Dispensa Biochimica Generale PDF

Summary

Questo documento presenta un'introduzione generale alla biochimica, focalizzandosi sulla struttura e le proprietà delle proteine. Vengono descritti gli amminoacidi, unità costituenti delle proteine, con esempi e classificazioni. Vengono anche discusse le proprietà chimiche e strutturali dei legami peptidici.

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La biochimica è la scienza che studia le basi chimiche della vita, che si interessa delle reazioni chimiche che avvengono all’interno degli organismi viventi e che coinvolgono biomolecole come proteine, acidi nucleici, carboidrati e lipidi. La biochimica studia la struttura e le proprietà di questi...

La biochimica è la scienza che studia le basi chimiche della vita, che si interessa delle reazioni chimiche che avvengono all’interno degli organismi viventi e che coinvolgono biomolecole come proteine, acidi nucleici, carboidrati e lipidi. La biochimica studia la struttura e le proprietà di questi componenti, nonché le trasformazioni e i processi che li coinvolgono. Tra questi componenti, le proteine costituiscono la classe di macromolecole più numerosa e che svolge la maggior parte dei processi biochimici, in modo attivo. Inoltre, le proteine rappresentano gli strumenti molecolari tramite i quali si esprime l’informazione genetica; per questo motivo, all’interno del corso affronteremo principalmente lo studio di queste molecole. Le proteine sono macromolecole polimeriche, ossia costituite da diverse subunità monomeriche semplici, dette amminoacidi, composti che contengono un gruppo amminico e un gruppo carbossilico. Esistono diversi tipi di amminoacidi, tuttavia quelli che costituiscono le proteine, proteinogenici, sono esclusivamente α e si caratterizzano dal fatto che il gruppo amminico è legato allo stesso carbonio (α) che lega il gruppo carbossilico; inoltre è interessante sapere che tutte le proteine di tutti gli organismi viventi sono costituite dagli stessi 20 amminoacidi. Gli amminoacidi sono, come già anticipato, le subunità di base delle proteine e sono codificati a partire dal DNA mediante il codice genetico e la corrispondenza basi azotate-amminoacido, in cui ogni amminoacido è specificato da una o più triplette (codice genetico si dice degenerato). I 20 amminoacidi differiscono tra loro non per il gruppo carbossilico e il gruppo amminico, bensì per la catena laterale (genericamente R) legata al carbonio α, che conferisce proprietà alla molecola in virtù di dimensione, struttura e carica. Possiamo suddividere gli amminoacidi in base alle proprietà acido-base (presenza di gruppi amminici o basici o, viceversa, carbossilici o acidi) e di densità di carica della catena laterale: Neutra (priva di cariche) e poco polare: glicina, alanina, valina, leucina, isoleucina (isomero della leucina, stessa formula bruta, diversa struttura, connettività dei gruppi) e metionina. La metionina è l’unico amminoacido a contenere un atomo di zolfo che fa da ponte tra due atomi di carbonio; ora, nostante lo zolfo sia un elemento diverso da carbonio e idrogeno (la catena non è alifatica!), la sua elettronegatività non è molto diversa dai valori di C e H e per questo la catena laterale risulterà poco polare. Neutra e polare (spesso contengono atomi di azoto o ossigeno, con alettronegativitá profondamente diversa): serina, treonina, cisteina (contiene tiolo, zolfo legato direttamente all’idrogeno e per questo, a differenza della metionina, è più polare; l’amminoacido può presentarsi deprotonato (tiolo si dissocia molto più facilmente di un gruppo alcolico, come nella serina) ma a pH>8, data la pKa=8 di acido debole, e a pH fisiologico la concentrazione della forma neutra è maggiore di quella deprotonata), prolina (la catena laterale è ciclica, in quanto si lega all’azoto amminico e il gruppo amminico non è primario, ma secondario), asparagina e glutammina (questi ultimi contengono gruppo ammidico e non sono particolarmente idrofilici, a differenza di altri amminoacidi polari generici). idrossi metile - Carica positivamente o negativamente: o Carica negativamente (per la presenza di gruppi acidi): aspartato e glutammato, i cui nomi derivano dai sali degli acidi aspartico e glutammico; a pH fisiologico, il gruppo carbossilico è quasi completamente dissociato. o Carica positivamente (per la presenza di gruppi amminici): lisina, arginina (caratterizzato da un gruppo guanidinico, costituito da un atomo di carbonio legato a tre atomi di azoto) e istidina (catena laterale contiene un anello eterociclico aromatico, detto imidazolico; avendo pKa simile a pH fisiologico, esiste un equilibrio tra forma anello etero ciclico ( contiene etero atomo f- C) protonata e neutra). Aromatica (contengono un anello benzenico): fenilalanina (poco polare e poco solubile in acqua), tirosina (contiene gruppo OH in posizione para-, definendo un gruppo fenolico e non benzenico; per questo motivo è più idrofilico rispetto alla fenilalanina) e triptofano (la catena laterale contiene un doppio ciclo. Si tratta di un amminoacido particolarmente “raro”, poco presente nelle proteine, molto probabilmente dovuto al fatto che la biosintesi richiede più energia rispetto ad altri amminoacidi). In genere, le proteine non assorbono le lunghezze d’onda della luce visibile e per questo non sono colorate; tuttavia, spesso sono in grado di assorbire lunghezze d’onda tipiche dell’ultravioletto e questo è favorito dalla presenza di anelli aromatici, come nel caso di tirosina e, in particolare, di triptofano. Un valore che possiamo correlare alla lunghezza d’onda è l’assorbanza o il coefficiente di estinzione, che indica la maggiore o minore capacità di assorbire un’onda a una particolare lunghezza d’onda. gruppo fenili co ^ Da un punto di vista stereochimico, in quasi tutti gli amminoacidi proteici il carbonio α è chirale (tranne che nella glicina, dove R=H), ovvero lega quattro sostituenti diversi, atomo di idrogeno, gruppo amminico, gruppo carbossilico e catena laterale. In base alla disposizione dei quattro gruppi, possiamo riconoscere due diversi stereoisomeri, enantiomeri, sia utilizzando la configurazione assoluta R e S, che la configurazione relativa (alla gliceraldeide) L e D, nelle proiezioni di Fischer. Per gli amminoacidi parleremo di L e D in base a che il gruppo amminico sia rispettivamente a sinistra o destra. In natura, all’interno dei sistemi biologici, abbiamo una prevalenza di amminoacidi L, che spesso corrispondente a configurazione assoluta S, ad eccezione della L-cisteina (che è R) e della glicina (che non è chirale). Gli amminoacidi, a condizioni fisiologiche, vengono rappresentati in forma di zwitterione, molecola caratterizzata da due cariche che si compensano. Tuttavia, a condizioni di pH particolarmente acide, il gruppo COO- viene protonato e complessivamente si ha una carica positiva sulla molecola; viceversa, a pH particolarmente basici, si passa da una forma zwitterionica a una forma in cui il gruppo amminico viene deprotonato. In generale, possiamo considerare la concentrazione di una specie al variare del pH come indicato nel grafico 1 e ricordare come punti significativi i punti di intersezione tra le curve (pH=pKa1 e pH=pKa2), in cui le concentrazioni delle specie sono uguali. Consideriamo ora la curva di titolazione di un amminoacido quale la glicina (grafico 2), in cui sono presenti due gruppi ionizzabili, il gruppo carbossilico e il gruppo amminico; questi vengono titolati con una soluzione altamente basica come NaOH. Dall’analisi della curva, possiamo osservare delle zone di stabilità, dette regioni con potere tamponante, dovute rispettivamente al gruppo carbossilico e al gruppo amminico, in grado di opporsi alle variazioni di pH (cioè minimizzano le variazioni di pH) intorno ai valori delle pKa. Il potere tamponante può essere giustificato in primo luogo dalla pendenza ridotta della curva in prossimità dei valori delle pKa (a variazioni significative della concentrazione di OH- corrispondono minime variazioni di pH fino a circa un valore di pH in più e in meno); inoltre, in prossimità delle pKa, le concentrazioni delle due specie sono confrontabili (a pH=pKa sono uguali) e per l’equazione di Henderson-Hasselbalch (pH=pKa+log[A-]/[HA]), il logaritmo del rapporto delle concentrazioni tende a zero, quindi il pH varia in modo minimo da pKa. Quando parliamo di amminoacidi è importante introdurre il concetto di punto isoelettrico, ossia il valore di pH al quale la carica netta della molecola è uguale a zero, la somma delle cariche sulla molecola (in tutte le sue forme, zwitterionica, carica positivamente e carica negativamente) è uguale a zero. Nel grafico 2 è il punto indicato con pI e, per la glicina, equivale a 5,97. A questo valore, la maggior parte delle molecole di glicina si trova come zwitterione (circa il 100%) con concentrazioni trascurabili di molecole nella forma anionica e cationica che si controbilanciano. In generale, il valore di punto isoelettrico è dato dalla media delle due pKa (pI=pKa1+pKa2/2). In caso di amminoacidi contenenti una catena laterale ionizzabile (come nel caso di istidina, in cui la catena contiene un anello imidazolico), la curva di titolazione sarà più complessa e potremo osservare diversi plateaux in cui l’andamento rallenta con potere tamponante. In questo caso, il valore del punto isoelettrico è dato dalla media dei pKa delle specie simili: ad esempio, nel caso dell’istidina, pI è dato dalla media di PkaR e pKa2 (entrambi di natura basica). Abbiamo già denominato gli amminoacidi con i loro nomi d’uso, tuttavia, nel momento in cui dobbiamo scrivere la struttura di una proteina, la serie degli amminoacidi che la costituiscono, utilizzeremo due sistemi di abbreviazione: un primo sistema a tre lettere e un sistema a una sola lettera. Come già anticipato, le proteine sono costituite da più amminoacidi legati tra loro mediante un legame peptidico o ammidico; questo si realizza in seguito a interazione tra il gruppo amminico di un primo amminoacido e il gruppo carbossilico di un secondo e la fuoriuscita di una molecola d’acqua (condensazione). In realtà, la reazione di sintesi di peptidi a livello biologico, nei ribosomi, è molto più complessa; quanto indicato fornisce solo la giustificazione del legame da un punto di vista chimico. Ora, in base alla lunghezza della catena amminoacidica possiamo parlare di: Oligopeptidi: catene brevi costituite da un numero di amminoacidi piccolo (circa 10-20). Polipeptidi: catene più lunghe (circa 20-40 amminoacidi). Proteine: polipeptidi di lunghezza maggiore (> 40-60 amminoacidi). In tutti i casi, per convenzione, leggeremo la sequenza proteica a partire dal gruppo amminico libero (estremità