La Destra Storica in Italia PDF

Summary

Questo documento fornisce una panoramica sulla Destra Storica in Italia, analizzando le sfide politiche ed economiche affrontate dal paese dopo l'unificazione. L'articolo esplora i problemi della questione meridionale, le politiche economiche della Destra e il contesto storico in cui si è sviluppata la classe dirigente. Discute anche dei conflitti tra Nord e Sud Italia e l'impatto della politica economica liberista sull'agricoltura e l'industria.

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LA DESTRA STORICA Dopo soli due mesi dalla nascita del nuovo Regno di Italia, uno dei suoi più importanti protagonisti – Cavour – morì, lasciando alla classe dirigente liberale il compito di costruire il nuovo stato unitario. La celebre espressione di Massimo D’Azeglio, L’Italia è fatta, ora bisogn...

LA DESTRA STORICA Dopo soli due mesi dalla nascita del nuovo Regno di Italia, uno dei suoi più importanti protagonisti – Cavour – morì, lasciando alla classe dirigente liberale il compito di costruire il nuovo stato unitario. La celebre espressione di Massimo D’Azeglio, L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani, costituisce una sintesi eloquente della difficoltà del compito che la classe politica uscita dalle urne nel marzo del 1861, doveva affrontare. In primo luogo la lunga storia di frammentazione politica, sociale e culturale che aveva caratterizzato la penisola italiana, consegnava al Parlamento del nuovo Regno un paese fortemente disomogeneo per lingua, tradizioni, ordinamenti amministrativi e strutture economiche. La lingua italiana era conosciuta da un’esigua minoranza della popolazione (600.000 su 25 milioni di abitanti) mentre la stragrande maggioranza della popolazione si esprimeva esclusivamente in dialetto. A ciò si aggiunga il dato sull’analfabetismo che riguardava il 75% della popolazione e che nel meridione toccava punte del 90%. Già Cavour aveva lucidamente individuato come la divisione tra il Nord e il Sud Italia costituisse un grave problema: egli aveva parlato in proposito dell’esistenza di due Italie, unificare le quali non sarebbe stato facile. Per quanto riguarda la sfera economica, moltissimo c’era da fare: si trattava sostanzialmente di modernizzare un paese ancora fortemente arretrato, in cui l’occupazione fondamentale era l’agricoltura (70% della popolazione attiva), mentre l’industria era appena sviluppata in alcune aree del Nord (18%) e il terziario era molto debole (12%). Il reddito procapite italiano era molto basso e decisamente inferiore alla media europea. Arretratezza, povertà e analfabetismo erano particolarmente presenti al Sud, per questo motivo si cominciò a parlare, sin dai primissimi anni dello Stato unitario, di questione meridionale. Tra i problemi da affrontare in via prioritaria si poneva inoltre la cosiddetta questione istituzionale: era necessario unificare dal punto di vista giuridico-amministrativo uno Stato composto da Stati diversi che presentavano sistemi legislativi altrettanto diversi. Non meno grave era la questione finanziaria: la classe politica italiana doveva far fronte ad un pesante debito pubblico, derivante dal fatto di aver ereditato il debito pubblico degli Stati preunitari. Tale eredità derivava da una precisa scelta politica, quella di presentare un’immagine di credibilità del neostato italiano di fronte all’Europa, anche al fine di poter eventualmente ricorrere a finanziamenti esteri in futuro. C’erano poi la questione romana e la questione territoriale: la prima riguardava il fatto che l’unità d’Italia rimaneva effettivamente qualcosa di incompiuto se non avesse riguardato anche Roma, già dichiarata capitale ideale del nuovo Regno d’Italia e la seconda era relativa all’annessione del Veneto, rimasto sotto il dominio austriaco in seguito all’armistizio di Villafranca. Nella questione romana rientrava anche il difficile rapporto con lo Stato pontificio guidato dal pontefice Pio IX che si ostinava a non voler riconoscere il nuovo Stato italiano e che con il Non expedit (“Non giova”) indirizzava tutti i cattolici all’astensione dalla vita politica. DESTRA E SINISTRA STORICHE La classe politica che si formò nel Parlamento italiano a seguito delle prime elezioni era costituita da due aree principali: la Destra e la Sinistra storiche. L’aggettivo “storico” è impiegato sia per sottolineare il ruolo storico che esse ebbero nella costituzione del nuovo Stato italiano sia per differenziarle dal significato che hanno oggi i termini destra e sinistra. Queste due aree non costituirono dei veri e propri partiti organizzati ma piuttosto gruppi di persone tutte provenienti dall’alta borghesia e dall’aristocrazia e votati dalla medesima base elettorale (solo l’1,9% della popolazione aveva il diritto di voto, una ristrettissima minoranza che costituiva l’élite sociale del paese): esse quindi non erano forze politiche organizzate in funzione della rappresentanza di interessi di classe. Ciò non significa che non avessero una formazione politica diversa e una visione diversa sui principali problemi che il paese si trovava ad affrontare. La Destra storica ereditava il pensiero e la linea politica del centro-destra liberale guidato da Cavour: era a favore di un ordinamento liberale, basato però su un suffragio ristretto di tipo censitario e, in economia, aderiva pienamente al paradigma liberista (lo Stato aveva il compito di agevolare libero scambio e la libera iniziativa imprenditoriale). Essa sosteneva anche una concezione laica dello Stato, ma riteneva che per affrontare la questione dei rapporti con lo Stato pontificio l’unica via ragionevole da seguire fosse quella diplomatica. La Destra storica era costituita prevalentemente da piemontesi e lombardi. La Sinistra storica costituiva invece il gruppo parlamentare che ereditava la visione repubblicano - democratica del Risorgimento: tra le sue file erano presenti numerosi mazziniani e garibaldini. Tale area politica auspicava lo sviluppo di alcune riforme democratiche come l’ampliamento del suffragio sino a renderlo universale, la riduzione delle imposte indirette e l’estensione dell’istruzione obbligatoria. Anch’essi sostenitori della laicità dello Stato ritenevano di dover affrontare la questione romana mediante la ripresa dell’iniziativa popolare insurrezionale. LA DESTRA STORICA ALLA GUIDA DEL PAESE L’area politica che risultò maggioritaria alle elezioni per il primo Parlamento italiano fu la Destra storica e pertanto essa assunse su di sé l’onore di governare il paese. Le prime decisioni assunte dalla Destra riguardarono la questione istituzionale. Ritenendo di dover combattere ogni spinta disgregatrice che potesse minare l’unità tanto faticosamente raggiunta, essa propendeva per l’accentramento amministrativo e intendeva respingere i particolarismi locali; in tal modo la Destra mise in atto un processo di piemontizzazione del sistema giuridico – amministrativo, estendendo a tutto il Regno d’Italia l’ordinamento e le leggi che già vigevano nel Regno di Sardegna, a partire dallo Statuto albertino. Il territorio italiano fu suddiviso in 59 provincie a capo delle quali era posto un alto funzionario nominato dal governo: il prefetto; a questi competeva l’applicazione delle leggi stabilite dal governo centrale. Le provincie a loro volta erano suddivise in Comuni i cui consiglieri venivano eletti, ma capo dei Consigli comunali c’erano dei sindaci di nomina regia. Un’altra legge che già era stata introdotta nel Regno di Sardegna e che veniva ora estesa a tutto il territorio italiano era la Legge Casati del 1859 che istituiva l’istruzione elementare obbligatoria per due anni. Tale legge, seppure istituiva l’obbligo scolastico, ne demandava ai Comuni la realizzazione (fabbricazione degli edifici scolastici, reclutamento e retribuzione del personale) e, dal momento che parecchi Comuni soprattutto del Sud non disponevano delle risorse finanziarie per adempiere a tale dovere, furono molte le zone di Italia in cui la Legge e il diritto da essa sancito rimase su carta. Per la prima volta fu imposta al paese la coscrizione obbligatoria; la legge sul servizio militare, a differenza della legge Casati fu pienamente operativa in tutto il territorio nazionale e generò non poco risentimento nelle famiglie contadine, alle quali venivano così tolte giovani risorse per il lavoro dei campi. Questa legge, insieme al fatto che la stragrande maggioranza della popolazione era esclusa dai diritti politici, provocò sin dai primissimi anni del neonato Regno d’Italia uno scollamento tra la classe politica e il popolo, tra governo e governati: c’era nelle masse più umili un sentimento di disaffezione verso uno Stato che non aveva modificato in nulla le loro condizioni di vita, né prodotto alcun avanzamento sul piano dei diritti e nello stesso tempo esigeva, attraverso il servizio di leva e le tasse, un contributo oneroso da tutti gli abitanti. Per quanto riguarda la politica economica, la Destra – fedele al paradigma liberista – cercò in primo luogo di risanare le finanze dello Stato, gravate da un ingente debito pubblico e da un disavanzo tra entrate e uscite, ponendosi come obiettivo irrinunciabile il pareggio di bilancio. Tale obiettivo fu inseguito a tutti i costi, ricorrendo anche all’impopolare politica dell’aumento delle tasse; era del resto necessario reperire risorse per far fronte alle nuove spese che lo Stato doveva sostenere, dalla costruzione delle infrastrutture (strade, ferrovie, ospedali) alle spese militari. La figura che stabilì le linee fondamentali della politica economica sotto il governo della Destra fu il ministro Quintino Sella. Soprattutto dopo il 1866 (quando lo Stato dovette sostenere i costi della terza guerra di Indipendenza contro l’Austria) egli inaugurò una stagione improntata al rigore e mise in atto una dura politica fiscale incentrata sulle imposte indirette che colpivano i generi di largo consumo come il sale, gli alcolici e il tabacco. Ma la tassa di gran lunga più discutibile e contestata fu la tassa sul macinato del 1868, con la quale si imponeva a tutti i contadini che portavano il grano al mulino per farlo macinare di pagare un tributo – proporzionale alla quantità di grano – direttamente al mugnaio. In tal modo si evitava ogni possibile evasione fiscale, ma l’innalzamento del prezzo del pane fu inevitabile e immediato. Proprio per questo la tassa sul macinato, colpendo l’alimento base della popolazione più povera, fu detta anche la “tassa della miseria” e fu alla base delle prime rivolte sociali cui il governo rispose con ondate di arresti e repressione armata. Anche l’introduzione del corso forzoso della moneta nel 1866, indispensabile per reperire risorse e sopperire ai bisogni più urgenti, generando un processo inflattivo andò a gravare sul costo delle merci e quindi sui consumatori meno agiati. Il corso forzoso consisteva nell’emissione di moneta svalutata che non poteva più essere convertita in oro: tale scelta, alla base del fenomeno dell’inflazione, si rendeva necessaria in un momento particolarmente difficile per il Regno d’Italia che si apprestava ad affrontare la terza guerra d’Indipendenza. Sempre in coerenza con la propria visione liberista, la Destra attuò politiche finalizzate al potenziamento del libero scambio delle merci abbattendo tutte le dogane interne e abbassando notevolmente le tariffe di frontiera, che divennero così le più basse d’Europa. L’abbattimento delle dogane non ebbe però ovunque effetti positivi: se le aziende agrarie capitalistiche del Nord Italia, incentrate sulla produzione di colture specializzate finalizzate all’esportazione, ne trassero giovamento, l’agricoltura delle regioni meridionali fu invece duramente colpita dalla concorrenza di prodotti esteri. In tal modo cresceva ulteriormente il divario tra il Nord, già moderno e sviluppato, e il Sud d’Italia la cui economia agricola già stentava. Anche l’industria italiana, da poco tempo sviluppatasi soltanto in alcune aree del Nord e debole per la mancanza di investimenti privati e per la penuria di materie prime, risentì della politica liberoscambista che la esponeva alla concorrenza internazionale. Il pareggio di bilancio, così faticosamente inseguito, fu raggiunto nel 1875 ma ormai il malcontento verso il governo era così ampio e diffuso che solo un anno dopo esso cadde e si aprì la stagione politica della Sinistra storica. LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL PROBLEMA DEL BRIGANTAGGIO Si è già detto che l’agricoltura costituiva la principale attività produttiva dell’Italia; essa presentava caratteristiche e strutture diverse nelle varie regioni d’Italia e in base ad esse è possibile suddividere la penisola in tre aree fondamentali:  Le regioni del Nord, in particolare l’area irrigua della pianura Padana, era caratterizzata da un vivace capitalismo agrario che investiva nelle coltivazioni specializzate (soprattutto in quelle zootecniche) e otteneva buoni risultati in termini di esportazioni. In queste aziende, benché moderne e ben organizzate, lavorava una manodopera costituita soprattutto da braccianti salariati, la cui retribuzione era molto bassa e le condizioni di vita piuttosto disagiate  Le regioni centrali erano invece caratterizzate dall’istituto della mezzadria, secondo il quale il proprietario della terra dà in gestione ad un coltivatore il proprio fondo e divide a metà con quest’ultimo tanto i costi per la manutenzione del fondo, quanto i ricavi. Gestendo poderi di dimensioni piuttosto ridotte, i mezzadri di Umbria e Toscana riuscivano perlopiù a provvedere al sostentamento della propria famiglia e poco altro, senza poter operare i necessari investimenti per il miglioramento e l’innovazione delle coltivazioni (olio, frutta, vite).  