout, nel quale, sostanzialmente, l’autore dimostra come trovare in modo agevole la tassa ottima dal punto di vista sociale nel caso di effetti esterni negativi. Pigout parte dalla nozione per cui nel punto di intersezione tra i profitti marginali delle imprese π ′ e il costo marginale esterno D′ esista un equilibrio che identifica una grandezza battezzata come esternalità ambientale efficiente. Possiamo immaginare un contesto in cui le imprese produttrici dovrebbero fermarsi autonomamente nel livello di output Q* a cui corrisponde il livello ottimo di inquinamento totale ma, invece, nell’ottica della massimizzazione del profitto, arrivano a produrre una quantità superiore Qπ a cui, naturalmente, corrisponde un livello di inquinamento totale maggiore. A questo punto, Pigout per indurre le imprese a produrre una quantità ottimale, avanza l’idea dell’introduzione di una tassa che trasli verso il basso i profitti marginali π a parità di coefficiente angolare aumentando di fatto i costi marginali di ogni unità delle imprese di una quantità t* (tratto in rosso nel grafico); si tratta sostanzialmente di una tassa su ogni unità di prodotto q che induca le imprese a produrre una quantità Qπ(t*) che coincida ex-post con la quantità ottimale Q∗. questo tipo di policy è equivalente ad uno shock tecnologico negativo. Calcolo della tassa Pigouviana in concorrenza perfetta In concorrenza perfetta il welfare sociale è dato dalla somma dei profitti di tutte le imprese meno il danno ambientale (non viene incluso il benessere dei consumatori in quanto, come sappiamo, in concorrenza perfetta la curva di domanda per ciascuna impresa è completamente piatta): 𝐵𝑆 = 𝑝𝑄 − 𝐶(𝑄) − 𝐷(𝑄) Procedendo alla consueta massimizzazione del benessere si avrà: 𝜕 𝐵𝑆 𝜕𝐶 𝜕𝐷 =𝑝− − =0 𝜕𝑄 𝜕𝑄 𝜕𝑄 Da cui, posto che il modello sia concavo, si ha che 𝑝 = 𝑐𝑚 + 𝑐𝑚𝑒 = 𝑐𝑚𝑠 oppure 𝜋 =𝐷 dove con cm e cme si indica, rispettivamente, il costo marginale e il costo marginale esterno; cms, invece, sta ad indicare il costo marginale sociale. l’equazione di p dice che nell’ottimo sociale il prezzo deve sostanzialmente corrispondere al costo marginale sociale Quindi, se si impone una tassa: 𝑡∗= ∗ otterremo che 𝑝 = 𝑐𝑚 ∗ +𝑡 ∗ L’idea è quindi quella di indurre l’inquinatore a internalizzare l’esternalità in modo da riprodurre l’ottimo sociale come effetto della tassazione ambientale; il compito del regolatore è quindi quello di individuare una quantità tale che, dato il prezzo, quest’ultimo sia uguale alla somma dei costi marginali rilevanti, ossia il costo marginale tecnologico (cm) e il costo marginale esterno (cme): la tassa, dunque, altro non è che l’entità dei costi marginali esterni in corrispondenza del punto di ottimo e ha, di fatto, l’effetto di traslare verso il basso la curva di profitti marginali di tutte le imprese in modo tale che π’ = Q*, in un contesto (quello in cui Pigout stesso propone il proprio modello) con tecnologia data. Problemi di equità della tassa Pigouviana Supponiamo di introdurre una vera tassa pigouviana in concorrenza perfetta; ipotizziamo che l’impresa si collochi quindi in corrispondenza dell’ottimo sociale producendo una quantità pari al livello ottimale Q* e pagando una tassa il cui gettito totale, in termini di profitti delle imprese, è l’area t*q*, indicata dal rettangolo con le stelline nel grafico sottostante. In particolare, le imprese continueranno a pagare per sempre il rettangolo stellato, anche dopo aver raggiunto il livello Q*, in quanto, altrimenti, se la tassa venisse tolta subito dopo, le imprese stesse tornerebbero ad aumentare la produzione fino ad un livello Q π (ossia l’intersezione tra π’ e asse orizzontale) Il problema a questo punto è: perché mai dovremmo tassare un’impresa quando questa si pone in corrispondenza dell’ottimo sociale? Questo potrebbe portare ad un’intensa diatriba legale tra il regolatore e le imprese la cui durata, soprattutto in un sistema burocratico quale quello italiano, potrebbe tendere all’infinito nonché alla messa in evidenza di un aspetto di instabilità politica intrinseca che altro non `e che un costo netto per il governo il quale deve spiegare alla gente cosa sta facendo e perché. La questione si complica ancora di più se consideriamo un contesto più verosimile che consideri la possibilità che una fetta delle emissioni venga assorbita dall’ambiente. Nell’ottica delle imprese, tale fetta di emissioni smaltita naturalmente, pari a livello grafico al segmento OA, non dovrebbe venire tassata; se ciò dovesse effettivamente avvenire, le imprese sarebbero esentate a pagare un ammontare di tassazione pari all’area OAba. Obiezioni principali alla tassa (non necessariamente pigouviana) 1. ogni unità di prodotto è tassata allo stesso modo e non in relazione all’entità del danno marginale che provoca: la tassa non è progressiva in tal senso 2. la tassa dovrebbe essere abolita nel momento un cui le imprese reagiscono 3. dato che la tassa è uniforme (e la tecnologia rimane invariata) e siccome la tassa stessa si scarica sul prezzo sopportato poi dal consumatore, allora risulta essere socialmente iniqua: dal punto di vista sociale, cioè, la tassa è regressiva in quanto danneggia le classi meno abbienti Proprio da quest’ultimo punto si sviluppa la recente proposta della cosiddetta “carbon tax cum dividend”: supponiamo cioè di avere una tassa socialmente desiderabile che sia più alta rispetto la “classica” carbon tax; in questo modo si può assicurare un gettito aggiuntivo rispetto alla (più bassa) tassa originaria in modo tale da poter conferire un sussidio nei