CRESCERE AL PLURALE Esonero Pedagogia Interculturale PDF
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Questo documento esplora il concetto di infanzia da una prospettiva interculturale, analizzando la letteratura sulle immagini d'infanzia e i contesti educativi in cambiamento. Il testo si concentra sull'importanza di considerare la molteplicità dei modi di essere bambini e di comprendere i diversi contesti culturali che influenzano lo sviluppo infantile. Infine, si evidenzia la necessità di una ricerca critica sull'infanzia, per evitare interpretazioni etnocentriche.
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CRESCERE AL PLURALE esonero pedagogia interculturale - INTRODUZIONE dialogo interculturale: inter-culturale perché entra in relazione con una pluralità di soggetti sul campo, con ricercatori nazionali e internazionali, con molteplici termini e modi di definire l’infanzia. Prima parte del test...
CRESCERE AL PLURALE esonero pedagogia interculturale - INTRODUZIONE dialogo interculturale: inter-culturale perché entra in relazione con una pluralità di soggetti sul campo, con ricercatori nazionali e internazionali, con molteplici termini e modi di definire l’infanzia. Prima parte del testo: analizza la letteratura sulle immagini d’infanzia e sui contesti educativi 0-6 in cambiamento, a partire da 3 domande: Che cosa significa essere bambini? Come pensa la società i bambini e la loro educazione? Come studiare le esperienze dei bambini nei contesti educativi? Il fine è ampliare la visuale di che cosa significa promuovere i diritti di tutti i bambini nelle nostre società multiculturali. Seconda parte del testo: risultati di una ricerca educativa svolta nel nido d’infanzia con il metodo etnografico. Come rispondono i servizi educativi alla presenza di bambini con differente background culturale? Come è vissuto questo incontro da coloro che vi lavorano? Come cambia l’identità delle persone coinvolte? Si presenta, quindi, un quadro educativo in movimento dove ascoltare e fare spazio alla prospettiva degli altri è un mezzo per riconoscere la diversità e un impegno per coltivare l’equità e la giustizia sociale. IN DIALOGO CON LA LETTERATURA - UNA MOLTEPLICITA’ DI MODI DI ESSERE BAMBINI VERSO UNA PROSPETTIVA INTERCULTURALE Che cosa significa essere bambini? Se pensiamo ai bambini si apre una gamma di situazione e possibilità. I bambini più che essere un oggetto precostruito di studio, sembrano un soggetto da indagare. Può essere utile partire dai bambini concreti nei contesti reali per approdare solo dopo a un’idea di infanzia. Ciò permette di rendere la nostra visione più comprensiva della molteplicità di modi di essere bambini e ci si sfida a considerare le prospettive alternative come opportunità per far luce sulla domanda iniziale. La scoperta delle diversità nell'infanzia è un'idea che avviene nel XX secolo, In cui si sono sviluppate ricerche che interpretano l'esperienza infantile in diverse parti del mondo, evidenziando come la vita quotidiana dei bambini, l'alimentazione, la lingua e l'espressione emotiva potessero essere profondamente diverse da quelle che caratterizzavano le società occidentali. Solo attraverso le conoscenze tratte dalle ricerche antropologiche e transculturali sull’infanzia si sono iniziate ad affrontare intenzionalmente alcune questioni, quali il rapporto fra ereditarietà e ambiente, l’acquisizione del linguaggio, i significati culturali e l’identità culturale, le modalità di apprendimento. Dagli anni Venti del Novecento, l’antropologia dell’infanzia ha contribuito a dimostrare le diversità delle vie normative di sviluppo per i bambini all’interno della popolazione umana, fornendo una comprensione contestualizzata della loro vita quotidiana e problematizzando l’idea dell’esistenza di standard universali per la crescita. Nel 1928 Mead pubblicò Coming of Age in Samoa, attraverso il quale la ricercatrice si immerse nella vita delle popolazioni samoane per comprendere la vita dei bambini in queste isole del Pacifico e ne restituì un quadro composito in grado di far vacillare le generalizzazioni universali dello sviluppo infantile basate solo sulla cultura occidentale. Descriveva come i bambini samoani vivessero inseriti in un’estesa rete di parentele e 1 fossero trattati come piccoli adulti capaci di compiere scelte e di svolgere compiti seri, avanzando così l’ipotesi dell’esistenza di una variabile di modelli e di comportamenti educativi. Queste ricerche contribuirono a creare nuovi quadri teorici e interpretativi che portavano alla luce come una caratteristica della specie umana fosse proprio l’esistenza di una molteplicità di modelli ottimali. “Gli esseri umani si distinguono per la capacità di creare modi alternativi di crescere i bambini”; questi modi, convinzioni e comportamenti prendono il nome di ideologie sull’allevamento dei bambini, e comprendono le regole e pratiche di cura, le credenze sui bambini piccoli, le credenze sul processo di sviluppo. “I problemi sono universali, ma le soluzioni essendo umane sono particolari”. Mead aveva avanzato l’idea che le diverse popolazioni del mondo potessero costruire un grande laboratorio dello sviluppo infantile, nel quale ogni cultura rappresenta un insieme diverso di condizioni sperimentali per l’allevamento dei bambini. La ricercatrice immaginava di poter rispondere alle questioni relative all’infanzia vedendo nella diversità culturale una fonte di informazioni. Ricerca rilevante per due motivi: 1) diffusa consapevolezza che le molte domande su come educare i bambini cambiano nel tempo e sono culturalmente situate 2) le stesse risposte non si possono generalizzare e considerare universali Le modalità di cura e le aspettative riguardanti i bambini acquistano significato solo se si tiene in considerazione il contesto culturale, i ruoli e le istituzioni che organizzano la vita delle persone e permettono di essere considerati adulti. Lo sviluppo umano va quindi inteso come un processo culturale, ossia implica una partecipazione degli individui a comunità culturali, e può essere compreso solo alla luce delle pratiche culturali e delle condizioni di tali comunità, che sono anch’esse in continua evoluzione. L’esperienza infantile riflette i copioni culturali dominanti per quanto riguarda le interazioni e i comportamenti sociali, il modo di esprimere le emozioni o di agire, ma al tempo stesso è soggetta a processi di trasformazione. È significativamente diverso essere bambini nelle diverse popolazioni del mondo e in diversi periodi storici. Da un lato la necessità di studiare l’infanzia a partire dai bambini nei contesti reali (living material), dall’altro aiuta a prendere le distanze da una prospettiva etnocentrica per abbracciare una prospettiva pluralista dello sviluppo dei bambini, che può offrire oggi maggiori opportunità di riflessione sull’infanzia in chiave interculturale. Mead e Wolfenstein argomentano che ogni periodo storico ha sviluppato una propria versione di che cosa significa essere bambini, ma che tale raffigurazione frequentemente assomigliasse più a un soggetto mitologico che a un oggetto di un'indagine articolata. La ricerca antropologica associava all'infanzia a una cultura primitiva, interpretandola in un ciclo vitale e di sviluppo dell'individuo che andava dallo stadio di una mentalità infantile “magica” ha una mentalità adulta “razionale”. L’apporto del modello psicosociale di Whiting e la teoria ecologica di Bronfenbrenner contribuirono a raccogliere e a definire quegli orientamenti che esaminavano il rapporto fra sviluppo individuale e processi culturali. Questi autori affermavano che lo sviluppo del bambino era comprensibile solo a partire dall'ambiente, dalla storia e dal contesto di apprendimento, e ribadivano che lo studio dell'individuo dovesse avvenire all'interno delle varie situazioni ambientali in cui questi vive. Gli aspetti culturali dell'apprendimento e delle interazioni vennero poi ulteriormente rielaborati da Vygotskij nella sua teoria socio-culturale, che proponeva di studiare lo sviluppo infantile in rapporto alle opportunità di apprendimento che si presentavano in un determinato contesto storico e culturale. 2 Anche la ricerca storica prende le distanze dall'idea di infanzia come stato naturale, sostenendo come essa sia una convenzione sociale, frutto di un'esperienza storica la cui interpretazione va ricondotta a uno specifico contesto spaziale e temporale. Aries è stato fra i primi storici a parlare di infanzia come costruzione sociale. Lui esamina la variabilità dell'esperienza di vita del bambino nei diversi periodi storici, affermando che la percezione moderna dell'infanzia, così come delle competenze genitoriali, non sia sempre esistita così come veniva allora proposta. E’ solo alla fine del ventunesimo secolo che si inizia a riconoscere il “sentimento dell'infanzia", inteso come coscienza di quelle caratteristiche peculiari che distinguono il bambino dall'adulto e che trasformano un atteggiamento di quest'ultimo verso i piccoli. De Mause evidenzia che la storia dell'infanzia è stata caratterizzata dall'evoluzione del rapporto adulti-bambini, segnato da tappe quali infaticidio, abbandono, ambivalenza, istruzione e socializzazione, indicando come l'approccio all'infanzia sia il frutto di particolari risposte date nei diversi periodi storici e come la consapevolezza dei bambini come soggetti di cure di diritti sia una discussione recente. Lo Stato si è progressivamente interessato ai bambini e questa responsabilità si è tradotta nelle politiche di scolarizzazione, nello sviluppo della pediatria e della psicologia infantile, nel riconoscimento della famiglia come istituzione, così come del ruolo della medicalizzazione o delle direzioni sanzionatorie. Questo processo risponde sia una modificata sensibilità nei confronti dell'infanzia, sia a un'esigenza di controllare, di proteggere o persino di contenere l'infanzia stessa. Infatti ciò ha significato anche l'imposizione di un complesso di regole esplicite sulle modalità della sua formazione. Più tardi le ricerche sociologiche svilupparono lo studio dell'infanzia attraverso la prospettiva socio-costruttivista. Questa pone l'accento sulle differenti situazioni e circostanze in cui la vita infantile viene esperita e rifiuta di considerare il bambino come un tipo ideale. Tale corrente prese anche il nome di New Child sociology: una prospettiva teorica che esplora i modi in cui la realtà è negoziata nella vita quotidiana attraverso le interazioni con le persone e con i discorsi disponibili. Secondo questa visione l'immagine di bambino è socialmente costruita dai "discorsi" e dalle rappresentazioni che circolano in un determinato periodo storico e culturale. L'approccio sociologico ha dato un apporto significativo allo sviluppo del concetto di bambino come soggetto attivo e allo studio degli spazi sociali occupati dai bambini. Ogni rappresentazione d'infanzia mette in evidenza che la questione “che cosa significa essere bambini” apre un panorama poliedrico e dinamico che richiede di essere indagato criticamente nell'ambito pedagogico. Il rischio è quello di ricadere in un'idea d'infanzia come categoria assoluta e finire per parlare per studiare i bambini come oggetti di ricerca già costituiti. Bisogna interrogarsi Sul modo in cui l'infanzia stessa viene concepita, come categoria naturale o sociale, età della vita, paradigma ideale o contromodello, e come ne venga pensato il passaggio all'età adulta e della maturità. Una delle grandi sfide della ricerca educativa sull'infanzia è quella di distinguere il bambino dall'immagine che ha elaborato una determinata epoca, un gruppo sociale o l'adulto che se ne occupa. Ogni studio sull'infanzia parte da un paradigma che evidenzia una particolare comprensione dell'infanzia e dell'apprendimento e genera particolari problemi, domande e metodi. Secondo Dahlberg, Moss e Pence, il fine è incoraggiare la ricerca critica e un dialogo su tali immagini e significati nell'ottica di “continuare una conversazione, piuttosto che tentare di scoprire la verità”. Questi autori mettono a fuoco alcune figure d'infanzia che hanno attraversato la modernità e che ricorsivamente si presentano nel dibattito pedagogico. Queste figure delineano bambini come soggetti autonomi, stabili e centrati, dipendenti dal 3 contesto e dalle relazioni, ascrivibili in un mondo che si presupponeva ordinato, governato da principi universali e conoscibili. Quattro sono le principali figure d’infanzia che si susseguono: 1) La prima è quella del “bambino come conoscenza, identità e riproduttore di cultura”. Il piccolo è interpretato come un essere privo di informazioni e di condizionamento alla nascita, una tabula rasa da riempire di tutte quelle conoscenze, quelle abilità e quei valori culturali socialmente predefiniti e pronti per essere trasmessi. si potrebbe chiamare il bambino di Locke. La sfida educativa consiste nel metterlo nelle condizioni di essere “pronto ad apprendere” e “pronto per la scuola” in modo da prepararsi per gli stadi successivi della vita considerati più importanti di cui l'infanzia è il primo gradino. E’ una visione funzionale dell'infanzia che racchiude l'idea di riprodurre i valori dominanti della società e rispondere alle esigenze economiche del sistema. 