Nelle regioni del mezzogiorno dominava la struttura del latifondo: ampie estensioni di terra sulle quali i proprietari non operavano alcun investimento in vista dell’innovazione e dell’efficienza, limitandosi a sfruttare parassitariamente il lavoro della manodopera sia animale che umana. Quest’ultima era sottoposta all’istituto del caporalato: il caporale reclutava all’alba, nei villaggi rurali, i braccianti che avrebbero lavorato per l’intera giornata e dava loro una paga bassissima sulla quale esigeva pure una percentuale. Le condizioni di vita dei contadini del meridione erano perciò definibili condizioni di miseria:avevano un’alimentazione povera perché si nutrivano quasi esclusivamente di cereali (cosa che favoriva il diffondersi di malattie come la pellagra) e vivevano dentro baracche o casupole in pessime condizioni igieniche. La politica portata avanti dalla Destra nel Mezzogiorno non solo non condusse verso alcun miglioramento una popolazione contadina già stremata, ma riuscì addirittura ad aggravarne le condizioni con l’introduzione della tassa sul macinato e soprattutto con l’imposizione della coscrizione obbligatoria, sconosciuta ai tempi dei Borbone. Si trattava in sostanza di una politica che favoriva il capitalismo del Nord e lasciava agire indisturbati i grandi latifondisti che, mediante il caporalato, sfruttavano migliaia di contadini condannandoli alla miseria e all’immobilismo. Tale politica fu alla base della formazione del cosiddetto “blocco agrario-industriale”: una classe sociale egemonica che si basava sull’alleanza tra capitalisti del Nord e latifondisti del Sud per mantenere inalterato il proprio potere sulle classi subalterne e i propri privilegi. In simili condizioni i contadini meridionali, che pure avevano inizialmente aderito con entusiasmo alla causa unitaria e indipendentista sperando che essa potesse trasformare o almeno migliorare la situazione di plurisecolare miseria cui erano sottoposti, svilupparono un sentimento di disaffezione verso il nuovo Stato che, se in alcuni casi sfociò in malcontento aperto e rivolte, in altri diede vita a vere e proprie forme di guerriglia organizzata contro lo Stato. Si tratta del fenomeno del brigantaggio: gruppi di contadini indebitati, renitenti alla leva, disoccupati, ex-ufficiali borbonici, criminali comuni etc., si organizzarono in bande armate e tra il 1861 e 1865 compirono ripetute azioni di guerriglia contro le Istituzioni. Si calcola che il fenomeno del brigantaggio giunse a coinvolgere circa 80.000 persone, cifra indicativa di una consistente partecipazione popolare. I briganti ottennero anche l’appoggio dei Borbone, rifugiati a Roma, che fornivano armi e finanziamenti sotto lo sguardo di un pontefice indifferente, il quale considerava il Regno di Italia uno Stato nemico della chiesa. La Destra intervenne nei confronti dei briganti dispiegando l’esercito regolare e mettendo in atto una vera e propria guerra che portò a perdite ingenti di vite umane. In alcune aree del Meridione fu addirittura stabilita la legge marziale. Non vi fu alcun tentativo da parte del governo di dare una risposta sociale e politica a questo complesso fenomeno che pure cominciava a stimolare indagini e lavori di inchiesta. In questi anni, inoltre, si radicò ulteriormente nelle regioni del Sud il fenomeno della mafia, già presente ai tempi dei Borbone. Si trattava di “prepotenti” (questo il significato del termine dialettale mafiusu) che formavano piccole associazioni sostenute da una cassa comune e guidate da un capo, le quali si dedicavano ai furti e alle estorsioni. LA TERZA GUERRA DI INDIPENDENZA La questione romana e la questione territoriale erano molte sentite dall’opinione pubblica, come dalla classe politica. Erano in molti infatti a ritenere che il completamento dell’unificazione dovesse costituire un obiettivo prioritario per il nuovo Stato. Completare l’unificazione significava annettere quelle regioni che, per ragioni politico-militari, erano rimaste fuori dal Regno d’Italia, ma che erano percepite pienamente italiane: Roma e il Lazio rimasti sotto lo Stato pontificio e il Veneto, il Trentino e il Friuli Venezia Giulia ancora sotto il dominio austriaco. Per quanto riguarda la questione romana la Destra e la Sinistra pur concordando sul fatto che Roma dovesse essere la capitale della nazione italiana, divergevano sulle strategie da attuare. In particolare la Destra, convinta della bontà della strategia diplomatica, si impegnò con la Francia di Napoleone III nella firma di un trattato nel 1864 (la Convenzione di Settembre) che prevedeva l’abbandono della città di Roma da parte delle truppe francesi che la presidiavano, in cambio dell’impegno da parte dell’Italia a non invadere la città e anzi a spostare la capitale da Torino a Firenze, in quanto più adatta per la posizione geografica a rivestire il ruolo di capitale del nuovo Regno. L’Italia si impegnava inoltre a prestare il proprio intervento armato a sostegno del pontefice in caso di aggressione da parte di rivoluzionari organizzati con un’unica eccezione: un’eventuale insurrezione degli stessi sudditi dello Stato della chiesa. Mentre alla Destra la convenzione di Settembre apparve un passo avanti sulla strada verso Roma (liberazione dalle truppe francesi e instaurazione della nuova capitale Firenze in un’area prossima a Roma), alla Sinistra essa apparve come una rinuncia esplicita alla conquista della città e perciò contestò duramente il trattato. Nel frattempo, grazie al processo dell’ unificazione tedesca che proprio in quegli anni si andava realizzando, giunse all’Italia l’occasione per liberare le regioni settentrionali ancora sotto l’Austria. Il cancelliere tedesco Bismarck, deciso a realizzare l’unità tedesca senza l’Austria e sotto la guida della Prussia, propose all’Italia un’alleanza militare per la quale entrambi i paesi si impegnavano a dichiarare guerra all’Austria, combattendola su due fronti. Iniziava così nel 1866 la terza guerra di Indipendenza. Essa fu vinta dall’alleanza italo - prussiana soprattutto grazie alle vittorie militari conseguite dai prussiani (decisiva fu quella di Sadowa nel luglio 1866), mentre gli italiani riportarono due cocenti sconfitte (a Custoza per terra e a Lissa per mare); solo i Cacciatori delle Alpi, guidati da Garibaldi, riuscirono a riportare alcuni successi negli scontri campali. Tutto ciò mise in evidenza la debolezza dello Stato italiano e la delusione degli italiani per la gestione della pace fu grande. Infatti l’Italia otteneva soltanto il Veneto e non il Trentino e il Friuli; inoltre lo otteneva attraverso la mediazione di Napoleone III che lo devolveva all’Italia dopo averlo ricevuto dall’Austria. Al di là dell’umiliazione che una simile gestione del trattato di pace comportò, rimaneva aperta quindi la questione territoriale per le regioni del Trentino e del Friuli Venezia Giulia. Proprio in questo momento nacque il movimento dell’ irredentismo: esso dava voce alla aspirazione dei patrioti italiani a veder completata l’unità nazionale con la conquista delle terre irredente (abitate da italiani ma ancora sotto un dominio straniero). LA QUESTIONE ROMANA Come sappiamo, sulla questione romana Destra e Sinistra divergevano quanto alle strategie da attuare al fine di annettere la città di Roma e renderla capitale dello Stato italiano: la Destra rimaneva legata alla strategia diplomatica nonostante l’intransigenza del pontefice Pio IX che si ostinava a non riconoscere lo Stato italiano, mentre la Sinistra riteneva indispensabile la ripresa della strategia insurrezionale. Quest’ultima fu tentata in due occasioni dai democratici guidati da Garibaldi:  Nel 1862, quando Garibaldi, partito dalla Sicilia, era intenzionato a dar vita ad una nuova spedizione dei Mille, risalendo la penisola ed entrando a Roma da Sud. Il capo del governo lo lasciò fare ma fu costretto a fermarlo quando giunse l’ultimatum di Napoleone III. Garibaldi si trovava già in Calabria e lì, sulle montagne dell’Aspromonte, egli si vide bloccare dall’esercito regolare italiano. Fu sparato qualche colpo e Garibaldi, lievemente ferito, fu tratto in arresto, ma subito dopo rilasciato per le fortissime proteste dell’opinione pubblica  Nel 1867, quando dopo la Convenzione di Settembre, Garibaldi pensò di poter far leva su un’insurrezione organizzata all’interno dello stesso Stato pontificio, per poter poi penetrare e portare il suo aiuto agli insorti: anche stavolta le proteste di Napoleone III costrinsero Vittorio Emanuele II a sconfessare l’impresa di Garibaldi fermandolo con l’esercito nei pressi di Mentana. La soluzione della questione romana non avvenne così né per via diplomatica, né mediante la strategia insurrezionale, ma qualche anno dopo grazie al verificarsi di una situazione internazionale propizia. Il conflitto franco-prussiano del 1870 (sempre nel contesto della realizzazione dell’unità tedesca) vide la sconfitta della Francia e il crollo di Napoleone III e dell’Impero. L’Italia allora si ritenne libera dagli accordi precedentemente siglati con Napoleone III e provvide a organizzare una spedizione militare per conquistare Roma: il 20 settembre del 1870 un gruppo di bersaglieri italiani guidati dal generale Cadorna aprirono con i cannoni una breccia nelle mura della città presso Porta Pia e irrompendo dentro Roma la conquistarono dopo un rapido e facile scontro. Il pontefice si dichiarò immediatamente prigioniero dello Stato italiano, che definì uno Stato usurpatore e con il quale, dunque, rifiutò ogni trattativa. Per questa ragione lo Stato italiano emanò unilateralmente una Legge che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa alla luce del principio cavouriano “Libera chiesa in libero Stato”, ovvero il principio della reciproca autonomia delle due istituzioni. Si trattava della Legge delle Guarentigie (“garanzie”), con la quale lo Stato italiano riconosceva alla chiesa la piena libertà di culto e di esercizio di tutte le sue funzioni spirituali, dichiarava inoltre “sacra e inviolabile” la persona del papa, al quale garantiva la piena disponibilità dei palazzi del Vaticano, del Laterano e del Castel Gandolfo per i quali valeva il diritto di extraterritorialità (condizione di immunità di cui godono le sedi diplomatiche degli Stati nei paesi esteri). Infine stabiliva la corresponsione al pontefice di una somma annua per il mantenimento della corte papale ed eliminava il placet (diritto di ratifica) del re sui decreti papali. Il pontefice, però, rimase sulle sue posizioni di rifiuto ostinato di ogni rapporto con l’Italia e nel 1874 lanciò il Non expedit, con il quale raccomandava ai cattolici italiani di astenersi da ogni forma di partecipazione politica. Tale indicazione, riguardante l’atteggiamento nei confronti della vita politica della nazione, sarebbe durata oltre trent’anni e avrebbe pesato non poco sulle vicende