confronti delle classi sociali più svantaggiate. Standard ambientali Una politica ambientale alternativa alla Tassa Pigouviana è l’introduzione di uno standard ambientale il quale può implementato sotto forma di: livello di emissioni massime per unità di prodotto volume massimo complessivo di emissioni per il totale della produzione Nel momento in cui si sta immaginando di introdurre uno standard ambientale si può fare caso ad un apparente isomorfismo tra questo tipo di intervento e una regolamentazione della produzione o del prezzo di mercato, ma nella realtà vedremo che non è così. Lo standard S deve essere accompagnato da una multa nel caso venga violato: la sanzione è di fatto potenziale e diventa effettiva nel momento in cui le imprese producono una quantità superiore a quella stabilita dallo standard stesso. In tal senso, lo strumento dello standard può essere decisamente accolto con maggior favore dagli agenti in quanto la deterrenza è certamente molto più accettabile di una tassa implementata sin dall’inizio. Lo strumento dello standard ambientale, sostanzialmente, è equivalente ad una Tassa Pigouviana senza però avere un gettito potenzialmente, in quanto si tratta di un meccanismo che non deve essere necessariamente implementato; inoltre, da un’immagine esteriore dell’autorità pubblica non vessatoria perché l’obiettivo non è quello di ricavarne un gettito ma solo evitare un danno derivante dalle emissioni e dunque non suscita le medesime reazioni da parte delle imprese. Il problema principale inerente lo standard ambientale `e quello relativo all’individuazione di uno standard e di un livello di multa corrispondente che siano adeguati. Se infatti, ad esempio, considerando il grafico precedente, il regolatore impone uno standard sbagliato eccessivamente restrittivo del tipo QS < Q* associandogli una multa potenziale inferiore che è l’equivalente di una tassa sulle emissioni più piccola di quella ottimale M* (che alla fine è il livello equivalente alla tassa pigouviana), le imprese lo prenderanno come un regalo perché esse, pensando alla massimizzazione dei profitti in ogni caso, saranno disposte a spingersi sino ad un livello di produzione superiore come QB, violando di fatto lo standard e prendendo di buon grado il pagamento della sanzione, in questo caso dunque troppo bassa. Inoltre, anche nel caso in cui il regolatore, dopo essersi accorto di tale errore, adeguasse il livello dello standard ad un livello QB, facendo pagare alle imprese un ammontare pari al rettangolo MSQB le imprese pagheranno senza fare una piega causando, per giunta, una perdita di benessere (visivamente è data dal triangolo che si ottiene prolungando il segmento di QB fino a intercettare D′) associata all’errore del regolatore che ha innescato un comportamento non virtuoso da parte delle imprese, le quali si spingono infatti a destra dell’ottimo sociale. Dunque, se il regolatore sa tutto ciò che c’`e da sapere per mettere allora stabilirà e azzeccherà una multa che deve funzionare da minaccia credibile e che, idealmente, non `e necessario debba essere mai implementata; nel momento in cui, per qualunque motivo, il regolatore si sbaglia allora si deve essere pronti ad osservare una situazione insperata per cui la misura della multa si rivelerà troppo piccola o troppo elevata e comunque non avrà funzionato. Tassa pigouviana vs standard ambientali Nel momento in cui immaginiamo che i risultati tra le due policy siano visivamente equivalenti, a parte per l’implementazione obbligatoria che caratterizza la tassa e il valore potenziale che, invece, caratterizza lo standard, i due strumenti sembrano perfettamente intercambiabili ma nella realtà non lo saranno per via della loro natura differente: uno, la tassa, è infatti un meccanismo di puro prezzo, mentre la fissazione di uno standard ambientale è un meccanismo che agisce in modo volumetrico, ossia sulle quantità. In particolare, con l’introduzione di una tassa, il regolatore non ha la certezza che le imprese si fermino nel Q* ma si aspettano di vedere le imprese aggiustare endogenamente l’output sebbene non stiano dicendo loro esplicitamente di farlo. Assunzione: che sia ragionevole pensare che nel caso in cui il governo abbia degli uffici affidabili che misurino correttamente grandezze come livello di emissioni e danno marginale ambientale allora (il che significa che il regolatore conosce perfettamente la curva D’), non è ovvio che sia altrettanto in grado di sapere com’è fatta la curva di profitti marginali perché quest’ultima dipende da come sono fatte la domanda e l’offerta nonché dai dati sui costi marginali. dunque, è possibile per esempio, che il regolatore sottostimi il profitto marginale π’ del settore industriale: si avrà che mentre il profitto marginale reale è rappresentato dalla (retta più alta) π’(V), il livello che il regolatore ha in testa è la retta π’(F). Quello che ci aspettiamo possa succedere a questo punto dipende e, in particolare, dipende dalla pendenza relativa delle due grandezze rilevanti, ossia il danno marginale D′ e il profitto marginale π′. Il caso più semplice, rappresentato nella figura precedente, per cui i due coefficienti angolari delle due rette coincidono in modulo; a questo punto si ha un altro elemento che definisce in che modo l’autorità pubblica sottostima il profitto marginale e lo sottostima, nel modello semplificato e molto particolare di M. Spence, di una costante, il che vuol dire che le rette π′(V) e π′(F) hanno coefficiente angolare uguale ma una è uguale all’altra meno una costante k. Nel momento