Competenza Interculturale PDF
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Summary
This document discusses intercultural competence in education, highlighting the changing nature of work and the importance of considering diverse cultural perspectives in the classroom. It explores the concept of competence and the challenges involved in understanding and supporting diverse viewpoints. This document is geared toward an educational or professional context, discussing issues beyond the scope of a typical high school exam.
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Un'altra strategia è quella del color-blind, quindi ignorare espressamente ogni differenza tra gli individui, trattando tutti esattamente allo stesso modo. Quando è stata attuata, negli anni ‘80, questa strategia ha ottenuto un progresso rispetto ai tempi, oggi però è piuttosto inefficace; infatti b...
Un'altra strategia è quella del color-blind, quindi ignorare espressamente ogni differenza tra gli individui, trattando tutti esattamente allo stesso modo. Quando è stata attuata, negli anni ‘80, questa strategia ha ottenuto un progresso rispetto ai tempi, oggi però è piuttosto inefficace; infatti bisogna ricordarsi che il confronto con le diversità non avviene quasi mai su un piano di parità e un trattamento egualitario finisce per sottolineare l'inferiorità dell'altro. Un'interazione che ignori tutte le differenze non fornisce un quadro interpretativo per le differenze stesse, le quali, evidenti in ogni caso, tenderanno essere spiegate tramite gli stereotipi. Inoltre, questa strategia non tiene conto del bisogno di riconoscersi in un sistema che passa attraverso una valorizzazione positiva della propria cultura ed un confronto con gli altri gruppi. Il confronto con le diversità è necessario, bisogna trovare solo il modo giusto di affrontarlo, una soluzione è individuare diverse dimensioni lungo le quali effettuare questo confronto. Ognuno riconosce che il proprio gruppo è migliore solo sotto certi aspetti, mentre l'altro gruppo è superiore in altri. Il requisito di questa è la disponibilità alla tolleranza, è la convinzione che sia possibile e giusto che esistano differenti modi di vedere il mondo e di essere. Elemento positivo di questa strategia è la generalizzazione delle esperienze positive che porta ad una riduzione del pregiudizio e ad un miglioramento delle relazioni fra i gruppi. CONCLUSIONE: STEREOTIPI E PREGIUDIZI Stereotipi e pregiudizi, in conclusione, derivano da: I limiti del sistema cognitivo che ha l'esigenza di semplificare la realtà e di avere sempre delle aspettative. Il bisogno di appartenenza mischiato a motivazioni biologiche e culturali, che spinge a riconoscersi in un gruppo di simili e all'avversione verso gruppi estranei. Ragioni di tipo storico e sociale che di volta in volta definiscono la posizione e le funzioni di ciascun gruppo minoritario, e lo stato complessivo dei rapporti tra i gruppi di una determinata società, nonché la situazione delle relazioni interetniche ed internazionali. Se si vuole ridurre gli stereotipi e promuovere la comprensione tra le persone di culture diverse, è necessario anche affrontare le radici strutturali di questi problemi. Solo eliminando le cause strutturali delle ostilità verso altre culture si potranno davvero ottenere progressi. Gli interventi sociali e istituzionali devono quindi tener conto non solo dei fattori psicologici e sociali, ma anche delle cause più profonde legate alla struttura della società. LE COMPETENZE INTERCULTURALI NEL LAVORO EDUCATIVO – REGGIO CAPITOLO 1: “COMPETENZE INTERCULTURALI ED ESPERIENZA PROFESSIONALE” L'interesse nei confronti delle problematiche interculturali è aumentato sulla spinta del fenomeno migratorio. Il concetto di “competenza” ha interessato ambienti come quello del lavoro, della vita sociale e dell'istruzione. Secondo la Boterf la competenza è “sapere in atto” che si manifesta in un “determinato contesto”, è una qualità del soggetto di attingere alle risorse personali per affrontare le situazioni di vita quotidiana, sociale e personale. In ambito scientifico le definizioni di competenza sono molte. Oggi la "competenza" è vista come un'idea centrale che guida decisioni politiche e strategie, e influisce concretamente su vari settori, compresa l'istruzione. Si individuano diversi elementi che hanno contribuito alla nascita della diffusione della competenza come valore descrittivo e interpretativo di realtà diverse dell'agire sociale: La trasformazione dei modi di produzione, che hanno visto l'imporsi di condizioni nelle quali i processi di lavoro sono soggetti a continui cambiamenti e avvengono in contesti di incertezza e rischio e inoltre diventano sempre più relazionali, rendendo le conoscenze essenziali. Questa evoluzione del lavoro ha modificato le condizioni di vita delle persone andando ad offrire opportunità ma anche a creare discriminazioni nella società. Anche le professioni sono cambiate, diventando sempre più basate su conoscenze, abilità pratiche e atteggiamenti adeguati (fare, saper fare, saper essere). Anche l'istruzione è stata influenzata da questi cambiamenti. Oggi, con la facilità di accesso alle informazioni, è importante che le persone sappiano usare le conoscenze in modo personale e siano in grado di affrontare situazioni nuove e complesse. Quando si cerca di capire meglio cosa significa "competenza", emergono alcune difficoltà. Una di queste è la tensione tra il fatto che la competenza è qualcosa di personale e soggettivo e la necessità di avere degli standard per poterla confrontare e valutare (anche con l'autovalutazione). Un'altra difficoltà è bilanciare il bisogno di descrivere le competenze in modo astratto con la necessità di mantenere un legame con situazioni concrete e reali. È anche interessante capire come le competenze si sviluppano. Secondo una ricerca di McCall, Eichinger e Lombardo, le competenze si sviluppano in proporzioni diverse: il 70% attraverso l'esperienza lavorativa, il 20% tramite interazioni sociali al di fuori del lavoro, e il 10% attraverso processi formativi di carattere formale. Anche se i numeri esatti possono variare, possiamo dire che le competenze si sviluppano attraverso la pratica quotidiana. Tuttavia, semplicemente fare delle cose non basta per sviluppare vere competenze, che richiedono