politiche dell’Italia e sui rapporti tra cattolici e laici. Nel 1871 la capitale del Regno di Italia veniva spostata da Firenze a Roma LA SINISTRA STORICA La destra storica, che si era assunta il compito di guidare il neonato Stato italiano appena compiuta l’unità nazionale, aveva saputo raggiungere importanti traguardi dal punto di vista territoriale (il Veneto con la III guerra di Indipendenza, e Roma con la presa di Porta Pia), ma aveva ereditato problemi e difficoltà cui non era riuscita a dare risposte adeguate: in particolare la situazione di grave indigenza delle fasce sociali più deboli e la difficile realtà del Mezzogiorno (arretratezza, analfabetismo, ribellismo e brigantaggio). Nel 1875 era stato raggiunto il tanto considerato pareggio di bilancio, ma l’imposizione fiscale che si era resa necessaria per il raggiungimento di quest’obiettivo aveva esasperato le tensioni sociali. Il malcontento non era però diffuso soltanto tra gli strati più poveri della popolazione: la borghesia industriale aveva visto i propri interessi danneggiati dalla politica doganale della destra, che fedele ai principi del libero-scambismo aveva finito col favorire la concorrenza estera e frenare lo sviluppo industriale italiano. Le tensioni sociali, il malcontento diffuso insieme alla tenace opposizione della sinistra storica e ormai anche di fasce non marginali della stessa destra, costrinsero il primo ministro Minghetti alle dimissioni. Nel 1876 viene chiamato a formare un nuovo governo Agostino Depretis, leader della sinistra, che restò in carica, con qualche breve interruzione, sino al 1887. LE RIFORME E LA LEGISLAZIONE SOCIALE Il programma politico col quale la sinistra aveva ottenuto un ampio consenso (70% dei voti) alle elezioni del 1876 prevedeva ambiziose riforme, orientate a migliorare le condizioni delle fasce più deboli della popolazione (la riforma fiscale, la lotta all’analfabetismo, la lotta all’arretratezza del Mezzogiorno), ma ottenere i risultati promessi non fu affatto semplice: - sul piano fiscale, ad esempio, fu introdotta una riforma (1880-1884) che aboliva l’odiata tassa sul macinato e trasferiva sulle classi più abbienti il peso maggiore della tassazione; ciò però influì negativamente sul bilancio e perciò fu necessario compensare con le imposte indirette (quelle sui beni di consumo), vanificando così i benefici per le classi popolari. - La riforma elettorale (1882) ampliava la base elettorale, portandola dal 2,2% della precedente Legge al 6,9% dell’attuale; tuttavia la nuova Legge rimaneva di tipo censitario (potevano votare i cittadini maschi di 21 anni che pagavano almeno 19 lire di imposta annua) oppure inseriva, in alternativa, il criterio del titolo di studio (potevano votare i cittadini maschi adulti che sapessero leggere e scrivere) e continuava perciò ad escludere i contadini, soprattutto quelli del Meridione dove permanevano alte percentuali di analfabetismo, nonché le donne. - La riforma scolastica (1887) avvenne mediante l’approvazione della Legge Coppino che innalzava l’obbligo scolastico da due a tre anni e introduceva sanzioni per i genitori che disattendevano tale obbligo. La realizzazione delle scuole (dalla costruzione degli edifici scolastici al reclutamento del personale docente) era però ancora demandato ai Comuni che non sempre erano in condizioni di assolvere effettivamente tale compito. In ogni caso si registrò in questo periodo una relativa diminuzione dell’analfabetismo. Due furono invece gli atti di Legge che apportarono effettivi miglioramenti nella vita delle classi lavoratrici: - L’istituzione di una Cassa nazionale per i lavoratori che subivano incidenti sul lavoro - I primi disegni di legge per regolare il lavoro delle donne e dei minori nelle fabbriche I governi guidati da Depretis furono caratterizzati da un notevole trasformismo: si tratta di una pratica politico-parlamentare con la quale si cercava il sostegno ai programmi politici non in maggioranze precostituite, ma in schieramenti eterogenei che si aggregavano intorno ai singoli provvedimenti di legge, a prescindere dalle appartenenze di partito. A sostenere le scelte del governo non c’era dunque una maggioranza ben definita sulla base dell’adesione espressa intorno a un programma politico. Al contrario: ogni volta che il governo promuoveva un disegno di legge doveva ricercare all’interno del parlamento la maggioranza disposta a sostenerlo. Questa pratica se da un lato contribuì all’equilibrio politico, dall’altro fece emergere una politica fatta di compromessi, favori reciproci, accordi personali, sino a sconfinare in veri e propri atteggiamenti clientelari che coinvolgevano anche le classi dirigenti locali. In tal modo si frenò l’azione riformatrice della sinistra che assunse tratti più moderati, perseguendo un cauto riformismo e isolando le frange più radicali. Il vero obiettivo politico del trasformismo era infatti quello di isolare le ale più estremiste sia della sinistra (entrate in parlamento nel 1882 in conseguenza dell’ampliamento del suffragio e orientate verso un’evoluzione repubblicana delle istituzioni italiane) sia della destra clericale e conservatrice che ancora nutriva ostilità verso lo Stato unitario e, insieme, quello di proteggere lo Stato liberale e monarchico. A differenza della politica del connubio di Cavour, che contava su una maggioranza stabile costruita intorno a un programma di riforme ben definito, il trasformismo di Depretis finì col degenerare nella ricerca di appoggi parlamentari variabili in cambio di concessioni di volta in volta concordate, non scevre di episodi di corruzione. Una simile prassi ridusse le differenze ideologico-politiche tra destra e sinistra (già poco marcate dal momento che entrambe le correnti provenivano dalla medesima base sociale ed elettorale) e rafforzò il centro moderato. LA POLITICA ECONOMICA Se la destra storica aveva orientato la propria politica economica ai principi liberisti, quando tutta l’Europa fu investita dalla crisi (1873-1896) la sinistra italiana si allineò alle scelte dei principali paesi europei adottando misure protezionistiche che potessero mettere al riparo dalla concorrenza estera la nascente industria italiana. Una decisa svolta in senso protezionistico era ormai del resto invocata da quasi tutti gli industriali e dagli stessi proprietari terrieri, duramente colpiti dalla concorrenza dei grani esteri. Si giunse così, nel 1887 al varo di una nuova tariffa generale che proteggeva dalla concorrenza importanti settori dell’industria nazionale (il siderurgico, il cotoniero, il laniero e lo zuccheriero), mentre in campo agricolo tra il 1887 e il 1889 il dazio sul grano fu triplicato. Se la destra aveva ritenuto l’Italia un paese la cui economia era a vocazione essenzialmente agricola, la sinistra nutriva fiducia nelle possibilità di sviluppo legate all’industrializzazione, per questo ne promosse la diffusione. Lo Stato si fece protagonista di importanti commesse pubbliche: in tal modo lo Stato stesso diventava acquirente e commissionava alle industrie la produzione di determinate merci in quantità elevate, garantendo così entrate e profitti consistenti alle imprese. Di interesse strategico per lo Stato era la produzione dell’acciaio e nel 1884, in seguito ad un ingente investimento finanziario voluto dalla sinistra, nacquero le acciaierie di Terni. Inoltre lo Stato fondò nuove banche con lo scopo di concedere credito alle industrie. Gli anni successivi alla “grande depressione” furono gli anni del vero decollo industriale italiano; la moderna industria siderurgica e le aziende operanti nel settore chimico e idroelettrico si consolidarono. Nacquero i complessi industriali dell’Elba e di Montecatini per l’estrazione e la lavorazione dei minerali di ferro, quelli della Edison per l’industria idroelettrica, della Breda per l’industria meccanica, della Cirio per l’industria alimentare. Nel 1899 fu fondata la prima fabbrica di automobili italiana, la Fiat di Torino. La maggior parte dello sviluppo industriale venne a concentrarsi in quello che solitamente è definito il triangolo industriale italiano, compreso tra le città di Genova, Torino e Milano. LA POLITICA ESTERA Quando Depretis assunse le redini del governo, si profilava per l’Italia il rischio dell’isolamento diplomatico e internazionale. L’Italia aveva infatti sinora gravitato nell’orbita politica ed economica della Francia, ma il congresso di Berlino del 1878 -abilmente diretto da Bismarck- aveva disegnato un sistema di alleanze che puntava a tenere proprio la Francia in una condizione di isolamento. Inoltre nel contesto della corsa imperialistica, con la quale le principali potenze tendevano ad accaparrarsi porzioni di territori e paesi nei continenti extraeuropei, gli interessi dell’Italia erano stati danneggiati proprio dalla Francia (nel 1881 invade la Tunisia): essi si rivolgevano alla Tunisia, sia per la posizione geografica immediatamente antistante le coste meridionali della penisola, sia perché in Tunisia già lavoravano migliaia di emigrati italiani impiegati come manodopera agricola. L’Italia decise allora di entrare a far parte del sistema di alleanze previste dall’equilibrio bismarckiano e siglò nel 1882 la Triplice alleanza con Austria e Germania (alleanza che prevedeva reciproco aiuto in caso di attacco da parte di un nemico esterno e aveva connotati chiaramente antifrancesi). Questa scelta fu però molto contestata all’interno del paese da tutti coloro che si riconoscevano nel movimento politico dell’ Irredentismo il quale si proponeva di unire alla legittima patria italiana le terre della Venezia-Giulia e del Trentino, ancora sotto l’impero austro-ungarico. LA POLITICA COLONIALE Anche l’Italia promosse una politica di tipo coloniale sulla base delle stesse motivazioni che animavano l’imperialismo europeo, ossia la ricerca di un dominio coloniale che accrescesse il proprio prestigio sul piano internazionale, l’esasperato nazionalismo e la volontà di potenza allora molto diffusi nell’opinione pubblica. L’Italia aggiungeva a queste motivazioni l’esigenza di trovare uno sbocco all’aumento demografico e alla disoccupazione dilagante: questi stessi fattori furono alla base dell’imponente flusso migratorio verso gli Stati Uniti. Depretis diede avvio all’espansione coloniale italiana individuando nelle coste eritree sul Mar Rosso una zona di interesse strategico: la costruzione del canale di Suez (1869) metteva finalmente in comunicazione via mare il Mediterraneo e l’Asia, perciò questo tratto di costa africana, sul quale ancora nessun’altra potenza europea aveva messo gli occhi, sembrava particolarmente appetibile. Nel 1882 il governo italiano comprò la Baia di Assab e nel 1885 dopo aver occupato il porto etiope di Massaua iniziò una spedizione verso l’interno del Regno etiope (unico Stato africano con un’organizzazione statale forte di tipo imperiale). La spedizione fu però bloccata dalle truppe etiopiche a Dogali nel 1887: una colonna di 500 soldati italiani fu sterminata (l’episodio è noto come l’eccidio di Dogali). L’ITALIA CRISPINA In concomitanza con l’eccidio di Dogali morì Depretis e la guida del governo fu affidata a un altro esponente della sinistra: Francesco Crispi, personaggio dalla forte personalità e dal passato mazziniano e garibaldino (partecipò alla spedizione dei Mille). Crispi si rese protagonista di una vera e propria svolta autoritaria riunendo nella sua persona alcune delle più importanti cariche di governo (Presidenza del Consiglio, Ministero degli Interni e Ministero degli Esteri) e rafforzando il potere esecutivo a scapito di quello parlamentare. Le sue decisioni più importanti riguardarono l’ambito costituzionale e quello amministrativo. Nel 1888 fu esteso il diritto di voto nelle elezioni comunali (fu infatti abbassato il censo di sbarramento); vennero inoltre resi elettivi i Sindaci dei Comuni maggiori, ma al contempo venne aumentato il controllo dei prefetti (capi della polizia) sulle amministrazioni comunali. Benché venisse riconosciuto il diritto allo sciopero furono approvate le “Leggi di pubblica sicurezza” con le quali si conferivano poteri straordinari alla polizia per disperdere i manifestanti. Furono poi varate le Leggi anti-anarchiche che restringevano la libertà di associazione e di stampa. Tali leggi furono