Appunti Chimica degli Alimenti PDF

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Università degli Studi di Firenze

Innocenti Marzia

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chimica degli alimenti lipidi acidi grassi nutrizione

Summary

These notes cover the chemistry of food, specifically lipids and fatty acids. The document explains different classifications of lipids, including saponifiable and non-saponifiable lipids, and discusses the properties and characteristics of fatty acids, from their saturation and chain lengths to their roles in the human diet.

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Appunti Chimica degli Alimenti - Dietistica Chimica degli alimenti Università degli Studi di Firenze (UNIFI) 94 pag. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degl...

Appunti Chimica degli Alimenti - Dietistica Chimica degli alimenti Università degli Studi di Firenze (UNIFI) 94 pag. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Corso Chimica degli Alimenti – Chimica e Tecnologie Alimentari Prof.ssa Innocenti Marzia Lipidi I lipidi vengono classificati sulla base di diversi criteri. Una delle classificazioni più applicate è quella che li divide in lipidi saponificabili e lipidi non saponificabili, data dalla possibilità da parte di queste molecole di fare o non fare la reazione di saponificazione. Questa reazione prevede la presenza di un lipide con una base forte (che può essere idrossido di sodio o idrossido di potassio) e la formazione di un sapone o un sale corrispondente. I lipidi saponificabili e quindi in grado di reagire in presenza di una base forte sono quelli che presentano un gruppo carbossilico libero o un gruppo estereo, cioè il gruppo carbossilico legato ad un'altra molecola. Per reagire in presenza di una base forte è necessario che ci sia appunto questo gruppo carbossilico libero o carbossilico legato. In entrambi i casi, come vediamo nell'immagine sottostante, in presenza di una generica base forte indicata con MOH si da' luogo nel primo caso ad eliminazione di acqua e formazione di un sale indicato con R–COOM. In questo modo si forma il sale (o sapone corrispondente). Tra i grassi, quelli che possono dar luogo a questa reazione abbiamo acigliceroli (trigliceridi, digliceridi o monogliceridi), fosfolipidi, acidi grassi, glicolipidi e cere. I lipidi non saponificabili sono quelli che non presentano questo gruppo carbossilico, come ad esempio i terpeni, steroidi, gli eicosanoidi e tocoferoli. Un'altra classificazione è quella che divide i lipidi in lipidi semplici, complessi o derivati lipidici: lipidi: semplici: sono gli acigliceroli (esteri degli acidi grassi con glicerolo) e le cere (esteri di alcoli e acidi grassi a lunga catena) lipidi complessi: sono i fosfoacilgliceroli, sfingomieline, cerebrosidi e gangliosidi derivati lipidici: sono molecole che presentano caratteristiche lipofile, cioè sono molecole che si associano ai lipidi, ma non sono considerati veri e propri grassi; vengono associati a questa categoria di molecole per la loro apolarità, quindi per il loro comportamento ma non per la loro struttura. Questi sono i carotenoidi, steroidi, vitamine liposolubili. I lipidi, assieme a proteine e carboidrati, costituiscono la frazione nutrizionale prevalente svolgendo diverse funzioni, quali una funzione energetica, una funzione plastica, una funzione di isolamento termico, una di protezione e sostegno, una funzione veicolante (di molecole lipofile), una funzione di appetibilità e infine una funzione estetica. Acidi Grassi Gli acidi grassi e i loro sali sono molecole anfipatiche, ovvero molecole che presentano delle proprietà sia lipofile che idrofile. Un acido grasso generico infatti presenta sempre una testa polare, data dal gruppo Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) carbossilico, e una coda idrofobica, data dalla catena idrocarburica. Gli acidi grassi possono essere saturi, monoinsaturi o polinsaturi. L'acido grasso saturo non presenta doppi legami all'interno della catena carboniosa, mentre quelli insaturi presentano uno o più doppi legami nella catena. I doppi legami presenti possono avere configurazioni diverse, cis e trans; nel primo caso tutti e due i sostituenti del doppio legame sono dalla stessa parte, nel secondo caso invece questi si trovano in parti opposte. In caso di configurazione cis, essendo dalla stessa parte i due sostituenti, la catena si ripiega assumendo una piega centrale. Se dovessero essere presenti due doppi legami allora anche il ripiegamento sarà doppio. Nel caso di una configurazione trans vedremo una molecola che dal punto di vista della configurazione è molto simile a quella di un acido grasso saturo, perché essendo in parti opposte i due sostituenti, è come se la catena si allungasse e si stendesse invece di ripiegarsi. In natura dobbiamo tenere conto che esistono acidi grassi insaturi che presentano una configurazione cis e sono non coniugati. Questo significa che quando sono presenti più di un doppio legame, questi vengono intervallati da un gruppo CH₂. La presenza di doppi legami trans o doppi legami coniugati è infatti indice di una reazione chimica fatta. Ad esempio, il processo di rettifica dell'olio che viene fatto quando l'olio che si ottiene dal frantoio ha un'acidità troppo alta per la quale non può essere messo in commercio così deve essere sottoposto a questo processo che prevede una serie di passaggi chimici che possono portare alla trasformazione dei doppi legami o alla formazione di doppi legami coniugati. Un altro processo che porta alla formazione di doppi legami trans è l'idrogenazione (reazione che porta all'ottenimento della margarina dagli oli di semi). In generale come già detto, gli acidi grassi sono solitamente in configurazione cis e sono non coniugati. Normalmente, la ricerca di doppi legami trans o doppi legami coniugati viene fatta per capire se c'è stata una manipolazione di tipo chimica. Gli acidi grassi vengono spesso indicati con una sigla abbreviata, rappresentata da un numero, i due punti e lo zero. Il primo numero indica la lunghezza della catena carboniosa (4 = quattro atomi di carbonio), lo 0 invece indica il numero dei doppi legami. Nel caso in cui ci sia un acido grasso insaturo ovviamente non ci sarà lo zero, presente invece nelle sigle dei grassi saturi. Ad esempio, l'acido grasso saturo a 4 atomi di carbonio è l'acido butirrico, quello a 6 atomi di carbonio è invece l'acido caproico. La maggior parte degli acidi grassi saturi è a numero pari di atomi di carbonio, ci sono anche delle eccezioni anche se sono prevalentemente nelle specie vegetali. I principali acidi grassi che ritroviamo negli oli vegetali edibili (commestibili, destinati al consumo dell'uomo) sono ad esempio l'acido miristico, l'acido palmitico, l'acido stearico e tre acidi grassi insaturi a 18 atomi di carbonio, ovvero l'acido oleico 18:1(9) che ha una sola insaturazione al carbonio 9, l'acido linoleico con due insaturazioni al carbonio 9 e al carbonio 12 e infine l'acido linolenico che presenta tre insaturazioni, sul carbonio 9, carbonio 12 e carbonio 15. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Per quanto riguarda la nomenclatura degli acidi grassi, possiamo dire che le nomenclature sono di due tipi, la prima è una nomenclatura chimica che va a numerare la catena carboniosa a partire dal carbossile, quindi il carbonio numero 1 è quello del gruppo COOH e da lì si conta la catena carboniosa fino ad arrivare al metile terminale. La presenza dei doppi legami viene indicata da un : e il numero dei doppi legami (0 se è saturo, 1 se è monoinsaturo, ecc.) Ad esempio: ▪ acido palmitico: 16 : 0 oppure 16 C : 0 ▪ acido oleico: 18 : 1 oppure 18 C : 1 Dopodiché però è importante indicare anche il numero del carbonio in cui si trova il doppio legame, infatti l’acido oleico ad esempio che presenta una sola insaturazione sul carbonio 9, viene correttamente indicato: ▪ acido oleico: 18 C : 1∆⁹ (perché c’è il doppio legame sul carbonio 9) Nel caso dell’acido linoleico, avendo due insaturazioni scriveremo: ▪ acido linoleico: 18 C : 2∆⁹ in questo caso non è necessario scrivere qual è il carbonio del secondo doppio legame perché abbiamo detto che sono tutti non coniugati, quindi so che se il primo è sul carbonio 9, allora il secondo sarà nel carbonio 12 (perché viene dopo tre atomi di carbonio). Questa è la nomenclatura di tipo chimico, ma non è l’unica, anzi forse è quella meno conosciuta. La nomenclatura a cui forse siamo più abituati è la nomenclatura biomedica che suddivide gli acidi grassi nelle serie Omega-3, Omega-6, Omega-9. In questo caso, invece di partire dal carbossile come numerazione, si parte dal metile terminale, quindi andrò ad indicare il numero del carbonio in cui trovo il doppio legame partendo però dal metile terminale. Se prendo ad esempio l’acido oleico che ha 18 atomi di carbonio, avendo questo il doppio legame sul carbonio 9 è chiaro che il doppio legame è sempre in 9, sia che io parta dal metile terminale sia che io parta dal carbossile. Secondo la nomenclatura biomedica quindi l’acido oleico è un acido appartenente alla serie degli Omega-9. Discorso un po’ diverso per l’acido linoleico perché il primo doppio legame a partire dal metile terminale si trova sul carbonio 6, quindi secondo la nomenclatura biomedica questo appartiene alla serie degli Omega-6. L’acido linolenico invece appartiene alla serie degli Omega-3 poiché il primo doppio legame, partendo dal metile terminale, si trova sul carbonio 3. SI parla di “serie” Omega-9, Omega-6, Omega-3, perché in queste non è presente solo l’acido oleico, l’acido linoleico o l’acido linolenico, ma sono presenti tutti gli acidi grassi che presentano il primo doppio legame sul carbonio 9, 6 o 3, indipendentemente dalla catena carboniosa. Anche se la catena è più lunga e dovessero esserci più doppi legami, se il primo si trova su questi atomi di carbonio allora sarà appartenente ad una di queste serie. Nella seria Omega-9 ad esempio, oltre all’acido oleico, sono presenti anche l’acido erucico e l’acido nervonico, oppure nella serie Omega-6, oltre all’acido linoleico abbiamo l’acido γ-linolenico e l’acido arachidonico. Nella serie Omega-3 invece oltre all’acido linolenico, sono presenti l’EPA e il DHA. Come già accennato, gli acidi grassi naturali sono in configurazione cis e sono non coniugati, mentre quelli non naturali normalmente sono in configurazione trans e sono coniugati. Ci sono comunque delle eccezioni, ci sono infatti i cosiddetti CLA (acidi coniugati dell’acido linoleico) che ritroviamo nel latte e sono naturalmente presenti, ma solo in quell’alimento e in basse concentrazioni, quindi questa rappresenta un’eccezione. Nell’olio extravergine d’oliva invece io non devo trovare alcun acido grasso né trans né Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) coniugato, perché in questo caso vorrebbe dire che questo presunto olio extravergine d’oliva è stato in realtà adulterato in maniera fraudolenta con degli oli di semi o un olio d’oliva rettificato. Gli acidi grassi essenziali sono acidi grassi appartenenti alla serie dell’Omega-6 o Omega-3, questi sono sostanze che devono essere necessariamente introdotte con la dieta perché il nostro organismo non è in grado di sintetizzarle. Hanno come funzione fondamentale quella di essere costituenti dei fosfolipidi delle membrane, precursori delle prostaglandine e