2) L'immagine di un "bambino innocente nell'età dell'oro della vita" è altrettanto potente. Rimanda a un’età priva di corruzione, libera. Richiama il bambino di Rousseau e sollecita nell’attività pedagogica l'importanza di esprimersi attraverso il gioco libero, il lavoro creativo e il contatto con la natura. 3) La terza interpretazione vede il “bambino come essere naturale" o "bambino scientifico", il cui sviluppo è inteso come un processo innato, biologicamente determinato e scandito da leggi universali e da fasi standard. Ricorda il bambino di Piaget, una visione di bambino astratto e decontestualizzato, la cui crescita può essere ricondotta a categorie separate e misurabili. 4) L'ultima immagine è quella del "bambino come fattore di offerte del mercato del lavoro", un soggetto con cui bisogna fare i conti per assicurare un'offerta di lavoro adeguata e l'utilizzo efficiente di risorse umane nella società. In particolare, questo coinvolge un ripensamento del ruolo della madre e l'idea che essa sia biologicamente determinata per favorire la cura del bambino. L'educazione e la cura del bambino vengono così trattate in termini di investimento economico e di benefici occupazionali per gli adulti. Secondo questi autori, tutte queste quattro interpretazioni hanno in comune il fatto di produrre un bambino povero, passivo e non capace, dipendente dagli adulti e isolato dal contesto, dove l'educazione ha un valore fondativo per ciò che avverrà nel futuro. A queste immagini egli contrappone il “bambino come co-costruttore di conoscenza, identità e cultura”. Riconosce la necessità di muovere da un concetto universale e precostituito di bambino verso costruzioni sociali multiple di infanzia. Spinge ad aprirsi a più possibilità di infanzia e con esse a più idee di educazione e di cura dei bambini. Prendendo le mosse da Malaguzzi, Mosse sviluppa l'idea di un bambino ricco, attivo e competente, impaziente di misurarsi con il mondo che negozia la propria identità in un processo permanente all'interno dei contesti. Ciò implica saper accogliere una molteplicità di prospettive di significati sull'essere bambini, in cui non è possibile privilegiare una posizione rispetto a un'altra. Lo stesso Mosse esorta a non ridurre la complessità e la diversità di vita e di apprendimento dei bambini. E’ necessario accogliere una rappresentazione di infanzia ricca, e sostenere la ricerca di vie molteplici e alternative in un processo collettivo e democratico di costruzione di significato con i bambini, le loro famiglie e la comunità, per rispondere alle esigenze e agli interessi dei diversi bambini che di volta in volta ci si trova di fronte. Robinson e Jones Diaz mettono al centro del dibattito la questione della giustizia sociale nell'educazione per la prima infanzia. I due autori argomentano che l'approccio universalistico applicato ai bambini è altamente problematico perché nega le varie e multiple realtà della loro vita. I bambini 4 sono posizionati differentemente nelle classi sociali, differiscono per età, per genere, per gruppo etnico. I bambini tendenzialmente fanno esperienza della loro identità in un modo molteplice è spesso contraddittorio, riflettendo le differenze e le problematiche della società. Esistono una molteplicità di esperienze e di differenti letture di che cosa significa essere bambini, che cambiano a seconda del punto di vista e della posizione da cui si guarda. La percezione attuale dei bambini come cittadini attivi e capaci di partecipare e di dare loro contributo alla costruzione collettiva di significati con le famiglie e con la comunità in una pratica democratica potrebbe essere adombrata dalle comprensioni e dalla costruzione tradizionale dominanti e privilegiare nel dibattito solo alcune questioni della Giustizia sociale escludendone altre. Si potrebbe cadere in una nuova forma di essenzialismo dell'infanzia, per cui certe caratteristiche diventano la rappresentazione naturalizzata e normalizzata dei gruppi, definendo e fissando chi e cosa sono; è altresì la tendenza a vedere solo un aspetto dell'identità del soggetto e considerarla come rappresentativa di tutto l'individuo. Si tratta, pertanto, di promuovere una comprensione teoretica dell'infanzia, della diversità e della differenza e riconoscere anche ai più piccoli la competenza di muoversi in più spazi culturali e di negoziare differenti identità nei contesti reali e complessi di crescita. Nelle ultime decadi, la globalizzazione e i flussi migratori hanno riportato con forza sulla scena la questione della diversità. Le differenti dimensioni culturali, etniche, religiose e linguistiche si intrecciano rendendo le società contemporanea “super diverse", in cui si attivano nuovi incontri, conflitti e varie risposte politiche e sociali. L'alterità è divenuta parte della quotidianità di adulti e bambini. Come sostiene Cambi, “in un mondo globalizzato dobbiamo pensarci al plurale”. La cospicua presenza di bambini con background migratorio nei contesti educativi e scolastici, porta le diversità ogni giorno all'attenzione dei professionisti e dei ricercatori. Questo fenomeno interroga i tradizionali modi di approcciarsi all'infanzia e sollecita la pedagogia a chiedersi cosa voglia dire oggi essere bambini nei contesti multiculturali e quali sono i diritti di questi bambini. Più che mai ora la pedagogia è chiamata a farsi il luogo di riflessione critica e di messa in discussione di quelle categorie che la possono ridurre a una visione bancaria. Come sostiene Milani, l'impegno educativo si costruisce nella prospettiva di una pedagogia militante che non punta alla conformazione e alla riproduzione di modelli, ma ci deve abilitare a scegliere e anche a dissentire. Riconoscere l'esistenza di altri modi e mondi all'interno delle attuali società riveste un potenziale pedagogico importante. Non è tanto una questione di sommare altre opzioni educative a quelle esistenti, quanto farsi provocare dall'incontro con l'altro per mantenere un dibattito aperto su qual è la propria immagine di infanzia e su quale educazione promuovere per la società che si vuole realizzare. La direzione che si propone è adottare il relativismo come scelta metodologica per affrontare le questioni educative. Ciò significa da un lato cercare di comprendere i meccanismi sociali, politici e culturali che stanno dietro a certe immagini di infanzia. Dall'altro, invita ad allargare la propria visione a diversi modi di interpretare e agire l'educazione dei bambini, sviluppando la capacità di leggere in modi differenti la medesima situazione ed immaginare così nuove possibilità di apprendimento, di conoscenza e di crescita, magari prima impensate. Accettare tale sfida e pedagogicamente interessante per almeno due ragioni: Bove scrive: 1) Costituisce una risposta formativa all'incontro/scontro con l'alterità e alle sfide educative che esso porta con sé. 5 2) Ci costringe a spostare l'attenzione dalle nostre incertezze educative alla rilettura critica delle nostre pratiche attraverso gli occhi di chi ci osserva da lontano e vede in noi cose che noi non riusciamo più a vedere. “Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rilevatore” cit. Geertz. In questi termini la diversità diventa davvero un'opportunità educativa straordinaria. Il confronto con altre visioni può essere motivo di apprendimento all'auto cambiamento, come afferma Hoffman, vale a dire porre se stessi e gli altri in uno spazio privilegiato di apprendimento, finalizzato non solo ad acquisire informazioni o rappresentarsi agli altri, ma riconoscere e accettare il cambiamento che avviene in se stessi durante l'incontro. Il potenziale interculturale dell'incontro sta nell'accrescere la possibilità di conoscere gli altri ed interpretare i propri atteggiamenti culturali, divenendo consapevoli di certi pregiudizi e preconcetti che sottendono al modo in cui si agisce e che perpetuano una certa visione d'infanzia. Considerare le proprie concezioni dal punto di vista culturale permette di superare alcune tendenze etnocentriche e autoreferenziali e consente di riconoscere e legittimare alla pari la visione dell'altro nel confronto. Non solo, ciò restituisce i soggetti la consapevolezza di essere attivi costruttori di significati e pratiche e, quindi, di essere creatori di cultura, capaci di inventare nuove soluzioni per affrontare la mutevolezza delle situazioni. “la diversità culturale è una risorsa che protegge l’umanità dalla rigidità…” cit. Rogoff. Come fare spazio ad altre categorie di pensiero? La proposta che qui si vuole avanzare e provare a compiere un esercizio di immaginazione. E’ un allenamento a coltivare immagini multiple di uno stesso oggetto, ovvero apprendere a vedere come uno stesso oggetto possa acquisire una molteplicità di significati a seconda della prospettiva adottata. La ricerca e la pratica pedagogica, in tal senso, non sono solo una serie di soluzioni a problemi educativi, ma hanno al loro cuore la capacità di progettare quesiti e di sviluppare un approccio critico alle situazioni: ciò vuol dire non solo fermarsi alla soluzione, ma riflettere su come si arriva a tale risposta così come indagare la domanda da cui si è partiti. Wright Mills, è il primo che ha definito il concetto di immaginazione sociologica come mezzo per mettere in prospettiva il fenomeno da indagare e sfidare la propria visione di partenza. Adottare tale approccio può essere particolarmente arricchente per lo studio dell'infanzia in contesti multiculturali, dove questo continuo lavoro di interpretazione di diversi punti di vista può offrire la possibilità di stimolare la costruzione di nuove categorie e di considerare i servizi educativi per l'infanzia come terreno di creatività culturale. - CRESCERE I BAMBINI. POLITICHE DELL’INFANZIA, DIRITTI E CITTADINANZA/E NELLE SOCIETA’ MULTICULTURALI Come pensa la società ai bambini e la loro educazione? Pensare a come crescere i bambini riflette cosa la società si aspetta dai bambini e cosa desidera per l'avvenire. L'educazione è un processo che si costruisce a partire da un progetto futuro. Chiama in causa i valori e le scelte fra cui quella di dove posizionare l'altro. Per questo, nessuna pratica pedagogica è neutrale, ma riflette paradigmi culturali del suo tempo, che costruisce una particolare visione d'infanzia e di apprendimento e da lì solleva questioni e metodi di indagine. “L’educazione è una lettura del mondo per trasformarlo” cit. Freire La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza posiziona i bambini come soggetti di diritti e introduce la nozione di supremo interesse del minore. Ciò comporta promuovere nei minori la conoscenza e l’esercizio consapevole dei loro diritti fondamentali e impegna la società a creare le condizioni affinché sia possibile. I bambini sono considerati cittadini, e hanno diritto a essere cresciuti in modo da poter realizzare pienamente se stessi 6 e vivere una vita responsabile in una società libera, in uno spirito di pace e di comprensione fra i