ampiamente utilizzate per reprimere le manifestazioni di protesta che verso la fine del secolo aumentarono per via della crisi economica (grande depressione 1873-1896). Tranne il biennio giolittiano (1892 – 1893, durante il quale il governo mostrò un atteggiamento di tolleranza rispetto agli scioperi e alle manifestazioni di protesta perché Giolitti li considerava fenomeni fisiologici nell’ambito dell’evoluzione democratica della società), durante il governo Crispi fu adottata una vera e propria politica della forza per reprimere il dissenso della piazza. In particolare le proteste guidate dal nascente Partito socialista (1892) furono duramente colpite: ricordiamo la repressione dei fasci siciliani (contro il rincaro del prezzo del pane e dei generi di prima necessità) per i quali fu decretato lo stato d’assedio e, dopo il governo Crispi, la brutale azione di forza messa in atto dal governo Di Rudinì (1896-1898) contro la cosiddetta “protesta dello stomaco” a Milano, nella quale il generale Bava Beccaris cannoneggiò sulla folla uccidendo 84 persone e provocando moltissimi feriti (450). Questo atto era rivolto a sedare la protesta divampata nelle regioni settentrionali dove più forte ed esplicita era la direzione socialista delle masse in rivolta. LA POLITICA COLONIALE CRISPINA Nonostante l’eccidio di Dogali, Crispi riprese con slancio l’espansione coloniale in Africa settentrionale. Con il Negus (imperatore) etiopico Menelik concluse il Trattato di Uccialli (1889) mediante il quale veniva riconosciuto il protettorato italiano sull’Etiopia e furono fissati i confini territoriali di competenza italiana sulla costa del mar Rosso: nasceva così la Somalia italiana. Ma ripresa la penetrazione all’interno del territorio etiope, l’esercito italiano incontrò una nuova bruciante sconfitta che fu registrata nella pace di Addis Abeba (1896). Con essa si abrogava il Trattato di Uccialli, perciò l’Italia perdeva il protettorato sull’Etiopia. La sconfitta ebbe immediate ripercussioni in Italia: violente manifestazioni contro la guerra d’Africa e i suoi costi, sia in termini di vite umane sia in termini di risorse finanziarie, scoppiarono a Roma, a Milano e in molte altre città. Crispi fu costretto a dimettersi e ad uscire dalla scena politica. L’episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto la guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e quanto illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere successi di prestigio in un’avventura imperialistica cui mancavano le indispensabili premesse politiche, economiche e strategico-militari. L’EUROPA NELL’ETÀ DI BISMARCK VERSO L’UNITÀ DELLA GERMANIA A partire dagli anni ’50 dell’Ottocento, la Prussia si era sviluppata con un ritmo che non aveva uguali in Europa. L’espansione industriale e la crescita di una forte borghesia capitalistica si concentrarono soprattutto nella parte occidentale dello Stato prussiano: nelle regioni della Renania e della Vestfalia. Lo sviluppo economico non era stato accompagnato, però, da un’evoluzione delle istituzioni in senso liberal-parlamentare: la Costituzione in vigore nello Stato prussiano era di stampo fortemente conservatore e se al Parlamento erano riconosciuti esigui margini decisionali, nel sovrano si concentravano invece ampi poteri. I vertici dello Stato erano occupati dalla classe egemone degli Junker, gli aristocratici proprietari terrieri. Essi occupavano nell’esercito i più alti gradi di comando ed avevano ruoli dirigenziali in tutti i settori dell’apparato burocratico-amministrativo e ricambiavano il potere e il prestigio di cui godevano con un atteggiamento di incrollabile fedeltà verso lo Stato e il sovrano. In Prussia la borghesia non riuscì, dunque, nel tentativo di limitare lo strapotere politico ed economico degli Junker, né ad affermare i principi tipici del pensiero liberale come le libertà civili e i diritti politici. Tuttavia essa vide realizzati i propri interessi economici mediante un processo guidato dall’alto che viene comunemente interpretato come la via prussiana allo sviluppo: l’autoritarismo politico insieme alla forza militare hanno realizzato quell’insieme di condizioni che favorirono la modernizzazione in funzione dell’industrializzazione e della crescita economica. La costruzione di un efficiente rete di comunicazione stradale e ferroviaria, l’alta diffusione dell’istruzione pubblica, le politiche improntate ai principi del libero mercato, erano fattori chiave dello sviluppo prussiano. Un altro obiettivo della borghesia era quello di superare l'ordinamento confederale che, nonostante lo zollverein (unione doganale tra i principali Stati tedeschi realizzata nel 1834), limitava lo sviluppo commerciale del sistema produttivo tedesco. Ricomporre l’area germanica in uno Stato unitario avrebbe significato la creazione di un grande mercato interno unificato. Tuttavia, a differenza di quello che negli stessi anni stava accadendo in Italia, nell'area germanica l’obiettivo dell’unificazione fu perseguito attraverso una politica di potenza, che fece uso della forza militare senza coinvolgere gli ideali liberali e romantici e per questo fu del tutto assente la componente democratica e rivoluzionaria all'interno del processo di unificazione. Artefice di questa politica di potenza fu il cancelliere Otto Von Bismarck chiamato a dirigere il governo dal re di Prussia Guglielmo I nel 1862. Tenace oppositore del liberalismo e della democrazia e leader politico degli junker, Bismarck attuò una totale riorganizzazione militare della Prussia creando un esercito moderno e potente. Le sue idee fortemente nazionalistiche e orientate ad un militarismo esasperato, lo posero in contrasto col Parlamento, il quale rifiutò di approvare i finanziamenti necessari per realizzare la riforma dell'esercito. Il cancelliere di ferro, come venne soprannominato, intervenne con decisione, esautorando i parlamentari e inducendo il sovrano a governare senza l'appoggio del parlamento ed affermò che l’Unità tedesca non sarebbe stata fatta con i discorsi ma col ferro e col sangue, sottolineando così il ruolo della potenza militare e, al contempo, la marginalità del confronto democratico. Per realizzare quest'obiettivo Bismarck aveva in primo luogo bisogno di eliminare l'ingombrante influenza austriaca sulla confederazione germanica. Il cancelliere trovò l'occasione per provocare il conflitto sfruttando una questione ereditaria relativa ai due ducati danesi dello Schleswig e dello Holstein, territori fondamentali per controllare il mare del Nord e il Baltico, ai quali miravano sia l'Austria sia la Prussia. In un primo momento le due potenze agirono insieme contro la Danimarca. Poi Bismarck, assicuratosi la neutralità della Francia e stipulato un patto col neonato Regno d'Italia (al quale fu promesso il Veneto), invase l'Holstein (assegnato all'Austria secondo gli accordi iniziali) e diede così inizio al conflitto austro-prussiano. In soli 15 giorni l'esercito austriaco venne sconfitto: nel 1866 a Sadowa si combatté la battaglia decisiva e successivamente, con la pace di Praga, venne sciolta la confederazione germanica e creata la nuova Confederazione della Germania del Nord, sotto la tutela di Berlino e la presidenza del sovrano di Prussia Guglielmo I. L'Impero austriaco oltre a cedere l'Holstein alla Prussia e il Veneto all'Italia, fu in pratica costretto a spostare il proprio asse geopolitico verso est. Il passo successivo della Prussia di Bismarck fu quello di stringere accordi politici e trattati commerciali con i principali Stati tedeschi meridionali. L'espansionismo prussiano allarmava però la Francia di Napoleone III, preoccupata della nascita di un forte Stato unitario nel cuore dell’Europa continentale, in grado di esercitare una significativa egemonia; per tale ragione Napoleone III spingeva affinché gli Stati della Germania meridionale rimanessero indipendenti. La situazione tra Francia e Prussia precipitò nel 1870 quando una crisi di successione sul trono di Spagna offrì il pretesto a Bismarck per rispondere provocatoriamente a Napoleone III (quest'ultimo aveva preteso che nessun membro della dinastia prussiana salisse sul trono spagnolo, benché gli venisse offerto ) e la Francia, cadendo nella provocazione, dichiarò guerra alla Prussia. Gli stati tedeschi meridionali, contrariamente alla valutazione di Napoleone III, si schierarono a fianco della Prussia e l'esercito francese fu duramente sconfitto nella battaglia di Sedan del 1870; tale sconfitta provocò la fine del Secondo Impero (lo stesso Napoleone III fu fatto prigioniero dai tedeschi). Pochi giorni dopo, nella capitale accerchiata dai prussiani fu proclamata la Repubblica e si formò un governo provvisorio che provò a organizzare la resistenza, ma dopo una serie di ulteriori sconfitte la Francia fu costretta a chiedere l’armistizio. Le condizioni di pace imposte da Berlino esigevano la cessione da parte della Francia dell’Alsazia e della Lorena, oltre al pagamento di una pesante indennità di guerra (pace di Francoforte). La disfatta di Sedan, l’invasione del paese, la caduta di Parigi e la perdita dell’Alsazia-Lorena rappresentarono per i francesi molto più che una sconfitta militare: si trattò di una vera e propria umiliazione nazionale. Il desiderio di riparare a questa umiliazione fu alla base del cosiddetto revanchismo francese (da revanche: rivincita), che avrebbe caratterizzato a lungo i rapporti tra Francia e Germania e determinato un’insanabile rivalità. L’ETÀ DI BISMARCK Dopo il conflitto franco-prussiano nasceva, nel mondo germanico, grazie alla partecipazione degli Stati tedeschi meridionali alla Confederazione germanica del nord, il cosiddetto Secondo Reich: il Secondo Impero germanico, dopo quello medievale cui Napoleone Bonaparte aveva posto fine. Il 18 gennaio del 1871 Guglielmo I fu proclamato imperatore tedesco (kaiser); così mentre si andava indebolendo l’impero asburgico, sorgeva nell’Europa centrale un nuovo Impero, basato sulla potenza industriale e militare. Dopo la proclamazione dell’Impero, la politica di Bismarck fu caratterizzata sin da subito da una netta opposizione al liberalismo e fu tesa essenzialmente al rafforzamento dello Stato e del governo, politica che si tradusse in un forte regime autoritario, dai tratti paternalistici. Il disegno politico del cancelliere di ferro trovò il tradizionale appoggio degli junker e ora anche quello della borghesia industriale. La Costituzione tedesca prevedeva che il Reichstag (parlamento) amministrasse il potere legislativo, ma il potere esecutivo esercitato dal primo ministro o cancelliere era svincolato da qualsiasi responsabilità di fronte alle Camere. L’unico a poter chieder conto delle scelte del governo era il Kaiser, il quale, tra l’altro, poteva opporsi e bloccare le leggi promosse dai parlamentari. Per questo gli storici parlano, a proposito della Germania, di un regime semi-parlamentare. Bismarck portò avanti il proprio disegno autoritario di rafforzamento dello Stato, paventando l’esistenza di “nemici dello Stato”: in pratica tutti gli oppositori politici che osteggiavano la sua linea di governo. Fino al 1878 i principali nemici furono i cattolici del partito Zentrum, contro il quale il cancelliere intraprese il cosiddetto Kulturkampf (battaglia culturale): il governo tedesco abolì la Compagnia di Gesù, impose l’obbligo del matrimonio civile, decretò che le scuole cattoliche e tutte le attività della chiesa fossero poste sotto il controllo statale e arrivò addirittura a interrompere i rapporti diplomatici col Vaticano. Ben presto però Bismarck si rese conto che queste scelte non facevano altro che rafforzare il partito cattolico, il quale alle elezioni del 1874 aumentò il numero dei propri deputati. A questo punto Bismarck preferì trovare una conciliazione con i cattolici conservatori e renderli propri alleati nella battaglia contro il socialismo. La Spd ( partito socialdemocratico tedesco), nata nel 1875, divenne così il principale “nemico dello Stato”, anche perché - in seguito ad una crisi economica che si abbatteva soprattutto sugli strati più poveri della popolazione - la socialdemocrazia tedesca aveva visto crescere significativamente i propri consensi. Nel 1878 il governo di Bismarck promulgò le Leggi eccezionali, appoggiate anche dal Parlamento e dagli