anche conoscenza e atteggiamenti adeguati. Possiamo affermare che le situazioni e il concreto agire offrono l'opportunità di maturare apprendimenti che costituiscono l'esperienza personale del professionista e il sapere effettivo delle persone; quando gli apprendimenti vengono agiti in pratica, si configurano poi come competenze. La competenza, quindi, è la capacità di utilizzare il sapere in situazioni differenti e di adattare i saperi alle necessità. L'esperienza non coincide con le competenze, ma permette che esse si sviluppino in essa. Per riconoscere la competenza serve uno sforzo attento di osservazione, di interrogazione che l'individuo deve rivolgere a sé stesso. È necessario oggettivare l'azione compiuta e poterla rivedere grazie al distacco che la descrizione narrativa permette (ad esempio il professionista che riguarda il proprio lavoro costruisce la propria esperienza professionale che è data da una profonda rivisitazione di quanto ha vissuto), così il soggetto porta fuori e coltiva le proprie risorse, costruendo anche la competenza stessa. Il rapporto tra esperienza e competenza: la formazione delle competenze avviene grazie alla realizzazione di esperienze dirette fatte in situazioni concrete. La rilevanza delle tematiche interculturali (dovuta ai flussi migratori) ha sollecitato la ricerca intorno alle competenze che ai professionisti devono sviluppare per svolgere in maniera efficace i loro compiti. Nel 1970 gli studi si sono concentrati sulle differenze nelle terminologie, ovvero “competenze interculturali”, “efficacia interculturale” e “adattamento interculturale”, successivamente è emersa la natura multidimensionale delle competenze interculturali. Poi dagli anni ‘90 sono stati prodotti modelli concettuali che si concentrano sul processo di costruzione della conoscenza interculturale e Spitzberg e Changnon hanno proposto una distinzione tra cinque tipi di modelli: I. Modelli compositivi: identificano gli elementi che costituiscono le competenze. Sono liste delle abilità che sono necessarie nell'interazione competente. II. Modelli co-orientativi: identificano i risultati della comprensione interculturale o delle sue varianti. III. Modelli di sviluppo: enfatizzano la dimensione temporale delle interazioni culturali (come variano nel tempo, il loro contributo nel tempo). IV. Modelli di adattamento: considerano più di un soggetto nel processo e si concentrano sull'indipendenza di questi molteplici soggetti. V. Modelli di percorso casuale: utilizzano set identificabili di concetti che variano dal più distante al più prossimo. Una delle caratteristiche più importanti della competenza è la dinamicità, in quanto la competenza in ambito interculturale si presenta con gradi diversi di maturazione e padronanza da parte del soggetto. Il modello “DMIS” elaborato da Bennet sostiene che la sensibilità interculturale va da stadi a prevalenza etnocentrica (quindi negazione, il soggetto vive condizioni di resistenza alla diversità culturale) a stadi di carattere etnorelativo (quindi accettazione, adattamento e integrazione). Grazie al modello di Bennett sono stati elaborati delle strategie volte allo sviluppo delle competenze interculturali, che inizia proprio dal riconoscimento dello stadio nel quale l'individuo si trova nel momento in cui intraprende il percorso formativo interculturale; poi queste strategie vanno ad osservare, durante la formazione, l'evoluzione e l'apertura alle differenze culturali. La caratteristica della dinamicità riguarda anche possibili fenomeni di convertibilità all'apertura alle diversità. La padronanza della competenza interculturale varia in considerazione delle diverse condizioni temporali, soggettive e sociali. Un altro aspetto importante è la connessione tra competenze di comprensione culturale e competenze comunicative. Quando ci si concentra sulla comprensione culturale, si cerca di capire le differenze culturali e le difficoltà che ne derivano. Quando invece si pone l'accento sulla comunicazione, si punta a saper entrare in contatto e comunicare con persone di culture diverse. La ricerca sulle competenze interculturali e il loro utilizzo nella formazione è molto influenzata dai cambiamenti sociali, economici e culturali causati dalla globalizzazione. Oggi, le competenze interculturali si trovano tra la pedagogia e le sfide della cittadinanza. Le Boterf afferma che la competenza è un insieme dinamico di conoscenze e abilità, e che riguarda una padronanza in determinati ambiti professionali. Le competenze interculturali si basano su elementi generali della professionalità. Questo approccio è presente in vari modelli, come quello di Deardoff, che sottolinea l'importanza alla base delle competenze interculturali delle capacità su cui si costruiscono conoscenze, comprensioni e capacità specifiche, come ascoltare, osservare e interpretare. Secondo Deardoff, da queste basi si sviluppano i risultati interni ed esterni della competenza interculturale. Si parla di competenze interculturali quando si hanno insiemi di conoscenze e abilità specifiche, che richiedono altre competenze ma hanno caratteristiche distintive proprie. Capire cosa sono e come si sviluppano le competenze interculturali aiuta a comprendere meglio l'importanza e il valore del lavoro educativo in un mondo culturale sempre in evoluzione. CAPITOLO 2: “LA DIVERSITÀ CULTURALE NEI RACCONTI DELLE PARTICHE DI INSEGNAMENTO” Una ricerca ha chiamato in causa alcuni insegnanti della scuola dell'infanzia, i quali devono ricostruire la loro esperienza di intercultura in classe attraverso una situazione che ha come protagonista il bambino di “un'altra cultura”. PROBLEMATICHE La società democratica moderna ha come caratteristica principale la pluralità e la diversità, quindi bisogna sviluppare un pensiero dell'eterogeneità. L'individuo è visto quindi come il produttore della sua cultura e non come prodotto di una cultura (ha quindi un ruolo attivo). Nasce l'esigenza di andare a rivedere il concetto stesso di cultura; partendo da Abdallah-Pretceille che è andato a sviluppare una teoria del rapporto con l'altro in un contesto eterogeneo (paradigma dell'alterità). Le culture sono trasmesse dagli individui il quale sono portatori di cultura. Le culture, quindi, acquistano senso nella relazione: noi non ci troviamo a che fare con la cultura