popoli. Questo è un diritto che deve essere garantito a tutti i bambini. La Convenzione Onu riconosce a essi il diritto ad avere una propria vita culturale, alla propria religione, a far uso della propria lingua, ma non li vincola a un’identità sociale e culturale prestabilita. Riconsegna loro la possibilità di costruire la propria identità personale in modo libero e autonomo, in relazione e nel rispetto dell’ambiente sociale e culturale circostante. Il dibattito internazionale riporta oggi i diritti dei bambini e delle bambine al primo posto, e fra questi, l’educazione assume un ruolo decisivo. Il Consiglio d’Europa raccomanda lo sviluppo di competenze per promuovere la convivenza democratica in società culturalmente diverse e preparare gli studenti a diventare cittadini impegnati e aperti alle diversità. Invita altresì a promuovere approcci e contesti di apprendimento capaci di sostenere il dialogo interculturale in condizioni di pari dignità, sia a scuola sia nella società. Tali principi si traducono nell’Agenda for Sustainable Development 2030 nell’impegnare gli Stati a garantire ai bambini “un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti”. Negli ultimi dieci anni si è assistito a un crescente interesse per l’Early Childhood Education and Care, nell’idea che i primi anni di vita siano i più formativi per lo sviluppo di competenze e di attitudini che possono influenzare positivamente le successive prospettive d’istruzione, di lavoro, di coesione sociale e, in generale, di piena soddisfazione dell’esistenza. Le esperienze vissute nella fascia d’età 0-6 rappresentino per tutti i bambini un’opportunità a imparare a vivere nelle nostre società complesse e possano offrire benefici per quei bambini che nei documenti sono definiti con “background migratorio”, in situazione di “svantaggio” o “a basso reddito”. Per essi, fare esperienza educativa di qualità può rivelarsi un fattore decisivo per uscire dal circolo della marginalizzazione e dell'esclusione sociale, e in questo la qualità dei servizi educativi gioca un ruolo fondamentale. Il discorso sulla qualità è tutt'oggi aperto e rappresenta uno degli elementi di criticità nel sistema di educazione e cura 0-6 anni. I documenti internazionali danno, infatti, indicazioni generali che richiedono di essere contestualizzate nei diversi contesti nazionali e non mancano auspici per condurre ricerche qualitative volte a esplorare la situazione nelle diverse realtà locali. La qualità è definita come il risultato di un processo di costante negoziazione tra tutti gli attori coinvolti nelle istituzioni per la prima infanzia. Il dibattito attuale sull'educazione e sulla cura per la prima infanzia intreccia così il discorso dell'università dei diritti alla questione della diversità, nell'ottica di promuovere una maggiore equità di accesso e di partecipazione ai servizi. La centratura sui diritti universali comporta un cambio di visuale, riconoscendo l'educazione come un bene pubblico da garantire a tutti i bambini in quanto cittadini, con attenzione a quelli provenienti da contesti etnici, sociale, culturali o linguistici differenti che caratterizzano le nostre società complesse. L'educazione è la base per poter esercitare gli altri diritti e creare le condizioni per sviluppare una società equa, inclusiva e rispettosa della diversità. Affinché l’equità non sia solo un'affermazione di principio, è necessario esaminare con quale prospettiva i documenti e le politiche guardano la diversità, quale posizione viene assegnata alla differenza e che potere di negoziazione questa ha nel dibattito. Significa chiedersi come il paradigma attuale costruisce il discorso sull'altro e quali forme di comprensione e di azione produce. Può essere utile ritagliare uno spazio di riflessione per esplorare quale idea di bambino e di diversità le attuali politiche dell'infanzia stanno contribuendo a formare. Ripercorrendo i documenti internazionali, si presenta Un'Europa impegnata a promuovere la parità dei diritti e la formazione dei futuri cittadini nella prospettiva di una maggiore inclusione sociale, ma non si discute come sono concepite l'infanzia e la diversità nelle 7 nostre società multiculturali, quali come se fossero elementi neutrali nel discorso. Si può notare come all'infanzia siano associati alcuni termini ricorrenti, quali investimento, domanda/offerta, impiegabilità, produttività, efficienza, outcomes e competenze. L'utilizzo di un linguaggio economico così evidente sembra passare l'idea che i bambini abbiano valore in quanto bene commerciale per cui una buona preparazione iniziale, una solida partenza potrà garantire loro un funzionale inserimento nel contesto sociale lavorativo. Se da un lato ciò mira a equipaggiare i bambini con quelle competenze necessarie per un apprendimento permanente, dall'altro nasconde una visione che Vandenbroeck definisce “Returns on investment”, una logica secondo cui un adeguato investimento educativo iniziale permetterà un risparmio economico successivo, in termini di interventi riparatori e prevenzione, e diventerà un mezzo per combattere la trasmissione della povertà e per ridurre fenomeni di esclusione sociale e devianza. Lasciando l'educazione su un piano più strumentale, non vengono messe in discussione alcune importanti questioni che riguardano i valori. Non è possibile non chiedersi quale posto venga assegnato di fatto ai bambini nelle attuali società complesse. Essi sembrano assumere valori per gli adulti che saranno domani, e non per ciò che possono essere e sperimentare oggi, aspetto che è invece al cuore della convenzione ONU e di una pedagogia centrata sul bambino. E’ come se l'infanzia fosse ridotta solo a un discorso di risultati ed investimenti o una condizione pre-adulta, economicamente produttiva e scolasticamente efficace, o a un capitale umano in-completo. La visione che emerge dalla lettura dei documenti internazionali sembra non discutere il tipo di spiegazioni che vengono date alle disuguaglianze sociali ed economiche. Viene assunto un po' come dato di fatto che alcune situazioni di povertà e di marginalizzazione dipendono da certe condizioni che si riproducono naturalmente nella società. Sebbene si evidenzi la volontà politica di attivare processi di empowerment e di inclusione sociale, tale discorso tende a parlare di alcuni bambini in termini di povertà educativa e di svantaggio, specie se con background migratorio. Questo linguaggio contribuisce a creare l'idea di un bambino poco competente, dipendente, in situazione di bisogno, e pare legittimare una relazione tra bambini e società prettamente in termini diagnostici e terapeutici. In essa pare trovare Ecco la teoria del deficit o della compensazione secondo cui alcuni bambini, specie provenienti da Ghetti o da contesti di immigrazione, erano considerati privi di quella cultura e quella preparazione iniziale necessaria per riuscire. i bambini e le loro famiglie venivano considerati inadeguati a rispondere alle richieste della scuola e della società e ritenuti passivi di fronte a un destino in buona parte prestabilito, incapaci di agire senza un benevolo intervento esterno. Tale teoria venne in seguito ampiamente criticata perché non riconosceva queste persone come soggetti possessori di un altro capitale sociale, culturale e linguistico potenzialmente arricchente, e capace di compiere scelte razionali all'interno dei loro contesti di vita; inoltre non metteva in discussione le strutture sociali, politiche, scolastiche e le relazioni di potere esistenti, considerate neutrali e naturali. Questa visione sembra riproporsi oggi quando quasi acriticamente si ritiene che alcuni gruppi di bambini giungano ai nastri di partenza per la corsa della vita in una situazione di mancanza che deve essere colmata affinché possano avere successo scolastico nel futuro. In altre parole, un discorso sui diritti dell'infanzia non dovrebbe tralasciare di considerare che la povertà può essere anche del servizio educativo e scolastico e dello sguardo di coloro che vi lavorano nell'affrontare i temi della diversità e dell'equità. Può essere utile, pertanto accompagnare il discorso politico sull'infanzia con riflessioni pedagogiche più ampie in cui l'educazione e la cura per la prima infanzia diventi lo spazio in cui dibattere come promuovere i diritti di tutti i bambini nelle 8 nostre società multiculturali, dove la diversità abbia voce come risorsa e non sia indice di inferiorità. Nell'ottica di promuovere i diritti dell'infanzia e di valorizzare l'apprendimento dei bambini, i documenti di indirizzo europei stanno orientando gli stati verso l'attualizzazione di un sistema di servizi educativi indirizzati alla fascia 0-6 anni per migliorare l'educazione e la cura della prima infanzia. I documenti propongono un percorso unitario e orientamenti pedagogici trasversali a questi servizi L'Italia ha recentemente approvato una legge che stabilisce “l'istituzione del sistema integrato di educazione e istruzione alla nascita sino ai sei anni”, sostenendo sia la necessità di costruire una continuità e la coerenza educativa fra i diversi servizi rivolti all'infanzia presenti sul territorio, sia l'importanza di renderli maggiormente inclusivi. Alle bambine e ai bambini, dalla nascita fino a 6 anni, per sviluppare potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento in un adeguato contesto affettivo, ludico e cognitivo, sono garantite pari opportunità di educazione e d'istruzione, di cura, di relazione e di gioco, superando le disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali. Questa legge si presenta come una svolta culturale, poiché avvia il superamento del tradizionale split system che differenziava i servizi per le fasce di età 0-3 anni e 3-6 anni e apre un dibattito educativo Nazionale sulla finalità e sull'organizzazione di tali servizi. Intento è quello di rendere coerenti i due segmenti educativi e predisporre standard uniformi su tutto il territorio nazionale: nello specifico, definisce la qualificazione universitaria come titolo d’accesso alla professione di educatore nei nidi d'infanzia, valorizza la formazione in servizio del personale e richiama un coordinamento pedagogico fra nidi e scuola per l'infanzia. I servizi rivolti alla fascia di età 0-3 anni hanno sempre avuto un ruolo più ancellare e anche una storia relativamente più recente. Questa è andata di pari passo con l’affermazione dei diritti della donna e le esigenze del mondo produttivo insieme a quella diffusione di una più consapevole cultura d'infanzia. Tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta con la legge 1044/1971 vennero restituiti gli asili nido, definiti un servizio sociale di interesse pubblico con la volontà di superare la loro precedente funzione prettamente igienico-sanitaria e custodialistica. Questa legge sanciva il valore sociale della maternità e dell'accesso della donna al mondo del lavoro e al tempo stesso il dovere dello stato di occuparsi dell'infanzia garantendo le condizioni per un adeguato sviluppo armonico del bambino. Tra questi si sottolineava la necessità di una preparazione psico-pedagogica per assistere i bambini e l'importanza del dialogo con le famiglie e con i contesti locali. La nuova legge valorizzava la prospettiva del decentramento, demandando a Regione e Comuni la gestione dei fondi e delle strutture educative. Tale aspetto riconosceva il ruolo dei contesti locali e sosteneva i diritti dei bambini e delle famiglie per rafforzare la partecipazione civica: in questo periodo i servizi educativi si venivano a sviluppare in risposta alle esigenze del territorio. Tuttavia questo decentramento avrebbe lasciato in eredità alcune contraddizioni. Infatti furono attivate esperienze di successo e di grande valore educativo, ma spesso localizzate in poche regioni settentrionali e del Centro Italia, mentre quasi del tutto assenti nelle aree meridionali. Inoltre, gli asili nido prendevano forme in isolamento, senza una reale integrazione con le più complessive politiche nazionali per i bambini e per le famiglie. Tutto ciò ha alimentato una frammentarietà degli interventi, una quasi inesistenza di