esponenti del Centro, che vietavano le riunioni pubbliche e le assemblee, imponevano la chiusura delle sedi sindacali, la soppressione dei giornali e dei mezzi di comunicazione della classe operaia. Tali misure erano giustificate dal principio guida che ispirava le Leggi eccezionali, secondo il quale erano da ritenersi illegali tutte le associazioni “aventi lo scopo di provocare il rovesciamento dell’ordinamento statale o sociale esistente”. Bismarck non adottò solo misure repressive nei confronti della classe operaia, egli fu anche il primo in Europa a mettere in campo un sistema di leggi di sicurezza sociale , istituendo le polizze assicurative per malattia (1883), per gli infortuni sul lavoro (1884), per l’invalidità e per la vecchiaia (1888). La realizzazione di questo stato assistenziale (di qui i tratti paternalistici del regime autoritario bismarckiano) aveva lo scopo di contenere le tensioni delle masse popolari e di far sì che la classe operaia si sentisse effettivamente parte dello Stato. Il paternalismo di tale linea politica consisteva nel “proteggere” la classe operaia togliendole però al contempo ogni autonomia: gli operai venivano integrati nel corpo dello Stato, ma non veniva riconosciuta loro la legittimità di una rappresentanza organizzata. Anche per il partito socialdemocratico, come già era avvenuto per i cattolici, la politica bismarckiana ebbe però l’esito di ampliarne i consensi. Per quanto riguarda le relazioni internazionali, gli anni che vanno dal 1870 al 1890 rappresentarono un periodo di equilibrio, pazientemente e abilmente costruito in Europa proprio da Bismarck. La Germania da una parte mantenne l’equilibrio tra gli Stati europei, assumendo il ruolo di intermediario nel conflitto tra Austria e Russia nella zona balcanica, dall’altro cercò di isolare sempre più la Francia. Bismarck, molto abilmente, nel 1873 strinse dapprima il Patto dei tre imperatori con la Russia e l’Austria-Ungheria (un patto che aveva lo scopo esplicito di tutelare gli equilibri conservatori), e poi, nel 1882 la Triplice alleanza con l’Impero asburgico e l’Italia in opposizione alla Francia, della quale preoccupavano le idee di rivincita dopo la sconfitta di Sedan del 1870. L’azione diplomatica di Bismarck in Europa fu facilitata anche dallo “splendido isolamento” in cui si era rifugiata l’Inghilterra, concentrata sul rafforzamento del proprio sistema politico imperiale e coloniale piuttosto che sulle intricate questioni politiche europee. Le capacità diplomatiche di Bismarck emersero con particolare evidenza durante il Congresso di Berlino del 1878, riunito per discutere la Questione d’Oriente: il momento di profonda crisi che stava attraversando l’Impero ottomano alimentava sia le rivendicazioni nazionalistiche dei popoli dei Balcani, sia le mire espansionistiche di Austria e Russia. Una nuova scintilla era scoppiata nel 1877 quando bosniaci, serbi e rumeni si erano sollevati contro il dominio turco, la cui violenta repressione portò alla guerra aperta tra Serbia e Impero turco: l’intervento militare della Russia a fianco delle popolazioni slave determinò la sconfitta della Turchia e la formazione del nuovo vastissimo Stato bulgaro, politicamente soggetto all’influenza russa. Tale rafforzamento della Russia provocò l’ostilità di Austria e Inghilterra: Bismarck ebbe la capacità di inserirsi in questa contesa nel ruolo di mediatore, riuscendo poi a indirizzare le soluzioni adottate in modo favorevole alla Germania. Ridimensionò le mire espansionistiche dei Russi preservando l’equilibrio europeo attraverso il puntellamento dell’impero ottomano: tra la Russia e i territori turchi vennero creati tre nuovi Stati indipendenti con la funzione di Stati “cuscinetto” (Romania, Serbia e Montenegro); inoltre per favorire l’espansione austriaca nell’area balcanica (espansione che nei piani di Bismarck era essenziale a contenere la potenza russa e a tenere lontano l’interesse austriaco dall’Europa continentale) egli si adoperò affinché l’amministrazione della Bosnia e dell’Erzegovina venisse affidata al governo di Vienna. Con queste mosse la situazione nell’area balcanica fu temporaneamente stabilizzata. Si trattava comunque di un equilibrio molto delicato che nel giro di qualche decennio avrebbe portato allo scoppio del primo conflitto mondiale. L’età di Bismarck si esaurì con la salita al trono nel 1888 di Guglielmo II, uomo dalla forte personalità che da subito mostrò di voler tenere personalmente le redini del governo licenziando il vecchio statista. Il nuovo Kaiser si fece promotore di un esasperato nazionalismo che si declinava nel cosiddetto pangermanesimo: Guglielmo II, partendo da una concezione di fondo di stampo razzistico, auspicava l’unificazione di tutti i popoli di stirpe tedesca nella Grande Germania che avrebbe dovuto espandersi verso est (a scapito di Russia e Polonia) e dominare in Europa. LA FRANCIA DI NAPOLEONE III E LA TERZA REPUBBLICA L’impero Bonapartista era stato una dittatura mascherata: tutto il potere era concentrato nelle mani dell’imperatore, appoggiato dalla chiesa cattolica e dall’esercito; migliaia di oppositori furono imprigionati o deportati. Napoleone III fu però molto attento allo sviluppo economico : favorì l’industrializzazione, modernizzò la nazione incrementando la rete ferroviaria e realizzando imponenti lavori pubblici, creò istituti di credito che si diffusero rapidamente in tutta la Francia. Sostenne un’aggressiva politica coloniale e si presentò come difensore delle idee progressiste contro le potenze reazionarie. Ma gli insuccessi in politica estera e particolarmente la sconfitta di Sedan determinarono una perdita di consenso e la caduta del Secondo Impero. Durante l’occupazione dei tedeschi a Parigi (nell’ambito del conflitto franco-prussiano), infatti, Napoleone III fu dichiarato decaduto e si formò un governo provvisorio che proclamò la Terza Repubblica la quale intraprese una difesa nazionale a oltranza, ma Parigi, bombardata duramente dai prussiani fu infine costretta ad arrendersi. Le condizioni per la pace imposte alla Francia furono durissime: - La cessione alla Prussia dell’Alsazia e di buona parte della Lorena - Il pagamento di un’ingentissima indennità di guerra A queste notizie il popolo di Parigi insorse, anche per le condizioni di disoccupazione e miseria in cui versava gran parte del popolo, in particolare artigiani e operai che non avevano minimamente usufruito dello sviluppo economico degli anni precedenti. I rivoltosi diedero vita ad un governo popolare con un programma di impronta socialista: la Comune di Parigi; basato su principi come “la terra ai contadini” e “lavoro per tutti”, nel breve tempo che durò (due mesi), questo governo istituì il suffragio universale, il blocco degli affitti, l’istruzione pubblica gratuita e laica, confiscò i beni della Chiesa, sostituì l’esercito permanente con la Guardia nazionale, abolì il lavoro notturno. La comune di Parigi rappresentò un importante esperimento di democrazia diretta: i cittadini non esercitavano il potere per mezzo dei propri rappresentanti (quindi non delegavano!), ma in modo diretto partecipando alle assemblee convocate per assumere le decisioni. I funzionari che dovevano applicare le decisioni assunte collegialmente, furono resi elettivi e continuamente revocabili qualora non agissero in conformità con la volontà assembleare. Il modello di democrazia diretta realizzato dalla Comune suscitò l’entusiasmo dei rivoluzionari di tutta Europa. Marx e Bakunin videro in essa il primo esempio di gestione diretta del potere da parte delle masse e quasi un esempio della futura società socialista. Tali iniziative gettarono nel panico i conservatori che, grazie al controllo dei mezzi di propaganda, presentarono all’opinione pubblica i comunardi come pericolosi delinquenti. Un esercito di oltre 100.000 uomini al comando del generale Mac Mahon pose fine a questo esperimento di autogoverno con una repressione durissima che provocò 20.000 morti e 40.000 arresti. L’IMPERO AUSTRO-UNGARICO Il regime reazionario austriaco non poteva sopravvivere alle disfatte subite in Italia durante la seconda guerra di Indipendenza; venne così varata una nuova Costituzione liberale, ma il governo riformatore di Francesco Giuseppe dovette affrontare una nuova pesante sconfitta nel 1866 inflitta dalla Prussia e nuovi fermenti legati alla complessa compagine multietnica dell’Impero. Così nel 1867 il sovrano decise di dividere l’impero in una duplice monarchia austro-ungarica: nacque l’impero austro-ungarico, frutto di un compromesso raggiunto con i magiari (la componente etnica più numerosa e compatta). I due regni, quello austriaco e quello ungaro, avevano istituzioni governative e parlamenti propri, ma rimanevano legati dalla figura imperiale e da alcuni ministeri comuni come quello degli Esteri, delle Finanze e della Guerra. Questo compromesso deludeva però le altre componenti nazionali presenti nei territori dell’impero, che vedevano ancora una volta sacrificate le proprie esigenze e aspirazioni. LA RUSSIA La Russia, governata dallo zar Nicola I era la nazione europea più popolosa, ma anche la più arretrata: la sua economia era quasi esclusivamente agricola. Il potere era concentrato nelle mani di una minoranza aristocratica e la stragrande maggioranza dei sudditi, composta da contadini e servi della gleba, era esclusa da ogni partecipazione al potere politico. La debolezza della Russia si era manifestata anche in occasione della guerra di Crimea (1856), dove l’alleanza franco-inglese a sostegno dell’impero turco, aveva costretto lo zar a ridimensionare le proprie mire espansionistiche. Nel 1861 il nuovo zar Alessandro II, per porre un freno al malcontento delle masse contadine, abolì la servitù della gleba e promosse importanti riforme in ambito amministrativo, giudiziario, militare ed economico. I contadini, prima servi della gleba, acquistarono la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e contemporaneamente ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano, trasformandosi così in piccoli proprietari. Il tentativo di modernizzare la Russia non ebbe però gli effetti sperati anche perché l’assegnazione delle terre agli ex servi non avvenne con criteri uniformi e fu strutturata in modo tale da salvaguardare le grandi proprietà. Il malcontento delle masse contadine trovò espressione nel populismo (un movimento di protesta politica e culturale, guidato dagli intellettuali, che aspirava ad una modernizzazione basata sulla comunità agraria russa e che esaltava i valori del mondo popolare) o nel movimento guidato da Bakunin, che si opponeva a tutti i valori tradizionali e propugnava l’anarchia. L’ETÀ VITTORIANA IN GRAN BRETAGNA La Gran Bretagna fu uno dei pochi paesi europei rimasto estraneo all’ondata rivoluzionaria del 1848. Durante i primi decenni del Regno della regina Vittoria il principale obbiettivo fu quello di rafforzare la supremazia economica britannica , garantendo l’equilibrio sia all’interno che all’esterno del paese. Modello esemplare di liberismo economico, lo sviluppo britannico fu possibile anche grazie alla creazione di potenti gruppi finanziari che si imposero a livello internazionale nell’ambito commerciale e mercantile. Il lungo regno della regina Vittoria (rimase sul trono dal 1837 al 1901) fu un periodo di prosperità economica, caratterizzato dal generale miglioramento delle condizioni di vita: l’ottimismo e la sensazione di un diffuso benessere rappresentano i tratti tipici dell’età vittoriana insieme al senso del dovere, al culto del lavoro e delle virtù familiari. La Gran Bretagna, alla metà dell’Ottocento, era la più progredita delle nazioni europee: produceva i due terzi del carbone e la metà del ferro di tutto il mondo. Aveva la rete ferroviaria più estesa in relazione al territorio e una flotta mercantile pari alla metà di quella di tutti gli altri paesi europei messi assieme. Aveva un tasso di analfabetismo fra i più bassi nel mondo e aveva le istituzioni politiche più libere d’Europa. Negli anni che vanno dal 1840 in poi vi fu un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare: quel sistema, nato proprio in Gran Bretagna, che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest’ultimo l’arbitro indiscusso della vita politica. Alla corona era affidato un