ammino- terminale) al gruppo carbossilico libero (estremità carbossilato-terminale). Questa è sì una convenzione umana, ma rispecchia anche le modalità di sintesi delle catene polipeptidiche in vivo. Una caratteristica del legame peptidico è la planarità di questo: i gruppi O-C-N-Cα si trovano sullo stesso piano (Linus Pauling) e ciò può essere spiegato grazie al fenomeno della risonanza: infatti sia il legame C-O che il legame C-N hanno parziale natura di doppio legame e parziale natura di legame singolo (ce ne accorgiamo anche misurando le lunghezze di legame). Inoltre, per motivi sterici, i Cα si trovano in configurazione trans rispetto al legame C-N, in quanto la configurazione cis è altamente meno stabile. Ulteriori considerazioni possono essere fatte relativamente agli orientamenti reciproci di due legami peptidici adiacenti. Possiamo considerare due legami peptidici che ruotano nel piano rispetto al Cα in comune e individuare due angoli diedri φ e ψ, gli angoli tra il Cα e l’amminoacido rispettivamente precedente e successivo. Ora, nonostante a livello teorico siano possibili diverse orientazioni spaziali dei legami peptidici intorno al Cα (angoli diedri), non tutte le combinazioni sono possibili in realtà, accettabili a livello empirico: ad esempio, quando i due angoli sono uguali a 0° si osserva sovrapposizione dei due legami, il che non è possibile. Uno scienziato indiano, Ramachandran, studiò le possibili combinazioni dei due angoli φ e ψ, fino alla formulazione di un grafico (di Ramachandran), che indica quando è più o meno possibile realizzare il legame: le zone rosse caratterizzano combinazioni sempre favorevoli degli angoli, le zone gialle favorevoli anche se con difficoltà e le zone bianche impossibili. Le combinazioni consentite dipendono dal tipo di amminoacido, anche se spesso possiamo utilizzare un grafico generale: lo stesso non vale per la prolina, amminoacido estremamente più rigido dovuto al ripiegamento della catena laterale sull’azoto del gruppo amminico, il che impedisce la planarità (si osserva anche che sono molto minori le combinazioni di angoli). Le proteine sono molecole altamente variabili in proprietà, struttura e massa molecolare, nonostante alla base siano presenti le stesse subunità: infatti possono essere costituite da un numero maggiore o minore di amminoacidi, il che conferisce in modo diretto un peso (meglio parlare di massa) molecolare specifico (ottenuto in modo statistico moltiplicando il numero di amminoacidi per 110 e espresso in uma o dalton), da singole catene polipeptidiche, ma anche da diverse catene. In questo modo, uno spettro di caratteristiche strutturali così ampio si rispecchia in un’altissima varietà di proprietà. Per quanto riguarda la struttura, possiamo riconoscere diversi piani strutturali: 1. Primaria: ordine degli amminoacidi, determinata da legami covalenti/peptidici tra amminoacidi. 2. Secondaria: strutture locali stabili determinate da legami a idrogeno (interazione non covalente tra due atomi elettronegativi tra cui si dispone un atomo di idrogeno, meno elettronegativo, che funge da ponte) tra i gruppi peptidici; in particolare l’ossigeno funge da accettore del legame, mentre l’azoto da donatore. Quando le interazioni a idrogeno si ripetono in maniera regolare, in strutture specifiche, la stabilità della struttura secondaria è favorita (come osservato da Linus Pauling): a. α-elica: struttura secondaria canonica stabilizzata da legami a idrogeno tra amminoacidi distanti quattro posizioni (=O di amminoacido 1 interagisce con N di amminoacido 5 e così amminoacido n con amminoacido n+4). In linea teorica, Pauling teorizza una struttura data da angoli diedri costanti e consentiti da Ramachandran. Pauling osserva che tale struttura si realizza in moltissime proteine.Tra le caratteristiche di questa struttura ricordiamo: - Angoli φ e ψ rispettivamente di -60° e -50° (entrambi negativi) - Destrogira (senso antiorario per la regola della mano destra) - Catene laterali esterne all’elica - Diametro di circa 6 A - Passo di circa 5,4 A/giro - 3,6 amminoacidi/giro; non è un numero intero perché altrimenti un gruppo carbonilico si troveebbe in corrispondenza di un altro gruppo carbonilico (il che renderebbe impossibile la formazione di un legame a idrogeno). Ora, non tutti gli amminoacidi tendono a realizzare α-eliche con la stessa probabilità: ad esempio l’alanina ha una tendenza massima tra gli amminoacidi a formare questa struttura (combinazioni di angoli consentite molto ampie), per la stabilizzazione della conformazione in termini energetici/termodinamici, al contrario di prolina e glicina (combinazioni molto basse; la prolina tende a realizzare α-eliche interrotte). Un altro fattore che tende a stabilizzare o destabilizzare le α-eliche è dato dalle interazioni intramolecolari tra i residui dei diversi amminoacidi (catene laterali esterne all’elica), ad esempio carichi in modo opposto (attrazione elettrostatica). b. β-foglietto o piano ripiegato β: struttura secondaria canonica stabilizzata da legami a idrogeno fra amminoacidi anche distanti. Pauling si accorge che combinazioni regolari di angoli diedri di segno opposto (φ e ψ di -140° e +130°) danno una conformazione a zig-zag, detta a filamento β, in cui i gruppi =O dei diversi amminoacidi si alternano nello spazio (una volta verso l’alto e una verso il basso). Questa conformazione è di per sé non molto stabile, ma tende a stabilizzarsi nel momento in cui gli amminoacidi presenti nei diversi filamenti-β interagiscono (sia in modo parallelo che in modo antiparallelo) a formare legami a idrogeno tra i gruppi carbonilico e amminico, in una struttura secondaria, nota come β-foglietto, che può essere parallelo o antiparallelo, in base all’orientamento dei gruppi terminali. Così come esistono proteine in cui l’unica struttura secondaria regolare è l’α-elica (mioglobina), lo stesso vale per il β-foglietto (connettivina e avidina), tuttavia nella maggior parte delle proteine troviamo sia α-eliche che β-foglietti: un esempio di struttura molto comune che contiene sia α-eliche che β-foglietti e presente in moltissimi enzimi (circa 10% delle proteine note) è dato dalla struttura nota come a barile beta-alfa, come nel caso della trioso-fosfato isomerasi, costituita da 8 filamenti β centrali, circondati da altrettante α-eliche. In generale, la maggior parte delle proteine, ad eccezione delle proteine di membrana, presenta strutture globulari, compatte. Una classe di proteine molto diverse da quelle globulari, è data dalle proteine fibrose, solitamente caratterizzate da lunghe catene polipeptidiche ad α-elica, come la α-cheratina (proteina presente in capelli, unghie e piume di alcuni uccelli), il collagene dei tendini e la matrice di alcune strutture ossee; tutte queste si presentano estremamente insolubili in acqua e assolvono funzioni di tipo strutturale nei sistemi biologici. L’α-cheratina dei capelli è una lunga α-elica con diversi ispessimenti in corrispondenza delle terminazioni amminiche e carbossiliche. Alcune coppie di queste eliche si avvolgono con andamento sinistrorso e formano strutture avvolte (coiled coils). Queste, a loro volta, generano strutture ancora più ordinate dette protofilamenti e protofibrille. Quattro protofibrille si combinano per formare un filamento intermedio. Struttura a barile beta-alfa Struttura dell’α-cheratina Sezione di un capello 3. Terziaria: struttura tridimensionale, spaziale, della proteina, determinata da legami di tipo non covalente e covalente tra le diverse strutture secondarie. Ricordiamo interazioni di tipo: a. Legami a idrogeno tra le catene laterali. b. Interazioni elettrostatiche (ioniche) tra gruppi laterali, dette ponti salini. c. Legami covalenti disolfuro, che si realizzano tra due residui di cisteina in posizioni anche distanti lungo i diversi filamenti, ma necessariamente vicini nello spazio. Il legame si realizza mediante ossidazione dello zolfo e rilascio di 2 elettroni e due protoni; questo non si realizza in proteine intracellulari, in quanto le condizioni del citosol non favoriscono l’ossidazione, bensì in proteine extracitoplasmatiche. Il fenomeno preponderante che giustifica la struttura terziaria globulare compatta delle proteine è dato da interazioni tra residui idrofobici delle catene laterali, in un effetto idrofobico. L’effetto idrofobico è dovuto solo in minima parte ad attrazione reciproca (tra residui apolari) e, invece, principalmente al comportamento repulsivo da parte delle molecole d’acqua, della rete di legami a idrogeno formati dalle molecole stesse: le catene apolari sono forzate a interagire tra loro per esclusione dalla rete di legami a idrogeno. Inoltre, dal punto di vista termodinamico, il folding della proteina avviene in modo da includere un core idrofobico: infatti, le regioni di proteina che contengono amminoacidi idrofobici possono minimizzare i contatti con l’acqua (interazione sfavorevole!) riunendosi in un nocciolo idrofobico centrale, interno, lontano dalla superficie della molecola. Viceversa, le componenti idrofiliche della catena si dispongono all’esterno della forma globulare della proteina, con la possibilità di realizzare legami a idrogeno con altre molecole idrofiliche (come acqua). Ma come si realizza la struttura compatta di una proteina? All’inizio degli anni ’60 era noto che le proteine fossero sintetizzate nei ribosomi e che solo in seguito si realizza il folding (struttura più stabile). Ora, quello che non era del tutto chiaro era come avvenisse il ripiegamento a formare la struttura globulare; esistevano due ipotesi principali, contrapposte: La proteina necessita di altre strutture, componenti, proteine, che dirigono il folding. La proteina contiene tutte le componenti per dirigere il folding. Il biochimico americano Anfinsen indaga il problema e studia in particolare una piccola proteina, la ribonucleasi A (prodotta dal pancreas e secreta nel duodeno per digerire l’RNA), chiedendosi se il folding, una volta avvenuta denaturazione, avviene in modo spontaneo o è guidato. Anfinsen utilizza agenti riducenti, che eliminano le interazioni disolfuro, e urea, che non favorisce la formazione di interazioni idrofobiche, per ottenere la forma denaturata della proteina, non più in forma compatta e globulare. Ora, la rimozione di urea (possibilità di realizzare interazioni idrofobiche) e successiva ossidazione (possibilità di realizzare interazioni disolfuro) portava la proteina denaturata al folding molecolare originale, attiva al 90%, il che giustifica la seconda ipotesi. Tuttavia, Anfinsen si accorge che invertendo i passaggi, cioè ossidando in un primo momento la proteina e rimuovendo solo successivamente l’urea, il folding non avviene