forme di coordinamento politico e un diverso investimento di risorse economiche e culturali tra le diverse aree geografiche con cui si trovava a fare i conti oggi. 9 Negli anni 80 e 90 si è venuto a definire con sempre maggior chiarezza un originale progetto educativo per i servizi 0-3 anni grazie al contributo intellettuale di alcuni pedagogisti che hanno sottolineato come l'impegno per il benessere per la cura dell'infanzia potesse essere rafforzato da una maggiore attenzione al potenziale educativo dei bambini e al dialogo con le famiglie e con il territorio. Il nido è stato così successivamente riconosciuto dalla legge 285 del 1997 come un servizio educativo e sociale, elemento centrale di una più ampia diffusa politica educativa per la prima infanzia, che ha lo scopo di concorrere insieme alla famiglia alla formazione di tutti i bambini e le bambine nella fascia d'età compresa tra i tre mesi e i tre anni. La scelta del nido assume i caratteri di un intenzionale opzione educativa, frutto della volontà di promuovere i diritti e le pari opportunità per l'infanzia, come cita l'articolo 3 “per l'esercizio dei diritti civili fondamentali... nel rispetto di ogni diversità, delle caratteristiche di genere, culturali ed etniche”. In tal senso il nido si configura come il primo luogo sociale ed educativo per tutti i cittadini di domani. Tuttavia, l'equità di accesso è ancora lontano da realizzarsi. I nidi rimangono tuttora servizi a domanda individuale alla cui gestione finanziaria devono concorrere le famiglie. Questo in qualche modo ne sottolinea il carattere assistenziale e la non inclusività. La frequenza al nido fatica ancora a essere un diritto per tutti. A oggi il panorama dei servizi educativi rivolti alla fascia 0-3 anni si presenta in modo piuttosto disomogeneo e variegato sul territorio nazionale riguardo alla distribuzione, alla tipologia dei servizi, alla gestione di fondi e all'organizzazione di progetti educativi. Gestiti a livello comunale e regionale dagli anni Settanta, tali servizi si sono sviluppati in modo diversificato tra zone urbane e rurali, tra contesti pubblici, del privato e a gestione familiare, tra nord e sud. In generale l'accesso all'istruzione sotto i 3 anni è al di sotto degli standard previsti dagli obiettivi di Barcellona (soglia minima del 33% dei bambini in età) con notevoli differenze interne. Tale situazione a macchia di leopardo ha, inoltre, influenzato la possibilità di raccogliere e di organizzare i dati in modo sistematico a livello nazionale. I dati riguardanti l'asilo nido sono tutt'oggi classificati sotto la voce Istat “assistenza e previdenza” e non "istruzione" rimarcando forse un retaggio culturale di servizio assistenziale rivolta alle famiglie più che un diritto dei bambini. Allo stesso tempo, importanti passaggi culturali stanno attraversando il dibattito pedagogico intorno al riconoscimento giuridico e la formazione degli educatori per rispondere ai cambiamenti in corso e sostenere la qualità di questi servizi. Ma alcune ricerche recenti hanno sottolineato ancora come la valorizzazione di una cultura per l'infanzia e di questi servizi educativi sia un percorso da promuovere a livello di politiche educative e sociali. Il diritto dei bambini a un'educazione di qualità riceve risposte variegate, con trattamenti e con opportunità educative e anche molto diverse sul territorio nazionale, in un quadro culturale e socio-politico in cambiamento, Ma anche in alcuni casi rischia di riprodurre disuguaglianze più che essere un mezzo per superarle. Considerare l'educazione un diritto a partire dalla nascita, e non con l'inizio del percorso di istruzione obbligatorio, implica un ripensamento del futuro dei propri abitanti più piccoli da parte della società e delle comunità locali. Significa pensare a questi bambini come cittadini, attori e fine principale dei progetti educativi a loro rivolti. Le linee guida internazionali sulla prima infanzia sono elaborate con l'intento di rispondere ai cambiamenti demografici correnti nella struttura famiglia, nella partecipazione delle donne al mondo del lavoro e nella crescente diversità etnica, culturale e lianguistica che stanno avvenendo in Europa. L'Italia figura tra i paesi che detiene tra le percentuali più alte di minori stranieri, pari a circa il 21% della popolazione straniera residente e il 10,6% della popolazione minorile è presente sul territorio (circa un bambino su 10). La grande maggioranza di questi bambini è nata in Italia. Tale presenza variegata e consistente si riflette anche nelle scuole e nei servizi educativi per la prima infanzia. A fronte di una realtà multiculturale in continua crescita di tali servizi, le 10 rilevazioni statistiche presentano dati parziali e si evidenziano delle criticità. Infatti mentre la presenza dei bambini con background migratorio è ben monitorata a partire dalla scuola per l'infanzia, è quasi impossibile stimare dati attendibili rispetto alla loro presenza al nido d'infanzia. Il monitoraggio è rimandato alla descrizione degli enti regionali e locali. Il caso Torinese vede la presenza di stranieri residenti come fenomeno ormai strutturale. Comprende ben 156 diverse nazionalità, di questi i minori costituiscono il 13,07% e nella fascia 0-4 anni sono il 28,2% del totale residenti. Ciò si traduce anche nell'incremento di richieste di servizi 0-3 anni: a Torino l'offerta di posti al nido raggiunge il 38% dei bambini, di cui questi bambini rappresentano circa il 29% degli iscritti. Questi dati evidenziano alcuni innegabili elementi di inclusività del nostro sistema educativo, che riconosce il diritto all'istruzione per ogni minorenne indipendentemente dalla nazionalità, religione o lingua o dalla condizione dei genitori. Ma al contempo, sollevano interrogativi sulle pari opportunità di accesso a tali servizi per tutti i bambini e sulle ragioni di una così scarsa attenzione istituzionale e statistica rivolta ai piccolissimi dell'immigrazione. Save the children evidenzia come nell'ultimo decennio siano aumentate le diseguaglianze geografiche, sociali, economiche, tra bambini del Sud, del centro e del nord, tra bambini delle aree centrali e delle periferie, tra italiani e stranieri, tra figli delle scuole bene e delle classi ghetto, e come con esse si sono divaricate le possibilità di accesso al futuro a partire dall'offerta dei servizi per la prima infanzia. L’educazione dei piccolissimi ha a che fare con il riconoscimento di un diritto di cittadinanza per tutti i bambini e con la finalità che la società assegna i servizi educativi 06. Quale futuro i servizi educativi per la prima infanzia intendono contribuire a creare? Chi è incluso e può partecipare a questo futuro? Un'attenzione linguistica ai termini che sono utilizzati per nominare l'infanzia e i servizi a essa dedicata può arricchire la comprensione del discorso che la società costruisce intorno ai bambini, e può essere utile a esplorare la diversità dei modi di definire i bambini e i contesti di cura. L'intento è tenere aperta una discussione su che cosa la società si aspetta dai bambini e, di conseguenza, su come organizza i contesti di crescita. La prospettiva dell'educazione comparata ha espresso negli anni perplessità rispetto alla possibilità di un trasferimento di pratiche educative e di una comparazione fra paesi, quando questi sono pensati come isolati dal contesto culturale, politico ed economico di un certo paese. I modelli presentati come validi a livello internazionale non trovano per forza convergenza nei diversi sistemi educativi che magari hanno alle spalle una storia dell'educazione profondamente differente. Considerare, perciò, le definizioni legate al mondo educativo infantile nella loro dimensione culturale, e non prenderli come assunti normativi neutri, offre l'opportunità di adottare differenti angoli di percezione che permettono di comprendere il fenomeno in vari modi e maturare un atteggiamento critico. Intraprendere una ricerca sui bambini sui servizi per l'infanzia pone quasi subito i ricercatori di fronte a un problema di definizione. La categorizzazione sull'infanzia non è scontata. La convenzione ONU sui diritti del fanciullo considera bambini tutti coloro che hanno meno di 18 anni e a essa è accompagnata una suddivisione di tale fascia in prima infanzia, infanzia, pubertà e adolescenza. L'universalizzazione di tali categorie non tiene conto però dei diversi contesti e delle diverse esperienze, rendendo astratto e storico modello di sviluppo che invece è situato. L’età cronologica come metro culturale dello sviluppo è una definizione piuttosto recente. Nomi che vengono assegnati ai vari stadi di sviluppo: new born (neonato) baby (bambino molto piccolo) infant (bambino piccolo) toddler (bambino “traballante”, che inizia a camminare) 11 young children (bambini più grandicelli) children (bambino) Questo predilige il percorso di progressiva autonomia motoria e di nutrimento Molto diffusa è anche la suddivisione in: infancy (primissima infanzia, 8-12 mesi) early childhood (prima infanzia, 18-36 mesi) middle childhood (media infanzia, 3-5 anni) later childhood (tarda infanzia, 5-8 anni) che risponde invece alla partecipazione dei bambini a diversi segmenti dei diversi servizi educativi e scolastici In Italia si fa riferimento a prima infanzia per indicare i bambini nella fascia di età 0-3 anni e seconda infanzia per quelli nella fascia 3-6 anni. Questi criteri di suddivisione non sono però condivisi da tutti: le forze evolutive frequentemente segnano un cambiamento nei ruoli che gli individui vivessero nella struttura della comunità e diversi gruppi etnici e sociali si sono espressi diversamente. Il fatto che esistano categorizzazioni differenti implica anche un problema nella traduzione nei diversi paesi, che non sa tanto nel trovare un corrispettivo linguistico, quanto nel dar conto di un significato altro. Nella fascia di età 0-6 anni, esistono numerose modalità di chiamare i servizi per i bambini che riflettono una differente concettualizzazione dei contesti di crescita: “day Care” enfatizza la dimensione della cura diurna dei bambini, “early childhood programmes” programmi per l'infanzia sottolineano la dimensione didattica e compensativa degli stessi. "Infant-toddler Center” si pone il focus sull'età del bambino e non sul tipo di accoglienza e cura. I riferimenti più frequenti sono “nursery School” per i più piccoli che enfatizza l'aspetto dell'allattamento della Protezione a cui però si giustappongono “kindergarten” che sottolineano L'intreccio educativo fra bambini e natura e “PreSchool” che segnano la funzione di questi servizi nel preparare il percorso scolastico successivo. In Italia si preferisce usare i termini asilo nido o nido d’infanzia e scuola per l'infanzia, evidenziando rispettivamente, i primi, l’intimità dei luoghi e la ricostruzione del nido familiare e, i secondi, l’inserimento in un percorso di apprendimento formale. Inoltre fino a pochi decenni fa si parlava di scuola materna quasi a sottolineare la funzione sostitutiva della madre. Come ricorda Malaguzzi, il passaggio alla denominazione scuola per l'infanzia è stato il risultato di lotte politiche e sociali per riconoscere questi servizi come istituzioni culturali che mettono al centro il diritto dell'educazione dei bambini nel rispetto dei loro processi di crescita cognitivi, affettivi e sociali, aspetto che poi ha valorizzato la preparazione culturale e accademica di insegnanti, educatore e pedagogisti. Le istituzioni per l'infanzia rispecchiano i cambiamenti sociali e culturali di una certa epoca, Ma hanno anche il potere di influenzarli. I comparativisti sottolineano che non esistono comunità immaginate gli esperti d'accordo a livello internazionale su un modello comune di educazione. Questo si riflette nella tensione che esiste fra piano ideale e piano reale. Se è vero che il discorso attuale sull'educazione e sulla cura per la prima infanzia è un passaggio fondamentale per riportare all'attenzione i diritti dei bambini e la necessità di migliorare i servizi educativi a loro dedicati, lo è anche il fatto che la crescita e la gestione delle fasi di sviluppo sono modellati culturalmente e che la transizione dell'infanzia alla vita adulta può venire seguendo principi anche molto diversi. Mentre la realtà storica e sociale presenta una moltitudine di prospettive, pare che quella espressa in alcuni documenti internazionali non ne tenga conto, privilegiando certi modi di vedere i bambini e i luoghi per la loro educazione. Il rischio che si vada verso un modo, e un mondo, uniformato di vedere l'infanzia, senza mantenere la ricchezza che solo la diversità di visioni può offrire. 