ruolo essenzialmente simbolico di personificazione dell’unità nazionale. Al governo si alternavano i due maggiori partiti politici dei Tories conservatori e dei Whigs liberali: entrambi sostenevano il sistema capitalistico e gli ideali liberali e promossero importanti riforme che ampliavano il diritto di voto, istituivano l’istruzione pubblica e riconoscevano le libertà sindacali. In questi anni fu creato il Commonwealth, una federazione di Stati coloniali sotto la Corona britannica. Per affrontare la crisi economica che colpì l’Europa tra il 1873 e il 1896, l’Inghilterra infatti rilanciò la propria politica imperialista: non intervenne nelle intricate vicende europee (la politica del cosiddetto splendido isolamento), ma attuò un’aggressiva politica nei territori coloniali. LA GUERRA DI SECESSIONE IN AMERICA GLI STATI UNITI NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO Nella seconda metà dell’Ottocento gli Stati Uniti si presentavano divisi in due grandi realtà che corrispondevano geograficamente al Nord e al Sud, ma la cui divisione aveva soprattutto connotati economici, sociali e culturali. Mentre negli Stati del Nord si stava realizzando un rapido ed intenso processo di industrializzazione, negli Stati del Sud dominavano le grandi estensioni agricole delle piantagioni di tabacco, cotone e canna da zucchero. Dal punto di vista economico il nord industrializzato avrebbe voluto una politica di tipo protezionista, perché al riparo delle barriere doganali lo sviluppo dei vari settori industriali sarebbe stato favorito, grazie alla mancanza dell’ostacolo costituito dalla concorrenza europea. All’opposto, ai grandi coltivatori del sud faceva più gioco un’economia improntata ai principi libero-scambisti perché più adatti alle esportazioni di cui essi si avvantaggiavano, soprattutto per quanto riguarda il cotone venduto agli europei. Gli Stati del Nord auspicavano la realizzazione di un modello politico basato su un governo forte e centralizzato (unionisti), mentre gli Stati del Sud prediligevano un modello che favorisse il decentramento e le autonomie dei singoli Stati (confederati). Un’altra questione di cruciale importanza e sulla quale si acuiva la divisione tra nord e sud era quella della schiavitù. Negli stati del sud il lavoro schiavistico era ancora ampiamente utilizzato: nelle grandi piantagioni gli schiavi fornivano una insostituibile manodopera a basso costo e dal grande rendimento produttivo, per questo i proprietari terrieri non erano disposti a cedere su questo punto, nonostante la Costituzione americana fosse improntata ai principi di libertà, uguaglianza e felicità. Il nord dell’industria e della finanza, oltre a vedere nel lavoro schiavistico un aberrante retaggio del passato, aveva tutto l’interesse a far sì che la schiavitù venisse abolita in quanto la sua eliminazione avrebbe comportato una spinta verso la meccanizzazione dell’agricoltura e quindi nuove possibilità di sviluppo per l’industria. Infine, alle realtà produttive del Nord tornava utile la liberazione di una notevole quantità di manodopera (intorno alla metà dell’Ottocento erano presenti circa 4 milioni di schiavi afroamericani nel Sud, a fronte di una popolazione bianca di 6 milioni di abitanti) disponibile per lo sviluppo industriale, che proseguiva impetuoso e che aveva costantemente bisogno di nuova forza-lavoro. Espressione politica degli interessi e del punto di vista degli Stati del Sud era il partito democratico, mentre a rappresentare esigenze e interessi del nord c’era il partito repubblicano. Il partito democratico conobbe però una scissione interna quando, nel 1854, si votò per la legislazione da adottare all’interno di due Stati di nuova formazione (legati alla conquista e alla colonizzazione del Far west da parte dei pionieri americani), il Kansas e il Nebraska: coloro che erano a favore della schiavitù e ritenevano i principi costituzionali di libertà e uguaglianza riguardare solo i bianchi, votarono per la legittimità della schiavitù anche nei nuovi Stati (violando così il compromesso del Missouri del 1820, che stabiliva che la schiavitù era legittima solo nelle aree a Sud del 36° parallelo), mentre i democratici più progressisti si indignarono per quella che costituiva di fatto la produzione di nuova schiavitù e lasciarono il partito. Intanto il dibattito tra abolizionisti e schiavisti si faceva sempre più intenso all’interno della società americana, anche grazie alla pubblicazione del romanzo La capanna dello zio Tom della scrittrice bianca Harriet Beecher Stowe, che fece conoscere a tutti le durissime condizioni di vita e il trattamento degli schiavi afroamericani. Crebbero così la mobilitazione e l’impegno sociale a favore dell’abolizione della schiavitù, il tutto non senza tensioni e atti di violenza registratisi nel Kansas e altrove preludendo lo scoppio della guerra civile. LA GUERRA DI SECESSIONE Le tensioni degenerarono in rivolta quando fu eletto Presidente degli Stati Uniti il repubblicano Abraham Lincoln, nel novembre del 1860. Lincoln era un avvocato di umili origini, proveniente da una famiglia contadina della Virginia e trasferitosi poi a Chicago per l’esercizio della sua professione. Inizialmente Lincoln non aveva sostenuto l’abolizione della schiavitù negli Stati del Sud in cui essa già esisteva; era però convinto che la schiavitù fosse in netto contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza e libertà e riteneva che tali principi, nel tempo dovessero essere affermati con coraggio e decisione. L’elezione di Lincoln era avvertita come una minaccia negli Stati del Sud, soprattutto per la sua forte propensione al protezionismo e al rafforzamento del governo centrale degli Stati Uniti. Il primo Stato a dichiarare la propria secessione dall’Unione fu nel dicembre 1860 la Carolina del sud; seguirono poi altri sei Stati schiavisti: Mississipi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana e Texas. Questi Stati si unirono nella Confederazione degli Stati d’America e ne affidarono la presidenza a Davis Jefferson. Si unirono a loro nel 1861 anche Arkansas, Tennessee, Carolina del nord e Virginia e la capitale fu stabilita a Richmond in Virginia. Sin da subito gli Stati confederati iniziarono a confiscare le proprietà federali presenti nei propri territori, comprese le strutture militari come i forti. Quando attaccarono il presidio militare di Fort Sumter, nei pressi di Charleston, perché il comandante aveva rifiutato di consegnarsi, vi fu la risposta degli Stati del nord ed ebbe inizio la guerra di Secessione o guerra civile americana. Si trattò della prima guerra dell’età industriale, dal momento che per la prima volta vennero impiegate in battaglia le nuove risorse belliche dovute alle innovazioni tecniche (mitragliatrici, cannoni e moschetti di nuova generazione) e i nuovi mezzi di trasporto per spostare truppe e armamenti. Da questo punto di vista gli Stati del nord erano notevolmente avvantaggiati perché il 72% della rete ferroviaria dell’intero paese era dislocata al nord. Inoltre il nord poteva far conto, per gli approvvigionamenti, su un potenziale industriale dieci volte superiore a quello del sud. Per far fronte a questo squilibrio gli Stati del sud dovettero ricorrere alla coscrizione militare obbligatoria di tutti i maschi liberi di età compresa tra i 17 e i 50 anni; nonostante ciò permaneva una considerevole inferiorità numerica rispetto all’esercito nordista, compensata solo dalla grande esperienza dei generali sudisti. Gli Stati del sud, in evidente inferiorità numerica ed economica, non avevano l’obiettivo di conquistare il nord, bensì quello di resistere fino all’esaurimento del nemico per mantenere la propria indipendenza dall’Unione. Essi adottarono perciò una strategia essenzialmente difensiva, volta a mantenere lo status quo, seppure effettuarono qualche attacco diretto a Washington. La guerra si protrasse per oltre due anni senza che nessuna delle due parti riuscisse a prevalere in modo netto. La resistenza del sud indusse allora il Presidente Lincoln a presentare la guerra civile come una doverosa battaglia morale contro la schiavitù; nel 1863 egli proclamò liberi tutti gli schiavi e rese accessibile ai neri l’arruolamento nell’esercito americano. Per la prima volta quindi i neri entrarono a far parte dell’esercito come cittadini americani e la battaglia di Gettysburgh, del luglio 1863, grazie anche al loro importantissimo contributo rappresentò lo scontro decisivo, dopo il quale le forze sudiste furono costrette a ripiegare. Quattro mesi e mezzo dopo la battaglia, Lincoln pronunciò il celebre Discorso di Gettysbugh nella cerimonia di inaugurazione del cimitero di Gettysburgh che ospitava coloro che erano morti nel corso della battaglia. In questo discorso egli si richiamava ai valori della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e sottolineava come nessun uomo che aveva partecipato alla battaglia di Gettysburgh fosse morto invano, perché il suo sacrificio rappresentava un contributo prezioso e indispensabile per il futuro della democrazia americana, il governo del popolo, dal popolo e per il popolo, nel quale si riconoscevano a tutti gli uomini i diritti fondamentali. Infine nel 1865 il Congresso votò il famoso 13° emendamento della Costituzione americana, col quale veniva abolita la schiavitù in tutti gli Stati dell’Unione. Con il 15° emendamento si riconosceva agli afroamericani il diritto di voto. Dopo poco la guerra si concluse con la vittoria dei nordisti. Pochi giorni dopo l’abolizione della schiavitù il presidente Lincoln fu però ucciso da un fanatico sudista. Negli anni successivi alla guerra civile gli Stati del sud dovettero subire un regime di occupazione militare da parte dell’esercito del nord che perdurò fino al 1877. In questo arco di tempo il partito repubblicano mise in atto una serie di riforme volte a realizzare il diritto di cittadinanza americana e il diritto di voto alla popolazione nera. Quando però i nordisti ritirarono le proprie truppe dai territori del sud iniziarono i problemi: facendo riferimento alla superiorità delle leggi dei singoli Stati rispetto a quelle di provenienza federale, gli Stati meridionali realizzarono un vero e proprio regime di segregazione e di discriminazione razziale. In base al principio “uguali ma separati”, in quasi tutti i settori della vita associata, i neri dovettero subire il razzismo dei bianchi, vedendo limitati i propri diritti allo studio, al lavoro e alla libera circolazione: erano infatti esclusi dalle scuole, dai locali pubblici, dai mezzi di trasporto. Nel 1866, inoltre, venne fondato in Tennessee il ku klux klan, un’organizzazione a metà tra una setta segreta e un movimento terroristico e razzista. LO SVILUPPO ECONOMICO AMERICANO A partire dal 1870 gli Stati Uniti conobbero una stagione di rapido e tumultuoso sviluppo economico. Alla base di questa crescita vi furono diverse ragioni: - L’abbondanza di materie prime come carbone, ferro, petrolio, rame, legname ed energia idrica, indispensabile per il funzionamento degli apparati industriali. - La grande abbondanza di manodopera garantita dal continuo afflusso di immigrati dall’Europa. - La presenza di un sistema creditizio diffuso ed efficiente che metteva a disposizione degli imprenditori notevoli capitali da investire. - Gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione tecnologica. La cosiddetta “età dorata” degli Stati Uniti fu improntata ai principi dell’economia liberista che favorì un rapido aumento della produzione e una massiccia concentrazione di capitali in grado di competere con le più progredite potenze europee. In pochi decenni gli Stati Uniti conquistarono il primato assoluto della produzione industriale nel mondo. Un importante contributo a questo sviluppo venne anche dal settore agricolo: la conquista dei vastissimi territori pianeggianti dell’ovest e una sempre più intensa meccanizzazione e specializzazione delle colture potenziò moltissimo l’agricoltura americana, che iniziò a esportare enormi quantità di cereali in tutto il mondo. LA CONQUISTA DEL WEST Tra il 1869 e il 1890 gli Stati Uniti furono protagonisti di una delle più efferate distruzioni etniche della storia: l’annientamento della popolazione dei nativi americani, che da secoli abitava pacificamente le zone del nord