in cui le due rette sono parallele allora il regolatore è indifferente tra tassa e standard a patto che, se noi sbagliamo lo standard le imprese si fermino dove vuole il regolatore e non dove vorrebbero fermarsi loro. La questione è quindi questa: supponiamo che il regolatore calcoli π′(F) sottostimato, parallelo a quello vero; lui vorrebbe fermare le imprese in corrispondenza di uno standard troppo stretto rispetto a quello corretto (ma lui non lo sa) che si trova sulla verticale di Q. A questo punto prolunghiamo l’ordinata della tassa verso destra e andiamo a vedere dove interseca il profitto marginale vero a destra, e questo accade in Q′. Noi sappiamo già, che, quando le imprese si vedono somministrare per legge uno standard troppo corto rispetto a Q*(e loro sanno, a differenza del regolatore, dove sta Q*) finirebbero per essere tentate di arrivare fino a Q′ perché la tassa fissata dall’autorità pubblica è MQ, che è molto più piccola del volume di soldi che loro assocerebbero a una tassa corretta se il regolatore sapesse che loro finirebbero in Q′. Si noti che, dati a sinistra e a destra dell’intersezione tra π ′ (V ) e π ′ (F) due triangoli equivalenti, proprio perché questi sono uguali viene dimostrato che il regolatore `e indifferente tra scegliere una tassa e scegliere uno standard in questo caso. Se il regolatore impone lo standard Q associato alla multa M e le imprese si fermano correttamente in corrispondenza di Q (mentre realisticamente, se il regolatore impone uno standard eccessivamente restrittivo, si spingerebbero in Q′ perché la minaccia non è capace di agire da deterrente), a questo punto, succede che si perde un’area pari al triangolo a sinistra di Q* perché potremmo avere un pezzo di welfare netto positivo in più (rappresentato dal triangolo stesso) e invece non succede perché le imprese si fermano troppo a sinistra rispetto al vero ottimo sociale. Se, piuttosto che uno standard, il regolatore utilizza una tassa (pigouviana) che verrebbe certamente implementata, tale da indurre le imprese a fermarsi in corrispondenza di Q′, rispondendo quindi correttamente ad una tassa che però è sbagliata, a questo punto succede che il volume di danno, e quindi di decurtazione del welfare, in eccesso rispetto all’ottimo sociale vero, è un’area pari al triangolo tra Q* e Q′, ossia un’area in cui il profitto marginale è sistematicamente decrescente e sistematicamente sempre più basso del danno ambientale, il che significa che spingersi in Q′ vuol dire pagare un prezzo in termini di emissioni al netto delle possibili compensazioni, le quali consistono nell’unica cosa che esiste (perché il consumer surplus non esiste), ossia il π’ delle imprese che sta calando. Dato che il danno è uguale in entrambi i casi in virtù del fatto che i due triangoli sono perfettamente sovrapponibili (noi siamo sicuri che lo siano perché π′ e D′ hanno lo stesso coefficiente angolare per ipotesi), allora il policy maker, in questo caso, si dichiara neutrale rispetto alla scelta tra lo standard e una tassa in quanto in entrambi i casi si perde lo stesso ammontare di welfare, in un caso sotto forma di danno effettivo (triangolo di destra), nell’altro sotto forma di perdita netta (triangolo di sinistra). L’obiezione fondamentale, che allora non fu fatta, ma che può essere mossa è la seguente: noi studiamo cosìı il problema di un regolatore che non sa tutto quello che dovrebbe sapere e ne deduciamo che lui dovrebbe essere indifferente, ma come fa ad essere indifferente se sbaglia i conti e non sa di stare sbagliando? ovvero, come fa a dire di essere indifferente se non sa su quali basi si sta chiedendo se essere indifferente o meno? Caso asimmetrico A In questo caso un po’ differente dal precedente, il regolatore non è indifferente tra la tassa e lo standard ambientale perché, e lo si capisce anche intuitivamente, il triangolo a destra è generato da una curva di danno marginale molto più ripida della curva dei profitti marginali. In particolare, in questo caso il regolatore preferisce lo standard rispetto alla tassa e, di fatto, sta implicitamente dicendo che preferisce un mondo con meno emissioni e quindi minor danno ambientale: tale ragionamento non fa una grinza, soprattutto se visto con la consapevolezza del problema che si ha ai giorni nostri. Caso asimmetrico B In questo caso, rispetto al caso precedente, la tecnologia delle imprese è una tecnologia poco “sporca” (e lo si intuisce dall’inclinazione della curva di danno marginale D′); a questo punto, la perdita di benessere suggerisce di preferire la tassa allo standard in quanto con quest’ultimo strumento le imprese arrivano a produrre Q generando una perdita di benessere pari al triangolo di sinistra il quale, evidentemente, è più grande del triangolo di destra. In particolare, dato che la curva D′ ha un coefficiente angolare in modulo strettamente inferiore di quello della curva dei π′, il regolatore finisce col preferire una tassa anche se, in realtà, sta di fatto dicendo che preferisce una situazione in cui riceve più gettito ma in cui, al contrario, il benessere sociale contiene volume di inquinamento con segno meno molto più grande. Il problema molto grave di questo modello è che è statico, il che implica anche la staticità della tecnologia: se immaginiamo che questa sia un’istantanea di una lunga vicenda in cui succede una cosa del genere per tecnologia “brown” data, con imprese che si allontanano da Q* arbitrariamente a destra finché non gli si azzera il profitto marginale con la tassa (sbagliata), e immaginiamo questo come la