12 Questa è una posizione che stanno sostenendo alcuni pedagogisti, Essi riportano che alcuni ultimi documenti internazionali intitolati Starting Strong, tendono a trattare l'educazione come una pratica tecnica che enfatizza i processi di standardizzazione e di misurazione, semplificando drasticamente il dibattito pedagogico e marginalizzando le visioni educative alternative. Questi pedagogisti denunciano che tale prospettiva porta ad avallare un approccio di stampo positivista e neoliberale verso l'infanzia, in cui non viene messo in discussione la validità e l'attendibilità dell'uso degli strumenti di misurazione delle competenze dei bambini, così come nemmeno la volontà di partecipazione di questi ultimi. Il pericolo è che si vada verso una sorta di programma universale per l'infanzia presunto neutro e che si ponga L'accento sul sapere come semplice strumento per raggiungere altri fini. Tali programma e sapere presentati come neutri possono ignorare l'incidenza dell'appartenenza sociale, etnica, di genere e di minoranze interne e così tutte le ricerche sviluppate nel tempo nell'ambito deifeminist studies, cultural studies, post-colonial and indigenous Theory o Critical Theory. I processi di diversificazione culturale e sociale non sono per forza anomalie o mancanze del sistema. Ricordano invece, che ci sono più possibilità di infanzia e più idee di cure d'infanzia. Questa coesistenza e complessità di visioni è un tratto che caratterizza le attuali società multiculturali, ma diventa un problema solo nel momento in cui si cerca di incasellare l'altro, e quindi l'apprendimento dei bambini, in certe regole e confini. La domanda educativa potrebbe essere allora come ospitare ed entrare in dialogo con prospettive molteplici. Il dibattito intorno al Early childhood Education and Care può così offrire l'opportunità di pensare al cambiamento in termini di problemi da interpretare anziché di pacchetti di soluzioni da attuare. Invita a non fermarsi a chiedersi che cosa funziona, ma che cosa funziona per, con quale finalità. Sollecita a intraprendere una discussione intorno ai valori dell'educazione e a creare un dialogo inter-culturale tra diverse posizioni all'interno della società. In tal modo, il lavoro pedagogico può diventare un discorso di costruzione del significato, capace di accogliere le diversità e di tener conto di possibili visioni alternative. Se la prima questione da porsi e che cosa vuole la società per i propri cittadini più piccoli, quella direttamente conseguente è come l'incontro con la diversità di visioni può avvenire in modo rispettoso e responsabile e dar luogo a percorsi di senso condivisi e nuovi spazi di cittadinanza. Le linee guida internazionali dicono che le esperienze educative nella primissima infanzia sono cruciali per il successo futuro e sono salienti soprattutto per i bambini con background migratorio, ma dovrebbero anche riflettere i diritti dei minori sanciti dalla convenzione ONU, quale la dignità di riconoscimento di culture, tradizioni e storie differenti e la libertà di aspirazione e scelta da parte dei gruppi minoritari. L’educazione in questo senso è politica perché chiede sempre di prendere scelte fra alternative conflittuali che riguardano valori, comprensione e modi di lavorare. Come diceva Freire l'educazione è politica nel senso che l'educazione riconferma i processi politici attraverso cui si costruisce la conoscenza e si dà significato al mondo. Da questo punto di vista, l'educazione non può essere solo uno strumento o una tecnica e non può neppure essere neutrale. Si viene piuttosto a configurare come un progetto di riconoscimento dell'altro, nei diversi contesti educativi e delle diverse voci in campo. Questo discorso è strettamente intrecciato alla questione relativa all'acquisizione della cittadinanza, in particolare in Italia, dove risulta ancora essere un percorso tortuoso per i bambini nati da genitori stranieri. In conclusione, se l'educazione vuole essere uno strumento di democrazia delle nostre società complesse, può essere interessante la proposta di alcuni pedagogisti di considerare le istituzioni per la prima infanzia come i primi luoghi di pratica politica, in cui possono avvenire processi democratici di presa di decisione collettiva per il bene comune attraverso la negoziazione Fra idee differenti sulle esperienze sulla partecipazione Attiva di tutti i soggetti coinvolti, dagli educatori, ai genitori, ai bambini ai decisori politici. Costruire tale 13 dialogo inter-culturale è un processo in cui l'incontro per la prospettive storie differenti richiede di darsi la possibilità di scoprire insieme una nuova strada educativa possibile. Quale cittadinanza, la società intende promuovere per tutti i propri bambini? - STUDIARE LA PRIMA INFANZIA. LA PROSPETTIVA ETNOGRAFICA IN DIALOGO CON LA PEDAGOGIA Come leggere e interpretare le esperienze dei bambini? Bisogna innanzitutto osservarli. È lo studio dei processi che ci aiuta a cogliere ciò che avviene nei contesti educativi. È infatti, nelle interazioni quotidiane fra bambini e fra professionisti e bambini che i significati prendono forma e creano cultura. L’etnografia dell'educazione può offrire una prospettiva interessante per studiare i contesti educativi e i bambini che li abitano, Proprio in virtù del ruolo centrale che conferisce all'interazione al dialogo nella sua accezione polifonica: un dialogo fra discipline, fra saperi. Il suo porre l’attenzione al come, piuttosto che al cosa, apre un percorso di indagine non predefinito, che lascia spazio all’imprevisto e all'immaginazione e, soprattutto, metti in evidenza come la risposta alla domanda iniziale sia sempre il risultato di una co-costruzione. A L’antropologia dell'educazione ha ormai da tempo elaborato validi strumenti di comprensione e di interpretazione delle realtà educative. È una tradizione di ricerca che è cresciuta negli Stati Uniti dalla fine degli anni sessanta e si è diffuso in Europa dagli anni novanta, in risposta alla necessità di dare spiegazione al rapporto complesso e composito tra processi educativi e diversità culturale. Con essa si fa riferimento sia a un rilevante Corpus di teorie e ricerche empiriche orientate in senso comparativo e transculturale, sia a una significativa metodologia di ricerca qualitativa e a strumenti di lavoro sul campo che hanno reso particolarmente proficua la relazione fra antropologia e pedagogia per lo studio della quotidianità scolastica e per l'elaborazione di una prospettiva interculturale. Al cuore di questi studi c'è il riconoscimento della diversità di prospettiva dell'altro e il tentativo di comprendere le interpretazioni culturali che questi dà alla realtà educativa. Fare ricerca etnografica è un modo per comprendere il punto di vista dell'altro, dando la parola ai protagonisti dei contesti educativi e facendo sentire la loro voce. La sua finalità principale è la comprensione di un determinato modo di vivere e di sopravvivere, di comportarsi e di agire, di studiare e di lavorare, attraverso l'ascolto di ciò che dicono e fanno coloro che condividono tali modi. L'ascolto dei soggetti non è distaccato dal contesto storico e socio-culturale al quale partecipano: è in relazione al contesto che essi costruiscono i significati e quindi le relative interpretazioni e letture dei fenomeni educativi. Il fulcro di interesse delle ricerche tecnologiche e l'analisi di come avviene questa costruzione di significato e di come, in base a essa, gli obiettivi pedagogici possono essere perseguiti. Pensare alla prospettiva dell'altro in termini di costruzione di significati che avviene e acquisisce senso in uno specifico contesto mette in luce la storicità di alcune visioni e modi di fare degli altri, sottraendoli da una visione astratta, atemporale e universale, così come da interpretazioni di tipo psico-socio-patologico. Al contempo, questa visione sollecita anche a esplorare i nostri contesti educativi e scolastici come ambienti culturali e comunicativi complessi in cui, come per qualsiasi altro aspetto della società, si delineano credenze popolari, riti, norme, valori e regole di interazione di comunicazione che costituiscono la cultura di quei contesti. Le ricerche condotte con metodo etnografico nei contesti educativi multiculturali, oggi pongono interrogativi urgenti rispetto all'integrazione e al successo scolastico di alcuni gruppi di studenti e mettono in discussione le disuguaglianze esistenti, grazie ad analisi critiche dei processi sociali e culturali, delle pratiche e dei significati nei contesti educativi. Criticano la visione della scuola e della scolarizzazione come agente 14 neutrale di formazione e di cambiamento sociale, contribuendo a evidenziare quei meccanismi sottili che modellano il sistema educativo sulla cultura di maggioranza e penalizzano, se non escludono, gli altri gruppi sociali e culturali. Il curricolo nascosto, le modalità organizzative e lo stile di insegnamento comunicazione in classe sono solo alcuni dei fattori che concorrono a trasformare i bambini e studenti seri o turbolenti, e che rendono la scuola stessa un oggetto da indagare più che qualcosa da dare per assodato. Queste ricerche rivelano il limite della teoria della deprivazione culturale e linguistica, dell'assenza di competenze comunicative, così come della sola teoria della discontinuità tra scuola e famiglia, per spiegare l'insuccesso scolastico e la difficile integrazione di alcuni studenti mettendo, invece, in risalto l'agency e le pratiche di resistenza e/o creatività dei soggetti coinvolti. Queste ricerche portano le ragioni di insegnanti, bambini, studenti, educatori, che si intrecciano tra di loro costruendo un certo quotidiano scolastico e che, se ascoltate, posso aprire un dialogo che può cambiare in senso più democratico la scuola. Quella attitudine al dialogo e all'ascolto delle ragioni degli altri è proprio ciò che connota il lavoro dell'etnografo sul campo. L’etnografia consiste nel lavoro di traduzione e di interpretazione di questi significati attraverso la relazione con i soggetti con cui si co-interpreta ciò che avviene. È una metodologia che si basa sull'interazione e sullo scambio con gli altri per comprendere in modo situato gli eventi educativi nei contesti in cui accadono, enfatizzando la dimensione processuale di comportamenti, situazioni, ruoli e strategie. Per farlo è necessario il coinvolgimento attivo da parte del ricercatore che, attraverso l’osservazione partecipante per un lungo periodo di tempo, prova a mettersi dal punto di vista dei soggetti e di ricerca per vedere insieme a loro come essi interpretano gli eventi senza perdere quella distanza necessaria per elaborare una teoria generandola dai dati - una teoria definita grounded, in quanto fondata nell'attività sociale che ha la pretesa di spiegare. La triangolazione tra note di campo, interviste e fonti documentarie permette di produrre una descrizione densa e multi sfaccettata dei contesti educativi. Il valore delle ricerche di etnografia dell'educazione per il discorso pedagogico sta nel mettere in prospettiva ciò che accade e cogliere il significato che assume per i soggetti che lo vivono. L’etnografia invita il ricercatore, i soggetti sul campo e il lettore a intraprendere un percorso di apprendimento per vedere il proprio punto di vista come situato e culturale, ovvero per rendere estraneo proprio quel mondo educativo fatto di teorie, pratiche e valori in cui si è cresciuti. Ogni progetto educativo è situato culturalmente e chiama in causa i principi pedagogici considerati tradizionali, la precedente formazione