America. Dopo la crisi che investì l’economia degli Stati del sud, in seguito alla guerra di secessione, molti cercarono fortuna nelle zone ancora inesplorate della vasta regione americana: erano i pionieri (agricoltori, cercatori d’oro, avventurieri, cacciatori e minatori), i quali si concentrarono nella conquista del Far West (lontano ovest). I pionieri dell’ovest spingevano la frontiera verso la costa occidentale del pacifico, portandovi la propria abitazione, creando lì un’attività lavorativa, costruendo insediamenti, in una parola facendo avanzare verso ovest la civiltà americana. L’occupazione da parte dei pionieri delle terre abitate dalle tribù dei cosiddetti pellerossa, però, finì col trasformarsi in una vera e propria invasione che minacciava lo stile di vita, le tradizioni e i beni di sostentamento dei nativi indiani. Gli americani infatti puntavano al totale controllo dei territori occupati, quegli stessi territori nei quali i pellerossa andavano a caccia, e in tal modo ne minarono le possibilità di sopravvivenza. Nonostante la determinazione con cui combatterono, i nativi americani furono costretti a soccombere di fronte alla superiorità militare dei bianchi. Anche nella guerra delle Black Hills del 1876 (area in cui un precedente accordo stabiliva la permanenza dei Sioux, escludendo queste terre dall’area di interesse della colonizzazione bianca, ma che dopo la scoperta della presenza di giacimenti d’oro divenne invece oggetto della loro sete di conquista) nella quale l’alleanza dei Sioux con i Cheyenne e gli Arapaho capeggiati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto travolse e sconfisse il 25 giugno a Little Bighorn, nel Montana, le truppe del generale americano Custer, non riuscì a modificare le sorti generali del conflitto. Nei territori delle grandi pianure centrali dove furono istituite le riserve indiane, Sioux e Cheyenne furono decimati sia dalle malattie portate dai bianchi (colera, scarlattina e vaiolo) per le quali non avevano anticorpi , sia dalla fame: l’avanzata della “civiltà” con la costruzione di ferrovie privò le tribù locali dei loro territori di caccia e lo sterminio di milioni di bisonti perpetrato dai cacciatori di pelli, sottrasse ai pellerossa la principale fonte di sostentamento. Alla fine del XIX secolo la popolazione nativa indiana era ridotta a circa 250.000 unità. LA SOCIETA’ DI MASSA NELLA BELLE EPOQUE (1870-1914) Scienza, tecnologia e industria tra ‘800 e ‘900 Gli anni della Belle époque sono gli anni a cavallo fra due secoli (‘800 e ‘900) e sono anni caratterizzati da un impetuoso sviluppo reso possibile dalla SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE:  Essa si differenzia dalla prima rivoluzione industriale per l’uso di fonti energetiche innovative, come il petrolio e l’elettricità, e per l’impiego dell’acciaio come materiale da costruzione.  Inoltre la seconda rivoluzione industriale si affermò fuori e dentro tutta l’Europa, e in modo particolare in Germania e negli Stati Uniti, la cui crescita in termini economici fu davvero notevole (supera la Gran Bretagna).  La seconda rivoluzione industriale si basò su un rapporto strettissimo fra scienza, tecnica ed industria ( gli imprenditori investivano parti considerevoli nella ricerca perché avevano ormai compreso che essa era il motore dell’innovazione e sempre più numerosi erano gli scienziati che possedevano quote importanti nella proprietà delle aziende; le loro invenzioni erano quindi orientate verso possibili applicazioni tecniche e perciò verso i prodotti che tramite esse si potevano realizzare e vendere). Tra gli scienziati che realizzarono invenzioni di grande impatto sulla società (perché diventano consumi diffusi) ed il mercato ricordiamo: il tedesco Daimler (automobile e benzina); i fratelli francesi Lumiere (cinematografo); i fratelli statunitensi Wright (aereo); l’italiano Guglielmo Marconi (collegamento radio telefonico); l’italiano Antonio Meucci (telefono, successivamente brevettato dallo scozzese Bell).  Anche la ricerca medica e soprattutto quella farmacologia (grazie al sorprendente sviluppo della chimica) fece notevoli passi avanti (si pensi alla scoperta del bacillo della tubercolosi da parte di Koch e dei vaccini per sconfiggerla, oppure all’introduzione di un farmaco come l’aspirina che rendeva possibile la cura di malattie come la febbre). Se le innovazioni tecniche resero possibili nuove produzioni e una crescita quantitativa di beni da immettere sul mercato, va detto che a questo risultato si giunse anche grazie a nuovi metodi produttivi che trasformarono il sistema della produzione in fabbrica, rendendolo più efficiente e ottimizzando al massimo le sue capacità produttive. Protagonisti di questa trasformazione furono due personaggi che nel corso degli anni ’10 del Novecento seppero portare avanti ed incrociare le proprie proposte garantendo loro una buona affermazione: Taylor e Ford, entrambi statunitensi. TAYLOR fu un ingegnere che scrisse un’opera di fondamentale importanza (The principles of scientific management, 1911) nella quale trovavano un’adeguata esposizione i risultati delle sue ricerche. Egli comprese come, attraverso un’organizzazione scientifica del lavoro produttivo all’interno della fabbrica, fosse possibile eliminare tempi morti e migliorare al massimo la resa produttiva di ogni singolo operaio. In sostanza egli mise a punto un sistema che accentuava la DIVISIONE DEL LAVORO: scomponeva infatti il ciclo produttivo in un numero molto alto di operazioni elementari, ciascuna da compiere entro un tempo prefissato. Ogni operaio doveva ricevere istruzioni precise su pochi e semplicissimi gesti da compiere ripetutamente nel corso della giornata di lavoro. Naturalmente tutto ciò portava ad un’ulteriore accelerazione dei ritmi di lavoro (rispetto a quelli già pressanti delle fabbriche vecchio modello) e alla definitiva spersonalizzazione del lavoro operario che perdeva ogni residua caratteristica del lavoro artigianale. FORD fu un imprenditore e proprietario dell’importante industria automobilistica di Detroit. Egli inventò la CATENA DI MONTAGGIO , un sistema secondo il quale i prodotti che devono essere realizzati, vengono fabbricati attraverso fasi successive che si svolgono lungo un nastro trasportatore che consegna all’operaio la fase di lavoro da eseguire. “Il lavoro va all’operaio anziché essere l’operaio a spostarsi all’interno della fabbrica”. L’operaio quando esplica il suo “pezzo di lavoro” svolge una singola funzione sulla quale ha una precisa ed altissima competenza. Il sistema della catena di montaggio ha consentito un’altissima standardizzazione della qualità del prodotto e una notevole crescita quantitativa, grazie alla quale è stato possibile abbattere i costi di produzione e rendere così accessibile l’acquisto del prodotto a schiere sempre crescenti di CONSUMATORI (è il caso dell’utilitaria Model T che intorno agli anni ’20 sarà alla portata degli stessi operai della fabbrica). I nuovi metodi produttivi che si affermano ampiamente nelle fabbriche consentono di orientare sempre più la produzione verso il consumo di massa: la produzione in serie delle fabbriche è infatti la risposta ad un mercato in continua crescita dove i consumatori sono sempre più numerosi ed iniziano ad essere la quasi totalità della popolazione: la MASSA. Allo sviluppo del consumo di massa contribuirono anche alcuni fattori concomitanti come la crescita dei salari, l’urbanesimo (ingrandirsi delle città) e la pubblicità. L’urbanesimo comportava che all’interno delle città venissero aperti i primi grandi magazzini (antenati dei nostri centri commerciali) che con le loro vetrine colorate e gli scaffali carichi di merci di ogni tipo, costituivano un grande richiamo per i consumatori. La pubblicità, invece, fu il vero e proprio motore dello sviluppo dei consumi. Le prime pubblicità furono affissioni murarie oppure comparivano sulle pagine dei giornali e delle riviste. Con le loro immagini attraenti e con i loro slogan accattivanti si imprimevano nella memoria dei consumatori, orientandone le scelte. Il capitalismo finanziario Se durante la prima rivoluzione industriale erano stati gli imprenditori singoli a investire i propri capitali nell’industria e a dare, così, il via alla costruzione delle prime fabbriche nei settori tessile e metallurgico, nella seconda rivoluzione industriale l’avvio delle nuove attività industriali (chimiche, siderurgiche/elettromeccaniche) fu sempre opera di gruppi di imprenditorie e mai di un singolo: la quantità di capitali necessari per avviare le nuove fabbriche era infatti tale da sopravanzare di molto le capacità del singolo imprenditore. Si cercò quindi, all’interno del mondo dell’impresa, di unire le “forze”, cioè di mettere assieme da un lato i capitali per gli investimenti e dall’altro di condividere i rischi connessi ad imprese di simili dimensioni. Questa tendenza fu in parte sviluppata dal mercato azionario (azioni=quote societarie di un’azienda) con il quale più finanziatori sostenevano, mediante la propria quota l’onere degli investimenti, ma soprattutto fu esercitata dalle BANCHE. Si tratta di quegli istituti di credito che divennero i maggiori investitori delle imprese industriali: raccogliendo grandi quantità di denaro grazie ai piccoli e medi risparmiatori che depositavano in banca, erano in grado di elargire le grandi somme necessarie agli investimenti industriali. Alcune banche sceglievano di investire attraverso l’acquisto di azioni: compravano quote importanti dell’azienda diventanto così azionisti di primo piano o di maggioranza. Le banche però, interessate al buon utilizzo dei capitali (derivanti per lo più dai propri prestiti) cercavano di controllare ed orientare le scelte delle aziende, e lo facevano piazzando i propri uomini (funzionari) all’interno dei consigli di amministrazione, di qui il nome di CAPITALISMO FINANZIARIO (definizione che ci permette di comprendere la commistione, lo stretto intreccio fra banca ed impresa che caratterizzò il capitalismo di fine ‘800 e del ‘900). Altra caratteristica importante di questa nuova fase del capitalismo è quella della tendenza alla concentrazione (sempre nell’ottica di unire gli sforzi, condividere rischi o meglio eliminarli del tutto mediante l’eliminazione della concorrenza). Si uniscono quindi diverse imprese operanti nel medesimo settore per accordarsi sulla qualità standard e sui prezzi del prodotto, al fine di controllare il mercato assicurandosene una determinata fetta ed eliminando la concorrenza. Tali unioni di imprese vennero effettuate mediante scalate, cioè acquisizioni e fusioni che portarono alla creazione di veri e propri colossi industriali in grado di controllare il mercato in regime di monopolio. La concentrazione industriale, ossia la formazione dei cosiddetti trust e cartelli, violava però uno dei principi fondamentali del liberismo: quello della LIBERA CONCORRENZA a danno sia dell’iniziativa individuale, sia dei consumatori che non hanno più la possibilità di scegliere all’interno di un’offerta diversificata. Proprio per ristabilire le condizioni del libero mercato i governi di vari paesi tra fine ‘800 e inizi ‘900 vararono delle misure di legge per evitare che le grandi concentrazioni alterassero il mercato (LEGGI ANTI-TRUST); nonostante tali misure, la tendenza alla concentrazione è rimasta una caratteristica significativa che ancora oggi connota il capitalismo finanziario. Protezionismo e capitalismo di Stato Sebbene la Seconda Rivoluzione Industriale esplicò il proprio potenziale produttivo tra il 1870 e il 1916 sappiamo che gli anni tra il 1873 e il 1896, furono in Europa anni di crisi (grande depressione) e che solo al termine di questo periodo si ebbe un dispiegamento pieno del potenziale produttivo delle nuove industrie. Per far fronte alle difficoltà della crisi i governi adottarono, anche sulla base delle pressioni esercitate dai grandi capitalisti, delle politiche PROTEZIONISTE aumentando i dazi doganali sulle merci provenienti dall’estero per scoraggiare le importazioni (lo fecero tutti i paesi ad eccezione del Regno Unito). Grazie a questa politica (anch’essa in contraddizione con il principio del libero mercato e dello Stato che si astiene da qualsiasi intervento in economia) l’industria nazionale poté serenamente svilupparsi all’interno di ogni paese senza temere i rischi di una concorrenza estera agguerrita. Lo Stato assunse così un ruolo regolatore: esso intervenne non solo con le politiche daziarie ma si fece sostenitore attivo dello sviluppo industriale nazionale sia mediante una partecipazione significativa nelle quote di aziende che operavano in settori strategici, sia mediante il sistema delle commesse statali (lo Stato diviene acquirente dei prodotti industriali e ne commissiona perciò la produzione, assicurando all’impresa un proficuo e affidabile mercato), infine mediante l’iniziativa statale nel settore delle infrastrutture e dei servizi. Lo Stato regolatore inaugura la cosiddetta “economia mista” dove impresa privata e iniziativa statale si intrecciano e cooperano per lo sviluppo nazionale.  