regolatori dei lipidi ematici come il colesterolo. Questi acidi grassi essenziali, acido linoleico e acido α-linolenico possiamo ritrovarli in diversi alimenti, per quanto riguarda i cibi ricchi di acido linoleico abbiamo l’olio di vinaccioli, l’olio di mais, l’olio di soia, la frutta secca, mentre per le fonti di acido α-linolenico abbiamo le noci e l’olio di noci, il pesce, l’olio di semi di lino. Anche l’EPA (acido ecoisapentaenoico) è un acido grasso essenziale con 20 atomi di carbonio e cinque doppi legami e appartiene sempre alla serie degli Omega-3. Il DHA (acido docosaesaenoico) è un altro acido grasso essenziale con 22 atomi di carbonio e sei insaturazioni, di cui la prima è sempre al carbonio 3, per cui anche questo appartiene alla serie degli Omega-3. La presenza di acidi grassi saturi o insaturi influenza anche il punto di fusione dei grassi; gli acidi grassi saturi sono ben impacchettati tra di sé perché non presentano insaturazioni e si impacchettano strettamente. Questo fa sì che aumenti il punto di fusione, per questo questi acidi grassi hanno una consistenza detta “cerosa”. Un tipico alimento che contiene acidi grassi saturi è il burro, oppure anche l’olio di palma; questi sono acidi grassi solidi a temperatura ambiente (più il burro, l’olio di palma è più viscoso), perché sono costituiti da un’elevata quantità di grassi saturi che impacchettandosi ben bene determinano un innalzamento del punto di fusione. La presenza invece di doppi legami lungo la catena dell’acido grasso fa sì che ci sia una sorta di ingombro, di ripiegamenti lungo la catena, quindi questi grassi non riusciranno ad impacchettarsi in maniera stretta tra di sé. Questo influenza il punto di fusione, abbassandolo, per questo gli alimenti che contengono prevalentemente acidi grassi insaturi sono liquidi a temperatura ambiente, basta guardare l’olio extravergine d’oliva (costituito prevalentemente da acido oleico), l’olio di semi. La presenza o assenza di insaturazioni quindi influenza il punto di fusione. Acilgliceroli In natura solitamente non si trovano acidi grassi liberi, cioè nel burro, nell’olio, ecc. tutti questi acidi grassi si trovano esterificati al glicerolo, nella formazione dei cosiddetti acigliceroli. Questi sono costituiti da una molecola di glicerolo che si esterifica con tre, due o uno acidi grassi, per formare rispettivamente trigliceridi, digliceridi o monogliceridi. Si tratta di un legame estereo che si viene a creare quando reagisce un gruppo alcolico con un gruppo carbossilico e si elimina una molecola d’acqua. Nei trigliceridi tutti e tre i gruppi alcolici del glicerolo sono esterificati con tre acidi grassi, i quali possono essere uguali oppure diversi. Nei monogliceridi e digliceridi solo uno o due gruppi alcolici del glicerolo sono esterificati. Questi due tipi di acilgliceroli hanno una funzione emulsionante, tensioattiva, proprio perché non presentano tutti e tre i gruppi alcolici esterificati. Alla famiglia degli acilgliceroli fanno parte anche i fosfogliceridi, che hanno in un gruppo alcolico un gruppo fosfato legato ad esso, il quale a sua volta lega un residuo di colina, etanolammina o serina per formare rispettivamente fosfatidilcolina, fosfatidiletanolammina e fosfatidilserina. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Nell’immagine successiva vediamo la conformazione spaziale di un trigliceride, in cui in posizione 1 e 3 vediamo che ci sono acidi grassi saturi, mentre in posizione 2 abbiamo un acido grasso insaturo; questo perché c’è una regola che dice che quando ci sono più acidi grassi diversi e ci sono degli acidi grassi insaturi, quest’ultimi occupano preferenzialmente la posizione 2. A seguito invece vediamo la rappresentazione spaziale della fosfatidilcolina, che presenta i due gruppi OH del glicerolo esterificati con acidi grassi (di cui il secondo è insaturo) e poi il gruppo fosfato con la colina. Altre strutture lipidiche Esistono inoltre altre strutture lipidiche che vengono anche definite derivati lipidici, come ad esempio gli steroli. Il colesterolo è uno dei più importanti steroli ed è di origine animale, oltre a questo però esistono anche steroli di origine vegetale come il β-sitosterolo, il camposterolo, lo stigmasterolo, che vengono classificati come l’impronta digitale della pianta, della specie vegetale. Ad esempio, se volessi in un olio extravergine d’oliva capire se questo è veramente appartenente alla specie dell’Olea Europaea, che è la specie vegetale da cui si origine la pianta e quindi le olive, faccio l’analisi degli steroli, perché io so che c’è all’interno della frazione sterolica dell’olea europaea, un andamento tipico di quella specie vegetale. Se Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) dall’analisi non ritrovo questo andamento e ho una differenza delle abbondanze relative o la presenza di altri steroli, allora vuol dire che questo non è olio extravergine d’oliva, ma che è stato adulterato con oli di semi ed è possibile anche capire con quali oli di semi. Un’altra struttura lipidica è lo squalene, questo è un idrocarburo alifatico polinsaturo, costituito da cinque unità isopreniche ripetute ed è un derivato lipidico presente nel fegato dei pesci, nell’olio di oliva, nell’olio di cocco, di soia e di mais, ma prevalentemente in quello di oliva. Gli steroidi invece sono gli esteri degli steroli con acidi grassi, hanno una struttura del ciclopentanoperidrofenantrene e si dividono in zoosteroli, fitosteroli, micosteroli e steroli di origine marina. Qui è riportata una tabella che mostra come è composta la membrana di un globulo lipidico del latte. Facendo una piccola precisazione, il latte si può definire un alimento apparentemente omogeneo, ma in realtà è costituito dalla copresenza di quattro fasi diverse, tra queste fasi si ha anche l’emulsione, per via dei grassi emulsionati in acqua. Questi grassi sono in emulsione quindi in acqua e riescono a rimanere in soluzione senza precipitare grazie alla loro struttura globulare. I globuli lipidici del latte si originano perché i trigliceridi che vengono sintetizzati dalle ghiandole mammarie dell’animale vanno verso la porzione apicale della cellula e si rivestono del doppio strato fosfolipidico di membrana, quindi queste goccioline rivestite da doppio strato fosfolipidico vengono rilasciate nel mezzo acquoso che sarebbe appunto il latte. Nella tabella si ha appunto la composizione della membrana dei globuli di grasso. Chiaramente sono presenti degli agenti tensioattivi emulsionanti, perché è proprio grazie a questi che il globulo rimane in soluzione e questi sono i diacilgliceroli, i monoacilgliceroli e i fosfolipidi. Tra tutti i componenti però i prevalenti sono i trigliceridi, che si trovano all’interno del globulo di grasso. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) I lipidi allo stato solido si possono organizzare in diverse strutture, tra queste abbiamo ad esempio la struttura qui a destra in cui vediamo gli acidi grassi insaturi che si orientano in questa tipologia di struttura cristallina e tra le teste polari degli acidi grassi si formano dei legami a idrogeno. Oppure nel caso dei trigliceridi, si può avere anche una struttura tipo “forchetta” come questa qui a sinistra. Qui è riportato il diagramma di fusione dei trigliceridi, ovvero il passaggio dallo stato solido allo stato liquido, aumentando la temperatura. Questo passaggio del doppio legame da cis a trans determina un innalzamento del punto di fusione. Prima abbiamo detto che i doppi legami cis influenzano il punto di fusione, cioè la presenza di doppi legami rispetto agli acidi grassi saturi porta ad avere un punto di fusione più basso, ma anche il tipo di doppio legame può influenzare questo punto di fusione, tanto che appunto il passaggio del doppio legame da cis a trans innalza il punto di fusione. Questo è quello che avviene durante l’idrogenazione, la reazione che porta a saturare i doppi legami al fine di indurire il grasso e quindi passare da oli allo stato liquido a prodotti solidi, come ad esempio la margarina. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Durante l’idrogenazione si formano acidi grassi trans fino al 30%, poiché si tratta di una reazione di idrogenazione incompleta, cioè non si saturano tutti i doppi legami, ma solo in parte. Questa reazione poi può tornare indietro e avere lo spostamento della conformazione del doppio legame. Ad esempio, l’acido elaidinico (18 atomi di carbonio, trans) e l’acido oleico (18 atomi di carbonio, cis) hanno due punti di fusione ben diversi, il primo di 43,7 °C mentre il secondo di 10,5 °C, questo mostra come anche la conformazione del doppio legame influenza il punto di fusione. I fattori che influenzano il punto di fusione sono quindi la natura dell’acido grasso e quindi il numero di insaturazioni e la lunghezza della catena, ma anche la conformazione del doppio legame. Reazioni chimiche dei lipidi Idrolisi e Saponificazione La lipolisi è l’idrolisi del legame estereo tra acidi grassi e glicerolo, questa può avvenire o per via enzimatica grazie quindi alle lipasi, enzimi che operano quest’azione lipolitica, oppure tramite mezzi chimici utilizzando basi forti come l’idrossido di sodio o di potassio; in questo caso si verifica quella che è la saponificazione., cioè la formazione dei cosiddetti saponi (o sali di acidi grassi liberi) e glicerolo. Idrogenazione L’idrogenazione consiste nella saturazione dei doppi legami, cioè il doppio legame viene ridotto a legame semplice in modo da avere un cambiamento nelle caratteristiche chimico-fisiche del grasso. Il grasso idrogenato è infatti più resistente all’irrancidimento e a temperatura ambiente è più solido. Questo processo viene fatto per ottenere ad esempio la margarina. Normalmente, si usa l’idrogeno gassoso come reagente, che in presenza di catalizzatori metallici quali nichel, palladio o platino o composti metallo-organici a base di rodio, fa sì che l’idrogeno vada a legarsi sui carboni del doppio legame, creando quindi un legame singolo. Questa reazione avviene in condizioni drastiche, ad elevate temperature e sottopressione; non sempre però può andare a completamento, cioè può darsi che durante l’attacco dell’idrogeno da una parte, prima di attaccarsi all’altro carbonio, subisca un distaccamento e una rotazione del doppio legame e quindi un passaggio da cis a trans. Questo è uno degli effetti collaterali del processo di idrogenazione, perché il difetto principale è appunto la presenza di acidi grassi trans che si formano con questa reazione e che molto spesso hanno effetti negativi sulla nostra salute. Quando leggiamo in un prodotto “non contiene grassi idrogenati” si riferisce proprio a questo. L’idrogenazione prende il nome di indurimento e viene sfruttata per produrre grassi solidi a partire da oli (es. margarina). Esistono anche altri tipi di preparati come gli oli parzialmente idrogenati che vengono usati nell’industria alimentare. I grassi idrogenati hanno il vantaggio di essere più conservabili ed essere a minor costo; dosando il grado di idrogenazione si possono ottenere anche grassi con diversi punti di fusione e quindi diversa consistenza. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) In generale, i vantaggi dei grassi idrogenati sono il fatto di avere una consistenza simile a quella del burro che gli permette di essere utilizzati per la preparazione di prodotti da pasticceria, una migliore conservazione, una maggiore stabilità al processo di irrancidimento e hanno un costo più basso rispetto ad altri oli vegetali. Lo svantaggio principale è rappresentato dalla presenza di acidi grassi trans che possono danneggiare la salute aumentando il rischio di malattie cardiovascolari. I grassi idrogenati si trovano nella margarina, nei dolci, nella pasta frolla e in altri prodotti. Autossidazione dei lipidi L’autossidazione dei lipidi è un processo che viene definito di irrancidimento, cioè quando il grasso sa di rancido è perché ha subito il processo di autossidazione. Si tratta di un processo di tipo radicalico che consta di tre fasi: una fase iniziale, una fase di propagazione e una fase terminale. La reazione di autossidazione prevede che il lipide venga ossidato in presenza di fattori detti “iniziatori”, quali ad esempio la presenza di ossigeno, l’innalzamento della temperatura, presenza di radiazioni ultraviolette o catalizzatori metallici. Questo grasso viene quindi ossidato in una forma radicalica, indicata o come radicale alchilico (R˙) o radicale perossidico (ROO˙). Non tutti i grassi hanno la stessa suscettibilità a questa reazione, ci sono grassi che si ossidano più facilmente rispetto ad altri e questi sono principalmente gli acidi grassi polinsaturi liberi (cioè non legati al trigliceride), poi ci sono i monoinsaturi e infine quelli saturi. La presenza dei doppi legami quindi aumenta la rapidità di questa reazione di autossidazione e questo è il motivo del perché gli oli di semi che sono prevalentemente costituiti da acidi grassi polinsaturi, rispetto all’olio extravergine di oliva che è costituito prevalentemente da un acido grasso monoinsaturo, resistono meno al riscaldamento e quindi sono meno indicati rispetto all’olio extravergine d’oliva per la cottura. Questi oli sono infatti più suscettibili a questa reazione e la subiscono più rapidamente e questo significa anche che questi si conservano meno rispetto all’olio extravergine d’oliva. La fase iniziale consiste quindi in questo, nella formazione della specie radicalica grazie ad un iniziatore (temperatura, ossigeno, radiazioni luminose, ecc.). Questi radicali liberi che si formano reagiscono con l’ossigeno presente e danno origine ad un radicale perossidico. Il radicale perossidico è reattivo e reagisce con un’altra molecola di acido grasso per formare un idroperossido (ROOH) più un altro radicale alchilico; questa reazione è detta di propagazione e dà il nome appunto alla seconda fase del processo, la fase di propagazione. In questa fase infatti si propagano le specie radicaliche in maniera esponenziale, questo idroperossido viene infatti definito “prodotto primario” della reazione di autossidazione proprio perché da questo si originano i cosiddetti “prodotti secondari”. L’idroperossido non è stabile, ma anch’esso viene rotto e subisce una rottura omolitica tra l’ossigeno e l’altro ossigeno e si formano altri due radicali (tra cui il radicale alcossidico). La terza fase è la fase terminale (o di spegnimento) in cui tutto il substrato lipidico è stato ossidato e quindi non rimane nient’altro da ossidare. Queste specie radicaliche reagiscono allora tra di loro dando origine a prodotti non radicalici, per questo si dice che la reazione va a spegnersi. I fattori che influenzano questa reazione possono essere interni (grado di insaturazione, presenza di catalizzatori, presenza di enzimi) o esterni (presenza di aria, esposizione a radiazioni luminose, temperatura). Si hanno prodotti primari come idroperossidi, epossidi, epidiossidi (ovvero le specie radicaliche dell’ossigeno) e prodotti secondari che derivano dai primi, come alcoli, aldeidi, chetoni e acidi carbossilici che se sono di peso molecolare piccolo e quindi volatili, sono responsabili dell’aroma di rancido. Si formano però anche polimeri, cioè strutture più grosse che cambiano il colore del grasso; un grasso irrancidito ad esempio è più scuro, nel burro la parte più giallognola, irrancidita, è quella esterna a contatto con l’ossigeno. Per quando riguarda la suscettibilità all’autossidazione, gli acidi grassi liberi sono più suscettibili rispetto ai trigliceridi e questo ci porta a fare una precisazione riguardo all’olio. L’olio ottenuto dal frantoio viene valutato in base all’acidità, se questa è inferiore allo 0,8% allora l’olio è definito “olio extravergine d’oliva”. Questa acidità però non riflette il pH (che si calcola nelle soluzioni acquose), è un’acidità relativa al contenuto Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) di acido oleico libero nell’olio. L’acido oleico nell’olio è legato solitamente al trigliceride; il fatto che io vado a controllare quanto acido oleico è presente è perché devo capire se l’olio ha già subito un primo processo di lipolisi che ha portato all’idrolisi del legame estereo e quindi la liberazione dell’acido oleico, il quale in forma libera è più suscettibile alla reazione di autossidazione. Questo vuol dire che tanto maggiore è la quantità di acidi grassi liberi nell’olio, tanto più quest’olio sarà meno conservabile nel tempo e quindi la qualità è peggiore. È importante che la concentrazione di acido grasso libero sia la più bassa possibile. Inoltre, gli acidi insaturi e polinsaturi sono più facilmente degradati rispetto ai saturi. Il radicale si forma sul CH2 in alfa al doppio legame. Vediamo un esempio che riguarda l’acido oleico e l’acido linoleico per capire cosa succede nelle prime fasi della reazione. Per quanto riguarda l’acido oleico (18C con una insaturazione), possiamo sintetizzare la struttura nei quattro formazione del radicale negli acidi grassi insaturi sono i carboni in α al doppio legame, quindi l’8 e l’11. Inizialmente si forma il radicale in 11 da una parte e in 8 dall’altra, dopodiché si forma una struttura di risonanza, questo vuol dire che il doppio legame presente, ad esempio, tra C9 e C10 va a stabilizzare per risonanza l’elettrone spaiato che si trova sul C8, quindi, si sposta il doppio legame e si crea un doppio legame tra C8 e C9, quindi il radicale si sposta sul C10. Dall’altra parte, dove il radicale è in posizione 11 succede la stessa cosa, il doppio legame tra C9 e C10 si sposta a stabilizzare l’elettrone spaiato in C11 e si forma un radicale nel C9. Questo ci porta a dire che da una molecola di acido grasso oleico si formano 4 radicali in equilibrio tra di loro e tutti e quattro subiscono il processo di autossidazione. Per quanto riguarda l’acido linoleico la questione è un po’ diversa, perché ci sono due insaturazioni quindi i radicali che si formano sono di base 3, anche se poi uno di questi viene stabilizzando portando alla formazione di altri due radicali. In questo caso si forma infatti un primo radicale in C11, dopodiché questo verrà stabilizzato per risonanza con il doppietto di elettroni del doppio legame tra C12 e C13 e questo porterà alla formazione del radicale in C13, oppure il doppio legame tra C9 e C10 va a stabilizzare l’elettrone del C11 formando un radicale in C9. Alla fine, si formeranno tre specie radicaliche, in 11, 9 e 13, solo che della specie in 11, essendo subito dopo stabilizzata, se ne forma percentualmente meno. Quindi abbiamo la formazione di tre diverse specie radicaliche ma in concentrazioni diverse. Come si diceva all’inizio, l’idroperossido non essendo stabile porta alla formazione del radicale alcossidico, il quale poi può reagire con altri radicali o con altri acidi grassi dando aldeidi, alcoli o chetoni. Queste molecole quindi sono responsabili dell’aroma di rancido. (All’esame può chiedere la reazione di autossidazione di acido oleico e acido linoleico ma non ci chiede quest’ultima trasformazione dell’acido alcossidico che reagisce con altre molecole). Oltre alla formazione di molecole che poi portando all’aroma di rancido, abbiamo detto che l’irrancidimento può determinare anche una variazione del colore del grasso, per la formazione di strutture a più alto peso molecolare. Questo perché ci possono essere delle combinazioni di sistemi dimerici o dei trigliceridi che formano strutture a più alto peso molecolare, le quali poi determinano un cambio del colore (imbrunimento). Un grasso ossidato in questo caso è più scuro di un grasso non ossidato. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Il processo di autossidazione non può essere fermato una volta cominciato, se un grasso comincia ad irrancidirsi non si può tornare indietro, per cui o si butta o si lascia così com’è. L’unica cosa che possiamo fare per cercare di rallentare questa reazione consiste nell’aggiunta di antiossidanti all’alimento prima che parta la reazione di autossidazione. Utilizzare quindi additivi alimentare, in questo caso conservanti di tipo antiossidante che vanno a competere con il substrato lipidico nella reazione. L’olio EVO è l’unico prodotto alimentare lipidico che ha naturalmente al suo interno degli antiossidanti naturali, per questo noi non andiamo ad aggiungere a questo alimento sostanze antiossidanti. La reazione di autossidazione lipidica quindi non può essere bloccata, ma possiamo posticiparne l’avvio e quindi migliorare i tempi di conservazione del prodotto alimentare, questo solo aggiungendo all’inizio sostanze antiossidanti o solo se queste sono naturalmente presenti nell’alimento. Metodi di valutazione del grado di ossidazione di un lipide Si utilizzano numerosi test idonei a valutare la natura delle specie ossigenate presenti: ▪ Indice di perossidi: è espresso in mg/Kg di lipide ed è l’analisi ufficiale per oli extravergini, tanto maggiore sarà l’indice di perossidi e tanto più ossidato sarà il grasso; si valuta mediante polarografia o per via iodometrica. ▪ Test dell’acido tiobarbiturico (TBA test): ampiamente usato per testare la diversa potenza di un antiossidante in ambito biologico. ▪ Determinazione dei composti carbonilici totali volatili (mediante distillazione ed analisi GC). ▪ Test di Kreis: test di addizione fra aldeidi e chetoni e substrati aromatici diversi per ottenere un composto colorato dosabile per via spettrofotometrica. Valutazione della suscettibilità all’ossidazione Abbiamo visto i metodi che ci permettono di valutare quanto è ossidato un grasso, ma esistono anche analisi che valutano la probabilità che un grasso ha di irrancidire e quindi la suscettibilità all’ossidazione: ▪ Valore di Iodio: quantità di g di I2 che si legano a 100 g di lipide. Si misura il numero di doppi legami (metodi di Wijs o di Hanus con ICl o IBr rispettivamente). ▪ Valutazione del consumo di O2 da parte di un campione puro di lipide (es. lardo). Si utilizza anche per comparare la diversa potenza degli antiossidanti nel preservare un lipide. Gli antiossidanti possono essere di diverso tipo: antiossidanti primari: si ossidano al posto del substrato lipidico; sono molecole che nella loro struttura chimica presentano doppi legami coniugati in grado di stabilizzare il radicale alchilico. antiossidanti sinergici: potenziano l’azione degli antiossidanti primari Il meccanismo di azione dell’antiossidante si basa su una reazione che viene definita reazione di competizione. Il radicale dell’antiossidante viene delocalizzato in tutta la struttura chimica grazie alla presenza di doppi legami coniugati, quindi la specie radicalica dell’antiossidante si dice che è termodinamicamente favorita perché richiede un’energia più bassa per la sua formazione. In presenza dell’antiossidante, la prima reazione di ossidazione va ad ossidare l’antiossidante, quindi protegge il substrato. Questo lo protegge però finché l’antiossidante non è tutto ossidato, dopodiché parte l’ossidazione del substrato, per questo motivo si dice che la reazione di autossidazione non può essere bloccata, bensì solo posticipata. Alcuni antiossidanti di sintesi molto utilizzati nei prodotti alimentari sono il BHA e BHT. Tra gli antiossidanti naturali abbiamo carotenoidi, vitamina C, tocoferoli. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Carboidrati I carboidrati vengono anche definiti “glucidi” (dal greco glucos, dolce); prendono il nome di “carboidrati” poiché sono idrati del carbonio, cioè sono composti costituiti da C, H e O che conferiscono sapore, consistenza e varietà agli alimenti. Inoltre, i carboidrati come saccarosio e amido rappresentano la fonte principale di energia del nostro organismo e quindi occupano un posto preminente nella dieta dell’uomo. Altri carboidrati come ribosio e 2’-deossiribosio sono costituenti fondamentali degli acidi nucleici e quindi a loro è affidato il nostro patrimonio genetico. Carboidrati più complessi costituiscono la cartilagine, lubrificano le articolazioni ossee, sono coinvolti nel riconoscimento e nell’adesione sulla superficie cellulare. Nelle piante i carboidrati hanno anche funzione strutturale, come il caso della cellulosa, visto che costituiscono la parete cellulare delle cellule vegetali e il legno degli alberi. I carboidrati vengono classificati sulla base delle unità saccaridiche che li costituiscono; si parla infatti di monosaccaridi, oligosaccaridi (disaccaridi e trisaccaridi) e polisaccaridi. I monosaccaridi, a seconda del numero di atomi di carbonio presenti nella molecola, che può andare da 3 a 6, si suddividono in: ▪ triosi: gliceraldeide e diossiacetone. ▪ tetrosi: treosio e eritrosio. ▪ pentosi: ribosio, arabinosio. ▪ esosi: glucosio, galattosio, fruttosio. Per quanto riguarda gli oligosaccaridi, questi si dividono in disaccaridi e trisaccaridi; i disaccaridi sono: ▪ saccarosio: comunemente chiamato zucchero; è costituito da glucosio e fruttosio legati con legame 1-2 α-glicosidico. Il fatto che il legame avvenga tra i C 1 e 2 significa che i due C anomerici di questi due zuccheri sono implicati nel legame; questo comporta che il saccarosio è uno zucchero non riducente a differenza dei seguenti. ▪ lattosio: è lo zucchero del latte; è costituito da glucosio e galattosio legati con legame 1-4 α- glicosidico. ▪ maltosio: è costituito da due molecole di glucosio con legame 1-4 α-glucosidico, ripetendosi va a costituire l’amido. ▪ cellobiosio: è costituito da due molecole di glucosio, ma a differenza del maltosio, in questo caso il legame tra le due unità glucosidiche è di tipo 1-4 β-glucosidico; il cellobiosio ripetendosi va a costituire la cellulosa. ▪ trisaccaridi: tra questi troviamo il raffinosio, costituito da galattosio, glucosio e fruttosio. Come già detto, questi sono tutti zuccheri riducenti ad eccezione del saccarosio. Gli zuccheri riducenti presentano almeno un carbonio anomerico libero per poter fare legami. Questo è importante per capire poi quali sono gli zuccheri che possono dar luogo alla reazione di Maillard (reazione di imbrunimento). I polisaccaridi sono di diverso tipo e troviamo: ▪ amido: è il polisaccaride di riserva per quanto riguarda le strutture vegetali; è costituito da tante unità di glucosio. ▪ glicogeno: è il polisaccaride di riserva per le specie animali; è costituito da tante unità di glucosio. ▪ cellulosa: è un polisaccaride di sostegno che troviamo ad esempio assieme alla lignina nelle pareti cellulari; è costituita da tante unità di glucosio. ▪ inulina: polisaccaride costituito da una ripetizione di molecole di fruttosio. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Quando si parla di carboidrati dobbiamo valutare qual è il loro effetto nella dieta. Come già anticipato, amido e saccarosio sono le fonti energetiche principali e sono il massimo apporto calorico fornito dalla dieta. I carboidrati hanno anche un potere dolcificante calcolato prendendo come riferimento il saccarosio, a cui viene assegnato per convenzione un valore pari a 1; tutti gli altri zuccheri vengono definiti più o meno dolcificanti sulla base del valore maggiore o minore di 1. Ad esempio, il glucosio ha un potere dolcificante pari a 0,7 quindi inferiore a quello del saccarosio, mentre il fruttosio ha un potere dolcificante superiore poiché ha un valore pari a 1,8. Lo xilitolo, simile a quello del saccarosio, intorno a 0,9. I carboidrati possono essere digeriti dal corredo enzimatico umano, presente nel nostro organismo, ma questo vale solo per i glucidi che presentano legami α-glicosidici, quindi amido e glicogeno. I legami di tipo β-glicosidici vanno invece a costituire la cosiddetta fibra dietetica, poiché il nostro corredo enzimatico non prevede enzimi in grado di scindere questo legame, enzimi che ritroviamo invece negli animali. La digestione dei carboidrati inizia a livello salivare grazie all’α-amilasi salivare, ovvero la ptialina, per poi procedere a livello duodenale. L’α-D-glucosio libero è trasferito attivamente dal lume intestinale al sistema portale per poter essere introdotto in circolo. Quando si parla di carboidrati è importante definire anche l’indice glicemico (GI). L’indice glicemico è un parametro correlato agli indici glicemici ematici, i quali sono ottenuti o provocati da alimenti con elevato tenore di carboidrati. Questo parametro è strettamente correlato alla quantità di glucosio nel sangue e gli indici glicemici assumono valori compresi tra 0 e 100. Molti alimenti si definiscono a basso, medio o alto indice glicemico a seconda del range di valori in cui questo indice casca: alto indice glicemico (pane bianco): valore compreso tra 70 e 100 medio indice glicemico: valore compreso tra 55 e 70 basso indice glicemico: valore inferiore a 55 Facendo un breve accenno, si definiscono amidi resistenti quei carboidrati complessi a basso GI, non digeriti nell’intestino tenue ma fermentabili nell’intestino crasso. In alimenti come frutta e verdura troviamo sempre un certo quantitativo di glucosio e fruttosio (zuccheri semplici). Nella frutta in particolare, troviamo elevate quantità sia di glucosio che di fruttosio, nella verdura invece il quantitativo di fruttosio è più basso. I cibi, sia che si trattino di alimenti freschi o lavorati, hanno un contenuto di zuccheri molto diverso. Gli alimenti lavorati normalmente hanno elevate concentrazioni di zuccheri, mentre quelli freschi, come la frutta, presentano una concentrazione più bassa di zuccheri semplici. I carboidrati sono responsabili della formazione delle carie nei denti. Questa è legata ad un’eccessiva produzione di acidi che vanno ad attaccare lo smalto dei denti. In questo, il saccarosio è la fonte più pericolosa, lo xilitolo invece, che è uno zucchero che ritroviamo in molte gomme da masticare, viene messo apposta proprio perché questo non innesca il meccanismo cariogeno. Il meccanismo con cui si forma la carie è complesso: il saccarosio viene metabolizzato da alcuni microrganismi presenti nel cavo orale (streptococcus mutans e streptococcus sanguis), i quali idrolizzano il saccarosio in glucosio e fruttosio; il fruttosio viene consumato dai microrganismi e quindi utilizzato, mentre il glucosio viene trasformato in destrani per opera di alcune transferasi. Questi destrani creano una pellicola sullo smalto dei denti e questo fa sì che si creino delle condizioni anaerobiche. A questo punto si innesca una metabolizzazione del substrato, con produzione di acidi come acido lattico, acido piruvico e acido acetico che porta ad un abbassamento del pH e quindi ad una mobilizzazione dei gruppi ossidrilici presenti nello smalto. Tutto questo intacca quindi lo smalto dei denti creando un terreno fertile per la formazione delle carie. Lo ione fluoruro inibisce queste enolasi e quindi riduce l’assorbimento dello zucchero da parte dei microrganismi, stimolando la rimineralizzazione naturale, sottoforma di fluoroapatite. È stato visto infatti che il trattamento con fluoro porta a proteggere dalla formazione di carie in età adulta. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Concetti base Ci sono alcuni concetti base che ritroviamo nella descrizione di alcuni carboidrati, simboli e abbreviazioni di cui è importante sapere il significato: stereoisomeri: identica formula di struttura ma diversi arrangiamenti tridimensionali dei rispettivi atomi e gruppi funzionali enantiomeri: stereoisomeri che presentano immagine speculare uno dell’altro diasteroisomeri: stereoisomeri non speculari (+) e (-): indicano i sensi di rotazione della luce polarizzata D e L: indicano la disposizione nello spazio dei gruppi OH e H legati al C asimmetrico; se ci sono più centri asimmetrici, chirali appartengono alla seri D tutti quelli che presentano il gruppo OH del C chirale più lontano dal gruppo carbonilico posizionato a destra. epimeri: due isomeri che differiscono tra loro solo per la configurazione di uno solo dei centri chirali, es: D- glucosio e D-galattosio sono epimeri al C4 oppure D-glucosio e D-Mannosio sono epimeri al C2. Gli zuccheri assumono delle conformazioni spaziali in soluzione acquosa, che possono essere conformazione lineare o conformazione a sedia; quest’ultima prevede la forma α o β a seconda che il gruppo ossidrilico si trovi sotto o sopra il piano. Oligosaccaridi Riprendendo gli oligosaccaridi, come già detto, questi si suddividono in disaccaridi e trisaccaridi. Tra i primi ritroviamo il saccarosio, costituito da glucosio e fruttosio legati con legame 1-2 α-glicosidico, il lattosio costituito da glucosio e galattosio legati con legame 1-4 α-glicosidico, il maltosio costituito da due molecole di glucosio con legame 1-4 α-glucosidico e il cellobiosio in cui il legame tra le due unità glucosidiche è di tipo 1-4 β-glucosidico. Il fatto che nel saccarosio, a differenza degli altri zuccheri, il legame avvenga tra i C 1 e 2, comporta il fatto che il saccarosio è uno zucchero non riducente rispetto agli altri che sono invece tutti zuccheri riducenti. Gli zuccheri riducenti presentano almeno un carbonio anomerico libero per poter fare legami. Questo è importante per capire poi quali sono gli zuccheri che possono dar luogo alla reazione di Maillard, reazione che appunto avviene solo per gli zuccheri riducenti. Il saccarosio in presenza dell’enzima saccarasi (o invertasi), viene idrolizzato dando origine ad una miscela equimolare di glucosio e fruttosio. Questa miscela ha un potere edulcorante maggiore rispetto a quella del saccarosio e prende il nome di “zucchero invertito”, poiché viene invertito il senso di rotazione del piano della luce polarizzata (che passa da positivo a negativo), rispetto a quella del saccarosio. La miscela equimolare di glucosio e fruttosio a seguito di idrolisi chimica o enzimatica ha un potere rotatorio di circa –20° (rispetto a +66.5° del saccarosio); questo valore sarà dato dai singoli poteri rotatori del glucosio (+52.7°) e del fruttosio (–92.4°): potere rotatorio: –39.7° / 2 = –19.9° Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Come dolcificanti naturali, oltre al glucosio, si possono utilizzare il saccarosio, lo zucchero di mais, il fruttosio, il lattosio, il maltosio, oppure altri dolcificanti (polioli) ottenuti per riduzione del glucosio, come lo