a cui ogni educatore o insegnante ha preso parte, la prassi pedagogica prevalente, la conoscenza e gli assunti dati per certi. Solo grazie al riconoscimento della diversa prospettiva degli altri si ha l'opportunità di mettere in discussione il proprio punto di vista e magari di rendersi conto del proprio “provincialismo”. La prospettiva antropologica può arricchire gli studi sull'infanzia posizionando le esperienze dei bambini all'interno di un contesto sociale culturale più ampio. L'approccio etnografico alla ricerca educativa sulla prima infanzia ha nel tempo contribuito a prendere le distanze da un approccio di stampo positivista, che insisteva sulla scoperta di leggi e sulle descrizioni universali utilizzando un linguaggio osservativo neutrale, per privilegiare invece una visione della realtà educativa come costruzione sociale, in cui hanno un ruolo fondamentale i contesti e i significati, così come i sistemi di relazione e di potere che li attraversano. I bambini fanno esperienze di uno sviluppo che non è solo biologico, ma anche connotato socialmente e culturalmente. Il mondo sociale dei bambini è un mondo interpretato, dove è situato culturalmente ciò che educativo e ciò che non lo è. La prospettiva etnografica porta la consapevolezza che la rappresentatività di certi apparati e assunti pedagogici è riferibile unicamente a determinati angoli di mondo. I primi studi sui processi di socializzazione della prima infanzia hanno avuto origine nella scuola antropologica americana “cultura e 15 personalità” che fiorì durante gli anni 30 e 40 Sulla scorta dei lavori di Mead e di Benedict, interessata a delineare come la cultura modellasse le pratiche di educazione familiare infantile e come questo influenzassero la formazione di specifiche personalità nelle diverse culture. Essa condivide un approccio comparativo che ha portato a scoprire che il modo in cui è organizzata l'educazione infantile, in famiglia e nella comunità, dipende dagli specifici valori normativi e dalle aspettative riguardo ai comportamenti ritenuti giusti nelle varie culture. Attraverso l'osservazione partecipante naturalistica di lungo periodo questi ricercatori hanno offerto documentazioni ricche e dettagliate di relazioni familiari, di modalità educative per i più piccoli, di attività e vita sociale dei bambini, di disposizione verso il genere e di relazione fra bambini e adulti in società remote, sollecitando i lettori a riflettere sulle proprie controparti nei contesti americani ed europei. In particolare, hanno fatto emergere come in quei contesti potesse essere diversa la concezione di autonomia, di esposizione al pericolo ed di obbedienza per un adeguato sviluppo infantile. L’approccio etnografico sollecitava a riconoscere che i bambini non crescono nel vuoto, e nemmeno i programmi per la cura infantile funzionano in isolamento. Entrambi sono incorporati in un contesto sociale dinamico di relazioni, sistemi e valori culturali. Le interpretazioni offerte da questi resoconti etnografici derivavano dall'osservazione di interazioni adulto-bambini e si focalizzavano soprattutto sulla questione di “cosa gli adulti insegnavano ai bambini riguardo la cultura attraverso le pratiche educative, piuttosto che come queste lezioni venivano apprese dai bambini”. Gli studi sulla socializzazione si concentravano maggiormente su come si preparava i bambini ad assumere certi ruoli sociali e meno sul modo in cui i bambini facevano esperienza dell'infanzia. Questo spostamento di interesse dai processi di trasmissione culturale a quelli di acquisizione culturale si iniziò a vedere negli anni 80 quando si iniziarono a prendere in considerazione le interferenze e differenze interne a un gruppo che sfidavano l'idea di uniformità e regolarità di schemi di una cultura condivisa. Ogni soggetto non replica la cultura così com’è, ma ne ripropone una versione personale che è continuamente in via di essere riformata. Il soggetto e cioè attivo, capace di rielaborare in base alle sue esperienze le elezioni impartite; non è monoculturale, come alcune visioni stereotipate fanno supporre, ma partecipando alle relazioni sociali ai contesti costruisce la propria prospettiva personale della cultura in cui è inserito. Per lo studio dell'infanzia questo approccio ha significato due cose valide anche per la ricerca pedagogica: ha posto l’attenzione ai processi di apprendimento invece che di insegnamento, poiché ciò che viene appreso può essere molto diverso da ciò che si vuole insegnare o che si vuole trasmettere; secondo, ha consentito di vedere i bambini come interpreti competenti del loro mondo sociale e non passivi ricettori di pratiche adulte. Del resto, la cultura non è qualcosa di dato, essa viene soprattutto colta e scoperta gradualmente e a tentoni e non ci sono bambini che non siano dotati di questa capacità. L'interesse degli studi antropologici sull'educazione infantile si sposta su come i bambini affrontano l'acquisizione della cultura, o detto altrimenti, su come i bambini contribuiscono a modellare la loro esperienza di infanzia nei contesti educativi. I bambini sono visti come attori sociali, capaci di interpretare la loro vita e le vite degli altri, fino a essere considerati come informatori competenti, la cui voce può essere ascoltata e presentata proprio grazie alla metodologia etnografica. A essi è riconosciuto un ruolo maggiormente attivo nella ricerca, che si viene sempre più a connotare come lavoro con piuttosto che sui bambini, onorando così anche i diritti dell'infanzia dichiarati nella convenzione ONU del 1989. Tali studi danno rilievo alla visione del mondo dal punto di vista dei bambini, evidenziando come apprendono e come costruiscono i loro significati e danno senso alla loro esperienza infantile. Quest'ultima prospettiva è esplorata da Corsaro, che concettualizza la socializzazione come un processo di riproduzione interpretativa da parte dei bambini. Argomenta come l’apprendimento non 16 avvenga secondo quella progressione lineare sostenuta da una certa psicologia dello sviluppo, ma piuttosto secondo un processo di riproduzione collettiva dove i bambini sono attivi artefici: i bambini non imitano o introiettano semplicemente il mondo intorno a loro, ma interpretano e danno senso alla cultura e al modo attraverso cui ne prendono parte e nel fare ciò giungono a produrre collettivamente i loro mondi e le culture dei pari. Proprio la metodologia etnografica, con le sue dettagliate osservazioni e trascrizioni delle interazioni e delle conversazioni quotidiane tra bambini, e tra bambini e ricercatore, permette di vedere come essi interpretino regole e le aspettative sociali dei grandi in base ai loro valori. James intraprende le sue ricerche etnografiche nella scuola per l'infanzia per studiare come i bambini imparino le loro identità e le regole di coinvolgimento in una relazione affettiva attraverso il gioco fra pari e, successivamente, per indagare come percepiscono e si relazionano con la differenza e la disabilità portando le proprie soluzioni e criteri di amicizia. La ricerca etnografica di Satta sviluppata diacronicamente in tre luoghi differenti (una comunità educativa per bambini, una ludoteca di quartiere e una ludoteca interna a un ospedale pediatrico) al fine di analizzare quale idea di infanzia venga costruita in questi spazi e come si configurino le relazioni tra adulti e bambini, ponendo l'accento non solo sui tentativi di infantilizzazione da parte degli adulti, ma anche su cosa succede fra i bambini al di là della definizione dell'intervento degli adulti. La ricercatrice cerca di esaminare quali siano le costruzioni di senso infantili e quale spazio venga di fatto riconosciuto ai bambini per esprimere la propria visione del mondo nei contesti educativi, spesso dominati da discorsi da modalità adulto-centriche. Sui rapporti mondo adulto-mondo dei bambini la ricerca etnografica di Abbatecola e Stagi indaga gli stereotipi di genere nella scuola dell'infanzia. Attraverso l'osservazione delle interazioni quotidiane in classe le attività-stimolo proposte ai bambini, si mostra come i bambini ripropongano i modelli tradizionali basati sulla divisione di genere, ma anche come nella riproposizione di tali modelli inseriscono delle variazioni non scontate e originali. Queste nuove ricerche analizzano il mondo dei bambini come un'alterità che dice molto in realtà sul mondo e i limiti delle categorie degli adulti. Il metodo etnografico fa emergere così, il suo potenziale per descrivere i processi di socializzazione e darne una cornice interpretativa. L'osservazione partecipante è sicuramente una delle vie regie per accedere al mondo dei bambini, ma si possono trovare variazioni nella sua applicazione che aprono una gamma di possibilità che vanno da un approccio osservativo meno intrusivo possibile con i bambini, a uno più fluido e convenzionale in cui il ricercatore gioca il ruolo di adulto al minimo e/o diventa membro del gruppo dei pari, fino ad arrivare ad approcci misti che utilizzano attività basate su un compito per stimolare l'interesse e il coinvolgimento diretto dei bambini nella ricerca e per far rivelare in forme concrete e visuali i loro pensieri e opinioni rispetto a una particolare domanda di ricerca. Il focus sulla cultura dei pari potrebbe offuscare il ruolo sullo sviluppo infantile svolto dalle contemporanee relazioni con i genitori, con i professionisti dell'educazione e dalle interazioni fra queste. Non è inoltre da dimenticare la prospettiva societale che ritiene che i servizi per l'infanzia siano organizzati, professionalizzati, routinizzati per preparare i bambini per la disciplina della scuola e delle moderne istituzioni. Tale corrente, che interpreta i servizi educativi come luoghi di riproduzione sociale, potrebbe però rischiare di lasciare sullo sfondo l'agency e i processi di resistenza e/o accomodamento da parte dei soggetti coinvolti. Per poter cogliere e interpretare le esperienze dei bambini nei contesti educativi diventa perciò necessario adottare un approccio di ricerca olistica, che tenga conto delle differenti prospettive e livelli e che valorizzino a un programma di strumenti per restituire la complessità al contesto indagato. Il campo di indagine è privilegiato per comprendere i fenomeni e gli apprendimenti della vita infantile rimangono comunque la scuola e i processi di scolarizzazione. E’ a scuola che i 17 bambini trascorrono più tempo ed è lì che è possibile osservare come i bambini adulti costruiscono i rispettivi significati dell’esperienza educativa. L'attenzione di coloro che fanno ricerca nei contesti scolastici con l’approccio etnografico si concentra sullo sforzo di descrivere quegli ambienti dal punto di vista dei partecipanti in interazione fra loro. Si cerca perciò di comprendere ed interpretare che cosa avviene nella vita scolastica quotidiana, inserendolo sia nel contesto curricolare e organizzativo della scuola, sia nel contesto storico e socio- culturale, in quanto è in base a questo tipo di contesti che possono cambiare significati di ciò che avviene nelle realtà dell'aula scolastica e quindi anche le relative interpretazioni e letture dei fatti educativi. Tale significati non sono statici, bensì rielaborati dai partecipanti che condividono quella scena educativa e che, con la loro prospettiva personale, con le loro strategie di resistenza e/o creatività, possono ostacolare o favorire gli obiettivi ufficiali della scuola. Le etnografie dei contesti scolastici mettono così in luce una vita di relazioni significati nascosti - la cosiddetta cultura della scuola e il curricolo nascosto - non sempre presentata nei documenti ufficiali, che però gioca un ruolo preponderante nel definire il fare scuola e andare a scuola. E’ su questo piano nascosto che si crea il terreno di confronto e di negoziazione dei significati attribuiti all'esperienza scolastica, che possono non essere condivisi dai diversi partecipanti e che possono concorrere alla costruzione del successo o dell'insuccesso scolastico, del bravo o del cattivo studente, già a partire dalla prima infanzia. Ogbu avanza la necessità di descrivere e spiegare