correttamente, poiché i ponti disolfuro si formano casualmente e non correttamente, per dare una proteina attiva solo per il 1-2% del totale. Quello che possiamo dedurre dagli esperimenti di Anfinsen è che la proteina, almeno quelle di piccole dimensioni, non necessita di altre componenti cellulari per il folding corretto, ma che esiste un ordine per la formazione dei legami. In seguito ai risultati ottenuti da Anfinsen, Levinthal (ma in generale la comunità scientifica), attraverso un esperimento mentale, cerca di capire quanto tempo fosse necessario affinché una proteina completamente denaturata tornasse alla forma nativa, quale fosse la velocità per arrivare a un folding corretto, dando per presupposto che il folding non sia guidato. A livello statistico, Levinthal indaga tutte le possibili combinazioni degli angoli diedri per ciascun amminoacido in un polipeptide di 100 amminoacidi e conclude che, supponendo tutte le conformazioni possibili e le variazioni realizzabili in un tempo di un secondo, il processo richiederebbe un tempo estremamente lungo (oltre l’età dell’universo). In realtà, tutti gli studi pratici permettono di affermare che il folding corretto della proteina si realizza in frazioni di secondo, motivo per cui non è possibile che il processo sia completamente casuale: esistono infatti alcuni fenomeni che accelerano la formazione della struttura terziaria. Tra questi ricordiamo: La formazione di intermedi di folding, in una logica gerarchica, per cui esistono parti piuttosto stabili a livello della struttura secondaria (come le α- eliche) che, una volta formatesi, permangono, non tornando in gioco a livello di interazioni probabili nell’insieme delle conformazioni di Levinthal. Questo riduce molto il tempo di folding, in quanto le strutture secondarie stabili tendono a interagire molto più facilmente. m Il collasso idrofobico, per cui le parti idrofobiche della catena polipeptidica tendono a ripiegarsi verso l’interno per esclusione da parte delle molecole d’acqua. Inoltre, esiste uno stadio termodinamico, noto come stadio di globulo fuso, in cui la proteina si trova in uno stato stabile di parziale avvolgimento, di prima compattazione, in cui le diverse strutture secondarie stabili esistono ma non interagiscono ancora nel modo corretto e definitivo, 9 come nella struttura nativa, forma energeticamente più stabile. In realtà, in vivo, il folding delle proteine prodotte dai ribosomi avviene in maniera più complessa ed è mediato da molecole dette chaperonine molecolari, soprattutto rispetto a proteine complesse, costituite da catene polipeptidiche molto lunghe. Questi hanno la funzione di evitare superavvolgimenti, interazioni sbagliate con altre proteine, e contribuiscono al mantenimento della forma corretta. Il polipeptide di neosintesi entra in una struttura cilindrica, in seguito completata con una struttura a cappuccio; il complesso cappuccio-cilindro della chaperonina assume una diversa conformazione che favorisce il folding in termini di interazioni idrofobiche, fino a raggiungere la forma attiva della proteina, che viene rilasciata. Una catena polipeptidica lunga può avvolgersi formando più regioni indipendenti tra loro dal punto di vista strutturale e di folding, dette domini (parallelo di un filo per formare uno o due gomitoli). I globuli che vengono a formarsi sono strutture stabili e autonome (se immaginassimo, per esempio, di separarli tagliando il filamento), pur essendo vincolate l’una all’altra. Un esempio di proteina costituita da più domini è la gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi, in cui possiamo individuare un dominio di legame della gliceraldeide-3-fosfato e un dominio di legame del cofattore NAD. 4. Struttura quaternaria: struttura data dall’interazione di più catene polipeptidiche (monomeri), con struttura terziaria, che possono associarsi non covalentemente in una struttura più complessa; non è presente in tutte le proteine. Spesso, la struttura quaternaria mostra una disposizione simmetrica dei monomeri peptidici e, se le catene monomeriche sono identiche, parliamo di omopolimeri (omodimeri, omotrimeri, omotetrameri...); viceversa parleremo di eteropolimeri (eterodimeri, eterotrimeri, eterotetrameri...). Attenzione a non confondere la struttura quaternaria con i domini: se i domini sono parte della stessa catena polipeptidica, i monomeri di una struttura quaternaria sono catene polipeptidiche indipendenti e diverse (ognuna delle quali può addirittura presentare domini!). Ripercorrendo la struttura di una proteina: Tratteremo ora alcune proteine, per comprenderne le proprietà in generale. L’emoglobina è una proteina tetramerica (in termini di struttura quaternaria, costituita da due subunità α e β in duplice copia) contenuta nel sangue (globuli rossi), il cui colore rosso è dovuto a una componente organica non proteica, il gruppo eme, legato ad ognuna delle subunità monomeriche. L’eme è chimicamente costituito da un anello porfirinico (insieme di quattro anelli pirrolici) contenente un atomo di ferro centrale, capace di legare l’ossigeno nel sangue. Un’altra proteina simile all’emoglobina, ma non multimerica (che non va a formare una struttura quaternaria) è la mioglobina. Questa è una proteina muscolare (conferisce il colore rosso al muscolo) in grado di legare, grazie alla presenza di un gruppo eme, molecole di ossigeno, anche quando la concentrazione del gas non è cosi elevata. Il modo in cui l’ossigeno viene legato al gruppo eme è mostrato a fianco: l’atomo di ferro centrale lega i 4 atomi di azoto degli anelli pirrolici, ma forma un legame coordinato piuttosto stabile con un residuo di istidina, detta prossimale, da un lato, e con una molecola di si genò dall’altro. Se analizziamo la curva di legame della mioglobina per l’ossigeno, possiamo individuare un andamento iperbolico. Analizziamo la curva considerando la frazione di saturazione dell’eme Y(O2) (quantità delle molecole di mioglobina che porta l’ossigeno rispetto al totale) in funzione della pressione parziale dell’ossigeno p(O2) (pressione dovuta alla componente dell’ossigeno, circa 20% per l’aria, per la composizione chimica della stessa, e correlata alla concentrazione di ossigeno disciolto in acqua). Possiamo scrivere allora la funzione che descrive la curva, come Y(O2) = p(O2)/ p(O2)+K, dove K (costante iperbolica) indica il valore di pressione parziale al cui si ha saturazione di mioglobina uguale al 50%. Rispetto alla mioglobina, K (50% di mioglobina saturata) corrisponde a una pressione parziale di ossigeno pari a 3 torr, valore molto inferiore rispetto a quello a pressione atmosferica (circa 152, 20% di 760 mmHg/torr); questo indica un’affinità per l’ossigeno molto elevata, per cui l’emoglobina tende a essere saturata molto facilmente e rilascia ossigeno solo in condizioni di ossigenazione veramente scarsa a livello del muscolo (per valori di pressione parziale inferiori a 3 torr). Da un punto di vista fisiologico, questo ha un significato molto importante: infatti, l’ossigeno legato all’eme della mioglobina nei muscoli può essere rilasciato quando l’ossigeno presente nel sangue, legato all’emoglobina, non riesce a sopperire alla richiesta di ossigeno nel tessuto stesso. Tornando all’emoglobina, possiamo osservare che la struttura quaternaria della proteina vari in base a che si trovi in presenza o assenza di ossigeno: in particolare, lo stato T (o deossiemoglobina) corrisponde alla struttura quaternaria assunta in assenza di ossigeno, mentre lo stato R (ossiemoglobina) alla struttura in cui l’ossigeno è legato alla proteina multimerica. In realtà, R e T indicano strutture in cui si osserva, rispettivamente, maggiore e minore affinità dell’emoglobina per l’ossigeno. Il cambio di struttura quaternaria si realizza come uno scivolamento traslazionale e rotazionale reciproco delle diverse subunità che comporta la formazione di interazioni non covalenti alternative tra le subunità (equivalenti da un punto di vista energetico). L’emoglobina ha il ruolo di catturare l’ossigeno a livello dei polmoni (dove la pressione parziale/concentrazione di ossigeno è estremamente più elevata rispetto ai tessuti periferici, come i muscoli) e di rilasciarlo a livello dei tessuti; quindi, a differenza della mioglobina, non ha la funzione di stoccare ossigeno, ma di trasportarlo, per cui ci aspettiamo anche un diverso andamento della curva di legame, di frazione di saturazione al variare della pressione parziale di ossigeno. La curva di saturazione dell’emoglobina, rispetto a quella della mioglobina, è più spostata verso destra (K è più alta, circa 30 torr vs 3 torr) e, per questo, l’affinità per l’ossigeno è minore (la pendenza è minore). Un altro aspetto importante da sottolineare è l’andamento della curva, di tipo sigmoide e non iperbolico, tipico di un legame cooperativo: questo indica che quando l’ossigeno comincia a legarsi all’emoglobina (curva poco pendente), viene favorito il legame di ulteriore ossigeno (curva aumenta di pendenza), o meglio, che l’affinità per il ligando varia in base alla concentrazione del ligando già legato, il che è visibile anche nella pendenza della curva (inizialmente poco pendente e successivamente più pendente). Il fenomeno della cooperatività è un caso particolare di allosteria: il legame di una molecola di ossigeno a un gruppo eme favorisce il legame degli altri tre, per comunicazione diretta o indiretta tra i siti stessi (infatti, il legame a un primo eme determina un aumento di stabilità della forma R e il legame di altre molecole di ossigeno non fa che aumentarne la stabilità). Il significato fisiologico della cooperatività, e di un andamento sigmoide della curva, è legato al funzionamento dell’emoglobina, per renderla efficace al massimo nella sua funzione: uno stato ad alta affinità per l’ossigeno, come quello della mioglobina, causerebbe saturazione immediata nei polmoni ma, allo stesso tempo, renderebbe molto difficile la liberazione nei tessuti periferici; viceversa, uno stato a bassa affinità per l’ossigeno causerebbe liberazione spontanea nei tessuti, ma la saturazione a livello dei polmoni sarebbe resa molto difficile. L’emoglobina, a differenza di proteine monomeriche, riesce a ottimizzare entrambi i processi grazie alla possibilità di cambiare conformazione, da T a R e viceversa, in base all’esigenza in termini di affinità per l’ossigeno; questo è tradotto in grafico da un andamento sigmoide della curva (che può essere immaginata come combinazione delle due curve iperboliche di alta e bassa affinità) e consente una risposta molto più sensibile alle variazioni di concentrazione del ligando alla proteina. Ora, nei polmoni la pressione parziale di ossigeno vale circa 120 torr (vs 150 torr