xilitolo, maltitolo, sorbitolo; questi sono assorbiti lentamente e passivamente nell’intestino. Oppure lo stesso zucchero invertito. Ci sono poi dolcificanti sintetici come la saccarina, l’aspartame e l’acesulfame. Questi possono avere effetti tossici e possono determinare rischi di aumento della probabilità di insorgenza di tumori (es. tumore alla vescica con il consumo della saccarina). Per quando riguarda l’aspartame, questo è un edulcorante dipeptidico (fenilalanina ed acido aspartico uniti sotto forma di estere metilico) che conferisce sensazione di dolce persistente da 130 a 250 volte superiore al saccarosio. I prodotti contenenti aspartame devono riportare in etichetta la dicitura “contiene fonte di fenilalanina”, per soggetti affetti da chetonuria (mancanza o difetto della fenilalaninasi che converte la fenilalanina in tirosina). L’acesulfame è chimicamente simile alla saccarina con potere edulcorante circa 200 volte superiore al saccarosio. Polisaccaridi I polisaccaridi si suddividono in: ▪ polisaccaridi di riserva: sono immagazzinati in granuli all’interno dei vegetali o all’intero di organismi animali; hanno la funzione di accumulare riserve di glucosio che vengono utilizzate per risorse energetiche. In caso di bisogno, di consumo energetico si attinge a questi granuli di riserva. Questi comprendono l’amido e il glicogeno, ma anche l’inulina, mannani, xilani e arabani. ▪ polisaccaridi di sostegno: tra questi troviamo polisaccaridi che costituiscono la struttura esterna delle pareti cellulari, per questo sono definiti di sostegno; sono la cellulosa, emicellulose, pectine, agar. ▪ polisaccaridi complessi: polisaccaridi con importanti e particolari funzioni, come le glicoproteine (proteine che contengono porzioni glicosidiche) oppure i mucopolisaccaridi e le mucine. Amido L’amido è organizzato in granuli di forma e dimensione diversa (2-100 μm), tanto che forma e dimensione di questo sono caratteristici della specie vegetale. Attraverso un’analisi a microscopio posso osservare le diverse forme e dimensioni dei granuli di amido nelle diverse specie vegetali. L’amido è costituito da: ▪ amilosio: rappresenta circa il 20% della struttura ed è una catena lineare costituita da 50-300 unità di glucosio tenute assieme da legami α-1-4-glicosidici. ▪ amilopectina: rappresenta circa l’80% della struttura, è ramificata e contiene da 300-5000 unità di glucosio tenute assieme da legami α-1-4-glicosidici dove la struttura è lineare e da legami α-1-6- glicosidici dove la struttura si ramifica. All’interno del granulo, l’amido si organizza in una struttura definita “semicristallina”, poiché è costituita da zone cristalline in cui le catene lineari sono strettamente connesse tra loro e da zone amorfe che presentano le ramificazioni; si ha quindi una copresenza di struttura cristallina e struttura semicristallina. Questo è importante perché spiega il processo di gelatinizzazione e di retrogradazione che determina l’ottenimento dell’amido resistente. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Gelatinizzazione La gelatinizzazione consiste nella rottura irreversibile della struttura ordinata e semicristallina dei granuli di amido, ottenendo una struttura disordinata con le caratteristiche di un gel. Questo processo fisico avviene quando una sospensione acquosa di granuli di amido viene riscaldata ad una temperatura superiore ai 60°C. La gelatinizzazione provoca la rottura del legame idrogeno delle zone cristalline; questo fenomeno determina un grande assorbimento d'acqua e una successiva lisciviazione (processo consistente nella separazione di uno o più componenti da una massa solida mediante un solvente), che consiste in una perdita di macromolecole di basso peso molecolare (amilosio). Si ha quindi una dispersione di materiale amidaceo nella fase acquosa (salda d’amido). Durante la cottura del riso ad esempio, l’acqua di cottura è bianca e quel bianco è dovuto proprio al fenomeno di lisciviazione, cioè al rilascio di amilosio all’interno dell’acqua. Questo perché il riscaldamento porta al rigonfiamento dell’amido, l’acqua penetra all’interno, si rompono i legami idrogeno e si rilascia amilosio nella fase acquosa. Il fenomeno della gelatinizzazione avviene rapidamente durante la cottura in acqua di farine e semole (ad es. preparazione di semolini e polenta) o durante la cottura in forno di impasti a base di farina, ad alto contenuto di umidità (panificazione tradizionale). La gelatinizzazione avviene anche durante la cottura di pasta e riso in acqua. Il fenomeno inizia da una zona periferica del prodotto verso l'interno, in questi casi la velocità di avanzamento (che corrisponde alla velocità di cottura) dipende dall'interazione tra amido e acqua che avviene all'interfaccia di separazione tra le due zone: si possono così ottenere pasta o riso più o meno al dente. Nella cottura di prodotti meno umidi, come i biscotti, è possibile nel prodotto finito una parziale conservazione dei granuli di amido allo stato nativo, cioè non alterato; ciò è dovuto al fatto che la maggior parte dell'amido non gelatinizza a causa del basso contenuto d'acqua del sistema e quindi si forma una struttura rigida e friabile, sostenuta da un film proteico sviluppato solo parzialmente e legato a granuli di amido disidratati, zuccheri e lipidi. La nuova struttura che si viene a formare ha consistenza caratteristica: la pasta e il riso cotti sono morbidi, semolino e polenta sono gelatinosi, nel pan cotto, invece, la struttura gelatinizzata umida si disidrata e si forma una fase leggera e porosa che ingloba anidride carbonica e aria prodotte durante la lievitazione: la mollica! La gelatinizzazione è molto importante perché favorisce l’idrolisi dell’amido e quindi la successiva utilizzazione metabolica del glucosio da parte del nostro organismo, garantendogli energia di pronta utilizzazione. Retrogradazione La retrogradazione è quel fenomeno che avviene una volta effettuata la gelatinizzazione. La struttura gelatinosa ottenuta si raffredda e si riottiene una struttura semicristallina ma diversa da quella originaria. Si forma il cosiddetto amido retrogradato o amido resistente, che viene definito in questo modo poiché è più resistente alla digestione rispetto a quello di partenza. È un amido che non è indigeribile e non fa parte infatti della fibra perché i legami sono comunque di tipo α, ma avendo una struttura semicristallina diversa rispetto a quella di partenza impiega più tempo ad essere digerito. Questo processo è quello che avviene ad esempio nel raffermamento del pane. La disposizione nello spazio di queste catene, a seconda che siano lineari o ramificate, porta ad un’influenza sulla viscosità delle soluzioni. La catena lineare occupa maggior spazio determinando maggior resistenza al flusso e quindi maggiore viscosità. Più la struttura invece è ramificata e meno spazio occupa, quindi la soluzione sarà meno viscosa perché avremo una resistenza minore al flusso. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Le zone amorfe e le zone cristalline hanno solubilità diversa, le prime sono più facilmente solubili e più fortemente idratate, mentre le zone cristalline sono definite “zipperlike”, cioè simili a una zip e formano agglomerati che hanno una tendenza a precipitare. La viscosità delle soluzioni di amido è legata anche a: ▪ presenza di Sali e zuccheri semplici che riducono l’aw (attività dell’acqua), quindi bassa aw determina un basso grado di gelificazione. ▪ variazioni di pH (a pH acidi si ha idrolisi e quindi riduzione della viscosità) Gli amidi presenti in commercio sono l’amido normale, che ha un rapporto 1:3 di amilosio/amilopectina e l’amido waxy (amido di mais ceroso) di origine cinese, composto soltanto da amilopectina. Nonostante l'amilopectina risulti un polimero del glucosio più facilmente digeribile, l'amido di mais ceroso è risultato nei vari studi un carboidrato a basso indice glicemico. Abbiamo poi l’amido pregelatinizzato che si utilizza nella formulazione di alimenti che non sono sottoposti a cottura; si ottiene per spray-drying da gel e si reidrata velocemente in H2O. Fibra Alimentare Inizialmente abbiamo detto che esiste una componente di polisaccaridi di sostegno, questi fanno parte della cosiddetta fibra alimentare. La fibra alimentare è la parte commestibile delle piante superiori che non è digeribile dal nostro organismo poiché è costituita da polimeri di zuccheri tenuti assieme da legami di tipo β- glicosidico. La fibra passa senza essere digerita dal nostro organismo e può essere fermentata parzialmente o totalmente dall’intestino crasso. La fibra alimentare insolubile per eccellenza è la cellulosa. Questa si trova spesso e soprattutto nelle parti legnose degli alberi, associata alla lignina. La lignina in realtà non è un polisaccaride perché le unità presenti sono alcol fenolici che polimerizzano e danno luogo a questa struttura che si associa appunto a polisaccaridi come la cellulosa nelle strutture cellulari. Tra le fibre abbiamo anche: ▪ gomme: qualunque polisaccaride di origine vegetale solubile in H2O ▪ sostanze peptiche: polimeri prevalentemente costituiti da unità di a-D-galatturono-piranosidiche legate 1-4 ▪ emicellulosa: si differenzia dalla cellulosa poiché per idrolisi libera oltre al glucosio, grosse quantità di pentosi ed acidi glucuronici; è naturalmente presente nelle pareti delle cellule vegetali. Ci sono inoltre i derivati della cellulosa come la carbossimetilcellulosa (CMC) e la metilcellulosa (MC). Questi vengono utilizzati come additivi alimentari per aumentare la viscosità di alcuni alimenti, come nei gelati, dessert, creme o alimenti privi di glutine. Le pectine si trovano principalmente nelle mele e nelle scorze di agrumi, sono polimeri costituiti da 200-1000 unità di acido galatturonico, legate tra loro con legami α-1-4 glicosidici e vengono usate per aumentare la viscosità e gelificare nelle confetture. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Reazioni principali dei carboidrati negli alimenti Le reazioni a cui i carboidrati possono andare incontro sono diverse, ma la più importante che affronteremo e analizzeremo è la Reazione di Maillard. Idrolisi L’idrolisi è una prima reazione chimica che coinvolge i carboidrati. Questa può essere catalizzata da enzimi o da acidi. Il saccarosio, per esempio, viene idrolizzato da un enzima che prende il nome di saccarasi o invertasi, mentre l’amido da enzimi quali le maltasi, che vanno a formare il maltosio come unità disaccaridica. L’idrolisi dei carboidrati porta ad un’idrolisi non totale, cioè si passa da polisaccaridi a oligosaccaridi, successivamente a disaccaridi e infine a monosaccaridi. L’idrolisi dell’amido ad esempio porta sempre alla formazione del maltosio e da questo si ottiene poi glucosio come monosaccaride. Apertura dei cicli piranosidico e furanosidico I carboidrati in acqua sono presenti in strutture in equilibrio, questo è dovuto all’apertura dei cicli piranosico e furanosico. Ad esempio, nel caso del D-glucosio, si possono formare in acqua forme gluco-furanosiche o gluco-piranosiche in equilibrio tra loro. Per avere una mutarotazione è necessaria una catalisi acida o basica negli alimenti a temperatura ambiente e la maggior parte degli zuccheri riducenti è stabile e non subisce “enolizzazione” e mutarotazione. Disidratazione e Degradazione Termica Questa disidratazione porta ad un’eliminazione di acqua e formazione di prodotti volatili aromatici. Il trattamento con un aumento delle temperature di frutta per ottenere succhi di frutta produce idrossi metil furfurale (HMF), il quale si ottiene per β-eliminazione a partire dagli esosi. Il glucosio infatti perde due molecole di acqua, si forma la struttura 3,4 didesossiosone, la quale a sua volta ciclizza, si disidrata ulteriormente fino a formare l’idrossi metil furfurale. Questo rappresenta un parametro controllato anche nella reazione di Maillard. L’HMF si può formare quindi in seguito a riscaldamento (alta T); questa o le altre specie correlate sono comunque tossiche. Si può formare anche il 2-Furaldeide che è una specie più reattiva e potenzialmente più tossica di HMF, che però si forma a partire dai pentosi. Reazioni di riduzione ad alcol Glu zuccheri possono essere ridotti ad alcoli. Ad esempio, il glucosio da come alcol il sorbitolo o glucitolo, che viene utilizzato come succedaneo del saccarosio. Il mannosio viene trasformato in mannitolo, che si ritrova nelle olive, cipolle, funghi e nella manna, un essudato del fraxinus ornus. Il fruttosio per riduzione da sorbitolo e mannitolo, il galattosio forma il galattilolo e il ribosio per riduzione porta alla formazione del rubitolo. Reazione di Maillard (Imbrunimento non enzimatico) L’imbrunimento non enzimatico può essere di due tipi: Caramellizzazione o Reazione di Maillard; questo dipende dal tipo di zucchero che interviene in questa reazione. Se lo zucchero è il saccarosio, a seguito del riscaldamento, questo porta alla formazione del caramello e quindi, essendo il saccarosio uno zucchero non riducente, non subisce la reazione di Maillard. Per riscaldamento quindi, il saccarosio caramella. La Reazione di Maillard è una reazione di imbrunimento non enzimatico che avviene a carico di zuccheri riducenti che reagiscono con residui amminoacidici basici, quindi con proteine che hanno al loro interno dei residui amminoacidici basici. Questo avviene in seguito di riscaldamento e in presenza di acqua. I prodotti finali della reazione sono polimeri scuri; le reazioni di imbrunimento in generale rendono scuro l’alimento, anche nella caramellizzazione. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) La reazione di Maillard avviene in seguito a processi di cottura, tostatura e risanamento termico. Deve essere evitata durante i processi di sterilizzazione, pastorizzazione ed essiccamento, mentre è desiderata invece per prodotti da Forno, tostatura del cacao, birra e caffè. Questo perché attraverso questa reazione si ottengono caratteristiche tipiche del prodotto finito; ad esempio, effettuo la tostatura del cacao o dei chicchi del caffè per ottenere specifiche caratteristiche organolettiche. La reazione di Maillard può essere suddivisa in tre stadi: ▪ stadio iniziale: si ha la formazione di sostanze incolori e porta alla formazione dei cosiddetti composti di Amadori (Latte UHT e latte sterilizzato – composti dicarbonilici e di Amadori); è la fase che si sviluppa per esempio nella pastorizzazione del latte. Il latte è un alimento di colore bianco, ma che ha subito un processo di risanamento termico. Questo processo avviene su un prodotto che presenta acqua, uno zucchero riducente (lattosio) e delle proteine con residui amminoacidici basici e quindi sono presenti tutti i requisiti necessari affinché questa reazione avvenga, solo che essendo il latte bianco e non scuro, ci si ferma in questo stadio iniziale della reazione e l’imbrunimento non prosegue. ▪ stadio intermedio: il composto di Amadori incolore si riorganizza e subisce una serie di reazioni (ciclizzazioni, enolizzazioni, disidratazione) che portano alla formazione di prodotti colorati in rosso- bruni con colorazione stabile anche dopo HSO3; come nella birra chiara e nella pasta. ▪ stadio avanzato: stadio che porta ad una polimerizzazione spinta che determina la formazione di un colore bruno scuro e di un aroma simile a quella del caramello. È quello che accade nei prodotti da forno, cacao, carne arrostita; questo è dovuto alla produzione di polimeri che prendono il nome di melanoidine. Il rischio maggiore di questa reazione è rappresentato dalla perdita del valore nutritivo, perché quando lo zucchero riducente si lega ai residui amminoacidici basici della proteina, questi non sono più biodisponibili e l’alimento che ha subito questo processo avrà un minor valore nutritivo. Vediamo cosa succede chimicamente. Il glucosio, in presenza di un gruppo amminico basico, indicato come R ̶ NH₂, porta alla formazione di una Base di Schiff. Gli amminoacidi basici, infatti, sono quegli amminoacidi che presentano un altro gruppo amminico (per questo si parla di residuo amminoacidico) che si può andare a legare al gruppo carbonilico dell’anomerico dello zucchero (in questo caso del glucosio), formando la Base di Schiff. Questa Base di Schiff poi subisce una serie di arrangiamenti portando alla formazione di un doppio legame tra C1 e C2; si viene a formare l’1,2-Enamminolo. Quando questo poi subisce ulteriori arrangiamenti, si ottiene il Composto di Amadori (formule e strutture da imparare a memoria). Il composto di Amadori è quindi il prodotto che si ottiene a fine del primo stadio della reazione. In realtà, l’1,2-Enamminolo può subire anche una deaminazione ossidativa, quindi viene eliminato il gruppo R ̶ NH₂ e si formano dei composti dicarbonilici come il 3- Desossialdochetoso, il quale subisce vari arrangiamenti fino a formare l’HMF (Idrossi metil furfurale). Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) I composti di Amadori (1-amino-1-desossi-2-chetosi N sostituiti), possono anche isomerizzare non solo nella forma 1,2-Enamminolo, ma anche nella forma 2,3-enamminolo e successivamente per deaminazione ossidativa, disidratazione, ciclizzazione possono dare origine a composti come il maltolo e l’isomaltolo, che sono proprio quei composti che conferiscono l’aroma di tostato all’alimento sottoposto al processo. Il processo di tostatura, infatti, viene fatto proprio per ottenere queste molecole, tipiche dell’aroma tostato. Il composto di Amadori, a seconda del pH, può trasformarsi in maniera diversa: se il pH è acido può dare origine al 3-desossiesone (comunque composti dicarbonilici), oppure a pH basici può dare la formazione dell’1-metil-2,3-dicarbonile. Quindi si possono avere trasformazioni diverse anche sulla base del pH dell’alimento. Ecco uno schema riassuntivo dell’intera Reazione di Maillard (noi dobbiamo saper scrivere solo le reazioni della foto precedente che portano alla formazione dell’HMF): Durante l’intero processo avvengono anche altre reazioni, come la Degradazione di Strecker. Questa è una reazione che avviene tra i composti dicarbonilici e gli amminoacidi. Questa degradazione non determina un imbrunimento ma porta comunque ad una perdita del valore nutrizionale e avviene in alimenti con elevate concentrazioni di amminoacidi liberi o in condizioni drastiche (elevate temperature). Nella tostatura del cioccolato e nella carne arrostita ad esempio si formano questi prodotti derivati pirazinici che influenzano fortemente l’aroma dell’alimento. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) La Reazione di Maillard può essere regolata da vari fattori. La struttura dello zucchero sicuramente influenza, ma anche la percentuale di acqua, infatti i cibi secchi imbruniscono più velocemente. La natura dei reagenti è un altro fattore che influenza la reazione, cioè se i reagenti sono aldosi piuttosto che chetosi; gli aldosi sono più reattivi dei chetosi, gli amminoacidi basici sono più reattivi. Altri fattori sono la presenza di cationi metallici che funzionano da catalizzatori, il tempo e la temperatura di contatto e infine il pH. Aumentando il pH aumenta anche la velocità della reazione. Chiaramente questo imbrunimento non enzimatico deve essere controllato, perché è vero che per alcuni alimenti è un processo fatto apposta, desiderato, ma allo stesso tempo per altri alimenti è un processo indesiderato. Il controllo avviene attraverso bassi valori di pH, basse temperature, aggiunta di acqua, aggiunta di H2SO3 o i suoi Sali; quest’ultimo fattore infatti determina un meccanismo per cui si va a legare alla struttura dell’aldeide impedendo la produzione di pigmenti melanoidicini. Effetti della Reazione di Maillard Tra gli effetti positivi abbiamo: ▪ formazione di aromi piacevoli (del pane tostato, del caffè tostato, della carne arrostita) ▪ produzione di melanoidine, che sono pigmenti/polimeri che contengono strutture antiossidanti ▪ aumento della capacità di assorbimento di ioni metallici che possono essere chelati dalle melanoidine Gli effetti negativi invece: ▪ in alcuni alimenti come ad esempio il latte sterilizzato, la reazione fa assumere al latte una colorazione giallastra e un sapore un po’ di cotto. ▪ la lisina viene degradata durante le prime fasi della reazione e quindi non è più assimilabile dall’organismo (riduzione del valore nutrizionale). ▪ superati i 180°C si possono formare composti tossici o cancerogeni. ▪ riduzione della capacità di assorbimento degli ioni metallici liberi. Le melanoidine sono polimeri di colore giallo-bruno con importanti proprietà. Questi hanno un’attività antimicrobica e un’attività antiossidante; le melanoidine hanno la capacità di ridurre la concentrazione di ossigeno e di catturare ioni metallici come il Fe e quindi bloccare la circolazione di radicali liberi (funzionano un po’ come scavengers). Inoltre, un’altra proprietà è rappresentata dalla capacità di chelare ioni metallici introdotti dalla dieta. Parlando però degli effetti negativi abbiamo detto che se si superano certe temperature si può avere la formazione di sostanze tossiche. Tra questi abbiamo: ▪ acrilammide: è la corrispondente ammide dell’acido acrilico, è un’aldeide che si forma per reazione della Reazione di Maillard con l’asparagina libera. Le patate, ma anche gli strati esterni dei chicchi di cereali, di caffè, di cacao e la frutta secca, sono ricchi di asparagina libera, quindi se sottoposti a trattamenti con temperature molto elevate possono produrre questo composto tossico. La concentrazione di acrilammide deve essere fortemente controllata nella tostatura del caffè. È un composto mutageno, cancerogeno, con tossicità sistemica ma preferenziale per il sistema nervoso, sia centrale che periferico, e per quello riproduttivo. ▪ ammine eterocicliche: come prodotto diretto della reazione di Maillard ▪ furano: conseguenza dell’utilizzo di alte temperature Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Proteine Il termine “proteina” deriva da “proteios” = che occupa il primo posto, infatti le proteine costituiscono fino al 50% del peso secco degli organismi viventi. Le strutture proteiche contengono da 100 a 300 amminoacidi mediamente, sono costituite da una struttura primaria data dalla sequenza amminoacidi e sebbene gli amminoacidi conosciuti arrivano anche fino a 150, solo 20 sono presenti in genere negli alimenti, ripetendosi. Come per i saccaridi, anche in questo caso le proteine si classificano in: ▪ oligopeptidi: costituiti da un massimo di 10 amminoacidi ▪ polipeptidi: costituiti da 10-50 amminoacidi ▪ macromolecole: proteine vere e proprie che contengono da 50 fino a 500 amminoacidi Gli amminoacidi sono principalmente alfa-L-amminoacidi (eccetto la prolina che è un alfa-imminoacido). Gli alfa-D-amminoacidi negli alimenti sono in genere di origine