i processi attraverso cui si realizzano gli apprendimenti in termini culturali e strutturali: il suo modello ecologico-culturale intende collegare le analisi di micro-livello e quelle di meso- e macro-livello. Secondo il ricercatore, un'adeguata etnografia deve poter studiare gli eventi nella scuola e nelle classi in relazione alle forze più ampie di carattere sociale e storico, in quanto l'educazione è collegata con gli altri aspetti della vita sociale, della stratificazione economica e dei rapporti di potere politico fra i gruppi. Le ricerche condotte con l’approccio etnografico svolte nei servizi educativi scolastici per la prima infanzia non sono molte. Le loro analisi della vita all'interno di questi contesti mettono in luce sia gli aspetti espliciti che caratterizzano le attività educative, sia gli aspetti impliciti non immediatamente evidenti che sottendono tali attività, inquadrando tali servizi come un’istituzione inserita in un dato contesto storico e sociale, regolata da logiche interne che si rifanno a criteri organizzativi e pedagogici. Tali ricerche presentano logiche e visioni del mondo dei bambini e dell'Educazione del tutto peculiari e per nulla statiche, descrivendo quell'ambiente dal punto di vista dei partecipanti. Ciascuna di esse e, inoltre, il risultato di differenti opzioni metodologiche che dipendono dall'orientamento teorico dei ricercatori e da un insieme di scelte legate anche alle condizioni materiali in cui si svolge la ricerca, che possono facilitare e arricchire o, al contrario, restringerlo o rendere gravoso il lavoro dell'etnografo sul campo. Uno dei primi studi svolti con il metodo etnografico nella scuola per l'infanzia si può considerare il lavoro di King, “All the Things are Bring and Beautiful? A sociological study of infants’ classroom”. Il ricercatore, attraverso l'osservazione quotidiana delle relazioni tra bambini e insegnanti in tre scuole dell'infanzia, analizza il modo in cui questi ultimi definiscono il proprio ruolo e organizzano il lavoro in aula, mettendo in evidenza i significati che essi attribuiscono alla natura del bambino, ai fattori che concorrono il suo sviluppo, ai principi pedagogici indicati nel curricolo e alla concezione di buoni insegnanti. Gli insegnanti giungono a generare quelle che l'autore chiama definizione di realtà in base a cui interpretano i comportamenti infantili organizzano i loro discorsi pedagogici e le strategie in classe. King durante le interviste presenta ogni definizione agli insegnanti per validare le sue osservazioni, facendo emergere quei significati non sempre consapevoli di comportamenti atteggiamenti quotidiani che essi hanno costruito nel loro percorso professionale. Il gioco è definito come un 18 preludio al lavoro, qualcosa scelto dai bambini e spesso ricompensa per il lavoro svolto, mentre il lavoro è visto come qualcosa assegnato dall'insegnante, da svolgere prima del gioco e il cui completamento è stabilito dall'adulto. Questa concezione di gioco e lavoro è una delle definizioni attraverso cui gli insegnanti determinano che cosa faranno i bambini in una determinata fase o quando saranno pronti per la fase successiva dedicata ai compiti, scelgono quale tipo di atteggiamento avere verso i grandi e quale verso i piccoli e valutano anche la capacità dei bambini di comprenderne la differenza. Nella sua analisi King cerca di comprendere le ragioni delle attività in classe, collegandole ai criteri dell'organizzazione scolastica e alle motivazioni che spingono i soggetti a compiere alcune scelte. Riprende le teorie di Weber e Schultz sull'azione sociale per costruire un modello di studio del sistema di credenze degli insegnanti. Egli mette in luce come le definizioni delle situazioni educative, influenzino le scelte dei docenti e li portino a riconoscersi come appartenenti a una comunità più ampia, non tanto determinata da un'ideologia di classe, quanto da specifici e condivisi i valori professionali. Uno dei limiti è l’aver delimitato il senso delle azioni in classe ai soli significati degli insegnanti, privilegiando la prospettiva della trasmissione culturale, lasciando sullo sfondo la visione dei bambini. Tuttavia, il modo in cui fa ricerche sia in relazione con i soggetti di ricerca per riflessioni interessanti sul ruolo del ricercatore nei contesti educativi: si posiziona come colui che intende comprendere qualcosa sull'operato degli insegnanti, promuovendo una riflessività sui processi di ricerca attuati che prelude alle ricerche etnografiche successive. Il rapporto con i soggetti di ricerca è il fulcro intorno a cui si sviluppa la ricerca svolta alla fine degli anni Ottanta da Tobin, Wu e Davidson “infanzia in tre culture, Giappone, Cina e Stati Uniti”. Questa ricerca viene presentata come un etnografia multivocale che ha l'obiettivo di ricostruire significati dati all'educazione dei più piccoli in tre strutture per l'infanzia, rispettivamente in America, Giappone e Cina, dando voce ai soggetti di ricerca che assumono un ruolo non solo di interlocutore autorevoli, ma quasi di co-autori del testo. La multi-vocalità è data proprio dalle diverse opinioni e reazioni che suscita il medesimo aspetto della vita quotidiana scolastica fra i soggetti dello stesso paese, utile per ottenere una visione generalizzabile di quel contesto, e fra i soggetti degli altri paesi, essenziale per fare emergere, la loro prospettiva e punto di vista. Il resoconto di una tipica giornata scolastica ricca di situazioni comuni e ricorrenti, diventa occasione di una discussione in cui i soggetti si confrontano su cosa appare ovvio in un luogo ma è insolito in un altro, esplicitando le proprie tradizioni e i propri valori educativi. Questa modalità di procedere nella ricerca crea un intreccio di visioni e di modi che già di per sé inter-culturale, e non solo cross-culturale: l'intento dei ricercatori non è solo descrivere come fanno in un certo luogo e tantomeno valutare quale modo sia il modo migliore, ma creare più livelli di racconto dove si discute, si critica, si smonta il discorso creato, nella volontà di restituire al lettore la complessità del contesto e dei suoi significati. Tobin, Wu e Davidson proseguono una riflessione sull'uso del metodo etnografico nei contesti educativi, sottolineando come che cosa guardare sia il risultato di un compromesso con i soggetti di ricerca e con le condizioni materiali in cui svolgere le riprese, ma anche come loro stessi come ricercatori non siano neutrali e guardino da una certa prospettiva culturale. Ciò non toglie che i ricercatori, grazie all'impegno di tecniche miste, se non riuscite a tratteggiare come i servizi per l'infanzia riflettano e nello stesso tempo influenzino e cambiamenti sociali, politici e culturali, mettendo in relazione i singoli aspetti che caratterizzano ogni scuola con i valori e le norme sociali, nonché quelle diverse realtà economiche, politiche culturali in cambiamento di un certo paese, ed evidenziano come in tutti e tre i casi i servizi educativi prescolastici fossero considerati un fattore di stabilità sociale. i limiti di questa ricerca si possono riscontrare nel problema della tipicità e una certa percezione di staticità e a-storicità che risulta dalle descrizioni. La ricerca viene riproposta a distanza di 19 vent'anni da Tobin (infanzia in tre culture. Vent'anni dopo) al fine di indagare come e quanto la globalizzazione e le trasformazioni sociali e politiche abbiano cambiato il modo di prendersi cura dei bambini nei tre paesi e strutture indagate, mostrando le sfumature e lle tensioni dei soggetti coinvolti. Woods esplora che cosa comporta avere l'estraneo all'interno dei nostri contesti. La sua ricerca “multicultural children in the early years. Creative teaching and meaningful learning” segna come i tempi siano cambiati come l'immigrazione abbia modificato la vita nelle scuole in Inghilterra, rendendo rilevante indagare come queste rispondono alla sfida di avere i bambini bilingui. Il contesto delle politiche educative e quello dell'organizzazione scolastica entrano in dialogo con i valori, le scelte e le strategie attuate dagli insegnanti. Di questi se ne descrive la tensione tra l'esigenza di adempire alle nuove prescrizioni la volontà di perseguire i loro ideali educativi per promuovere un insegnamento creativo, attento a cercare proposte e materiali che possano produrre un apprendimento significativo per i bambini bilingui, creando digressioni dall'ordine costituito per seguire gli interessi dei piccoli. La situazione generata dalle strategie e dalle azioni degli insegnanti fa da sfondo alle strategie e alle azioni che a loro volta mettono in atto i bambini: il testo mette chiaramente in evidenza l'azione creatrice e mediatrice dei soggetti in inter-relazione fra loro e con il contesto. Dà spazio al punto di vista dei bambini che scoprono modi originali per costruire ponti tra la cultura familiare e quella scolastica e per esprimere il proprio bilinguismo negli spazi che la scuola rende possibili, attuando quello che gli autori chiamano “apprendimento significativo". Tale studio, inoltre, dà voce ai genitori per comprendere quale significati essi condividano con i loro figli rispetto alla scuola multiculturale e quali aspettative riversino in questa istituzione, facendo emergere la tensione che essi vivono fra la volontà che i figli si adeguino alla lingua e alle norme culturali inglesi e il desiderio che essi mantengono la propria lingua e cultura di origine. Il testo fornisce una visione olistica e complessa dell'ambiente scolastico e rivela le potenzialità del metodo etnografico per la ricerca educativa, qualora non si limiti a descrivere la scuola dell'infanzia come il prodotto dell'azione delle insegnanti, ma attribuisca e riconosca a tutti i soggetti coinvolti il potere di agire e influire sulle relazioni che avvengono in classe e che concorrono a formare le identità complesse dei bambini che vi prendono parte. I ricercatori definiscono la loro ricerca come oggettiva, perché dichiara al lettore tutte le situazioni in cui i dati sono stati raccolti. Corsaro sceglie chiaramente di guardare la vita scolastica a partire dalla prospettiva dei bambini. Questo autore si è occupato di fare ricerche con il metodo etnografico nei contesti scolastici, affrontando il tema delicato del passaggio tra la scuola dell'infanzia e la scuola primaria dal punto di vista dei piccoli in “la famiglia, i compagni, alla scuola. il metodo etnografico per lo studio dei contesti di sviluppo” e perché, a partire dallo studio dei processi di socializzazione della cultura dei pari in “le culture dei bambini”, ha suggerito come i bambini costruiscono le loro identità complesse in base alle plurime appartenenze e alle molteplici competenze che sviluppano nei diversi mondi a cui partecipano, che poi si intrecciano in classe rendendola un luogo privilegiato di indagine. Il modello a tela di ragno da lui elaborato mostra come le esperienze infantili si giochino a diversi livelli (famiglia, scuola, comunità…) e come ognuno di questi livelli intessi diversi luoghi (parco, casa, biblioteche…) che i bambini non solo attraversano come fossero spazi fissi e pronti per l'uso, ma come produzioni collettive innovative e creative. Corsaro afferma che la relazione con i bambini è tutta da negoziare: entra in gioco lo status di adulto e il saper stare nel capovolgimento della concezione consueta di chi possiede le competenze giuste per accedere al gruppo dei pari. Pongono, invece, al centro della loro ricerca la prospettiva delle famiglie i recenti studi di Tobin e colleghi svolti in contesti di infanzia multiculturali nel volume “Press school and Im/migrants in five countries”. I ricercatori hanno deciso di intraprendere uno studio di natura etnografica in cinque città (Milano, Berlino, Parigi, 20 Birmingham, Phoenix), analizzando e comparando il punto di vista dei genitori e le relazioni scuola famiglia in alcune scuole dell'infanzia in ciascun paese. Riprendendo l'approccio metodologico multivocale e visuale delle precedenti ricerche, vengono proposti dei filmati sulla vita scolastica come stimolo per creare