proiezione dell’istantanea invariante nel tempo, allora si ha un’immagine di qualcosa che crea accumulazione di CO2 e dunque ad un massacro alla lunga. Quando si arriva agli anni ’70 con modelli di questo tipo si capisce come possa essere difficile interpretare correttamente quello che andrebbe fatto alla luce di tutta la storia neoclassica che parte circa cinquant’anni prima. Diritti di inquinamento trasferibili Il meccanismo dei diritti di inquinamento trasferibili consiste nell’istituzione di una norma che stabilisce che si possano allocare tali diritti ad un prezzo che può essere determinato in due modi: prezzo determinato dall’autorità pubblica prezzo determinato con un’asta ovvero con un prezzo finale determinato dalle offerte delle imprese che mandano in aggiudicazione una quantità di CO2 equivalente che viene stabilita a priori dall’autorità pubblica. Un aspetto fondamentale da considerare è che in questo caso, a differenza di quanto abbiamo visto finora con Tassa Pigouviana e standard ambientali, si immagina una situazione in cui le imprese possono attivare esplicitamente una qualche forma di investimento nel mutamento tecnologico che porti a tecnologie meno impattanti sotto il profilo ambientale; dunque, appare per la prima volta la menzione esplicita alla R&S (ricerca e sviluppo) per tecnologia verde, senza però specificare in generale di cosa si tratti: da lì in avanti si pensa per la maggior parte dei casi a tecnologie di abbattimento, ossia il caso per cui la vera sostanza della tecnologia non viene cambiata; soltanto più tardi si arriverà a parlare di tecnologia sostitutiva. Inoltre, un aspetto certamente tra i più rilevanti del modello, è che la rappresentazione che segue non fa esplicitamente menzione della forma di mercato; quello che si immagina, semplicemente, è un contesto in cui, a prescindere dall’intensità della concorrenza, si ha un settore industriale in cui le imprese possono ridurre le emissioni investendo in nuove tecnologia verdi e la quantità che non riescono ad abbattere nella propria divisione di R&S lo compensano partecipando all’asta in cui, di fatto, comprano un diritto supplementare a inquinare e, così facendo, offrono al regolatore un ammontare di risorse economiche che possono essere investite per compensare le emissioni residue. Dunque, a questo punto, il governo, conoscendo in che modo ragionano le imprese, sa bene che fin tanto che il prezzo dell’ammontare unitario di CO2 equivalente è più piccolo del costo marginale di abbattimento interno alla divisione di R&S dell’impresa, allora l’impresa comprerà fuori; al contrario, se costo marginale di abbattimento interno è inferiore al prezzo di mercato, allora l’impresa si affiderà alle proprie divisioni interne. In soldoni stiamo dicendo che se si ha una popolazione di imprese molto diverse tra loro (in termini di dotazione di fondi e capacità innovative) allora ci si deve aspettare di avere un’efficienza nelle tecnologie di abbattimento sull’intero settore industriale molto eterogenea e, tipicamente, le imprese più efficienti compreranno meno sul mercato mentre, viceversa, le imprese meno efficienti dovranno necessariamente rivolgersi maggiormente al mercato. Inoltre, in linea di principio, se le cose stanno così, in tal modo il governo, sulla base dei diritti assegnati impresa per impresa, è capace di avere una panoramica affidabile di quale sia l’efficienza relativa delle imprese nell’abbattimento delle emissioni. Tuttavia, in realtà, non si può fare troppo affidamento su un ragionamento del genere; infatti, poiché i diritti sono commerciabili (e l’occasione fa l’uomo ladro), potrebbe verificarsi il caso per cui un’impresa particolarmente efficiente (che potrebbe quindi fare tutto internamente) vada all’asta e compri una fetta consistente delle emissioni disponibili in modo tale da impedire a qualche altra impresa di prendere una quota di mercato e, magari, decidere in aggiunta a chi rivendere sul mercato secondario i diritti acquisiti (naturalmente ad un prezzo maggiore). Tale intervento potrebbe quindi innescare comportamenti anti-competitivi, aumentando cosìı la concentrazione delle imprese, compromettendo il consumer surplus. Nel momento in cui ci accingiamo ad introdurre un meccanismo di mercato come l’allocazione costosa delle quote di inquinamento dobbiamo considerare il fatto che la grandezza rilevante, che nei fatti altro non è che la curva di domanda di mercato per l’intera industria, non è, come nel caso della Tassa Pigouviana, quella dei profitti marginali (π′); la curva che governa il comportamento delle imprese, infatti, è la curva di costo marginale aggregata dell’abbattimento (cmab) dell’intera popolazione delle imprese; in particolare, le imprese domandano pacchetti di emissioni in misura maggiore al diminuire della loro abilità tecnologica. Dunque, a questo punto, il volume di inquinamento socialmente efficiente non è più quello definito dall’intersezione tra profitti marginali e danni marginali ma `e quello definito dall’intersezione tra D′ e cmab. In particolare, il grafico sopra rappresentato `e disegnato in modo tale che la funzione di domanda di mercato sia una retta decrescente; questa rappresentazione `e effettivamente veritiera solo se le imprese sono tutte uguali, in particolare se sono ugualmente capaci di creare tecnologie verdi di abbattimento da incorporare nei propri prodotti. Se non è così, allora la funzione di domanda di mercato, ottenuta in generale per somma orizzontale delle funzioni di domanda individuali, è una spezzata. Per rendercene conto (nel caso ce ne fosse bisogno), per semplicità, pensiamo ad una situazione di duopolio con due imprese che non sono ugualmente abili a generare tecnologia di abbattimento. Nel grafico di cui sopra vediamo, in particolare, una rappresentazione di un duopolio in cui l’impresa 2, in particolare, è sistematicamente meno efficiente dell’impresa 1 (infatti cmab2 > cmab1). Per ottenere la domanda aggregata si sommano orizzontalmente le curve individuali di cmabi. Nel momento in cui la domanda aggregata interseca la retta S* si arriva in equilibrio individuando la quantità totale di emissioni che può essere allocata e che, in teoria, dovrebbe essere allocata tutta. Inoltre, ci si aspetta che l’impresa più efficiente compri di meno e, in particolare, la rappresentazione geometrica ci porta a concludere che l’ultima unità di CO2 in aggiudicazione andrà all’impresa meno efficiente perché la sua domanda interseca esattamente in Q* (ma in realtà, come già detto, `e solo un risultato geometrico). Inoltre, in questa rappresentazione la domanda è uguale all’offerta e quindi il mercato è propriamente in equilibrio ma, tuttavia, potrebbero verificarsi altre due situazioni alternative in cui: non tutte le quote vengono effettivamente assegnate oppure in cui esiste una domanda residua non soddisfatta da parte dell’impresa meno efficiente. La prima è una situazione in cui, di fatto, è come dire che il prezzo è sbagliato (in particolare troppo alto), il che implica che si è sbagliato a stimare qualche domanda individuale e quindi la domanda aggregata. L’altro caso, invece, che è il caso in cui il prezzo è troppo basso, in realtà potrebbe derivare dal fatto che ci sia stata qualche impresa che non è riuscita a comprare la quantità domandata: tale eccesso di domanda potrebbe dipendere dal fatto che qualcuno, già particolarmente efficiente, ne abbia comprate altre per motivi strategici. L’aspetto importante di questo tipo di strumento rispetto ai precedenti è che rimane sostanzialmente invariato quale che sia la struttura di mercato in cui viene introdotto: è uno strumento a valenza universale perché, infatti, a livello analitico, dipende solo dalla derivata prima degli investimenti in R&S (ossia i cmab); oltre a ciò, è da tenere conto che è anche più facile da raccontare al grande pubblico e alle stesse imprese, le quali reagiscono in un modo molto diverso rispetto al caso di una tassa o di uno standard; in parte ciò deriva dal fatto che quando si illustra tale meccanismo si sta implicitamente dicendo che i più bravi ad abbattere le emissioni hanno una corsia preferenziale perché possono usare qualcosa su cui hanno investito molte risorse: per le imprese è dunque anche un’immagine strategica fa proiettare nell’immagine di sé che viene destinata ai propri clienti e al mercato. Il processo di entrata nel settore È possibile che cambi la struttura di mercato come risultato dell’entrata nel mercato da parte di altre imprese ed è possibile, in particolare, che le stesse possano decidere di acquistare diritti di inquinamento sebbene non facciano parte del settore industriale di riferimento. A seguito dell’entrata di altre imprese nel mercato, il regolatore deve aspettarsi che la domanda aggregata di quote di inquinamento “shifti” verso l’esterno (nell’ipotesi, che consideriamo per semplicità, che le imprese siano simmetriche): ciò, naturalmente, porta ad un aumento del prezzo di equilibrio e un aumento delle emissioni ovviamente. L’altra possibilità, come anticipato, è quella per cui vi siano imprese che non appartengono al settore (come gruppi ambientalisti del tipo “Greenpeace”) ma che partecipano comunque all’asta per sottrarre un tot di quantità di diritti di inquinamento per poi non utilizzarli: si potrebbero quindi osservare dei meccanismi molto strani della domanda aggregata di quote delle emissioni dettati dal fatto che a quell’asta non ci sono solo imprese che domandano quote aggiuntive per i motivi più disparati ma anche altre imprese che rompono le palle. La natura degli strumenti regolativi Gli strumenti che abbiamo visto hanno quindi, come abbiamo avuto modo di approfondire, presentano caratteristiche intrinsecamente diverse; in particolare, la tassa e l’uso di allocazione costosa delle quote per l’inquinamento sono meccanismi di mercato perché fanno riferimento diretto al meccanismo dei prezzi; lo standard ambientale, invece, è un cosiddetto meccanismo di comando e controllo, il che implica che, in linea di principio, lo Stato non sta dicendo che quello che sta facendo ha un impatto diretto sul prezzo ma sta semplicemente dicendo che ha eretto un limite superiore al volume di emissioni che è disposto ad osservare in quel settore industriale. Ad ogni modo, quello che dobbiamo aspettarci in tutti e tre i casi è che quello che pagano le imprese come tassa o che spendono in R&S o al mercato delle emissioni, di fatto, sono componenti che rientrano in ogni caso nel prezzo del bene finale che viene venduto al consumatore finale. A partire dagli anni ’70, in particolare grazie ad un famoso paper di Martin Weitzman del 1974, noi sappiamo che, in generale, a prescindere dalla forma di mercato che stiamo ipotizzando e considerando, questi tre strumenti non sono equivalenti; inoltre, siamo sicuri anche del fatto che non saremo mai in grado di averne un “ranking” in quanto al variare del modello varia anche il ranking stesso. Pertanto, non avremo mai risposte univoche in tal senso: questo implica che dobbiamo sceglierli bene. REGOLAMENTAZIONE E CONSAPEVOLEZZA DEL CONSUMATORE IN OLIGOPOLIO La