solo nel suo complesso, ma con dei frammenti di questa che si mostrano in maniera diversa a seconda dei contesti e dei soggetti. Quindi possiamo affermare che l'individuo è colui che costituisce la cultura e che va ad attribuire alla cultura un senso in base ai contesti nei quali si trova. Non possiamo comprendere l'altro se non entro in relazione con lui, devo comunicare con l'altro per arrivare a essere in grado di capire ciò che sta spiegando, “mettendo in scena” (considerando/mostando) la sua cultura. Dunque, il paradigma dell'alterità di Abdallah-Pretceille prende in considerazione l'intercultura come un incontro di culture: la relazione avviene tra individuo e individuo, piuttosto che tra cultura e cultura. Nell'educazione interculturale gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale, come attori competenti che hanno un potere di agire sulle strutture. Bisogna riconoscere che per spiegare la relazione educativa che gli insegnanti hanno con i bambini di “un'altra cultura” sono indispensabili i significati che loro stessi danno alla loro pratica e la loro capacità di decodificare gli elementi di contesto. Shon sostiene che il “sapere dell'azione” non si insegna, ma si costruisce a contatto con le situazioni problematiche della vita quotidiana; questo sapere poi viene fuori grazie alla conversazione riflessiva dei professionisti con la situazione stessa (all’analisi che fanno di quella situazione). METODOLOGIA È stato attuato un approccio per racconti di pratiche: il racconto di pratiche è la narrazione di una situazione-problema incontrata dall'insegnante che permette l'accesso all'agile dell'insegnante collegato alla sua interpretazione dell'esperienza. Il racconto, quindi, descrive la realtà sociale così come è percepita dall'insegnante, per fargli narrare un evento singolare legato alla sua vita professionale. L'analisi è stata fatta per mezzo della Grounded Theory (è un metodo di ricerca qualitativa che sviluppa teorie direttamente dai dati raccolti attraverso l'osservazione e l'intervista, piuttosto che testare ipotesi preesistenti), essa si distingue dagli altri metodi di analisi qualitativa ed è stato ritenuto importante per questa ricerca. Tutti gli insegnanti potevano essere selezionati per la ricerca, ma in realtà dovevano corrispondere a un certo profilo: dovevano già avere un'esperienza di pratica nella scuola dell'infanzia ed avere già incontrato una sfida simile (questo per assicurarsi una certa omogeneità all'interno del campione); alla ricerca hanno partecipato insegnanti che provenivano da 18 differenti scuole. È stato visto che gli insegnanti raccontavano la propria esperienza in modi diversi, ciascuno ha scelto di mettere in evidenza aspetti personali e significativi per loro. Inoltre, il loro modo di raccontarsi e di mettere l'accento su alcune questioni risultava essere dipendente dal messaggio che volevano poi trasmettere: in una situazione problematica, gli insegnanti identificavano il significato del problema in modo coerente con il loro messaggio. Dopo la stesura dei racconti è stata fatta l'analisi, quindi si va ad analizzare ciascun racconto e il narratore diventa il ricercatore. L'obiettivo della ricerca era definire come gli insegnanti interagivano con culture diverse, quindi era necessario un'analisi trasversale dei racconti. Bisognava andare oltre la coerenza interna dei racconti tra il messaggio trasmesso e il modo di “mettersi in scena”; l'analisi era condotta da una sensibilità teorica che permetteva di vedere i racconti come testimonianze di un rapporto con l'agire e con l'altro di “un'altra cultura”. Sono emersi i concetti vettori attraverso i quali i ricercatori erano in grado di posare lo sguardo complessivo che era necessario per definire un’alterità in azione. I 20 raccolti sono stati riuniti in 7 gruppi che rivelavano 7 rapporti diversi con l'agire interculturale. Giddens e Abdallah-Pretceille hanno teorizzato su come un attore competente si relaziona con l'altro di una cultura diversa. Gibbens valorizza il sentimento di competenza, mentre Abdallah-Pretceille valorizza la relazione intersoggettiva: è emerso il fatto che competenza e intersoggettività andavano di pari passo, più gli insegnanti testimoniavano un riconoscimento dell'altro, più rivelavano un sentimento di competenza. RISULTATI I risultati dell'analisi dei raccolti sono stati articolati in 7 tappe, ognuna affrontate secondo tre livelli di teorizzazioni. Prima di tutto sono riportati i prototipi relativi ad ogni livello secondo la logica messaggio- intreccio e dopo vengono riportati i commenti interpretativi che tengono conto del rapporto con l'agile interculturale dell'insegnante. Prima tappa: l'importanza, secondo l'interlocutore, di considerare una questione come prioritaria. Nel prototipo Cecile racconta di aver vissuto una situazione problematica di un'altra cultura, ma approfitta di questa per far passare un messaggio pedagogico che le preme di più. Emerge, quindi, che non parla del rapporto con l'altro. Questo racconto chiarisce che per i docenti l'intervento interculturale non costituisce per forza una priorità all'interno dei problemi che incontrano e che, per l'insegnante, approcciare l'intercultura significa situarla in relazione ad altre sfide che trova nella sua pratica. Seconda tappa: l'importanza di farne un problema specifico o di quanto un rapporto con l'altro sia standardizzato. Nel prototipo che testimonia l'emergere della seconda tappa, Eva non vuole considerare il bambino come “differente culturalmente”. Non prendendo atto di questa specificità del bambino, secondo lei bisogna considerarlo come gli altri; quindi, c'è una negazione dell'idea stessa della differenza culturale: Eva tratta il problema come fosse un problema pedagogico, quindi non consente ai ricercatori di evidenziare un rapporto con l'altro di “un'altra cultura”. Terza tappa: l'importanza di responsabilizzarsi. Nel prototipo che testimonia l'emergere della terza tappa, Francine non si impegna in modo serio nei riguardi del bambino di un'altra cultura, giustificando il suo intervento tirando in causa le risorse carenti del sistema educativo. Non attribuendosi responsabilità, quindi dimostra che non c'è impegno possibile nel rapporto con l'altro con il bambino di un'altra cultura. Quarta tappa: l'importanza di una