atmosferici), mentre nei tessuti circa 30 torr. Inizialmente, nei polmoni, avremo che il 90% dell’emoglobina totale sarà legata all’ossigeno, mentre, a livello dei tessuti osserviamo che solo il 40% dell’emoglobina è stata ceduta (e il 50% è ancora legata). Come già detto in generale, se la curva avesse un andamento iperbolico, la proteina avrebbe un’affinità maggiore per l’ossigeno, capace quindi di legare a saturazione l’ossigeno nei polmoni (con frazione di saturazione di circa il 77-78%), tuttavia meno ossigeno sarebbe rilasciato a livello dei tessuti (27-28 vs 40). La curva sigmoide si traduce a livello fisiologico con una maggiore efficienza. Qual è la base della cooperatività a livello dell’emoglobina? Vennero proposti due modelli principali per spiegare il processo: Il modello sequenziale (KNF), a dx. Questo prevede che il legame di una molecola di ossigeno a un gruppo eme determini una modifica nella struttura terziaria e un aumento progressivo nell’affinità per ossigeno e così via fino a completa saturazione, per ogni aggiunta di ossigeno. Attenzione, perché in questo caso, ogni subunità può assumere sia la forma quadrata, che la forma tonda, motivo per cui sono possibili moltissime più conformazioni. Se da un lato il modello permette di ricostruire le curve sigmoidi in modo molto fedele a quanto teorizzato, dall’altro prevede che per passare dalla forma completamente deossigenata alla forma ossigenata si passi attraverso forme intermedie, corrispondenti a parziale saturazione; tuttavia, queste forme non sono mai state osservate (se non nella forma completamente deossigenata e completamente ossigenata), definendo un grosso limite per il modello. Il modello concertato (MWC), a sx. Questo prevede che esistano entrambe la forma T e la forma R, sia in presenza che in assenza di ossigeno, ma in rapporti diversi dovuti a stabilità e equilibrio. Attenzione, perché in questo caso le subunità hanno tutte la stessa conformazione, O quadrata O rotonda e non un mix delle due. L’equilibrio tra le forme T e R varia al variare della concentrazione di ossigeno nel mezzo: man mano che aumenta la concentrazione di ossigeno, l’equilibrio si sposta verso la forma R, più affine per l’ossigeno. L’emoglobina ha varie proprietà, tutte correlate alla sua funzione. Tra queste possiamo ricordare: 1. L’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno dipende dal pH, secondo l’effetto Bohr: secondo questo, a valori di pH più bassi, la curva sigmoide si sposta verso destra. Questo comportamento è legato alla differenza dei valori di pH tra polmoni e muscoli (dove il pH è minore per la produzione di acido lattico e carbonico) e al fatto che l’emoglobina trasporta anche CO2: questa, solubilizzata come acido carbonico, rilascia ioni H+, responsabili dell’acidificazione del muscolo. Infatti, in condizioni di pH basso (per presenza di composti acidi, come acido carbonico) e ad alte concentrazioni di CO2 (scarto di attività metabolica, condizioni tipiche del muscolo), l’emoglobina tende a rilasciare ossigeno (affinità minore) e a legare il gas di scarto. La correlazione pH basso-affinità minore nel muscolo può essere spiegata analizzando le interazioni elettrostatiche tra i residui amminoacidici, come il legame tra i residui di istidina e aspartato, che variano al variare del grado di protonazione: a pH bassi, l’istidina risulta protonata, il che stabilizza la forma T (con affinità minore per l’ossigeno), per interazione con una carica negativa; viceversa, a pH alti si ha deprotonazione e stabilizzazione della forma R. 2. L’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno è regolata dal 2,3- bisfosfoglicerato: questa molecola, a concentrazioni dell’ordine del mM, influenza in maniera notevole il legame tra ossigeno e emoglobina, riducendone l’affinità per l’ossigeno. La minore affinità si traduce in una minor quantità di ossigeno catturata a livello dei polmoni, ma, dall’altro lato, il rilascio più semplice di ossigeno nei tessuti periferici e quindi, ancora una volta, il funzionamento dell’emoglobina. È interessante osservare che per persone che vivono ad altitudini maggiori, i livelli di 2,3-BPG sono maggiori (8mM vs 5mM), dovuto a una pressione parziale minore di ossigeno. In generale, l’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno varia in modo inversamente proporzionale alle concentrazioni di 2,3.bisfosfoglicerato. Come viene alterato il comportamento dell’emoglobina in termini di affinità per l’ossigeno al variare della concentrazione di 2,3-BPG? La molecola di 2,3-BPG si lega al centro del tetramero, accessibile solo nella forma T, in cui la cavità è libera e l’affinità per l’ossigeno diminuisce; per questo motivo, in presenza di 2,3-BPG, il legame all’emoglobina stabilizza lo stato T della proteina, per interazioni tra cariche. Una modificazione dell’emoglobina, anche se il discorso può essere di natura più in generale, riferendosi alle proteine come classe di molecole, pone le basi molecolari per l’insorgenza di una malattia genetica: infatti, una forma patologica di emoglobina, S, determina l’insorgenza di una malattia nota come anemia falciforme, per cui i globuli rossi risultano estremamente poco flessibili e si bloccano in microcapillari, ragione per cui l’ossigeno è trasportato con difficoltà. A livello eziologico, l’anemia falciforme è determinata da una mutazione puntiforme sulla catena β dell’emoglobina, per cui un residuo di glutammato è sostituito con una valina: la sostituzione non influenza proprietà notevoli e strutture importanti come la struttura quaternaria, in quanto coinvolge la catena solo a livello superficiale. Ora, in quanto residuo idrofobico, la valina tende a interagire con regioni idrofobiche, in particolare la subunità β di un’altra struttura di emoglobina: quello che si realizza è una catena rigida di proteine di emoglobina che, a livello del globulo rosso, si presenta come deformazione e rottura della cellula. Questa patologia è estremamente diffusa in paesi dell’Africa equatoriale e sub-equatoriale e, come diretta conseguenza dei processi storico-culturali di immigrazione, anche nella popolazione di colore che vive negli USA; ora, la patologia può presentarsi in modo differente a seconda che, a livello genetico, sia presente una sola variante mutata o entrambe (forme alleliche): in individui eterozigoti infatti, la malattia non si manifesta in modo serio, ma allo stesso tempo conferisce una certa resistenza contro la malaria, motivo per cui il gene mutato continua a essere conservato nella popolazione. Gli enzimi sono proteine con ruolo di catalizzatori biologici, capaci di accelerare le reazioni chimiche del metabolismo. Una reazione chimica, generalmente, richiede una energia di attivazione, necessaria per avviare il processo e superare una barriera energetica, per portare il reagente allo stato di transizione (barriera energetica tra reagenti e prodotti), altamente instabile, da cui può proseguire nella direzione dei prodotti. Ora, più è instabile il composto di transizione, più lenta sarà la reazione e difficile da superare la barriera energetica (richiede maggiore energia). Il ruolo dell’enzima, generalmente altamente specifico per un substrato e un meccanismo di reazione, è quello di rendere più veloci le reazioni chimiche (fino a 10^16 volte), abbassandone l’energia di attivazione, senza che sia consumato (spesso non partecipa). Ad esempio, l’idrolisi di polipeptidi in acqua è favorita termodinamicamente, per la reazione opposta a quella di condensazione di formazione del legame peptidico (al contrario, sfavorita). Possiamo quindi pensare che l’assunzione di proteine sia una reazione veloce a livello biologico: questo non è tuttavia ovvio in modo diretto e, infatti, l’idrolisi peptidica è una reazione che richiederebbe circa 7 anni in assenza di enzimi, proprio per la barriera energetica molto alta; in realtà, la presenza di enzimi, come accade, il processo si riduce a tempi molto minori. A livello storico, nella prima metà dell’800, gli enzimi erano ritenuti proprietà esclusiva dei sistemi viventi e intrinseca della materia vivente. Successivamente, dall’inizio del ‘900, si è compreso che gli enzimi sono composti chimici separabili e estraibili dai sistemi viventi, che formano complessi fisici con i rispettivi substrati. La natura chimica degli enzimi è stata rivelata solo nel 1926, a seguito di processi di cristallizzazione, e le prime strutture tridimensionali sono state determinate a partire dal 1960 utilizzando diffrazione a raggi X. Quindi, possiamo affermare che gli enzimi, secondo la teoria dello stato di transizione, abbassano l’energia libera di attivazione della reazione che catalizzano. Pauling, la complementarietà e l’affinità massima degli enzimi non si realizza per i substrati o i prodotti di reazione, ma per lo stato di transizione. Inizialmente E ed S sono separati, tuttavia, per poter catalizzare la reazione, l’enzima deve formare con il substrato un complesso ES enzima-substrato, con energia libera minore, per favorire il legame con il substrato. Successivamente S è convertito all’interno di ES, attraverso uno stato di transizione ETS, in P, che può essere rilasciato. Affinché la reazione sia catalizzata, la differenza tra ES ed ETS deve essere più bassa della differenza tra S libero e lo TS libero. Per essere rotta, la barretta (substrato) deve essere prima piegata (stato di transizione). In assenza dell’enzima (a) si verifica quanto detto, una reazione lenta o impossibilitata ad avvenire, che per agitazione porta a rottura della barretta. Un enzima con una tasca complementare alla struttura della barretta stabilizzerà il substrato (b). Il piegamento della barretta sarà però impedito dalle attrazioni tra questa e l’enzima e non solo la reazione non è più veloce, ma resa addirittura più difficile. In questo caso, il complesso ES è più stabile e possiede meno energia libera del substrato, che si traduce in un aumento dell’energia di attivazione. Un enzima con una tasca complementare allo stato di transizione della reazione favorirà la destabilizzazione della barretta, contribuendo quindi ad accelerare la reazione (c). Le interazioni enzima-substrato forniscono l’energia necessaria a compensare l’aumento di energia libera richiesto per piegare la barretta. Lo stato di transizione non è esattamente il modello più adatto per spiegare alcune reazioni chimiche, come le redox. Analizziamo ora le strategie generali d’azione degli enzimi, per quelle reazioni in cui la teoria dello stato di transizione può essere utilizzata per spiegare l’attività catalitica. 