occasioni di confronto fra i partecipanti su cosa pensano della scuola e dell'educazione. Viene firmata una giornata tipo di un gruppo di bambini di 4 anni dall'ingresso a scuola fino all'uscita. I temi prioritari emersi dalle discussioni sono stati la lingua, l'identità, il curriculo, le politiche educative e d’immigrazioni, La relazione scuola-famiglia. Attraverso le loro descrizioni, gli autori incoraggiano il lettore a mettersi in posizione di apprendimento nel tentativo di comprendere i significati avanzati dai genitori immigrati, le cui voci sono state spesso marginalizzate o percepite come forma di ignoranza, mentre ora sono riconosciute come autorevoli forme di sapere. E’ interessante allora apprendere che essi hanno differenti opinioni rispetto che cosa dovrebbe accadere nella scuola dell'infanzia. Essi non ritengono realistico che la scuola possa sostenere i bambini nel mantenere i valori culturali e religiosi della famiglia, demandati invece al piano domestico. Questa visione si incrocia con quella degli insegnanti che vivono il dilemma fra l’aspirazione a essere culturalmente sensibili e capaci di rispondere alle esigenze di queste famiglie e questi bambini e il desiderio di perseguire i loro ideali educativi e le loro buone pratiche professionali centrate sul costruttivismo sociale. Il valore di questa ricerca è alto e crea un forte sodalizio tra antropologia e pedagogia che ruota intorno alla domanda se le scuole per l'infanzia possono essere luoghi chiave per la creazione di nuovi cittadini. In tale quadro si muove anche la parte della ricerca condotta in Italia da Mantovani. Lo studio qui si inserisce tra la tradizione di riflessione pedagogica sull'infanzia e sui servizi a essa rivolti, le istanze provenienti dall'educazione interculturale, e i lavori di antropologia dell'educazione di Rogoff che documentano la variabilità culturale nel modo di essere genitori. Tra i diversi dati emersi, la voce dei genitori immigrati rappresenta uno degli elementi più stimolanti per la riflessione pedagogica poiché permette di rileggere le interpretazioni di scuola, educazione e sviluppo di alcuni servizi italiani in una prospettiva più ampia. Le parole delle famiglie lasciano intravedere una scuola dell'infanzia sensibile e inclusiva verso tutti i bambini, che fa dell'accoglienza il suo tratto distintivo, in cui i presenti universali educativi e di sviluppo sembrano predominare sulle diversità senza discriminazioni, ma lasciano di fatto sullo sfondo la consapevolezza delle differenze, del loro significato e delle loro potenzialità sia per la costruzione identitaria del bambino, sia per il progetto educativo. Le ricercatrici avanzano così l'idea che il lavoro di confronto e dialogo avviato con la ricerca possa promuovere processi di riflessione e di sviluppo professionale per gli insegnanti, e in generale, una maggiore consapevolezza del panorama aperto della pedagogia interculturale. Una delle prime etnografie nei contesti per l'infanzia in Italia è stata svolta in un nido d'infanzia e in modo del tutto peculiare riconoscendo fin da subito gli educatori come soggetti di cultura. Si tratta del testo pubblicato da Callari Galli “cultura, infanzia e istituzioni prescolastiche. Proposte di analisi culturali per un modello di aggiornamento per educatori della prima infanzia”, in cui la ricercatrice si preoccupa di presentare al lettore il concetto di interculturazione infantile e riprende i motivi di interesse dell'antropologia per il mondo educativo. L'antropologia con i suoi concetti e i suoi dati contribuisce ad analizzare costruttivamente le mete del nostro sistema sociale nelle sue espressioni generali, e nelle sue applicazioni specifiche qual è il nostro sistema educativo. In altre parole, l’antropologia può aiutare a comprendere il contesto sociale, culturale e ambientale in cui il bambino è inserito e le categorie mentali che entrano in gioco nella pratica di osservazione di progettazione educativa, anche quando non sono rese esplicite. Il testo Interpreta i dubbi e le problematiche che emergono nel lavoro quotidiano delle educatrici, offrendo una lettura culturale dei concetti 21 di curriculo, identità di genere, regole di comportamento e valori culturali che caratterizzano quel contesto. Ampio spazio viene dato alla problematizzazione del ruolo della donna in questi servizi, interrogandosi su quale messaggio trasmetta ai bambini e alla società il fatto che l'educazione formale sia una professione al femminile. La ricercatrice ribadisce come le istituzioni prescolastiche passino dei valori che non siano neutri o assoluti, sollecitando anche il lettore a chiedersi "quali stereotipi abbiamo dentro nonostante tutto quello che sappiamo?". La ricerca dei significati culturali caratterizza anche la ricerca di Rabitti, “alla scoperta della dimensione perduta. L’etnografia dell'educazione in una scuola dell'infanzia di Reggio Emilia”. Si presenta come uno studio di caso in cui si racconta la routine quotidiana dei bambini di una delle scuole comunali di Reggio Emilia, dando rilievo ai metodi educativi e alle attività creative dei bambini svolte nell’atelier della scuola, attraverso la voce delle persone che incontra. La metodologia, centrata sull'osservazione, sulle interviste agli educatori e sull'analisi dei documenti scolastici, è caratterizzata dall'uso della narrazione etnografica come espediente per permettere ai lettori di vivere una vicarius experience, stimolando la loro comprensione del contesto e la loro immaginazione. La scelta del metodo etnografico sta proprio nella sua potenzialità di allenare a considerare la conoscenza come prodotto co-costruito tra tutti gli attori in gioco. Il testo opta per un approccio definito naturalistico, in cui predomina un registro descrittivo e lo stile del presente etnografico, che rischia un po' di fissare il caso educativo emiliano in modo a-storico. Bisogna, tuttavia, riconoscere che l’accurata descrizione del contesto sociale e politico proprio della cittadina e della storia della scuola permette di comprendere le ragioni delle scelte educative operate dagli insegnanti. La ricercatrice si cura di esplicitare tutti i passaggi metodologici effettuati sul campo, definendo lo studio di caso nei contesti educativi un processo di contrattazione per ottenere il massimo della collaborazione, e si chiede fino a che punto il ricercatore debba trattare. Questo è l'interrogativo che si pone anche Dal Fiore nella “cosmologia di una scuola dell'infanzia. Counseling etnografico e riflessione pedagogica”. Questa autrice si occupa di indagare con il metodo etnografico una scuola per l'infanzia e di descrivere i riti e le routine che ne caratterizzano la vita quotidiana, intrecciando i significati che danno all'esperienza scolastica gli insegnanti, i bambini e i genitori e che contribuiscono a riprodurre l'ordine sociale. Così, si susseguono i significati del fare il bravo e fare la brava, o dell'essere grande, promossi dalle insegnanti attraverso le regole sociali e le strategie di controllo, il valore del gioco libero e del lavoro a scuola ecc... Ma si evidenzia anche come quest'ordine sia re-interpretato da parte dei bambini, che trovano spazi d'azione nel gioco libero o nei loro amori e amicizie per sperimentare la soglia della trasgressione e dare voce ai loro desideri. Gli ideali pedagogici delle insegnanti basati sul gioco libero e sulla creatività dei bambini entrano in conflitto con le richieste istituzionali implicite di preparare i bambini per la scuola successiva, non di rado alimentati dagli stessi genitori che spesso hanno giudizi differenti su che cosa serva ai bambini e come intervenire in talune situazioni. Restituire la lettura dei dati etnografici alla scuola non è però facile. Come dichiara la ricercatrice, è uno sguardo a cui non siamo abituati, che può creare resistenze, timori e incomprensioni con i soggetti di ricerca, ma anche aprire nuovi spazi di riflessione e di formazione personale. In Italia, negli ultimi anni l'interesse di ricerca si sta spostando a piccoli passi nei servizi educativi multiculturali per l'infanzia. L’approccio etnografico è stato impiegato nella sopracitata ricerca di Mantovani, che esplora le rappresentazioni di infanzia di scuola di insegnanti e genitori immigrati. A questo si aggiungono le ricerche condotte con diversi metodi etnografici da Gobbo, che esplora in chiave interculturale alcune tematiche connesse ai servizi per l'infanzia in alcuni articoli recentemente pubblicati. In questi si descrivono i servizi educativi come spazi la cui organizzazione struttura la vita dei soggetti secondo un ordine culturalmente orientato, ma dove si conoscere agli stessi soggetti la 22 capacità di leggere alcuni aspetti in maniera indipendente, aprendo nuovi apprendimenti e occasioni educative. Un primo articolo è finalizzato a comprendere i molteplici significati e la rilevanza culturale ed educativa che riveste il cibo preparato e consumato in una scuola per l'infanzia come mezzo per esercitare un diritto di cittadinanza. Un secondo, invece, esamina la partecipazione creativa dei bambini alle relazioni e alle interazioni linguistiche fra pari in un nido d'infanzia che accoglie molti bambini di origine cinese. Infine, un'altra ricerca esamina la figura dell'educatore maschio nei servizi 0-3 anni, dove essere l'estraneo, il diverso, è spesso l'uomo. Le ricerche nazionali e internazionali qui proposte fanno emergere come l'impiego del metodo etnografico possa essere fruttuoso per indagare i servizi educativi per la prima infanzia, facendone emergere le diverse sfaccettature e le diverse prospettive che si intrecciano al suo interno. Tali ricerche si sono concentrate principalmente a livello di scuola per l'infanzia e per bambini di 3-6 anni, occupandosi meno dei servizi rivolti alla fascia di bambini di 0-3 anni, rivelandone però le potenzialità di impiego. L'etnografia può essere un valido strumento per orientare la lettura e l'interpretazione dei contesti per la prima infanzia, mettendoli in prospettiva culturale. Questo approccio di ricerca pone l'accento sul modo particolare di ascoltare gli altri e di vedere gli altri, per accedere al modo in cui loro concepiscono se stessi e il loro mondo. Questo atteggiamento di ascolto e di attenzione ai significati degli altri e l'enfasi posta sulla processualità dei fenomeni è un tratto che caratterizza anche la pedagogia, con speciale attenzione quando rivolta a contesti multiculturali. Si può così intessere un dialogo fra i due ambiti disciplinari reciprocamente arricchente, capace di aprire nuove piste metodologiche di ricerca per indagare il mondo educativo della prima infanzia. Tra i vari spunti di riflessioni,se ne propongono due: 1) Questione etica del fare ricerca con i bambini. L'etnografia è un procedimento conoscitivo che sollecita la presa di parola da parte dei soggetti perché esprimano il loro punto di vista. Ma come fare con i bambini piccoli? Accedere al senso che essi danno al mondo può non essere immediato. Questa consapevolezza ha dato origine a un Fruttuoso dibattito sulla Research with children e sulle complessità etiche e metodologiche della partecipazione dei bambini ai processi di ricerca che è tutt'oggi in fieri. L’etnografia viene considerata un metodo ideale per riconoscere l'agency dei bambini e le loro potenzialità partecipative, ma richiedono ulteriore presa di responsabilità. Sollecita a ripensare alla relazione di potere fra l’adulto-ricercatore e il bambino-informatore: il suo essere non-bambino in qualche modo interviene nel processo di ricerca e interroga sia sulle strategie per dare potere di definizione ai bambini, sia sulla posizione che essi di solito occupano nella società. Le indagini nei contesti scolastici portano quasi a naturalizzare il modello di socializzazione che lí avviene e, a dimenticare o sottovalutare che è un'istituzione gerarchicamente organizzata sul criterio dell'età e su una particolare relazione adulto-bambino. A ciò si deve ancora raggiungere la problematica dell'accesso al campo e del consenso informato che invita il ricercatore a trovare i nuovi st