competenza legittimata o di quanto il rapporto con l'altro è deviato dei genitori. Nei prototipi che hanno testimoniato l'emergere della quarta tappa Diane e Mylene vivono delle situazioni nella quale c'è un tentativo da parte di altre figure, come i genitori, di immischiarsi nella loro zona per agire; in queste situazioni loro investono le loro energie sui genitori e non sono in grado di stabilire un rapporto con il bambino di un'altra cultura. Emerge l'importanza per l'insegnante di avere uno spazio in cui la loro competenza viene riconosciuta. Quinta tappa: l'importanza di quando il rapporto con l'altro è intercettato dalla cultura. Nei prototipi, Anne Marie e Florence sostengono che i problemi incontrati sono problemi di cultura, tutto si svolge come si comportamenti del bambino fossero filtrati in funzione della differenza culturale che gli insegnanti gli attribuiscono, quindi l'azione degli insegnanti è rivolta più verso la cultura del bambino che verso il bambino stesso e i suoi specifici problemi. Sesta tappa: l'importanza di delimitare il suo spazio di intervento o di quanto il rapporto con l'altro si incarna in una relazione funzionale Nei prototipi gli insegnanti scelgono uno spazio dove ci si sente abilitati a esercitare il proprio potere d'azione, in questa zona si riesce ad avere una relazione con il bambino di un'altra cultura. Settima tappa: l'importanza di quando il rapporto con l'altro si incarna in una relazione intersoggettiva. Nei prototipi Elise e Sylvie prendono atto della specificità culturale del bambino, rendendo possibile una relazione; oltre a riconoscere la propria competenza, gli insegnanti ne riconoscono una anche al bambino, permettendogli di agire davvero con lui. DISCUSSIONE DEI RISULTATI Analizzando i risultati, quindi, alcune pratiche hanno mostrato meno alterità in atto rispetto ad altre: ad esempio, in confronto alla prima tappa, la seconda mostra un passaggio iniziale importante verso l'alterità in atto. La seconda tappa, insieme alle altre (esclusa la prima), ha in comune il fatto che gli insegnanti sono interessati all'altro, sono interpellati da lui; quindi, hanno in comune la “preoccupazione dell'altro”. Dalla quarta tappa c'è un secondo passaggio, qui si vede che gli insegnanti si procurano la possibilità di agire nei confronti del bambino di un'altra cultura, andando ad esercitare il potere d'azione all'interno dei limiti del loro controllo riflessivo, abbiamo una “conquista dell'altro” e non solo una preoccupazione. La settima tappa segna poi un altro passaggio verso l'alterità in atto. Gli insegnanti sono in grado di agire con l'altro, cioè, riconoscono il proprio potere d'azione e quello del bambino, abbiamo l' ”incontro con l'altro”. Questi tre passaggi permettono di definire l'alterità in atto come un percorso: 1. Preoccupazione per l'altro. 2. Conquista dell'altro. 3. Incontro con l'altro. Per capire cosa caratterizza l'alterità in atto ci si sofferma sulla settima tappa e si confronta con quelle precedenti: vediamo la settima tappa confrontata con la seconda; a differenza dell'insegnante della seconda tappa, che uniforma le differenze, quella della settima tappa prende atto delle differenze dei bambini di cui parlano. Si va verso l'invenzione di una soluzione che si adatta sia al bambino e sia al contesto in cui il bambino è inserito. Le soluzioni sono l'effetto di una conciliazione tra quello che i bambini devono fare come tutti gli altri e il trattamento particolare che la differenza esige. Mettiamo a confronto invece la settima tappa con gli insegnanti della terza tappa. Qui si identifica un secondo fattore presente dell'alterità in atto: nella terza tappa l'insegnante giustifica il suo non intervento a causa della carenza di risorse del sistema educativo, facendo ricadere la responsabilità dei bambini sul sistema. Nella settima tappa, invece, l'insegnante si appropria delle risorse del sistema educativo messe in campo per l'altro. Mettiamo a confronto la settima tappa con la quarta e qui si identifica il terzo fattore presente dell'alterità in atto, che presuppone il riconoscimento di competenze sia degli insegnanti che dei genitori. Nella quarta tappa, infatti, i genitori sono visti dall'insegnante come dei vincoli; invece, nella settima tappa i genitori rappresentano una risorsa nel rapporto che l'insegnante spera di creare con il bambino. Mettiamo a confronto la tappa con la quinta tappa, per identificare un quarto fattore presente nell'alterità in atto, che presuppone un'attenzione elevata nel modo in cui l'altro mobilità la sua specificità culturale. Infatti, nella quinta tappa le insegnanti condividono il fatto di vedere i bambini dei quali parlano come delle culture con le quali le loro entrano in contatto. Invece, nella settima, i bambini diventano produttori di cultura, stabilendo una relazione intersoggettiva con i bambini, tenendo conto della loro differenza culturale. Mettiamo a confronto la settima tappa con la sesta e identifichiamo un quinto fattore presente dell'alterità in atto che presuppone una sensibilità alla persona e al contesto nella relazione con l'altro. Infatti, nella stessa tappa le insegnanti restringono il loro spazio intervento non entrano nella storia di ogni bambino, mentre nella settima tappa le insegnanti concedono uno spazio di intervento ampio e modulabile in funzione delle situazioni. CAPITOLO 3: “LA RICERCA SULLE COMPETENZE INTERCULTURALI DI INSEGNANTI ED EDUCATORI” Questa ricerca condotta dall'equipe dell'Università Cattolica di Milano e poi ripresa anche da altre università, ha lo scopo di elaborare modelli teorici e metodologie per la formazione delle competenze interculturali. Il tema della “competenza” è stato affrontato con una prospettiva di carattere interculturale, quindi si fonda sull'idea di “cultura” intesa nei suoi aspetti più dinamici e soggettivi e sull'idea di “cittadinanza” volta a creare una coesione sociale e non a sottolineare le differenze. Il lavoro di ricerca è nato con lo sforzo di rintracciare nel lavoro di insegnanti e educatori delle competenze interculturali che fossero effettivamente esercitate. La ricerca è volta a: Comporre il quadro delle competenze necessarie al lavoro interculturale dei professionisti dell'educazione. Elaborare i metodi di ricerca che andassero a sviluppare queste competenze in vari contesti. Sono stato individuate tre principali competenze: 1. Comprensione delle culture. 