1. Riduzione dell’entropia (come componente dell’energia libera G) di attivazione. In generale diremo che una reazione è favorita quando si ha un aumento degli stati energetici del sistema, traducibile in termini di entropia e viceversa. Immaginiamo una reazione intermolecolare, in cui due sostanze reagiscono per dare un unico prodotto, dato dai due reagenti uniti tra loro: la reazione è sfavorita perché i due reagenti sono fisicamente lontani nello spazio e lo stesso vale da un punto di vista entropico: la reazione infatti è sfavorita, poiché occorre “sforzo” per creare ordine, si va nella direzione di una minore quantità di stati energetici. Gli enzimi sono in grado di favorire la reazione, legando entrambi i substrati, portando le molecole in vicinanza e posizionandole in modo corretto: in queso modo l’entropia di reazione risulta minore rispetto a quella della reazione vista in precedenza. Inoltre, reazioni bimolecolari diventano unimolecolari quando i substrati sono legati agli enzimi. Quanto detto vale anche per singoli substrati e in reazioni intramolecolari, la reazione è già di per sé favorita: tuttavia l’enzima, anche in questo caso, rende più veloce la reazione. A fianco troviamo un esempio di come aumenti la velocità di una reazione mediante riduzione entropica. In (a), la reazione è intermolecolare, tra due molecole distinte, ed è caratterizzata da una velocità di reazione K. Quando i due gruppi reagenti sono nella stessa molecola, come in (b), per cui possiamo parlare di una reazione intramolecolare, questi hanno minore libertà di movimento e la reazione risulta molto più veloce; possiamo notare questo aspetto anche confrontando i valori della velocità relativa, che risulta essere 100 000 volte maggiore rispetto al caso (a). Ora, possiamo anche notare che il reagente in (b) ha un’elevata libertà di rotazione attorno ai legami indicati dalle frecce curve: se immaginiamo di bloccare i legami, come indicato in (c), l’entropia risulta ulteriormente ridotta e la reazione ancora più veloce, di un fattore 100 000 000 rispetto ad (a) 2. Catalisi acido-basica generale. Può anche capitare che gruppi presenti sugli enzimi funzionino da acidi o basi nei confronti del substrato, in grado di cedere (acidi generali) o ricevere (basi generali) protoni e accelerando specifiche reazioni chimiche. I siti attivi degli enzimi sono ricchi di residui ionizzabili che possono partecipare alla reazione, sia da catalizzatori acidi che basici generali. Un esempio di catalisi acido-basica generale è dato dalla reazione di tautomerizzazione di un chetone alla forma enolica: in (a), la reazione non è catalizzata, mentre in (b) e (c) si può osservare un meccanismo di catalisi acido- basica generale: lo stato di transizione può essere stabilizzato sia da un acido generale HA, che riduce la carica negativa dell’ossigeno per protonazione, che da una base generale :B, per un meccanismo opposto. 3. Catalisi elettrostatica in un ambiente poco polare. Generalmente, si realizzano interazioni tra residui carichi o cofattori metallici, che possono essere stabilizzate per compensazione di cariche parziali di segno opposto + e - a livello del substrato o dello stato di transizione, che sarà più stabile. Gli enzimi, nei sistemi viventi, al contrario di catalisi in soluzione, tendono a realizzare catalisi di questo tipo perché i gruppi carichi tendono a essere posizionati in modo che interagiscano tra loro. In ultimo, le interazioni elettrostatiche sono favorite e particolarmente forti per il valore di costante dielettrica presente nel sito attivo dell’enzima. Un esempio di catalisi elettrostatica è quello dell’ornitina transcarbamilasi, che permette di ottenere citrullina a partire da carbamilfosfato e ornitina. 4. Catalisi covalente. Il processo implica che una parte di un enzima (spesso residui nucleofilici di serina, cisteina o istidina o attraverso cofattori organici) partecipi alla reazione, spesso attaccando in modo nucleofilico, covalentemente, il substrato. Un esempio è dato dall’acilazione e successiva deacilazione di un estere o un’ammide per dare un’acido carbossilico. Un altro fenomeno legato alla catalisi enzimatica, che tuttavia non giustifica l’efficienza enzimatica, è dato dal fenomeno dell’adattamento indotto (induced fit), proposto da Daniel Koshland nel 1958 per spiegare la specificità degli enzimi per uno/più substrati. Il principio si fonda sul fatto che la maggior parte degli enzimi, come l’esochinasi, si presenta in due conformazioni, aperta e chiusa, in base a che il substrato sia assente o presente, e che il cambio di trasformazione si realizza in presenza del SOLO enzima idoneo (per questo si parla di induzione da parte del substrato). Il processo non spiega l’efficienza catalitica degli enzimi, anche se, da un lato, si pensa che il ripiegamento dell’enzima sul substrato stabilizzi parzialmente lo stato di transizione. Analizziamo ora un enzima. La chimotripsina è un enzima digestivo, prodotto a livello del pancreas esocrino e con ruolo di proteasi, capace di idrolizzare le proteine, in particolare i legami peptidici successivi a un residuo aromatico, come tutte le proteasi a serina. Inizialmente è prodotto in forma inattiva, come zimogeno (o proenzima), per evitare che vengano digerite le proteine del pancreas stesso ed è attivato solo successivamente, nel sito di azione. Presenta, come tutti gli enzimi, una tasca, definita sito attivo, in cui si colloca il substrato per far avvienire la reazione di catalisi; nel caso della chimotripsina, il sito attivo presenta tre residui amminoacidici, aspartato, istidina e serina (enzima detto anche proteasi a serina), distanti a livello di struttura primaria, ma vicini spazialmente a livello della struttura terziaria (triade catalitica, in cui i residui sono legati mediante legami H), in cui assolvono a una funzione. Il meccanismo di idrolisi è di catalisi covalente; in particolare: 1. Il gruppo ossidrile della serina (specificatamente attivato nella triade catalitica) attacca in modo nucleofilico il carbonio carbonilico del legame peptidico, con la formazione di un addotto acilenzima, altamente instabile, e un primo prodotto peptidico. 2. L’addotto viene idrolizzato per attacco nucleofilico dell’acqua, per fornire nuovamente il residuo di serina libero e il secondo prodotto di reazione In (a) possiamo osservare la struttura primaria della proteina, costituita da tre catene polipeptidiche unite da ponti disolfuro; una rappresentazione diversa, a nastro, dello stesso scheletro peptidico è evidenziato in (c). Il sito attivo, costituito da tre residui essenziali è indicato dalla porzione scura in (b) ed è affiancato a una tasca, detta idrofobica (zona chiara, in (b)). In ultimo, in (d) possiamo osservare come la carica negativa generatasi sull’ossigeno è stabilizzata dalla tasca ossianionica (vedi sotto). Ora, il meccanismo è efficiente e la reazione è veloce per alcuni motivi: - Presenza di una tasca idrofobica capace di legare i residui aromatici legati all’atomo di carbonio precedente al legame da idrolizzare; questo permette il posizionamento corretto e lo stiramento del substrato rispetto al sito attivo e, in particolare, alla serina, abbassando la barriera entropica-energetica di reazione. - L’OH del residuo di serina funge da miglior nucleofilo rispetto all’acqua in soluzione; inoltre, la serina è attivata per un meccanismo che coinvolge anche l’istidina. - Catalisi acido-base generale da parte dell’istidina, che, comportandosi da base generale, mette a disposizione un doppietto di elettroni e sottrae un protone alla serina, che risulta ora maggiormente nucleofila (ione alcolato O- più nucleofilo di gruppo alcolico OH). - Catalisi elettrostatica da parte dell’aspartato, che, portando una carica negativa, tende a stabilizzare la carica positiva situata sull’istidina; in questo modo, l’azione di stabilizzazione elettrostatica contribuisce a rendere l’istidina una base migliore (per maggiore elettronegatività). - Presenza di un tasca ossianionica, creata dai residui peptidici di Ser e Gly, che, per formazione di una piega del sito attivo, consente all’ossigeno del legame peptidico del substrato, che risulta carico negativamente, di formare due legami a idrogeno, il che lo stabilizza in termini di carica. I legami a idrogeno in questione sono deboli, per geometria, lunghezza e cariche in gioco, ma tendono a rafforzarsi durante lo stato di transizione, perché l’ossigeno si avvicina (la lunghezza del legame è minore e la geometria, l’allineamento è migliore) e la carica parziale è maggiore. aimeno Alcuni enzimi, come le proteasi a serina (chimotripsina) svolgono l’azione di catalisi avvalendosi di strutture presenti a livello dell’enzima stesso, come abbiamo visto. Altri enzimi, invece, utilizzano cofattori organici, molecole legate in modo stabile all’enzima nel sito attivo, contribuendo all’attività catalitica; molto spesso, i cofattori sono molecole organiche derivate dalle vitamine (sostanze essenziali che non possono essere Farai prodotte dall’organismo, ma devono essere assunte tramite alimentazione, indicate a fianco). Alcuni cofattori importanti sono: - La tiamina pirofosfato, cofattore di enzimi decarbossilasi. - I derivati della riboflavina, come il FAD, cofattori di enzimi che svolgono ossidoriduzioni. ia - I derivati della nicotinamide, come il NAD+ o NADP+, cofattore di enzimi che svolgono ossidoriduzioni. - La biotina, cofattore di enzimi carbossilasi. - Il piridossale fosfato, cofattore di enzimi coinvolti nel metabolismo degli amminoacidi. - L’acido pantotenico (parte del CoA), cofattore di enzimi coinvolti nel metabolismo di grassi, proteine e carboidrati. je - I derivati dell’acido folico, cofattori di enzimi coinvolti nel metabolismo degli amminoacidi. È importante sottolineare che, non essendo prodotti dall’organismo, se non assunti in modo corretto con la dieta, possono causare malattie. Altri enzimi ancora usano cofattori inorganici come ioni metallici, che aiutano l’enzima a legare il substrato (come il magnesio nelle reazioni che coinvolgono ATP) o sono coinvolti direttamente nella catalisi (come in reazioni di ossidoriduzione, potendo esistere in diversi stati di ossidazione), e coenzimi, complessi organici non-proteici. La IUPAC suddivide gli enzimi in sette classi generali, in base al tipo di attività enzimatica catalizzata: 1. Ossidoreduttasi: catalizzano reazioni in cui vengono trasferiti elettroni, ossidando e riducendo uno o più substrati. 2. Transferasi: catalizzano reazioni di trasferimento di gruppi, da un substrato ad un altro. 3. Idrolasi: catalizzano reazioni di rottura di legami utilizzando molecole d’acqua; trasferiscono gruppi funzionali all’acqua. 4. Liasi: catalizzano reazioni che rompono legami semplici, formando al contempo legami doppi. 