La società di massa Gli anni della Belle époque, caratterizzati da un’impetuosa crescita economica e da un diffuso ottimismo nel sicuro e inarrestabile cammino verso il progresso della società umana, sono anche gli anni in cui emerge sulla scena sociale politica ed economica un nuovo soggetto: la MASSA. (Si intende per massa la popolazione nella sua totalità e dunque si fa un riferimento diretto ai grandi numeri). Fattori che resero la massa sempre più protagonista dei processi sociali, economici e politici, furono senza dubbio l’incremento demografico (tra ‘800 e ‘900 la popolazione europea risultò più che raddoppiata), la crescita delle città (agli inizi dell’800 le città europee con più di 100.000 abitanti erano solo 17, agli inizi del ‘900 erano ben 103!), l’affermarsi della società industriale con la sua produzione in serie orientata proprio in funzione dei consumi di massa e soprattutto il processo di DEMOCRATIZZAZIONE che tutti i paesi europei stavano sviluppando: si pensi che tra il 1848 e il 1920 si raggiunse in tutti i principali paesi il SUFFRAGIO UNIVERSALE MASCHILE e tra il 1906 e il 1946 si ottenne il SUFFRAGIO UNIVERSALE FEMMINILE. A questi fattori va poi aggiunto il ruolo fondamentale dell’istruzione che diventa (quella elementare) obbligatoria nella seconda metà dell’800 in tutti i principali paesi europei e che fornì gli strumenti indispensabili alla popolazione per poter leggere e comprendere, quindi per la circolazione delle idee e per la partecipazione di tutti al dibattito politico. E’ in questo contesto che emergono due classi sociali ormai protagoniste dei principali processi economici e politici, alle quali guardarono le nuove strutture politiche del ‘900 (i partiti). Le due classi sociali sono la borghesia e il proletariato. La BORGHESIA era già stata protagonista delle principali trasformazioni economiche del ‘700 e attrice politica fondamentale dell’800; riuscì alle soglie del ‘900 a scalzare l’aristocrazia in tutti i principali posti della direzione politica (in primo luogo parlamenti/istituzioni locali/amministrazioni pubbliche etc.) e manovrava con assoluta padronanza le leve del potere economico. Tra la fine dell’800 e il ‘900 la borghesia oltre a crescere complessivamente di numero, si era ulteriormente stratificata al proprio interno. Era infatti possibile riconoscere un’alta borghesia (finanza e impresa) una media borghesia (piccola impresa e mondo delle professioni) e una piccola borghesia (ceto impiegatizio). La borghesia fu la classe sociale alla base dell’imponente sviluppo del settore TERZIARIO (indispensabile in una società sempre più numerosa e complessa nella quale era necessaria una gestione burocratica dei vari aspetti della vita personale e pubblica). Il PROLETARIATO crebbe numericamente sotto la spinta della prima e della seconda rivoluzione industriale. Questa classe sociale matura una sempre maggiore consapevolezza delle proprie condizioni di vita e di lavoro e inizia ad organizzarsi in vista del raggiungimento di obiettivi politici e sociali ritenuti fondamentali per la propria emancipazione. Decisiva in tal senso l’opera di analisi politica e di organizzazione della classe operaia svolta da Marx ed Engels, i quali promossero la Prima Internazionale nel 1864 e la Seconda Internazionale nel 1889, come strumento per coordinare le scelte e i metodi di lotta del movimento operaio europeo. Si svilupparono inoltre le organizzazioni dei lavoratori (i SINDACATI) che ponevano le principali rivendicazioni in materia salariale, di orari di lavoro, di sicurezza sul lavoro e di previdenza. Nacquero ad esempio, in questi anni, la “centrale dei sindacati liberi tedeschi” (1890), la CGT francese (1895) e la CGIL italiana (1906). Il proletariato seppe organizzarsi anche dal punto di vista politico mediante la formazione dei PARTITI-SOCIALISTI: 1875 partito socialdemocratico tedesco; 1879 partito socialista spagnolo; 1888 partito socialista austriaco; 1889 partito socialista svedese; 1895 partito socialista italiano; 1898 partito socialista russo. Tali partiti affrontarono temi politici come quello dell’assistenza sociale o Welfare cercando di ottenere una legislazione sociale favorevole ai lavoratori. Centrale fu la battaglia per il DIRITTO ALLO SCIOPERO. In generale sia la borghesia liberale, sia il proletariato lottarono per l’ampliamento dei diritti politici. In primo luogo per il DIRITTO DI VOTO con il quale si cercò di eliminare progressivamente quelle barriere (sia censitarie, sia di requisiti relativi al livello di istruzione) che escludevano parte della popolazione dal diritto di scegliere i propri rappresentanti. Fondamentale in questi anni fu la lotta dei movimenti femminili per la conquista del diritto di voto (che però arrivò quasi ovunque più tardi rispetto al suffragio universale maschile). Primo fra questi movimenti fu quello delle SUFFRAGETTE, fondato nel 1902 nel Regno Unito sotto la guida di Emmeline Pankhurst, le quali rivendicavano un ruolo attivo delle donne nella vita politica e sociale. Esse si espressero mediante marce politiche e scioperi della fame, riuscendo a porre la questione del voto e dell’emancipazione all’attenzione dell’opinione pubblica. I partiti di massa Se la massa divenne all’inizio del ‘900 il nuovo soggetto protagonista della vita sociale e politica, tale protagonismo si espresse mediante le nuove organizzazioni politiche di massa: i PARTITI. Per tutto l’800 la pratica politica era rimasta appannaggio di ristrette élite di notabili che agivano mediante la formazione di COMITATI ELETTORALI e che, dopo la scadenza elettorale, operavano all’interno dei parlamenti senza preoccuparsi di costruire un legame fra eletti ed elettori, fra rappresentanti e rappresentati (i quali erano solo ancora una piccola parte della società dal momento che vigeva il suffragio censitario). Dal momento in cui, grazie al suffragio universale, la massa entra in scena, ci si preoccupa di organizzarla e soprattutto di costruire un legame fra i parlamentari eletti e gli elettori che li hanno votati, in modo tale che vi sia una reale rappresentanza. I partiti politici svolsero proprio questo compito: essi organizzarono ed inquadrarono le masse intorno a dei PROGRAMMI POLITICI dagli obbiettivi chiari ed espliciti, con tanto di slogan e parole d’ordine. Avevano strutture articolate in grado di radicarsi sul territorio mediante le sezioni locali, all’interno delle quali si riunivano gli iscritti di un dato territorio al fine di discutere le principali questioni politiche. Il loro parere era poi recepito ed elaborato dai gruppi dirigenti incaricati di portare avanti l’azione politica all’interno delle istituzioni. Le grandi migrazioni L’importante crescita demografica degli anni a cavallo fra i due secoli e la contemporanea distribuzione ineguale della ricchezza e delle opportunità che lo sviluppo economico mise a disposizione, fu alla base del fenomeno delle grandi migrazioni negli anni centrali dell’800 (13 milioni di europei fra il 1840 e il 1880, soprattutto inglesi, irlandesi e tedeschi) e negli anni a cavallo fra i due secoli (fra il 1890 ed il 1914, 900 mila persone all’anno lasciavano il proprio paese d’origine, soprattutto italiani ed europei orientali e meridionali). La motivazione fondamentale che spinse un così alto numero di persone ad emigrare era la ricerca di un lavoro e di un reddito. La destinazione principale furono gli USA, vera e propria base del “sogno” e dell’ opportunità di una vita più florida. Si calcola che complessivamente dal 1820 al 1914 ben 48 milioni di europei hanno abbandonato i propri paesi d’origine. L’attività lavorativa degli emigrati fu di fondamentale importanza per buona parte della popolazione contadina europea che non di rado riuscì a sopravvivere e qualche volta anche a migliorare le proprie condizioni di vita grazie alle rimesse (soldi inviati dai familiari). Gli USA cominciarono in questo periodo ad attivare politiche di controllo sui flussi migratori. Chi desiderava entrare, giungeva in primo luogo ad Ellis Island, dove veniva fermato per un periodo di quaranta giorni (quarantena) al fine di accertarne le condizioni igenico-sanitarie, giuridiche ed anagrafiche. L’ETÀ DELL’IMPERIALISMO Tra la fine del Settecento e durante tutto il corso dell’Ottocento, l’Europa fu protagonista di un notevole sviluppo economico che si manifestò nella prima e nella seconda rivoluzione industriale. Le nuove scoperte tecniche e scientifiche che si svilupparono prima in Inghilterra e in seguito nel resto del continente europeo e negli Stati Uniti, portarono la società a vivere un periodo di progresso che rivoluzionò sia il mondo produttivo sia la vita quotidiana di milioni di persone. Questa età del progresso tecnico dal punto di vista economico causò un vertiginoso aumento dei guadagni e delle possibilità e dal punto di vista organizzativo fece nascere l’ esigenza di una massiccia trasformazione degli apparati industriali. Il modello della piccola fabbrica infatti non era più in grado di sostenere le esigenze di una produzione sempre crescente che richiedeva forme organizzative in grado di battere la concorrenza, ridurre i costi e aumentare i profitti. Per questo motivo verso la fine dell’Ottocento si assistette ad una concentrazione delle attività produttive nelle mani di poche ma grandissime imprese in grado di far fronte alle nuove richieste di mercato e ridurre al minimo la concorrenza. L’ espansione della produzione industriale portò all’ ampliamento dei mercati che da nazionali si estesero a livello continentale e intercontinentale. Proprio il tentativo di conquistare nuovi mercati costituì un motivo di scontro e di accesa rivalità tra le maggiori nazioni europee. L’ultimo trentennio dell’ Ottocento è infatti caratterizzato da una concorrenza agguerrita tra i principali paesi europei per la conquista e la colonizzazione di nuovi territori al di fuori del vecchio continente e per lo sfruttamento degli stessi dal punto di vista commerciale. Il rilancio coloniale che ebbe luogo tra il 1870 e il 1914 ebbe però caratteristiche e modalità diverse rispetto al colonialismo del passato e venne chiamato dagli storici imperialismo. A differenza del colonialismo, interessato al controllo di alcune particolari zone per il loro interesse strategico e commerciale, l’imperialismo puntava invece alla conquista e al dominio di intere regioni, indipendentemente dal grande o piccolo vantaggio economico. Inoltre mentre il colonialismo affidava la gestione economica dei territori conquistati alle grandi compagnie commerciali, l’imperialismo implicava un controllo politico e militare che impegnava direttamente i governi. La gara imperialistica tra le nazioni europee fu in grado di conquistare in poco più di quaranta anni un territorio complessivo di circa 29 milioni di chilometri quadrati: un quinto delle terre del globo! Le motivazioni che portarono alla spartizione coloniale del pianeta furono complesse e di diversa natura. Dal punto di vista economico i territori coloniali rappresentavano sbocchi commerciali per i beni in sovrapproduzione; le colonie inoltre fornivano a prezzi molto bassi quelle risorse naturali e quelle materie prime di cui le industrie europee avevano grande bisogno (piombo, stagno e rame). Infine le colonie extraeuropee permettevano alle nazioni europee di investire i capitali in eccesso. Altrettanto importanti furono le ragioni di natura politica. Alla fine dell’ Ottocento pr

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