2. Riduzione del pregiudizio. 3. Costruzione di orizzonti condivisi. L'indagine è volta ad affrontare alcuni argomenti cruciali, cioè: vedere come gli insegnanti e gli educatori esercitano queste competenze nella loro professione, come hanno sviluppato queste competenze e infine come queste competenze potrebbero formarsi e svilupparsi ulteriormente. A questa ricerca hanno preso parte i 45 professionisti, 30 insegnanti della scuola primaria e 15 educatori impegnati in servizi nei quali c'è una grande presenza di immigrati. Le attività di ricerca si sono sviluppate in varie fasi di lavoro: I. Aprile 2010: seminario nel quale è stato costituito il gruppo di ricercatori. II. Maggio/Giugno 2010: i ricercatori hanno analizzato dei documenti per la descrizione delle competenze oggetto di ricerca. Inoltre, alle scuole, insegnanti e servizi educativi è stata presentata la ricerca, con lo scopo di coinvolgere i professionisti interessati. III. Settembre 2010: sono state raccolte le adesioni e sono stati divisi i gruppi di ricerca per “competenza”, quindi 5 gruppi composti rispettivamente da 10 professionisti per gruppo (insegnanti con insegnanti, educatori con educatori) e i ricercatori sono andati a coordinare il lavoro di un gruppo. Il lavoro di ricerca è durato in tutto nove mesi, nel quale sono presenti diverse fasi: C'è stato un primo incontro nel quale ogni gruppo è stato presentato il lavoro e la metodologia. È stato svolto un lavoro autonomo di scrittura di una prima scheda da tutti i professionisti, i quali sono stati supervisionati dai ricercatori. C'è stato un secondo incontro nel quale si è svolta la raccolta e l'analisi dei racconti prodotti e delle relative competenze. È stato svolto un lavoro autonomo di scrittura di una seconda scheda da tutti i professionisti, i quali sono stati supervisionati dai ricercatori. C'è stato un terzo incontro nel quale si è svolta la raccolta e l'analisi dei racconti prodotti e delle competenze e la presentazione di schede di difficoltà. I professionisti hanno portato il loro materiale in versione definitiva, sempre supervisionati dai ricercatori. I ricercatori hanno elaborato una prima raccolta dei materiali definiti di ogni gruppo e hanno condiviso con i professionisti questi materiali. A settembre 2011 c'è stato un seminario interno dell'equipe di ricerca dove c'è stata una prima comparazione e analisi dei materiali raccolti nei vari gruppi. Fino a dicembre 2011 i vari ricercatori hanno lavorato all'analisi dei materiali che erano stati raccolti, concentrandosi sulle competenze e sulle indicazioni per la formazione che erano venute fuori dai gruppi. Sono state realizzate alcune azioni specifiche: a) Un focus group con insegnanti, con lo scopo di ricercare elementi costitutivi della formazione e delle competenze interculturali e l'elaborazione di linee strategiche che permettessero la formazione degli insegnanti e degli educatori a queste competenze interculturali. b) La stesura del report finale della ricerca. Infine, a Febbraio 2013 c'è stato un convegno nel quale sono stati presentati i risultati emersi dalla ricerca. Per quanto riguarda la definizione metodologica della ricerca partiamo da dei riferimenti teorici, ovvero il concetto di competenza, inteso come l'insieme delle conoscenze, delle abilità e degli atteggiamenti che danno la possibilità al professionista di affrontare in maniera adeguata alle situazioni lavorative; e il riconoscimento delle forme che l'apprendimento delle competenze assume negli adulti. Sulla base di questi due, il progetto di ricerca ha cercato di descrivere le modalità attraverso le quali la competenza si esprime e si è cercato di individuare quali sono le modalità attraverso le quali i professionisti sono andati a sviluppare le proprie competenze. Ci sono però alcuni aspetti che rendono questa individuazione complessa, in quanto nella maggior parte dei casi il “saper fare competente” dei soggetti è inconsapevole. Quello che bisogna fare, quindi, è aiutare i professionisti a descrivere e rileggere il proprio agire e a vedersi dall'esterno. L'impostazione metodologica della ricerca ha distinto tre metodi di ricerca: La descrizione e l'analisi della competenza: c'è una valorizzazione della capacità degli individui di descrivere attività lavorative svolte da loro, nelle quali la competenza interculturale fosse subito riconoscibile e argomentabile. Sono presenti delle tecniche che permettono di far emergere gli elementi della competenza. Il venir fuori della competenza nascosta richiede di essere accompagnato, questa funzione di accompagnamento è svolto dai ricercatori che hanno aiutato i professionisti a “guardare al di fuori” delle situazioni che sono state vissute personalmente da loro. L'argomentazione della competenza: dopo che è stata individuata la competenza, dev’essere argomentata, quindi come viene esercitata e come il professionista l’ha acquisita. Si è andato a chiedere ad ogni partecipante della ricerca di scegliere una delle tre competenze citate prima (comprensione delle culture, ridurre pregiudizio e costruzione di orizzonti di condivisi), per poi andare a descriverla e argomentarla. Ogni competenza è stata descritta attraverso il racconto di almeno due situazioni che il soggetto ha realmente vissuto. I soggetti devono riportare in maniera dettagliata l'esperienza vissuta, quello che hanno pensato, le loro emozioni. Dopo si passa poi all'individuazione delle risorse personali attivate da ciascun insegnante per affrontare la situazione. Questa individuazione è stata successivamente precisata e arricchita attraverso il confronto con gli altri partecipanti e con il ricercatore. Si genera un processo riflessivo e di sviluppo di consapevolezza. L'analisi prosegue con l'esplorazione delle difficoltà nell'esercizio della competenza che si sono presentate nelle situazioni narrate. E qui si esprimono considerazioni critiche di quanto vissuto. La descrizione e l'analisi delle competenze esercitate in determinate situazioni da insegnanti e educatori sono state utilizzate per l'individuazione di linee strategiche per la formazione del culturale di insegnanti educatori. L'elaborazione dei materiali raccolti. CAPITOLO 4: “LA COMPETENZA: INTERPRETARE