5. Isomerasi: catalizzano reazioni che convertono un substrato in un isomero; trasferiscono gruppi all’interno della molecola per raggiungere forme isomeriche. 6. Ligasi/sintetasi: formano legami covalenti sfruttando l’energia fornita da ATP. 7. Traslocasi: catalizzano reazioni a livello di membrana associate a spostamenti di sostanze attraverso una membrana biologica. Ogni reazione chimica irreversibile, che porta alla trasformazione del substrato A nel prodotto B, è caratterizzata da una velocità, che può essere definita come la variazione della quantità/concentrazione di prodotto B rispetto all’unità di tempo. Potendo rappresentare la variazione di B rispetto al tempo, possiamo considerare come velocità istantanea la pendenza della retta tangente alla curva a un tempo t e, di maggiore interesse, la velocità iniziale, a t=t0. Un altro elemento che influisce sulla velocità di reazione è la concentrazione dei reagenti. Introduciamo il concetto di velocità iniziale in funzione dell’ordine di reazione e osserviamo che, per una reazione del primo ordine, i due concetti sono correlati linearmente secondo v = k x [A], secondo un valore k, detto costante cinetica. Il discorso fatto vale, tuttavia, per le reazioni chimiche non enzimatiche: infatti, per le reazioni enzimatiche a concentrazione costante di enzima, possiamo osservare una proporzionalità diversa, iperbolica, in cui si ha una velocità iniziale che cambia molto rapidamente a basse concentrazioni, ma che tende a stabilizzarsi (plateau) a concentrazioni elevate di substrato. L’andamento iperbolico può essere spiegato grazie al modello proposto da due chimici del XX secolo, Michaelis e Menten: secondo questo, è necessario che l’enzima leghi il substrato in un complesso fisico (secondo una costante cinetica K(1) e K(-1) per tornare ai reagenti; possiamo parlare anche di Ks), per poter poi, una volta legato, essere trasformato (secondo una costante di velocità cinetica Kcat) in un prodotto; in presenza di alte concentrazioni del substrato, tutti gli enzimi vanno a costituire un complesso enzima-substrato e solo alcune molecole di substrato rimangono libere, il che spiega perché la velocità raggiunge un plateau. Secondo il modello, possiamo considerare alcuni assunti: 1. La trasformazione del substrato in prodotto avviene solo all’interno del complesso enzima-substrato; inoltre, come già detto, la velocità (derivata della concentrazione di prodotto rispetto al tempo) è proporzionale alla concentrazione di complesso enzima- substrato. 2. Il complesso enzima-substrato viene considerato con la porzione di enzima libero e di substrato libero; in particolare, è possibile approssimare la concentrazione di ES utilizzando la Ks (formula inversa), la costante termodinamica di dissociazione del substrato dall’enzima, secondo un modello del pre-equilibrio rapido. Possiamo quindi arrivare a formulare l’equazione di Michaelis e Menten , anche riscritta come. Nella prima sostituiamo all’equazione generica della velocità quanto dimostrato con l’assunto 1 e 2; ora, in queste osservazioni, la concentrazione di substrato è di gran lunga superiore a quella di enzima, motivo per cui indichiamo anche la concentrazione iniziale di substrato libero al denominatore (senza avremmo una retta). Nella seconda, la velocità è direttamente proporzionale al prodotto di velocità massima (costante che equivale al prodotto di Kcat e [E] della prima equazione; valore della velocità per concentrazioni infinite di substrato) e concentrazione di substrato libero e inversamente proporzionale alla somma di Km e la quantità iniziale di enzima (Km, costante iperbolica, concentrazione di substrato per far funzionare l’enzima a di 0,5Vmax (a concentrazione uguale a Km si ha v=Vmax/2). Ora, moltissimi enzimi presentano una dipendenza iperbolica come indicato dall’equazione di Michaelis e Menten, tuttavia non tutte le assunzioni sono realistiche e, negli anni successivi, sono state presentate numerose nuove teorie di cinetica enzimatica. Briggs e Haldane analizzarono matematicamente il modello di Michaelis e Menten partendo da un presupposto diverso da quello del pre-equilibrio rapido, quello di stato stazionario: secondo questo, considerando la velocità iniziale stabile (per alcuni minuti), occorre che la concentrazione del complesso ES sia costante/stazionaria e che la velocità di formazione sia uguale alla velocità di dissociazione (sia per dare substrato libero oppure prodotto). Formalmente, l’equazione ottenuta dai due chimici è sempre un’iperbole, ma in cui Km assume un diverso significato: se infatti per il modello precedente indica la costante termodinamica di dissociazione del substrato dall’enzima (Km=Ks=K(1)/K(-1)), in questo caso indica una combinazione di costanti cinetiche (Km=(Kcat+K(-1))/K(1). Per quanto detto, quando vengono trattate reazioni enzimatiche è importante sapere che valori hanno Vmax, Kcat... Ora, la correlazione iperbolica tra la concentrazione di substrato e la velocità è resa possibile grazie a programmi informatici di regressione non lineare secondo l’equazione di iperbole che descrive meglio i dati sperimentali (spesso viene utilizzato il metodo dei minimi quadrati); precedentemente, in assenza di sistemi informatici avanzati, era preferibile realizzare una correlazione lineare, attraverso, ad esempio, il metodo dei doppi reciproci, in cui vengono correlati il reciproco della velocità e il reciproco del secondo membro dell’equazione in modo lineare (y=mx +q), come indicato dall’equazione di Lineweaver-Burk. In base agli “intercetta” rispetto a entrambi gli assi cartesiani è possibile dedurre i valori di Km e Vmax. - 1 y = MX t 9 In caso di reazioni che coinvolgono diversi substrati per dare diversi prodotti, possiamo ricordare due diversi meccanismi di associazione dei substrati all’enzima: Random sequenziale, in cui l’associazione dei reagenti A e B avviene in ordine casuale e allo stesso modo la dissociazione dei prodotti P e Q. Sequenziale ordinato, in cui le reazioni di associazione dei reagenti A e B di e dissociazione dei prodotti P e Q avvengono in modo ordinato. Esistono anche dei meccanismi di tipo “ping-pong”, come quello della chimotripsina, per cui il substrato A si lega e l’enzima lo trasforma in un prodotto e solo successivamente si lega B per essere trasformato. Inoltre, in caso di multisubstrato, la velocità iniziale dipende dalle concentrazioni di tutti i substrati. Osservando i grafici dei doppi reciproci in cui la concentrazione del substrato 1 viene variata, mentre quella del substrato 2 rimane costante, in (a), l’intersezione delle varie linee indica la formazione di un complesso enzima-substrato ternario (EAB prima), mentre in (b), le linee parallele indica una reazione che procede secondo un meccanismo Ping-pong (o doppio spostamento). Ora, esistono delle sostanze chimiche in grado di rallentare o fermare in maniera completa l’attività degli enzimi, in una logica di inibizione enzimatica; alcune sostanze inibitrici sono costituite da farmaci come l’aspirina e da antibiotici a base lattamica. Occorre distinguere tra inibitori reversibili, che si legano non covalentemente agli enzimi, che risultano incapaci di funzionare, e inibitori irreversibili, che si legano covalentemente agli enzimi. Tra i diversi effetti e meccanismi legati alla cinetica enzimatica degli inibitori reversibili ricordiamo: L’inibizione competitiva: in questo caso, la sostanza inibitrice occupa il sito attivo dell’enzima in un complesso non reattivo e l’enzima è impossibilitato a reagire con il substrato. Da un punto di vista cinetico, questi inibitori tendono a spostare il valore di Km, che si traduce in una Km apparente maggiore (di un valore alfa), senza alterare a Vmax: infatti il substrato si lega con più difficoltà all’enzima, parzialmente sottratto (motivo per cui Km aumenta), ma la velocità massima di reazione rimane la stessa. Nella correlazione lineare dei doppi reciproci, osserveremo una pendenza diversa e un’intercetta diverso rispetto all’asse x. - zag Jeeg L’inibizione incompetitiva: in questo caso, l’inibitore si lega SOLO a complessi enzima-substrato in una posizione diversa dal sito attivo e l’enzima ne risulta inattivo; spesso si osserva in caso di reazioni multisubstrato (per cui magari si osserva inibizione per un substrato ma non per un altro). In questa logica di inibizione, la Km diminuisce apparentemente, nonostante l’affinità dell’enzima per il substrato sia massima (l’inattivazione avviene dopo!), ma anche la Vmax: all’aumentare della concentrazione di inibitore, diminuisce la velocità massima della reazione enzimatica. L’inibizione enzimatica mista: in questo caso, l’inibitore può legare sia l’enzima in forma libera che legato al substrato e non è possibile correlare in modo aprioristico la Vmax e la Km rispetto alla condizione in assenza di inibitori. In questo caso, a livello grafico, dobbiamo immaginare che all’aumentare della concentrazione di inibitore si hanno intercetta diversi (sia su asse x che y). Esistono però, come già accennato, degli inibitori irreversibili, che si legano in modo covalente agli enzimi, irrimediabilmente non funzionanti. Questa modalità di azione è tipica di alcuni veleni (come i gas nervini) e farmaci (come la penicillina). Generalmente, gli enzimi catalizzano reazioni e tornano, dopo aver rilasciato i prodotti finali, allo stato iniziale, in grado di catalizzare una nuova reazione; esistono, tuttavia, alcuni particolari tipi di enzimi, detti “suicidi” o a singolo turnover, che si inattivano irreversibilmente per azione del loro stesso substrato, spesso dopo una sola reazione. Un esempio è dato dalla metilguanina metiltransferasi (MGMT), che catalizza la rimozione di un gruppo metile da una base di guanina su DNA e RNA (che metilata genererebbe mutazioni molto più facilmente). Oltre all’andamento classico riportato da Michaelis-Menten e caratteristico della maggior parte degli enzimi, esistono delle eccezioni alla cinetica enzimatica: un esempio è dato dagli enzimi a funzionamento cooperativo (o di regolazione dell’allosteria), ad andamento sigmoide e non iperbolico. Ricordando la curva di attività dell’emoglobina, esiste un range di concentrazioni del substrato in cui si ha un’attività enzimatica estremamente variabile, sensibilità molto alta (data da una pendenza molto elevata). In caso di allosteria, esistono degli inibitori allosterici (-), che spostano la K(0,5) verso destra (concentrazione maggiore per raggiungere v=0,5 Vmax), ma anche degli attivatori allosterici (+), che spostano la K(0,5) verso sinistra. NB: non parliamo di Km, ma di K(0,5) per indiare la concentrazione di substrato corrispondente alla metà della Vmax di una reazione, perché gli enzimi allosterici non seguono il