tassa ottima in Cournot e Bertrand Riprendiamo il modello di mercato con bene omogeneo e domanda lineare: la domanda di mercato è 𝑝 = 𝑎 − 𝑄 con 𝑄 = ∑ 𝑞 con n imprese simmetriche con funzione costo 𝐶 = 𝑐𝑞 , cioè la stessa tecnologia per tutte. In altre parole: vengono tassate le emissioni individuali, ma il danno è collettivo, e le imprese devono integrare il danno collettivo. Cosa accade se il regolatore adotta una tassa sulle emissioni? Il profitto dell’impresa i è 𝜋 = (𝑝 − 𝑐 − 𝑡𝑒)𝑞 , il surplus del consumatore è 𝑆𝐶 = , mentre le emissioni sono 𝐸 = 𝑒𝑄 e il danno è 𝐷 = 𝑣𝐸. (i parametri e e v sono positivi). l’introito fiscale viene redistribuito, quindi il benessere sociale è 𝐵𝑆 = 𝜋 + 𝐶𝑆 + 𝑡𝑒𝑄 − 𝐷 In Bertrand, l’impresa i è costretta dalla tassa a giocare il prezzo di Bertrand-Nash 𝑝 = 𝑐 + 𝑡𝑒 , ottenendo profitti nulli. La quantità totale in equilibrio è 𝑄 = 𝑎 − 𝑐 − 𝑡𝑒, e quindi il danno è 𝐷 = 𝑣𝑒 (𝑎 − 𝑐 − 𝑡𝑒). se le imprese non modificano la tecnologia, all’autorità non resta che massimizzare il benessere fissando 2(𝑎 − 𝑐)𝑒𝑣 𝑡 = 1 + 2𝑒 𝑣 Che è sempre positiva e indipendente dalla struttura del settore industriale Naturalmente, in equilibrio il profitto dell’industria è nullo, mentre il danno ambientale e il benessere sociale val- ( ) ( ) gono, rispettivamente: 𝐷 = ( ) e 𝐵𝑆 = ( ) che sono identici a quelli di Bertrand Cosa dobbiamo aspettarci da Cournot? La condizione di primo ordine è 𝜕𝜋 = 𝑎 − 𝑐 − 𝑟𝑡 − 2𝑞 − 𝑄 =0 𝜕𝑞 Imponendo la simmetria in modo tale che 𝑞 = 𝑞; 𝑄 = (𝑛 − 1)𝑞 e risolvendo, nell’equilibrio di Cournot-Nash, la quantità individuale è 𝑎 − 𝑐 − 𝑒𝑡 𝑞 = 𝑛+1 La tassa che massimizza il welfare è (𝑎 − 𝑐)(2𝑒 𝑛𝑣 − 1) 𝑡 = il regolatore disegna le tasse in modo che… Pigou nel limite Si può agevolmente mostrare che in generale la tassa che massimizza il welfare non coincide con quella Pigouviana (che deve indurre l'internalizzazione del danno marginale da parte delle imprese). Possiamo farlo usando l'oligo- polio di Cournot con costi di produzione che includano un elemento convesso. L'altro risultato che si ottiene consiste nel mostrare che le due tasse coincidono al limite, in cui la popolazione delle imprese diventa infinitamente numerosa. Tutto questo si basa: sul teorema di Novshek (1980), secondo cui il limite dell'equilibrio di Cournot-Nash è la concorrenza perfetta, sui lavori di Simpson (1995) e Katsoulacos e Xepapadeas (1995), che lo usano includendo la tassa sulle emissioni per dimostrare che nel limite le due tasse coincidono. Il modello rimane invariato, se non che la funzione di costo individuale diventa 𝐶 = 𝑐𝑞 + 𝑏𝑞 , in modo tale che 𝜋 = (𝑝 − 𝑐 − 𝑡 − 𝑏𝑞 )𝑞. Qui, per parsimonia e semplicità posiamo e=1, cioè prendiamo ocme metro il numero di molecole di C02 per unità di prodotto. La condizione di primo ordine è 𝜕𝜋 = 𝑎 − 𝑐 − 𝑡 − 2𝑞 (1 + 𝑏) − 𝑄 =0 𝜕𝑞 Da cui, imponendo la simmetria, otteniamo: 𝑎−𝑐−𝑡 𝑞 = 𝑛 + 1 + 2𝑏 A questo punto, massimizzando il benessere sociale rispetto alla tassa, otteniamo (𝑎 − 𝑐)(2𝑛𝑣 − 1) 𝑡 = 2𝑏 + 𝑛(1 + 2𝑣) Mentre il danno ambientale 2𝑛𝑣(𝑎 − 𝑐) 𝐷 = 2𝑣𝑄 = 2𝑏 + 𝑛(1 + 2𝑣) E quindi otteniamo i seguenti risultati fondamentali: 𝑎−𝑐 𝑡 −𝐷 = => lim (𝑡 − 𝐷′) = 0 2𝑏 + 𝑛(1 + 2𝑣) → inoltre, 2𝑎(𝑏 + 𝑛𝑣) + (𝑐 + 1) 𝑝 = , 𝑐𝑚𝑠 = 𝑐 + 𝑡 + 2𝑏𝑞 2𝑏 + 𝑛(1 + 2𝑣) Con lim (𝑝 − 𝑐𝑚𝑠) = 0 → tutto questo per tecnologia data. E se le imprese reagiscono investendo in tecnologie verdi? Tecnologie verdi Per prima cosa notiamo che, se il costo marginale è costante, le imprese di Bertrand non hanno grande spazio di ma- novra sul terreno degli investimenti. Se non introduciamo la differenziazione del prodotto e magari anche i costi di produzione convessi, dobbiamo limitarci a Cournot. A parte questo limite, abbiamo la possibilità di valutare diversi tipi di innovazione in relazione a diversi tipi di policy. Inoltre, possiamo chiederci che relazione esista tra la struttura dell'industria e la propensione a investire in tecnologie verdi. Se la tassa sulle emissioni induce le imprese a investire in tecnologie verdi, queste possono prendere due forme di- verse. La prima consiste in tecnologie di abbattimento 𝜋 = (𝑎 − 𝑞 − 𝑄 − 𝑐)𝑞 − 𝑡(𝑒𝑞 − 𝑘 ) − 𝑏𝑘 , 𝑖 = 1,2 Con cui si abbattono le emissioni lasciando e così com’è, cioè senza modificare la tecnologia in quanto tale. Altri- menti, si può investire in tecnologie sostitutive, nel qual caso la funzione di profitto diventa 𝜋 = (𝑎 − 𝑞 − 𝑄 − 𝑐)𝑞 − 𝑡(𝑒 − 𝑘 )𝑞 − 𝑏𝑘 , 𝑖 = 1,2 in questo caso, è come dire che la natura intrinseca del prodotto muta. È ovvio che le due alternative non sono equivalenti, e nel lungo periodo è altamente desiderabile che venga scelta la strada delle tecnologie sostitutive (o “di rimpiazzo). Cosa accade se l'autorità, invece di adottare una tassa sceglie uno standard (e di che genere?) oppure istituisce un mercato per le emissioni? Queste scelte sono equivalenti? Se non lo sono, quale di questi strumenti funziona meglio? Inoltre, la dimensione aggregata dell'investimento in tecnologie verdi è sensibile all'intensità della concorrenza (ov- vero, alla struttura dell'industria)? Se si adotta uno standard a livello dell’intera industria (e le imprese sono simmetriche), allora la funzione di profitto diventa 𝜋 = (𝑎 − 𝑞 − 𝑄 − 𝑐)𝑞 − 𝑏(𝑒𝑞 − 𝑠̅) In cui la S (sbarra) è il tetto alle emissioni in capo alla singola impresa (e quindi lo standard aggregato vale S = ns). qui la tecnologia ha una natura prossima all’abbattimento. Se invece si introduce uno standard a livello del prodotto, allora 𝜋 = (𝑎 − 𝑞 − 𝑄 − 𝑐)𝑞 − 𝑏(𝑒 − 𝑠̅ ) 𝑞 In cui la nature dell’innovazione assomiglia a quella associata ad una tecnologia sostitutiva. Se invece esiste un mercato delle emissioni, i profitti individuali sono 𝜋 = 𝑎 − 𝑞 − 𝑞 − 𝑐 𝑞 − 𝑓(𝑞 , 𝑘 , 𝑒) − 𝑏𝑘 − 𝑃(𝑒𝑞 − 𝜀 ) In cui 𝑓(𝑞 , 𝑘 , 𝑒) ricalca l’investimento in abbattimento o rimpiazzo: (𝑒𝑞 − 𝑘 ) + 𝑏𝑘 ; (𝑒 − 𝑘 )𝑞 + 𝑏𝑘 mentre P è il prezzo dei permessi commerciabili e ξiqi è il volume di permessi acquistati dall'impresa i, dopo che il volume E = ξi + Σj!