LE CULTURE” Una competenza necessaria per coloro che lavorano in ambito educativo è “l'interpretare le culture”, quindi riconoscere i significati dei comportamenti degli altri e non attribuire qualsiasi comportamento all'origine sociale, etnica e culturale altrui. Il fatto che un determinato comportamento di persone sia collegato alla cultura di appartenenza ci porta a pensare che la cultura sia un qualcosa di rigido, formato da elementi definiti e ben riconoscibili, ma in realtà è tutto il contrario. Si va quindi a utilizzare la cultura come concetto ampio, andando a sostituire di conseguenza questo termine con i termini “tratti culturali” o “formule culturali”. Vediamo tre storie che ci fanno capire proprio il fatto che la cultura è un concetto dinamico e complesso e ci fanno anche capire che le culture per essere comprese hanno bisogno di uno sguardo che non abbia pregiudizio, oltre all'importanza per un educatore di interpretare culture diverse dalla propria. PRIMA STORIA “UN INDOVINO MI DISSE” Questa storia parla di un'educatrice che è a contatto con un ragazzo cinese di 15 anni che frequenta la terza media e che è arrivato in Italia da 2 anni e vive con il padre e il fratello maggiore disabile. Il ragazzo si chiama Jx e si occupa di suo fratello maggiore accompagnandolo al centro di socializzazione adulti. Qui la coordinatrice si rende conto che Jx non capisce molto la lingua italiana e che è molto solo. L'educatrice quindi gli propone un corso individuale che gli permette di rinforzare la conoscenza della lingua italiana e successivamente gli propone anche altre attività che l'avrebbero fatto entrare in contatto con altri bambini per socializzare. A Jx, dopo che l'educatrice aveva avuto un incontro in equipe in quanto il ragazzo rifiutava ogni forma di socializzazione, gli viene presentato il programma, cioè svolgimento di compiti, alcuni uscite a Milano, una gita al mare e una al fiume. L'educatrice nota che il ragazzo quando sente queste parole diventa gioioso, ma dal momento che gli viene detto la modalità per partecipare alla gita, pochi soldi e autorizzazione del padre, il ragazzo diventa nuovamente serio dicendo che non potrà partecipare. L'Educatrice domanda quindi il motivo per cui non può venire e dopo tanto silenzio Jx afferma che non andrà in gita perché non può fare il bagno fino a che non ha compiuto 18 anni; continua a spiegare che da piccolo, in Cina, il padre lo aveva portato da uno stregone, il quale gli aveva detto di non bagnarsi fino a diciott'anni, altrimenti gli sarebbe capitato qualcosa di brutto. E poiché il padre crede davvero in questo, per il suo bene, non gli avrebbe mai dato il permesso. Il ragazzo non sa se fregarsene o credere a quanto detto dallo stregone. Dopo aver sentito questo, in un primo momento l'educatrice era allibita, considerando questo modo per bloccare il divertimento di un ragazzo, ma successivamente si rende conto che non conoscendo molto la cultura cinese non può neanche giudicare duramente la decisione del padre, continuando a sostenere però che questa gita sarebbe stata importante per Jx. L’educatrice propone al ragazzo di andare ugualmente ma che non avrebbe fatto il bagno e in caso si sarebbe bagnato solo i piedi. Jx era entusiasta, ma risponde che il padre non avrebbe mai firmato l'autorizzazione. L’ educatrice pensa che questa sia proprio l'occasione per entrare in relazione e lavorare con il ragazzo e la sua famiglia e chiede al ragazzo di poter parlare con il padre di modo che anche lui fosse a conoscenza di tutte le modalità dell'uscita. Il ragazzo accetta. Questo ci aiuta a riflettere sulle relazioni che ci sono tra famiglie e centro educativo, i quali spesso hanno un punto di vista diverso e che quindi devono trovare un modo per collaborare. Ci fa vedere anche come la differenza di età di persone provenienti dalla stessa cultura possa portare dei soggetti ad interpretare in maniera diversa lo stesso episodio. SECONDA STORIA “DISEGNI COMPROMETTENTI” La protagonista della storia è una facilitatrice linguistica che ogni mercoledì si reca nella scuola per svolgere il suo lavoro nella classe con A, un bambino di 9 anni originario del Ghana, che da pochi mesi è in Italia solo con il papà. In realtà è nato in Italia e dopo aver frequentato la scuola dell'infanzia è tornato in Ghana con la mamma e i suoi fratelli e poi il papà ha deciso di riportarlo in Italia perché voleva dargli una formazione più adeguata. Nel momento che la facilitatrice esce dall'aula con A, per recarsi nella classe dove avrebbero svolto la loro lezione, nel corridoio incontrano l’insegnante di sostegno della classe del ragazzo, che era molto preoccupata chiedendo alla facilitatrice linguistica di parlare in disparte. L'insegnante di sostegno le dice che ultimamente il ragazzo dice bugie, che non si relaziona in maniera corretta con i compagni e che durante l'ora del disegno libero aveva disegnato in maniera dettagliata degli animali che si stavano accoppiando, chiedendo per ultimo il pensiero della facilitatrice linguistica. L'insegnante di sostegno, allarmata, afferma che forse sarebbe il caso di rivolgersi alla psicologa, ma la facilitatrice linguistica, dopo averci pensato un attimo, afferma che prima di avvertire la psicologa e pensare subito che sia presente qualche problema patologico, bisogna capire che questo bambino all'età di 9 anni ha già vissuto tre grossi spostamenti, che gli manca la mamma e che tra poco dovrà ritornare in Africa e che quindi forse è per questo motivo che non coltiva legami di amicizia e che dice bugie. La facilitatrice linguistica avverte la sua referente, la quale le consiglia di parlare con il bambino, di chiedergli come fosse la sua vita in Ghana, come viveva, cosa faceva durante la giornata, ecc., affermando che sicuramente le sue esperienze vissute lì sono diverse da quelle vissute in Italia. La facilitatrice linguistica chiede questo al ragazzo e lui risponde che al suo paese, in Ghana, vive vicino a un fiume e con i suoi amici gioca a fare gare di nuoto, a cacciare. Dice anche che la sua famiglia possiede tanti animali da fattoria e che molto spesso è lui che li accudisce. Dopo la lezione la facilitatrice chiama la psicologa interculturale che afferma che in quei posti i bambini sono già considerati adulti a 9 anni e quindi, poiché il bambino li