modello proposto da Michaelis e Menten. Enzimi allosterici spesso svolgono una funzione chiave a livello del metabolismo, in una logica di regolazione. Un esempio classico di enzima allosterico è l’aspartato trancarbamilasi (ATCasi), un enzima coinvolto nella via biosintetica dei nucleotidi pirimidinici trifosfati e responsabile della catalisi di aspartato e carbamilfosfato a carbamilaspartato. La logica allosterica agisce in questo modo: quando all’interno della cellula è presente una concentrazione elevata di prodotto finale, CTP (citidina trifosfato, nucleotide pirimidinico), la reazione è parzialmente inibita; al contrario, in eccesso di ATP (nucleotide purinico), la curva si sposta verso sinistra, indicando che la reazione è attivata. Come l’emoglobina, anche l’ATCasi è costituito da diverse catene polipeptidiche che possono intereagire tra loro per dare due conformazioni della struttura quaternaria, T e R. In realtà, molti enzimi, in particolare nei procarioti, sono regolati tramite modificazioni covalenti, per cui vengono aggiunti gruppi chimici all’enzima, (sempre per attività di altri enzimi), il che si traduce in un’attività alterata; un esempio è dato dalle proteinachinasi, che attuano reazioni di fosforilazione. Altri esempi di modificazioni covalenti sono le reazioni di adenilazione (aggiunta di una AMP), di uridilazione (aggiunta di una UMP), la metilazione (aggiunta di un gruppo metile -CH3) e di ADP- ribosilazione (aggiunta di ADP): Anche la glicogeno fosforilasi, enzima che catalizza la mobilizzazione del glucosio da glicogeno presente in muscoli e organi come il fegato, può disporsi in due diverse strutture quaternarie alternative (le due subunità polipeptidiche), T (meno attiva) e R (più attiva), il cui equilibrio è regolato da ATP e AMP in senso allosterico: infatti, in abbondanza di AMP (la cellula scarseggia di energia, ruolo di attivatore), l’enzima passa alla forma R e può idrolizzare glicogeno, per maggiore affinità al substrato, mentre, in eccesso di ATP (la cellula ha alti livelli di energia, ruolo di inibitore), l’enzima è più stabile nella forma T, con affinità minore al substrato, e la reazione non catalizza ulteriore reazione (la cellula non necessita di altro zucchero e di altro ATP). Tuttavia, oltre a una regolazione di tipo allosterico, la glicogeno fosforilasi ha una regolazione di tipo covalente post traduzionale, spesso dettata da messaggi ormonali (insulina, che tende ad abbassare la concentrazione di zucchero nel sangue, e glucagone, che tende ad aumentare la concentrazione di zucchero nel sangue): infatti, quando la fosforilasi risulta legata covalentemente a due gruppi fosfati (fosforilata grazie a fosforilasi chinasi e idrolisi di 2ATP), l’enzima risulta più attivo, in una forma a; viceversa, quando i gruppi fosfato vengono rimossi (ad opera di una fosforilasi fosfatasi), si ha una forma b, meno attiva. Riassumendo: lo stato OFF e ON indicano che uno dei due meccanismi di regolazione è ancora in corso, mentre REALLY ON e REALLY OFF che entrambi i meccanismi sono attivi o inattivi. Il metabolismo è costituito dall’insieme di reazioni attraverso le quali un organismo svolge le varie e diverse attività cellulari, sia in senso catabolico (di degradazione, con lo scopo di ottenere energia contenuta nelle macromolecole) che in senso anabolico (di biosintesi di macromolecole a partire da molecole precursori, sfruttando energia prodotta da reazioni cataboliche). Anche nel caso di reazioni metaboliche, come qualsiasi reazione fisica e chimica, occorre introdurre alcuni concetti di termodinamica generale, che ci indicano come varia il contenuto di energia di un sistema. Nei sistemi biologici, aperti, in cui le reazioni chimiche avvengono a pressione e temperatura costante, il parametro termodinamico più importante per comprendere come il sistema evolve è dato dall’energia libera di Gibbs, correlata a entalpia (energia interna di un sistema) e entropia (distribuzioni energetiche del sistema) secondo la relazione ΔG = ΔH – TΔS. In quest’ottica, una reazione può essere favorita o sfavorita, in base alle variazioni entalpiche e entropiche. Ricordiamo, in generale, per convenzione: - ΔG < 0: reazione spontanea, favorita termodinamicamente, non richiede energia ed è detta esoergonica. - ΔG > 0: reazione non spontanea, non favorita termodinamicamente, richiede energia, ed è detta endoergonica. Ora, occorre differenziare i concetti di ΔG e ΔG°: il ΔG di una reazione chimica, che comprende una componente entalpica e una entropica secondo l’equazione dell’energia libera di Gibbs, è pari alla differenza tra le energie libere di substrati e prodotti e può essere anche scritta come ΔG = ΔG° + RTln([prodotti]/[reagenti]), con T che indica la temperatura assoluta e R la costante dei gas; ΔG°, che compare anche nella formulazione di ΔG, è la variazione di energia libera standard (o molare) della reazione e corrisponde alla differenza di energia libera tra una mole di reagenti e una mole di prodotti in condizioni standard (di pressione 1 atm, temperatura 25°C e concentrazione di reagenti e prodotti pari a 1M). Possiamo dimostrare che ΔG° = -RTlnK, dove K indica la costante di equilibrio della reazione che, attenzione, può essere adimensionale o meno! Il parametro ΔG° è direttamente estraibile dalla costante di equilibrio di una reazione chimica e, per questo motivo, indica in quale direzione la reazione tende a procedere in condizioni standard: se ΔG° è negativo, è favorita la formazione dei prodotti, se ΔG° è positivo è favorito il ritorno ai substrati. Possiamo dire che il ΔG° è: 1. Calcolabile per qualunque stato fisico, che però deve essere specificato (soluzione, fase gassosa…). 2. Riferito, come detto, a uno stato standard di 1M per tutte le specie coinvolte nella reazione. 3. Basato su un’equazione chimica bilanciata per massa e per carica (include quindi H+ e OH-) 4. Basato sulle concentrazioni di particolari specie ioniche per i reagenti e per i prodotti (come nel caso di amminoacidi, devo specificare a quale specie ionica mi riferisco, se allo zwitterione, alla specie anionica o cationica). In biochimica, le reazioni avvengono praticamente sempre in solvente acquoso (soluzione, motivo per cui non serve specificare lo stato fisico) e a pH costante, vicino alla neutralità, il che semplifica le considerazioni necessarie da fare un una reazione. Possiamo parlare quindi di ΔG°’, un parametro che tende a semplificare le considerazioni termodinamiche di una reazione e che, al contempo, fornisce informazioni più realistiche sulla spontaneità di una reazione fisiologica; questo si riferisce a una costante di equilibrio apparente e indica la differenza di energia libera apparente che accompagna una reazione in soluzione acquosa a particolare pH, pressione di 1 atm e temperatura di 25°C. Il ΔG°’ può essere espresso anche come ΔG°’ = -RTln(K’) ed è: 1. Riferito a una soluzione acquosa, poiché tutte le specie sono considerate disciolte in acqua. 2. Se l’acqua è coinvolta nella reazione come reagente viene ignorata nel calcolo della costante apparente della reazione Kapp; in particolare, se l’acqua è inclusa nei reagenti, la reazione è favorita, viceversa è sfavorita. 3. Basato su un’equazione chimica non bilanciata per massa e carica, perché la Kapp viene calcolata a pH fisso; in questo caso non vengono considerati gli ioni H+ e OH- consumati o prodotti. 4. Basato sulle concentrazioni totali di reagenti e prodotti, incluse tutte le forme ioniche (come nel caso degli amminoacidi, tuttavia in questo caso non devo specificare a quale specie mi riferisco, poiché tutte interconvertibili le une nelle altre; l’esempio ancora più eclatante è dato da un’intera proteina, in cui compaiono moltissimi gruppi ionizzabili). Rispetto al ΔG°, il ΔG°’ dà informazioni molto più chiare relativamente alla spontaneità di una reazione, considerando la concentrazione fisiologica dell’acqua per le condizioni reali, e non ideali (a concentrazione di 1M), di reazione. Introduciamo alcune molecole chiave quando parliamo di energia e metabolismo. Consideriamo in primis l’ATP, l’adenosina trifosfato, una molecola ad altissimo contenuto energetico, il che è riscontrabile a livello dei legami fosfoanidridici tra i gruppi fosfato che, quando rotti, liberano energia (la reazione è altamente favorita). La molecola è costituita da una base nucleotidica, l’adenina, uno zucchero, il ribosio, a cui è legata con un legame glicosidico, e tre gruppi fosfato legati allo zucchero. In generale, la reazione di rottura del legame P-O, che avviene spesso per idrolisi, è favorita perché: La presenza di acqua tra i reagenti in una reazione di idrolisi sposta l’equilibrio nella direzione dei prodotti. A livello elettrostatico, i gruppi fosfato portano cariche negative e la rottura del legame favorisce la reazione in direzione di una condizione più stabile elettronicamente. I prodotti della rottura del legame, gruppo fosfato e ADP, in condizioni fisiologiche, tendono a essere ionizzati, cedono un H+. La risonanza delle cariche a livello del fosfato tende a stabilizzare la molecola (questa condizione non può realizzarsi tra i reagenti, quando fa ancora parte di ATP!). 1. 2. 4. 