=i ξj è stato distribuito gratuitamente. Altrimenti, se ξi = ξj = 0 e le imprese devono necessaria- mente acquistare permessi per operare sul mercato. Montero (2002a,b) - si veda anche Requate (2005) - caratterizza gli equilibri sia in Cournot che in Bertrand e riscontra che, a causa dell'interazione strategica nella fase di mercato, gli incentivi all'innovazione generati dalla tassa sulle emissioni, da uno standard e da un mercato per l'allocazione costosa delle emissioni (con o senza pacchetti di emis- sioni distribuiti gratuitamente, non sono equivalenti e non esiste una 'formula magica' che ci consenta di scegliere uno di questi strumenti in forma definitiva. La ricostruzione del dibattito sull'e-cacia relativa degli strumenti di regolamentazione ambientale in presenza di po- tere di mercato (cioè, di funzioni di domanda decrescenti) si trova in Requate e Unold (2003) e Lambertini (2013, 2017). Adesso usiamo la (1) per valutare l'effetto del numero delle imprese sull'incentivo dell'intera industria a investire in tecnologie di abbattimento. Si tratta di un gioco in due stadi: nel primo si investe in abbattimento, nel secondo si gioca alla Cournot-Nash sul mercato. Il risultato è un equilibrio perfetto nei sotto giochi in strategie continue, otte- nuto per induzione a ritroso. Sappiamo che dalla condizione di primo ordine, imponendo la simmetria sulle quantità, otteniamo 𝑎 − 𝑐 − 𝑒𝑡 𝑞 = 𝑛+1 Inoltre, osservando la funzione di profitto, sappiamo che per ogni livello dato della tassa il profitto è additivamente separabile in ki e qi , e questo implica 𝜕𝜋 𝑒𝑡 = 𝑒𝑡 − 2𝑘 = 0 ↔ 𝑘 ∗ = 𝜕𝑘 2 e quindi anche K* = nk*, crescente in n. Si noti che l'investimento ha luogo solo se la tassa è tale, cioè se è positiva. Per prima cosa, questo è un risultato Arroviano (Arrow, 1962) e si inserisce nel dibattito indiretto con Schumpeter (1942), secondo il quale il monopolio è la forma di mercato che genera il progresso tecnico maggiore, e anche più velocemente. Da Aghion et al. (2005) in poi, sappiamo che potrebbe aversi un picco nell'R&S di un settore industriale in relazione ad uno specifico valore di n. In effetti, proprio nel caso in esame, è quanto accade in presenza di spillovers tecnologici tra imprese (Lambertini et al., 2017). È possibile che questo sia vero anche quando il regolatore usa altri strumenti, ma non lo sappiamo ancora. Consumatore verde Guardate 𝑞 : è decurtata dalla tassa. Lo stesso risultato si può ottenere se la funzione di utilità del consumatore rappresentativo diventa questa: 𝑄 𝑈 = 𝑎𝑄 − − 𝑔𝑒𝑄 2 in cui g > 0 è l'indicatore della sua consapevolezza ambientale. La funzione di domanda che genera è 𝑝 = 𝑎 − 𝑔𝑒 − 𝑄, e il nuovo parametro può sostituire la tassa o completarne l'opera. Naturalmente le imprese lo sanno e rispondono con informazioni sull'impatto dei propri prodotti. Normare questo comportamento (come vedremo in tema di CSR) è fondamentale. CORPORATE SOCIAL RESPONSABILITY E IPOTESI DI PORTER Corporate social responsability Iniziamo adesso a parlare della Corporate Sociale Responsability (CSR) o, come è stata denominata in seguito, Envoironmental Corporate Social Responsability (ECSR), in modo da esplicitare il fatto che quello a cui si fa riferimento è la responsabilità sociale e, al contempo, ambientale delle imprese. Il dibattito sulla CSR si apre all’inizio del millennio con un “mood” scettico, se non proprio negativo. In particolare, l’economista Baron (nel 2001) sostiene che non è così plausibile che le imprese internalizzino spontaneamente qualcosa che per loto è un costo netto, ossia non internalizzeranno mai in quanto equivale sostanzialmente ad autotassarsi. A quel punto, anche Benabou e Tirole (nel 2010) esprimono diversi dubbi a riguardo perché, per loro, ciò vorrebbe dire che le imprese si abbassano i profitti da sole. Questo tipo di idee e obiezioni ha fatto si che l’analisi sulla CSR venisse ritardata. Ad ogni modo, da lì in poi, sono stati sviluppati modelli in cui viene mostrato come, nella realtà, l’impresa che diventa CSR potrebbe scrivere una funzione obiettivo che non ne comprometta i profitti ma, anzi, che lipotrebbe aumentare a patto che tale funzione obiettivo includa, oltre al proprio profitto, anche la soddisfazione del consumatore (ossia il consumer surplus) e l’impatto ambientale. Supponiamo quindi di avere un’impresa i che diventa CSR; la sua funzione obiettivo Ωi sarà: Ω = 𝜋 + 𝜃(∅𝑆𝐶 − 𝐸 ) Vale a dire: (𝑞 + 𝑄 ) Ω = (𝑎 − 𝑞 − 𝑄 − 𝑐)𝑞 + 𝜃 ∅ − 𝑒𝑞 2 in cui θ > 0 e > 0 sono i pesi riferiti rispettivamente alla soddisfazione del consumatore (ossia al consumer surplus) e all’impatto sociale e ambientale (ossia alla funzione di welfare), e che l’impresa fissa in modo da massimizzare i propri profitti. Questa uguaglianza è come dire che l’impresa CSR internalizza una parte più consistente della funzione di welfare di quanto non faccia un’impresa non CSR che massimizza i profitti e basta. Si noti che nel caso in cui = 0 è come dire che se l’impresa CSR non include il consumer surplus sta “mimando” il fatto di essere tassata (a patto che θ > 0), ovvero che l’impresa si sta effettivamente assumendo la responsabilità delle proprie emissioni anche in assenza di regolamentazione. Infatti, se