accudiva, era possibile che avesse già visto delle scene di accoppiamento. La facilitatrice avverte l'insegnante di sostegno e insieme decidono di rimanere in contatto e di monitorarlo. Dopo osservazioni durate dei mesi, si è visto che non si è mai ripetuto un episodio come quello del disegno. Questa storia ci dà l'occasione per riflettere su una certa cultura italiana, che è quella dell'allarmismo. TERZA STORIA “INCINTA A 18 ANNI” Questa storia parla di un’educatrice e una coppia di adolescenti italiani. Al centro dove si recano i tuoi ragazzi il venerdì pomeriggio, c'è uno spazio che è dedicato al tempo libero dove i ragazzi scelgono di fare quello che vogliono. Lei ha 16 anni e frequenta il centro da quanto era piccola, anche se ora passa periodicamente per salutare e chiacchierare. Lui è il fidanzato e frequenta il centro da un anno, cioè da quando si è fidanzato. Un venerdì pomeriggio i due ragazzi si recano al centro e lei inizia a dire all'educatrice che avrebbe l'idea di voler prendere la pillola. Così iniziano a parlare anche di argomenti come il consultorio, rapporti sessuali e metodi contraccettivi e del fatto che lei ha difficoltà ad affrontare questi argomenti con la mamma. Nella discussione la ragazza e l'educatrice, con la presenza del ragazzo, iniziano a parlare anche dell'importanza della visita ginecologica, dell'utilità del consultorio, di gravidanza desiderate o no. A tal proposito l'educatrice racconta l'episodio nella ragazza di 18 anni che è rimasta incinta senza che lo volesse, ma che comunque ha deciso di tenere il bambino. La ragazza, con la sua risposta, e cioè che a 18 anni, poiché la ragazza è maggiorenne, non è un problema se rimane incinta, provoca stupore dell'educatrice, la quale cerca di far capire ai due ragazzi che all'età di 18 anni i soggetti sono ancora troppo giovani per diventare genitori e che dovrebbero studiare e che quindi è importante conoscere e fare attenzione durante i rapporti. La ragazza però rimane convinta delle sue idee, sostenendo che a 18 anni possiamo prendere decisioni sulla nostra vita, che siamo responsabili e che proprio per questo motivo è normale e giusto che una coppia decida di occuparsi del proprio figlio e che faccia di tutto per dargli un futuro. L'educatrice si rende conto che è solo lei che è rimasta toccata da questo fatto di diventare mamma a diciott'anni e che in realtà è rimasta colpita anche dalla reazione della ragazza, rendendosi conto che il fatto che gli fa avere un pensiero diverso da quello dei ragazzi è proprio il contesto culturale a cui appartiene. L’educatrice, infatti, è nata e vissuta in un quartiere benestante di Milano e ha frequentato amici appartenenti al suo stesso ceto, i quali davano molta importanza allo studio. Il ragazzo, invece, ha 17 anni, lavora, mentre lei studia. Loro vivono in un quartiere di periferia, in dei grandi palazzi dove alcuni appartamenti sono occupati e sono a contatto tutti i giorni con situazione di disagio. Altra differenza è quella dell'età. Per l'educatrice avere 18 anni significa studiare e uscire con gli amici e diventare mamma a quell'età significa privarsi di molte cose. Per i due ragazzi, invece è una cosa che può succedere e che si può vivere senza tanti problemi o limiti per la persona. L'educatrice infine afferma che a differenza sua, sicuramente loro hanno visto ragazzi a 18 anni incinta. Questa storia mette in luce come persone appartenenti alla stessa cultura, perché tutti e tre italiane, ma vissute in livelli culturali diversi, possano avere diverse idee, riguardo allo stesso episodio. Quello che accomuna queste tre storie sono le situazioni emerse come sfide importanti per gli operatori, che si ritrovano spiazzati. Inoltre, in comune c'è che vengono coinvolti i bambini e famiglie che hanno culture diverse da quelle dell'operatore e il fatto di avere operatori e insegnanti che dal punto di vista interculturale hanno agito in maniera competente. L'operatore regge “l'incertezza della comprensione”, quindi è in grado di mettere da parte il proprio giudizio rispetto alle persone che ha davanti, controllando le proprie reazioni. Inoltre, riconosce come significativo il punto di vista dell'altro, anche quando è differente dal suo. Altro punto importante nella competenza interculturale è rendersi conto che il proprio punto di vista è parziale, ma portarlo avanti lo stesso, andando ad accogliere quello dell'altro. L'operatore riconosce le differenze, ma ricerca gli elementi di somiglianza e le convergenze possibili; quindi, è capace di ascoltare la posizione dell'altro e di prendere gli elementi condivisibili all'interno di un progetto comune, è importante nella competenza interculturale è trovare elementi comuni anche laddove vi sono differenze profonde. Infine, l'operatore cerca di sentire proprie le esperienze altrui per comprendere più a fondo il vissuto dell'altro, quindi calarsi nell'esperienza dell'altro partendo da quella personale. CAPITOLO 5: “LA COMPETENZA: RIDURRE I PREGIUDIZI” La costruzione della conoscenza della realtà si basa su stereotipi e pregiudizi. Margalit Cohen-Emerique sostiene che nelle relazioni i pregiudizi e gli stereotipi vanno a costituire la prima categoria alla comprensione dell'altro come essere diverso. Gli stereotipi sono rappresentazioni che danno origine a generalizzazioni e semplificazioni relative caratteristiche che sono attribuite ad alcuni gruppi. Dagli stereotipi possono derivare i pregiudizi, quindi opinioni prefissate da un gruppo riguardo i supposti comportamenti di un altro gruppo. Tentori afferma che i pregiudizi sono nati da fattori competitivi e affermativi che si trovano all'interno dell'organizzazione sociale, ma anche in virtù di meccanismi psichici che vanno a conferire sicurezza all'individuo. I pregiudizi e gli stereotipi possono diventare pericolosi in quanto diventano territorio fertile per comportamenti discriminatori. Dal punto di vista della competenza interculturale, ridurre i pregiudizi vuol dire depurare il proprio punto di vista, in quanto ogni essere umano è naturalmente portato a generare pregiudizi e stereotipi. L'operatore deve costruire uno “sguardo non pregiudicato”, però questo non è sufficiente, è necessario anche promuovere strategie orientate alla riduzione dei pregiudizi. PRIMA STORIA “SOTTO LA GONNA LE BOMBE” Le protagoniste