batterica. L’amminoacido è costituito da un gruppo R e un carbonio centrale a cui sono legati un gruppo carbossilico COO⁻ e un gruppo amminico NH₃. Chiaramente in acqua si vengono a creare degli equilibri tra la struttura acida e quella basica. Si definiscono in base alle loro caratteristiche: ▪ amminoacidi neutri: monocarbossilici ▪ amminoacidi basici: diamminocarbossilici, cioè hanno due gruppi amminici, uno implicato del legame peptidico e l’altro è un residuo amminoacidico che rende l’AA basico. ▪ amminoacidi acidi: monoammino-dicarbossilici, hanno due gruppi carbossilici, uno legato al legame peptidico e l’altro libero. Il bilanciamento delle cariche totali di una proteina influenza fortemente la solubilità di una molecola. Questo significa che tutte le proteine hanno un proprio punto isoelettrico, cioè il valore di pH al quale la carica netta della proteina è pari a 0. Questo non vuol dire che non ci sono cariche negli amminoacidi, bensì che ci sono tanti amminoacidi carichi positivamente quanti amminoacidi carichi negativamente, quindi la carica netta è 0. In questo caso avremo la massima interazione tra proteina-proteina e la minima interazione con l’acqua; al punto isoelettrico le proteine precipitano. Ogni proteina però al suo punto isoelettrico, quindi vuol dire che precipita ad un determinato pH (punto in cui la carica netta è 0). Esiste inoltre una serie di enzimi specifici deputati alla digestione (enzimi proteolitici) dell’apparato digerente che agiscono ad elevata specificità ed a pH diversi. I 20 amminoacidi standard possono essere divisi in gruppi a seconda della carica e della polarità delle loro catene laterali: ▪ catene laterali neutre apolari: alanina, fenilalanina, glicina, isoleucina, leucina, metionina, prolina, triptofano e valina. ▪ catene laterali neutre polari: asparagina, cisteina, glutammina, serina, tirosina, treonina. ▪ catene laterali cariche acide: aspartato e glutammato ▪ catene laterali cariche basiche: arginina, istidina, lisina Gli amminoacidi standard hanno delle proprietà chimiche in comune: sono tutti α-amminoacidi (ovvero, il gruppo amminico ed il gruppo carbossilico sono legati allo stesso atomo di carbonio) a pH fisiologico si trovano in forma di zwitterioni presentano attività ottica e si trovano tutti nella forma L (con eccezione della glicina, non chirale). Tra i 20 amminoacidi esistono i cosiddetti amminoacidi essenziali, ovvero quelli che devono essere necessariamente introdotti con la dieta dato che il nostro organismo non è in grado di sintetizzarli. Questi sono 9 e sono: treonina, metionina, valina, leucina, isoleucina, lisina, fenilalanina, triptofano, istidina. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Il frumento e la pasta sono alimenti poveri in lisina, mentre il latte e i derivati sono ricchi in questo amminoacido, così come anche le leguminose e fagioli. Questo vuol dire che per avere un pasto completo sarebbe opportuno consumare pasta e fagioli o pasta con formaggi/derivati. Struttura primaria delle proteine Le proteine presentano diversi livelli di struttura. La struttura primaria è presente in tutte le proteine, mentre altre non sono necessariamente presenti. La struttura primaria della proteina è quella struttura definita dalla sequenza di legame degli AA nel peptide, cioè definisce la sequenza di amminoacidi, legati dal legame peptidico. Questa è importante per valutare il potere nutrizionale della proteina. Il legame peptidico della proteina è un legame ammidico (CO-NHR), cioè tra il gruppo carbossilico di un amminoacido e il gruppo amminico dell’altro. È un legame molto stabile ed è impossibilitato a ruotare liberamente nello spazio. Il gruppo amminico del legame è insensibile alle variazioni di pH, non si idrolizza il legame ammidico sulla base del pH, questo influenza solo le cariche degli amminoacidi presenti nella catena. La struttura primaria viene determinata mediante un sequenziatore di amminoacidi che agisce sia mediante reazioni chimiche che attraverso l’azione di enzimi ad elevata specificità. Questo va a tagliare la catena e va a determinare la sequenza amminoacidica. Struttura secondaria delle proteine La struttura secondaria è la struttura che assume nello spazio la catena proteica, questa è definita in base ad un asse di riferimento. Si parla di struttura secondaria ad α-elica o foglietto-β. Nel primo caso, l’elica può essere destrorsa o sinistrorsa, anche se la maggior parte delle strutture ad α-elica è destrorsa, cioè le catene laterale degli amminoacidi sono rivolte verso l’esterno; questo permette di evitare interferenze con la catena principale e le catene laterali stesse. Un’ α-elica sinistrorsa si trova raramente nelle proteine, proprio perché le catene laterale potrebbero interferire stericamente con la catena principale. Il foglietto-β (o foglietto pieghettato) rappresenta l’altra tipologia di struttura secondaria. È la conformazione più ricorrente dopo l’α-elica; circa il 20-28% degli amminoacidi nelle proteine globulari ricorre in questa conformazione. il foglietto-β si forma per accoppiamenti di filamenti β, quindi l’unità del foglietto è proprio il filamento β, lungo circa 5-10 amminoacidi con la catena polipeptidica quasi completamente stesa. I filamenti poi sono allineati uno accanto all’altro in modo tale da formare legami a idrogeno tra i gruppi CO di un filamento e i gruppi NH dell’altro. Questo allineamento può essere parallelo, se l’accoppiamento tra i filamenti è testa-testa o coda-coda, oppure antiparallelo, se l’accoppiamento tra i filamenti è testa-coda. Vediamo alcune considerazioni generali sulle conformazioni proteiche della struttura secondaria: ▪ L’α-elica: è una struttura stabile e molto ordinata, sono scarse le interazioni con le molecole di acqua. ▪ Se nella struttura peptidica c’è presenza di molta prolina, questo porta ad un’incompatibilità con la struttura α-elica, mentre si creano strutture più amorfe tipo “coil random” più termoresistenti (come quelle presenti nelle caseine del latte). ▪ Transizioni o passaggi dalla struttura α alla struttura β si ottengono per riscaldamento. ▪ In una stessa proteina spesso coesistono più strutture secondarie (tratti α-elica e tratti foglietto-β) ▪ La struttura terziaria e quaternaria delle strutture proteiche viene determinata mediante tecniche di “molecular modeling”, cioè simulazioni dinamiche della conformazione spaziale delle proteine. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Struttura terziaria e Struttura quaternaria delle proteine La struttura terziaria è un arrangiamento spaziale degli amminoacidi di una singola catena polipeptidica, a formare una struttura tridimensionale; è un ripiegamento della catena nello spazio. La struttura quaternaria è una struttura non sempre presente e va a descrivere l’associazione nello spazio tridimensionale di più catene proteiche, uguali o diverse, che costituiscono l’unità funzionale. Le proteine costituite da una sola catena polipeptidica vengono definite monomeriche, quelle invece costituite da n catene polipeptidiche identiche, chiamate subunità, si associano in modo specifico a formare una molecola multimerica o struttura quaternaria. L’esempio classico è rappresentato dall’emoglobina, che è un tetramero costituito da 4 catene proteiche che si arrangiano fino a formare una struttura globulare. Altre simmetrie della struttura quaternaria possono essere quella tetraedrica, ottaedrica, icosaedrica, ecc. Classificazione delle proteine Le proteine possono essere classificate sulla base di diversi criteri: ▪ conformazione spaziale: distinguiamo proteine fibrose, globulari, miste ▪ conformazione chimica: distinguiamo omoproteine ed eteroproteine (come emoglobina) ▪ funzionalità: proteine di struttura e proteine con attività biologica (ormoni, proteine ematiche, enzimi, proteine contrattili, di difesa, ecc.) la struttura proteica viene stabilizzata da legami che possono essere: ▪ fenomeni di ingombro sterico ▪ interazioni elettrostatiche, ad esempio con acqua o con metalli come il calcio (Ca) nelle caseine del latte; queste sono proteine idrofobiche fosforilate che se non si organizzassero in una struttura particolare, non potrebbero rimanere in sospensione nel latte. Le caseine si organizzano infatti in strutture micellari tenute insieme da legami calcio-fosfato. ▪ legami ad idrogeno ▪ legami a ponte di solfuro: le proteine che presentano gruppi cisteinici possono formare questi legami che sono legami covalenti, che si formano facilmente ad alte temperature o a valori estremi di pH e che servono a determinare stabilità e consistenza del glutine. La solubilità delle proteine dipende da pH del mezzo, forza ionica della soluzione e temperatura, dipende anche dalla concentrazione dei Sali disciolti. Noi possiamo giocare su questi fattori per fare una precipitazione selettiva; a volte è necessario ottenere estratti frazionati di proteine e per fare questo si gioca proprio sulla concentrazione di Sali, sulla temperatura e pH o sulla polarità del solvente. Ad un determinato pH i precipitati passano in soluzione, oppure ad un determinato pH ho proprio la precipitazione. Per quanto riguarda la concentrazione dei Sali, a bassa concentrazione ionica, la solubilità di una proteina aumenta se alla soluzione viene aggiunto un sale; questo fenomeno prende il nome di salting in, che vede l’aumento della solubilità della proteina con l’aggiunta di sale. Al contrario, ad alte concentrazioni di sale, la solubilità della proteina diminuisce e in questo caso di parla di salting out; si ha una competizione tra gli ioni del sale e gli ioni in soluzione per le molecole di solvente, questo porta ad una precipitazione delle proteine. Riprendendo il punto isoelettrico, questo è il valore di pH al quale la carica netta è pari a 0 (minima interazione con acqua e massima interazione tra proteine). Questo è quello che determina il cosiddetto rigor mortis nelle carni, ovvero il rilasciamento di acqua dopo aver lasciato la carne lì per un po’ di tempo. Si ha un consumo di ATP, vengono liberati ioni fosfato e ioni H+ e questo porta a consumo di glicogeno, formazione di acido lattico che porta ad abbassare il pH fino a un valore pari a 5.5, ovvero il valore corrispondente al punto isoelettrico delle proteine del muscolo di vitello. Questo porta alla minima interazione con l’acqua, la quale quindi che verrà rilasciata. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Le proteine possono denaturare a causa di: ▪ mezzi fisici: calore, raffreddamento, radiazioni UV, trattamenti meccanici ▪ mezzi chimici: acidi e basi forti, metalli, solventi organici e tensioattivi. La denaturazione comporta una ridotta solubilità delle proteine perché si smascherano i gruppi idrofobici che vengono lasciati liberi, che non interagiscono con l’acqua. Si verifica inoltre una perdita dell’attività biologica se queste proteine l’avevano e si ha una maggiore suscettibilità all’attacco delle proteasi (enzimi deputati all’idrolisi del legame peptidico). Cambiano poi le caratteristiche fisiche, cioè diventano più viscose e diventano difficili da cristallizzare. Ci sono proteine che hanno varie proprietà di superficie, come proprietà stabilizzanti (proprietà tensioattiva) o proprietà emulsionanti (per la produzione di schiume, panna, maionese). Le globuline 11S e 7S sono glicoproteine che presentano rispettivamente l’1% e il 5% di carboidrati e la loro composizione è pressoché simile; nonostante questo, queste proteine hanno una capacità emulsionante diversa, basta infatti anche un solo amminoacido diverso ad avere una diversa capacità emulsionante (proteina 7S maggiore capacità emulsionante rispetto alla 11S). Le caseine sono proteine idrofobiche fosforilate che se non si organizzassero in una particolare struttura (micellare) non potrebbero rimanere in sospensione nel latte. Il latte infatti appare come un alimento omogeneo quando in realtà è costituito da quattro fasi fisiche, tra cui una fase di soluzione colloidale data dalla presenza di queste caseine in soluzione acquosa. Le caseine essendo idrofobiche si organizzano in una struttura micellare, costituita a sua volta da sub-micelle tenute assieme da legami calcio-fosfato o magnesio- fosfato. Queste sub-micelle tendono ad aggregarsi tra loro fino ad un certo punto, l’aggregazione però non prosegue perché vengono stabilizzate da una caseina particolare, la K caseina, unica caseina che presenta un pendaglio trisaccaridico, cioè una glicoproteina. Le sub-micelle che contengono questa caseina sono disposte solitamente all’esterno della struttura, in modo da stabilizzarla; si dice infatti che la K caseina ha una funzione colloidal-protettrice, evitando che le sub-micelle possano andare ad aggregarsi ulteriormente formando una struttura troppo grande che andrebbe poi a precipitare. Questo poi vedremo che è invece il meccanismo applicato per far precipitare queste micelle caseiniche per formare il coagulo ad opera del caglio. Altre proteine importanti sono le proteine del frumento, che rivedremo per i cereali. Queste si dividono in due frazioni: ▪ frazione solubile: costituita da albumine e globuline che rappresentano il 20-30% del contenuto proteico del frumento ▪ frazione insolubile: è più abbondante ed è costituita da gliadine e glutenine, che rappresentano rispettivamente il 30-40% e il 40-50%. La solubilità è chiaramente riferita ad alcune soluzioni; quelle solubili sono solubili in soluzione acquosa e soluzione saline, mentre quelle insolubili sono solubili in soluzioni idroalcoliche o in soluzioni acide/alcaline. La gliadina e le glutenine sono le proteine responsabili della formazione del glutine negli sfarinati. Lo sfarinato di per sé non contiene il glutine, bensì queste due proteine; a seguito della lavorazione meccanica e quindi del contatto con l’acqua e grazie anche ad una manipolazione fatta impastando la farina con l’acqua, si formano dei legami a ponte di solfuro tra i gruppi -SH dei residui di cisteina presenti in queste proteine e quindi si forma questo legame stabile che è appunto questa massa elastica e tenace che prende il nome di glutine. Il glutine si forma in seguito alla lavorazione meccanica impastando la farina o la semola con l’acqua, infatti all’interno dello sfarinato (che sia semola o farina) si trovano separatamente gliadine e glutenine. Queste proteine hanno come amminoacidi principali cisteina, prolina e acido glutammico. Il glutine è costituito da: 75-85 % da proteine + 5-6% lipidi + 5-7% H2O + 5-10 % amido; questo residuo di amido rimane all’interno e non si può eliminare. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Considerazioni Nutrizionali e Indici Nutrizionali Proteici Gli esperti ritengono che per tutti i gruppi della popolazione l’assunzione di proteine nella popolazione europea sia adeguata. L’assunzione media di proteine da parte degli adulti in Europa è spesso pari o superiore a un PRI di 0,83 g per kg di peso corporeo al giorno (tra 67 g e 114 g al giorno per gli uomini e tra 59 g e 102 g al giorno per le donne). Il PRI (intake raccomandato per la popolazione) indica il quantitativo di un singolo nutriente di cui la maggioranza di individui in una data popolazione necessita per mantenersi in buona salute, in base all’età e al sesso. Le principali fonti di proteine nelle diete degli europei adulti sono la carne e i prodotti a base di carne, seguiti da cereali/prodotti a base di cereali e latte/prodotti lattiero-caseari. Chiaramente quando si parla del contenuto proteico facciamo riferimento all’alimento fresco, nel momento in cui andiamo a cuocere alcuni alimenti, il contenuto proteico può cambiare perché ci sono alcune proteine termosensibili che con l’aumento della temperatura si degradano. Le proteine vengono valutate sulla base di alcuni indici nutrizionali proteici, che valutano sia la composizione in amminoacidi essenziali, sia la biodisponibilità delle proteine una volta introdotte con l’alimentazione. Questi indici sono V.B. (valore biologico), C.U.D. (coefficiente di utilizzazione digestiva), N.P.U. (utilizzazione proteica netta), P.E.R. (protein efficiency ratio) e I.C. (indice chimico). L’indice chimico in particolare è un parametro che serve più a stabilire il valore nutrizionale della proteina basandosi solamente sulla sequenza amminoacidica; quelle proteine che avranno una quantità di amminoacidi essenziali maggiore saranno quelle che avranno un valore nutrizionale più alto. L‘indice chimico non tiene conto della biodisponibilità. Vediamo nello specifico quali sono gli indici nutrizionali proteici: Indice Chimico I.C. = (mg AA essenziale limitante per g proteina in esame / mg stesso AA essenziale per g proteina di riferimento) x 100. Cosa vuol dire amminoacido essenziale limitante? Si va a valutare all’interno della proteina di cui vogliamo valutare l’indice chimico, l’amminoacido essenziale presente in quantità più bassa e lo compariamo con lo stesso amminoacido presente in una proteina di riferimento. Si prende l’amminoacido presente in quantità minore perché se già quell’amminoacido ha un valore alto rispetto a quello della proteina di riferimento, vuol dire che tutti gli altri amminoacidi presenti in quantità superiori, daranno un apporto ancora più alto. Per quanto riguarda la proteina di riferimento, si considerano le proteine dell’uovo per l’adulto e le proteine del latte per il bambino. L’indice chimico, quindi, va a considerare la sequenza amminoacidica e quindi la quantità di amminoacidi essenziali rispetto ad una proteina di riferimento. Valore Biologico V.B. = (azoto N trattenuto dall’organismo / azoto N assorbito) x 100. Analizzando la formula, l’azoto trattenuto è dato dall’azoto introdotto con la dieta – l’azoto eliminato per via fecale o pe via urinaria. Coefficiente di Utilizzazione Digestiva C.U.D. = (N assorbito/ N introdotto con la dieta) x 100; indica l'efficienza con la quale viene digerita la proteina in questione, il valore massimo è 100. Utilizzazione Proteica Netta N. P. U. = (N trattenuto/ N introdotto con la dieta) x 100. Questo indice tiene conto sia dell'efficienza digestiva che del pattern amminoacidico. Protein Efficiency Ratio P.E.R. = incremento del peso in g ratti / g proteina assunti con la dieta. Per determinare la % di proteine presente in un alimento, solitamente si utilizza il Metodo di Kjeldal, che è il più utilizzato in laboratorio. Questo metodo consiste in una trasformazione di tutto l’azoto organico in azoto inorganico, questo viene fatto con una titolazione acido-base e applicando poi un fattore di conversione. Si tratta di un metodo molto semplice e sfrutta apparecchi piuttosto rudimentali. Durante l’analisi effettuiamo una titolazione acido-base e si va ad applicare un fattore di conversione per andare a titolare l’ammoniaca liberata. Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Enzimi in campo alimentare Alcune proteine hanno attività biologiche e funzionano per questo come enzimi. Gli enzimi usati in campo alimentare possono essere impiegati come indicatori biologici, ad esempio nel risanamento del latte. In questo caso, per stabilire se il processo di risanamento è avvenuto in modo corretto si utilizzano enzimi che fanno da indicatori biologici, e in base al risultato del test, positivo o negativo, ho un’indicazione su come è avvenuto questo processo. Inoltre, gli enzimi in campo alimentare possono essere usati per scopi analitici (controlli di qualità) oppure come coadiuvanti tecnologici, come gli enzimi idrolitici che idrolizzano dei legami affinché si possa ottenere un determinato prodotto. Quando devo utilizzare un enzima in campo alimentare, questo deve rispettare dei requisiti, come valori controllati di pH e temperatura e un’alta specificità. Inoltre, devo sapere quali sono le reazioni che potrebbero inibire l’enzima in questione, come l’essiccamento, la liofilizzazione, surgelazione e refrigerazione, pastorizzazione e sterilizzazione. In genere, gli enzimi usati in campo alimentare si ottengono da produzioni microbiche. Tra questi enzimi abbiamo la diastasi, la saccarasi o invertasi, le glucossidasi che servono per prevenire la Reazione di Maillard in prodotti poveri di glucosio e ricchi di proteine, le pectinesterasi o pectasi che servono per chiarificare i succhi di frutta e di pomodoro, le proteasi che idrolizzano il legame peptidico e quindi sono importanti ad esempio per la frollatura delle carni o per la formazione della cagliata nei formaggi, le beta- galattosidasi, che sono termoresistenti e si utilizzano per produrre latti altamente digeribili per soggetti intolleranti al lattosio e infine la naringinasi che è un enzima utilizzato per deamaricare i succhi d’arancia e pompelmo (idrolisi della parte zuccherina della Naringina, si ha il passaggio della sostanza da amara a insapore). Document shared on https://www.docsity.com/it/appunti-chimica-degli-alimenti-dietistica-1/8194633/ Downloaded by: eleonora-giardini ([email protected]) Il Latte Il latte è definito come il “prodotto della mungitura regolare, completa ed ininterrotta di animali in buono stato di salute e di alimentazione ed in corretta lattazione”. All’interno di questa definizione sono racchiusi tutti i requisiti fondamentali per stabilire la qualità del latte. Partendo dall’inizio, dire che il latte è il prodotto della mungitura regolare, completa ed ininterrotta, significa che per ottenere un prodotto completo da un punto di vista della composizione in macronutrienti, la mungitura deve essere regolare, cioè non deve essere interrotta perché il latte non è composto nello stesso modo dall’inizio alla fine della mungitura. All’inizio il latte è un latte più acquoso che presenta più zucchero (lattosio), mentre via via che procede la mungitura, il latte si arricchisce delle altre macromolecole, quali proteine e lipidi. È fondamentale quindi che la mungitura sia regolare, completa ed ininterrotta affinché si possa ottenere un latte omogeneo dal punto di vista della composizione. Oltre a questo, chiaramente gli animali devono essere in buono stato di salute perché se non lo sono, questo si ripercuote sulla qualità del latte. Se l’animale ha delle infiammazioni a livello delle ghiandole mammarie, l’allevatore può utilizzare degli antibiotici che poi però finiranno nel latte. Esiste infatti un’analisi di ricerca degli antibiotici mirata proprio a valutare l’eventuale presenza di antibiotici nel prodotto che ci permette di osservare questi residui; anche con la valutazione del pH possiamo accorgercene, perché il pH del latte deve avere un valore compreso tra 6.5-6.7 e se questo è superiore a 6.7 / 6.8 è molto probabile che siano stati aggiunti antibiotici che basificano il pH e quindi ci sia stato questo stato infiammatorio delle ghiandole mammarie de

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