la θ la si chiama t, e si fissa a zero , quella funzione è indistinguibile dal caso di un’impresa che in Cournot viene sottoposta ad una tassa sulle proprie emissioni. Dunque, quello che stiamo per vedere è una conseguenza diretta della Teoria dell’Impresa Manageriale moderna, che viene fatta risalire al contributo di John Vickers: in questo caso, quindi, si sta sostanzialmente dicendo che l’impresa che diventa CSR non ha come obiettivo esclusivamente la massimizzazione dei profitti puri, ma tiene conto anche di un’altra combinazione, ossia l’impatto ambientale della produzione. In questo contesto, diventare un’impresa CSR significa che equivale a istituire, su mandato degli azionisti, una divisione CSR affidata a un manager che abbia il mandato di massimizzare Ω. Il contributo di Vickers, per l’appunto, mostra come tale situazione può essere sostanzialmente trasposta in un gioco a due stadi in cui almeno una delle imprese sul mercato (che consideriamo alla Cournot) vuole diventare CSR: nel I stadio “giocano” i proprietari delle imprese che devono assumere il manager CSR affidandogli il contratto di delega sulla base della funzione obiettivo; nel secondo stadio, a seconda di quanti hanno delegato, si gioca Cournot-Nash con imprese gestite da soggetti che sono stati scelti nel I periodo. Quello che succede generalmente quando un’impresa diventa CSR e dunque assume un manager e scrive correttamente il contratto di incentivazione del manager che includa l’obiettivo ECSR, è che ciò ha l’effetto di produrre una rotazione della curva di reazione dell’impresa diventata CSR fino a diventare ortogonale all’asse delle quantità di quell’impresa: l’effetto, cioè è quello di irrigidire la funzione di reazione dell’impresa CSR, la quale a quel punto diventa insensibile alla quantità prodotta dall’impresa rimasta imprenditoriale. Dunque, questo vuol dire che, a prescindere dal fatto che si attivino investimenti in tecnologie verdi oppure no, se in un mercato tutte le imprese meno una (quella che diventa CSR) sono manageriali, si arriva sempre a replicare la performance del leader dell’equilibrio di Stackelberg (per cui, in generale, l’impresa leader avrà una quota di mercato maggiore e un profitto maggiore dell’impresa follower), solo che, in questo caso, non si arriva per una condizione di tangenza ma per un movimento della funzione di reazione dell’impresa CSR che riproduce lo stesso esito, collocando l’equilibrio in un modo indistinguibile da Stackelberg. Quindi, se le imprese sono almeno due, c’`e un incentivo stretto a diventare CSR perché, se l’altro non lo fa diventerà più piccolo in termini di quote di mercato e più povero in termini di profitti: dunque, la delega CSR si configura come una strategia dominante. Tuttavia, si può avere, ed emerge talvolta anche nei calcoli, un rischio: siccome le deleghe riguardano obiettivi che sono funzione delle quantità, esiste potenzialmente un problema e cioè che si possa avere la propensione ad espandere l’output perché la componente del consumatore prevale e, a quel punto, si può arrivare alla situazione paradossale in cui un settore CSR inquina più di un settore completamente non CSR; in realtà, a tale conclusione si è arrivati in modelli in cui il peso θ era incluso come parametro e non pesato in modo endogeno: se si pesa θ in modo parametrico, infatti, esiste un range di valori di θ ampiamente positivo in cui può avere tale risultato, il quale, però, nella realtà non si può avere in quanto il peso θ non può essere un parametro in quanto è un qualcosa che viene deciso dai proprietari dell’impresa che delega al manager perché quest’ultimo massimizzi i propri profitti. Ipotesi di Porter Quello che fa l’economista M. Porter, alla cui tesi ci si riferisce frequentemente con l’appellativo di “Ipotesi di Porter”, in un articolo del 1991 su Scientific American è sostenere che, quando si parla di regolamentazione ambientale, sia plausibile che quest’ultima finisca col favorire il miglioramento delle performance delle imprese (inclusi i profitti). In seguito, si innesca una lunga discussione in cui si formalizza l’idea di Porter dicendo che, nella sostanza, è possibile che la regolamentazione ambientale inneschi una reazione delle imprese che scoprono di fare la cosa giusta e, facendolo, vedono accrescere i propri profitti. In particolare, le versioni dell’ipotesi di Porter sono due: versione debole: prevede che una regolamentazione ambientale (che sia sensata), quale che sia lo strumento di policy, inneschi un processo virtuoso per cui le imprese rispondono alla normativa investendo in R&S per tecnologia verde, senza compromettere la crescita economica; in particolare, questa è una versione che è possibile osservare nella realtà versione forte: la quale sostiene che le imprese potrebbero reagire al regolatore innescando un processo di investimento talmente produttivo in termini di pulizia della tecnologia da annullare l’effetto della policy e dandoci delle tecnologie talmente verdi che, facendo così, le imprese stesse vedono aumentare i propri profitti e, nello stesso tempo, consegnano alla collettività un welfare più elevato Se la versione forte fosse verificata, allora ci troveremmo nella cosiddetta “win win solution”, ossia una situazione nella quale l’ottimo sociale e l’ottimo privato coincidono e, in particolare, sono entrambi raggiunti. Tuttavia, tale versione non è purtroppo verificata dai dati che abbiamo, sebbene sia possibile individuarne sistematicamente una verifica in tutta la ricerca teorica svolta negli ultimi trent’anni circa.