di questa storia sono due maestre di una scuola primaria. Le maestre si trovano nell'atrio e aspettano che i bambini entrino a scuola. Tra le varie mamme ne è presente una di origine araba, vestita con il velo che lascia scoperto solo il volto, che saluta il suo bambino e lo segue con gli occhi fino a che non vede che è entrato. La maestra afferma che il paese dove vivono guarda con diffidenza gli stranieri e chiacchierando con le colleghe, dice che insegna inglese nella classe del bambino e che questo bambino arabo l'ha riconosciuta come tale e la chiama “inglese”. Dice anche che piano piano il bambino sta accettando la scuola e le sue regole e sta cominciando ad esprimersi in italiano. Un'altra collega interrompe la maestra affermando che le dà fastidio che questa mamma araba venga vestita in quel modo, in quanto le fa paura, sostenendo che sotto gli abiti lunghi portano delle bombe che fanno esplodere causando stragi, e che quindi sarebbe utile rimanessero a casa loro. La maestra rimane allibita dal discorso della collega e da una parte vorrebbe insultarla, ma dall'altra si rende conto che la collega non riesce ad andare oltre i luoghi comuni. Di conseguenza la maestra cerca di spiegare che la signora araba è una mamma come tutte le altre, che saluta il figlio prima dell'ingresso a scuola e che i bambini si sono abituati agli indumenti che indossa la mamma araba. Ma la collega rimane della sua idea. Dopo che ha salutato la collega, la maestra ripensa alla conversazione e sostiene di aver utilizzato delle argomentazioni deboli, in quanto non è riuscita a toccare minimamente le convinzioni della sua collega, sostenendo che avrebbe potuto affermare che ognuno di noi è libero di poter indossare i vestiti che più ci piacciono e affermare che la scuola è responsabile di favorire il dialogo con le famiglie, comprese quelle straniere. La maestra crede che molte delle difficoltà che gli insegnanti trovano nel relazionarsi con famiglie straniere hanno luogo dal fatto che gli insegnanti partono prevenuti nei confronti delle famiglie straniere, giudicandoli a priori. La maestra conclude il suo pensiero dicendo che crede che la sua collega consideri questo fenomeno migratorio come una minaccia alle tradizioni e certezze della nostra società e cultura. In questa storia vediamo che sono presenti due maestre che si confrontano con un pregiudizio nei confronti di una mamma araba. La maestra ci pone di fronte a una domanda fondamentale, ovvero come gestire una situazione in cui viene espresso un giudizio estremo e non disponibile a modificarsi e a confrontarsi. SECONDA STORIA “DIFFICILE NON AVERE PREGIUDIZI” Le protagoniste di questa storia sono un'insegnante della scuola primaria e una mediatrice culturale di nazionalità rumena che stanno iniziando a collaborare. L'insegnante deve parlare con i genitori di un bambino rom e quindi richiede l'aiuto della mediatrice e durante la telefonata l'insegnante riempie la mediatrice di domande riguardanti il ragazzo, in quanto voleva sapere come comportarsi e interagire con lui. La mediatrice inizialmente ha lasciato parlare l'insegnante, ma successivamente l'ha interrotta perché si è accorta che le faceva delle domande specifiche che riguardavano proprio quel ragazzo che la mediatrice non conosceva. L'insegnante rimane allibita, domando il motivo per cui la mediatrice non conosceva questo ragazzo vista la sua provenienza. La mediatrice non riesce a credere che un'insegnante possa pensare una cosa così, chiedendosi cosa potesse trasmettere una maestra che aveva tale pensiero e come un bambino straniero si sarebbe trovato nella sua classe. In seguito, la mediatrice ritiene di dover abbandonare i giudizi che aveva nei confronti dell'insegnante, sostenendo che per conoscersi meglio sarebbe stato utile un incontro. L'insegnante si è accorta di aver sbagliato quando ha posto quella domanda e ha approvato l'incontro, nel quale avrebbero parlato anche dell'intervento di mediazione. Durante l'incontro l’insegnante ha iniziato a esporre alla mediatrice il caso, affermando che il ragazzino era stato inserito in quarta elementare in base alla sua età, in quanto la scuola non aveva un attestato che riportasse il numero di anni di frequenza scolastica del bambino in Romania. Continua il suo discorso dicendo che il ragazzino non va spesso a scuola, che non parla italiano e che i pomeriggi non rientrava. Afferma che le insegnanti avevano il dubbio che il bambino non sapesse proprio leggere e che i genitori non si sono presentati al colloquio. La mediatrice ha intuito che l'insegnante aveva dei pregiudizi nei confronti dei rom (l'insegnante sostiene che i rom puzzano e rubano). La mediatrice ha cercato in qualche modo di far capire all'insegnante che non la pensava così, ma non è intervenuta perché sapeva che il loro colloquio sarebbe finito lì e che di conseguenza il bambino non avrebbe avuto la possibilità di essere aiutato. Dopo aver sentito le parole dell'insegnante, l'obiettivo della mediatrice non era quello di far cambiare idea all'insegnante, ma quello di farle conoscere più da vicino la storia del bambino rom e chiarire alcuni aspetti legati alla loro cultura, facendole capire così che non tutte le persone di origine rom rubano, vivono nelle roulette o non hanno voglia di lavorare. La mediatrice cerca di rendere partecipe l'insegnante nel progetto che stanno facendo per il bambino, affermando che, se l'insegnante avesse conosciuto più da vicino la famiglia, avrebbe potuto non generalizzare più e cambiare un minimo la sua opinione. La mediatrice, prima di proporre all'insegnante di contattare la famiglia del bambino e di fissare un colloquio, fornisce lei alcune informazioni sui rom e sul suo ruolo, in quanto si rende conto che l'insegnante non ha mai lavorato a contatto con una mediatrice. La famiglia del bambino accetta di partecipare al colloquio e risulta essere molto sollevata dopo che la mediatrice ha detto alla mamma del bambino che all'incontro sarebbe stata presente anche lei. In questa storia vediamo che il pregiudizio è utilizzato come categoria interpretativa della realtà. L'insegnante non è consapevole del proprio pregiudizio. Ci si chiede come si può ridurre un pregiudizio che viene espresso in maniera inconsapevole e come mantenere aperto il dialogo. TERZA STORIA “LA BICICLETTA”