3. Ora, dopo aver giustificato le motivazioni per le quali l’idrolisi di ATP dovrebbe essere favorita termodinamicamente, possiamo avere riscontro di quanto detto considerando il valore di ΔG°’, che è molto negativo. Anche in questo caso, è possibile confrontare i valori di ΔG°’ e ΔG°, tuttavia, come ci immaginiamo, il primo rispecchia in modo più verosimile le condizioni presenti nella cellula e assume valori più negativi, il che indica che la stessa reazione avviene in modo molto più spontaneo nella cellula che in soluzione, in condizioni standard. Un concetto importante da introdurre quando parliamo di metabolismo è che reazioni diverse, nella cellula, tendono a essere accoppiate, in modo che reazioni sfavorite possano avvenire sfruttando l’energia prodotta da reazioni molto favorite. Ad esempio, la sintesi di glutammina a partire da glutammato e ione ammonio è endoergonica e tenderebbe a non avvenire mai in condizioni fisiologiche; tuttavia, l’accoppiamento con una reazione di idrolisi di ATP realizzato da acqua rende il processo complessivo esoergonico. Ora, è importante notare che quando due reazioni sono accoppiate, l’energia non viene fornita per diretta idrolisi di ATP, ma per un meccanismo comune alle due singole reazioni. Nel nostro esempio, si realizza un trasferimento di gruppi, attraverso un intermedio di reazione: infatti, il glutammato non reagisce direttamente con lo ione ammonio, in un meccanismo a una tappa, ma con ATP, strappando il gruppo fosfato γ e formando un’anidride mista, il glutammil fosfato, intermedio di reazione ad alta energia (perché è presente un legame anidridico); solo successivamente, lo ione ammonio lega il carbonio carbossilico (prima avrebbe dovuto condensarsi a un gruppo carbossilico, in una reazione altamente endoergonica) e il fosfato viene rilasciato, formando glutammina, in un processo a due tappe. Oltre all’ATP, esistono altri composti, nella cellula, che possono essere considerati ad alto contenuto energetico; tra questi ricordiamo gli altri nucleotidi trifosfato e GTP in particolare, il fosfoenolpiruvato (PEP) o il 1,3 bisfosfoglicerato. In relazione al contenuto energetico, l’ATP si pone in posizione intermedia, è una molecola a medio contenuto energetico utile nella maggior parte delle reazioni; utilizzare un composto troppo energetico, come il PEP (-62 kJ/mol per una reazione di idrolisi), significherebbe sprecare energia da parte della cellula. Alcuni composti coinvolti in reazioni di ossidoriduzione, come i coenzimi NAD+ e NADP+, sono utili nel trasporto dell’energia. A differenza dei cofattori (composti organici di natura non proteica (spesso derivano dalle vitamine) legati stabilmente all’enzima, che ne favoriscono l’attività di catalisi), i coenzimi possono essere definiti “substrati riciclabili”, che, in seguito a catalisi, possono “diffondere” e agire a livello di diversi enzimi. Questo avviene perché i coenzimi fungono da co-substrati, vengono modificati dall’enzima durante catalisi e possono essere ripristinati per una reazione successiva, in corrispondenza di un altro enzima: ad esempio, il NAD+ (ox), partecipa a reazioni di riduzione di carboidrati come il glucosio durante la glicolisi; il NADH (rid) che si genera per la reazione enzimatica può essere ripristinato, in corrispondenza della catena di trasporto degli elettroni (enzima diverso, raggiunto per diffusibilità) Il NAD+, nicotinammide adenin dinucleotide, e il NADP+, nicotinammide adenin dinucleotide fosfato, sono coenzimi, sostanze in grado di accettare elettroni e ridursi rispettivamente a NADH e NADPH, deidrogenandosi (viene liberato sempre anche un H+). Di per sé, la reazione di deidrogenazione ha un valore di ΔG°’ altamente positivo (+14,7 kcal/mol), il che indica una reazione sfavorita; anche considerando il valore di ΔE°’, potenziale di riduzione, negativo (-0,324 V), abbiamo riscontro del fatto che la reazione è sfavorita. Il processo, però, può essere reso favorevole se consideriamo la provenienza dei due atomi di idrogeno (2e- e 2H+), da sostanze, substrati ossidabili la cui ossidazione è associata a potenziale di ossidazione molto positivo, maggiore di quello di riduzione del NAD+. Un altro composto coinvolto in processi ( Vit BZ ) di tipo redox è il cofattore FAD, flavin. adenina dinucleotide, derivato dalla vitamina B2 e definito cofattore perché funziona da trasportatore di elettroni ^ (l’anello flavinico), pur agendo in modo f- lavina non diffusibile. La molecola è formata da un’AMP e un anello flavinico, tenuti < ribitolo insieme da una catena di polialcol, il ribitolo e un gruppo fosfato. Attenzione, quando la molecola non presenta l’AMP, parliamo di flavin mononucleotide. A differenza del NAD+, il FAD si può ridurre sia con un elettrone, che con due: nel caso in cui si ha una riduzione parziale per acquisto di un solo elettrone (e un protone), si ha formazione di un intermedio semichinonico protonato, che può originare un radicale libero semichinonico per perdita del protone precedentemente acquistato (l’elettrone viene mantenuto nella forma radicalica), oppure acquistare un ulteriore protone, con riduzione completa a flavina ridotta, FADH2. ATTENZIONE: la forma radicalica tende a essere stabilizzata per distribuzione della carica a livello dell’anello. NB, è possibile, inoltre, ottenere la forma ridotta a partire dalla forma radicalica (con un elettrone in più rispetto alla forma ossidata), per acquisto di due protoni e un elettrone. FAD e NAD+ hanno valori di ΔE°’ entrambi negativi, il che indica una reazione sfavorita, tuttavia, confrontando i valori, possiamo concludere che è necessaria meno energia per ridurre il FAD a FADH2 di quanta sia necessaria per ridurre il NAD a NADH; in una logica inversa, però, l’energia associata a FADH2 sarà minore di quella associata a NADH (NADH = 3 ATP vs FADH2 =2 ATP). Quando parliamo di metabolismo, occorre sottolineare l’importanza di tre classi principali di composti organici sia a livello catabolico che anabolico: i carboidrati, i lipidi e le proteine. Parliamo della prima classe, affrontando dapprima i processi catabolici e in seguito i processi anabolici. I carboidrati, anche detti zuccheri o saccaridi, sono composti organici con formula generale (CH2O)n, che presentano un gruppo carbonilico (aldeide o chetone) e un numero variabile di gruppi alcolici (poliidrossi). Esistono diversi modi per classificare i carboidrati, in particolare i più semplici: possiamo considerare il numero di atomi di carbonio (triosi, tetrosi, pentosi), o la componente carbonilica (chetosi o aldosi): i più semplici carboidrati sono la gliceraldeide, un aldotrioso, e il diidrossiacetone, un chetotrioso. La gliceraldeide, come già accennato nella trattazione degli amminoacidi, esiste in due forme enantiomeriche (isomeri ottici), L e D, dal momento che presenta un atomo di carbonio asimmetrico (chirale), che lega quattro diversi sostituenti. Ora, in base alla posizione del gruppo OH in una proiezione di Fischer parleremo di composto D, se OH è a destra, e L, se OH è a sinistra. Ora, se per gli amminoacidi abbiamo sottolineato la maggioranza di forme L all’interno dei sistemi biologici, per i carboidrati si ha un equilibrio altamente spostato verso le forme D. Questo discorso può essere esteso a carboidrati più complessi; anche questi possono presentarsi in due enantiomeri, molecole speculari rispetto a un asse di simmetria esterno alla molecola, in virtù dell’atomo di carbonio chirale. In carboidrati contenenti più di un centro chirale, la nomenclatura D-L relativa alla gliceraldeide si applica al centro più distante dal gruppo carbonilico. Oltre a parlare di enantiomeri dello stesso composto, come D-glucosio e L-glucosio, possiamo parlare anche di epimeri (particolari forme di diastereoisomeri, isomeri non speculari), come D-glucosio e D- galattosio o D-glucosio e D-mannosio, che differiscono per la stereochimica di un solo centro chirale, sono speculari in corrispondenza del solo centro chirale e non di tutta la molecola; in questo caso glucosio e galattosio sono epimeri in C4 e glucosio e mannosio epimeri in C2. Analizziamo i diversi zuccheri aldosi (a tre, quattro, cinque e sei atomi di carbonio), e chetosi, (a tre, quattro, cinque e sei atomi di carbonio), focalizzando l’attenzione su quelli più importanti (evidenziati). Partiamo dagli zuccheri più semplici, come la gliceraldeide per i monosaccaridi aldosi e il diidrossiacetone per i chetosi, e arriviamo a zuccheri più complessi a catena di atomi di carbonio più lunga. Per semplicità consideriamo solo la serie D, data anche la maggiore importanza in biologia. Ora, la presenza di un gruppo carbonilico e più di un gruppo alcolico (spesso quello più distante) all’interno della stessa molecola favorisce la formazione di composti ciclici, detti emiacetalici intramolecolari. In base all’orientazione del gruppo OH, possiamo parlare di due forme emiacetaliche (stereochimiche) opposte α e β, dette anomeri e in equilibrio tra loro in un processo di mutarotazione attraverso la forma aperta. Per esempio, in caso di forme emiacetaliche del glucosio, parleremo di α-D-glucopiranosio e β-D-glucopiranosio, dove α e β indiano l’orientamento del legame C-OH, D la configurazione relativa (alla gliceraldeide), gluco lo zucchero di riferimento e piranosio la forma ciclica, per somiglianza con il pirano. Il discorso vale per moltissimi altri zuccheri, ma in particolare pentosi e esosi. Anche il fruttosio può ciclizzare per dare due forme anomeriche, l’α-D-fruttofuranosio e il β-D-fruttofuranosio, in equilibrio con la forma lineare e tra loro per mutarotazione. Oltre alla possibilità di reagire a livello intermolecolare e dare forme cicliche/emiacetaliche della molecola, i saccaridi semplici possono reagire tra loro, per condensazione di un gruppo emiacetalico e un gruppo alcolico in un acetale, e formare una molecola dimerica, in cui le due subunità monomeriche sono unite da un legame glicosidico e in cui una delle due subunità si presenta in forma emiacetalica, il che permette ulteriore condensazione e allungamento della catena (oligosaccaridi, e polisaccaridi come amido, glicogeno... Alcuni disaccaridi comuni sono: Maltosio, dato da condensazione di due molecole di glucosio, tenute insieme da un legame di tipo α1-4 glicosidico. ÷ idrolisi condensazione - Hao Lattosio, dato da condensazione di una molecola di galattosio con una di glucosio, tenute insieme da un legame di tipo β1-4 glicosidico. Saccarosio, dato da condensazione di una molecola di glucosio con una di fruttosio, tenute insieme da un legame di tipo β2-1α glicosidico. Tratteremo ora i diversi processi che permettono di degradare gli zuccheri più semplici per ottenere energia all’interno della cellula, tenendo a mente però che si tratta di processi generali, che possono realizzarsi anche per zuccheri più complessi, una volta idrolizzati nelle loro componenti più semplici. Uno dei principali processi degradativi degli zuccheri, in particolare del glucosio, è la glicolisi. Questa è una via metabolica molto antica e universalmente distribuita a livello degli organismi viventi, costituita, nella gran parte dei casi, da 10 tappe consecutive (esistono alcune eccezioni, per cui alcuni step possono essere bypassati) che si realizzano nel citosol, per convertire una molecola di glucosio a due molecole di piruvato e 2 ATP: infatti, lo scopo è di liberare l’energia contenuta nei legami e immagazzinarla sotto forma di ATP nella cellula. A livello teorico-schematico possiamo suddividere le reazioni in due fasi principali: I. Fase preparativa, di investimento energetico, in cui vengono spese 2ATP. II. Fase di ricavo energetico, in cui vengono guadagnate 4ATP (il ricavo netto è di 2ATP). Analizziamo ora nel dettaglio le diverse tappe, passo passo: 1. Da glucosio a glucosio 6-fosfato. La reazione di fosforilazione è catalizzata da un enzima esochinasi (eso perché si riferisce a uno zucchero esoso, chinasi indica una sottoclasse delle transferasi), che sposta un gruppo fosfato al C6 del glucosio ed è energizzata da idrolisi di ATP (è ATP stessa a fornire il gruppo fosfato!). La reazione ha un equilibrio di gran lunga spostato verso il prodotto (ΔG°’

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