Sclavi2_1 Pregiudizio 1 e 2 Pierino e la maestra-1 PDF

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Università degli Studi di Udine

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philosophy of education prejudice social sciences sociology

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This document analyzes the concept of prejudice, particularly the subtle forms of prejudice that educators might exhibit. It suggests how educational practices can shape awareness of these prejudices. This document also analyzes student-teacher, social and intercultural interactions and how they impact the dynamics and outcome of the educational process.

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## La contrapposizione fra "in controllo" e "goffo" è probabilmente quella che meglio delle altre sintetizza i due diversi modi di rapportarsi al flusso degli eventi rappresentati in questa tavola. Il ricercatore "volontariamente goffo" è uno che considera le sensazioni di disagio e sconcerto, gli...

## La contrapposizione fra "in controllo" e "goffo" è probabilmente quella che meglio delle altre sintetizza i due diversi modi di rapportarsi al flusso degli eventi rappresentati in questa tavola. Il ricercatore "volontariamente goffo" è uno che considera le sensazioni di disagio e sconcerto, gli spiazzamenti e le dissonanze emozionali non esperienze da evitare e che disturbano o distorcono la conoscenza, ma delle importanti risorse conoscitive, delle occasioni per esplorare e accogliere anche altre cornici. Quando all'inizio del corso chiedo agli studenti di produrre una descrizione “adeguata” (qualsiasi cosa questo termine al momento significhi per loro) di una specifica situazione o evento, essi di regola si attengono spontaneamente e scrupolosamente alle modalità di osservazione guidate dall'ascolto passivo o (più spesso le ragazze) oscilleranno fra osservazioni “fattuali” e “reazioni emotive soggettive”. L'obiettivo è che alla fine del corso siano in grado di impegnarsi consapevolmente in narrazioni che rispecchiano l'equazione: osservazione sperimentale = osservazione guidata dall'ascolto attivo = indagine variazionale. ### 12. ERNESTO VA ALLA GUERRA (UNA BUONA INSEGNANTE È SEMPRE UN PO’ ANTROPOLOGA)21 ### 1. Pregiudizio, e Pregiudizio2. Solo per dare un’idea approssimativa delle differenze: Pregiudizio₁: “i neri puzzano”; Pregiudizio2: “i bambini che non sanno esprimersi appropriatamente sono dei minus habens e in quanto tali vanno aiutati a divenire normali”. ### 2. La “teoria della reputazione ben meritata”. Gordon W. Allport in The Nature of Prejudice22 osservava che se si chiede a una persona che ha dei pregiudizi quali sono le basi su cui fonda il proprio atteggiamento negativo, la risposta quasi sempre sarà: “Ma guardali! Non vedi che sono differenti in modo biasimevole? Io non ho pregiudizi. La loro cattiva fama si basa su una reputazione ben meritata”. La “Well-Deserved Reputation Theory" continua Allport, non sempre è infondata; per esempio non sarebbe corretto chiamare “pregiudizio” lo stereotipo negativo e l'avversione nei riguardi dei nazisti nella Germania del primo dopoguerra, oppure quella nei riguardi di bande criminali o altri elementi chiaramente antisociali. Sebbene non sia semplice perché spesso i due fenomeni tendono a mischiarsi, bisogna distinguere i casi di scontro realistico di valori dai casi di pregiudizio. A questo fine – prosegue – dobbiamo porci due domande: 1. la reputazione in questione si basa per davvero su fatti innegabili (o per lo meno su una alta probabilità?); 2. se è così, è giusto che la differenza in questione susciti sentimenti di avversione e ostilità piuttosto che, mettiamo, di indifferenza, simpatia o interesse benevolo e generoso? A meno che queste due domande ottengano entrambe risposte del tutto soddisfacenti e razionali – conclude l'autore – possiamo essere sicuri che la “teoria della reputazione ben meritata” non è altro che la maschera del pregiudizio. ### 3. Pregiudizio,. Le situazioni che qui mi propongo di analizzare escono da questo quadro tracciato da Allport sotto vari profili: a) l'atteggiamento non è di avversione o di ripulsa, ma al contrario di interessamento “benevolo e generoso” e continuativo spesso con lo scopo dichiarato di annullare o ridurre significativamente le differenze in questione; b) le differenze chiamate in causa riguardano l'individuazione da parte dei gruppi dominanti di “cosa manca” ai soggetti più deboli e dominati per entrare a far parte a pieno titolo, vien auspicato, del consesso civile (per es. la capacità di mantenersi economicamente, l'etica protestante, un codice linguistico elaborato, ecc.); c) l'omologazione si presenta come una polarizzazione del rapporto su questa differenza (“mi interessi unicamente in quanto minus habens e non in quanto persona dotata di altre competenze e capacità”); d) l'esito di tale interessamento benevolo e continuativo non è quello prefigurato, le differenze in questione permangono; e) questo crea il terreno favorevole a una riproposizione della “teoria della reputazione ben meritata” e di atteggiamenti di ostilità e ripulsa sotto la forma: "Se dopo tutto quanto abbiamo fatto per loro, non otteniamo risultati, allora…”. ### 4. In situazioni che hanno queste caratteristiche la dimostrazione che la teoria della reputazione ben meritata non è altro che la maschera del pregiudizio è molto più complessa: non si tratta infatti di andare a verificare se è vero che “i neri puzzano” o no (per inciso: Allport riporta esperimenti che dimostrano che non è possibile distinguere la puzza dei neri da quella dei bianchi e che non è vero che gli uni puzzano più degli altri...) e di giudicare se comunque un atteggiamento benevolo non sia meglio di uno ostile; ma: se la mancata considerazione dell'altro in quanto "competente" nell'ambito di una forma di vita diversa dalla nostra abbia o meno delle ripercussioni personalmente e socialmente negative e discriminatorie, nonché tali da perpetuare eventualmente proprio quelle differenze che ci si propone benevolmente e assiduamente di combattere. I pregiudizi (come certi germi che quando combattuti diventano più forti e meno individuabili...) tendono sempre più spesso a presentarsi nel mondo contemporaneo sotto la veste di "scontri realistici di valori" o meglio scontri realistici di "visioni del mondo”. È ben meritata la reputazione che la scuola attribuisce ai bambini del ghetto di essere "linguisticamente svantaggiati"? ### 5. L'atteggiamento “coloniale”. Uno dei risultati per me più illuminanti della ricerca etnografica che ho condotto nel Sud Bronx23 è consistito nello scoprire che il clima “manicomiale” nelle scuole che ho visitato non dipende da atteggiamenti ostili e di rifiuto nei riguardi dei ragazzi, ma anzi e paradossalmente dal grande impegno di immedesimazione nel ruolo professionale degli insegnanti i quali per poter “far bene” il proprio lavoro (definito secondo i canoni dominanti e da loro condivisi) dovrebbero tuttavia aver di fronte della gente diversa, possibilmente degli studenti di classe media. 24 Mohammed Yunus, l’inventore del microcredito ai più poveri fra i poveri e fondatore della Grameen Bank, si riferisce al Pregiudizio2, quando afferma: "I responsabili di governo, le agenzie di sviluppo internazionali e numerose Ong sono soliti iniziare le campagne di lotta alla povertà sottoponendo i poveri a complessi programmi di formazione. Questo avviene per tre ragioni: primo perché partono dal presupposto che i poveri non abbiano capacità (...). Secondo, i progetti di formazione perpetuano i loro interessi; ogni progetto significa opportunità di impiego e carriera per i consulenti e la possibilità di gestire budget consistenti senza la responsabilità di produrre risultati (...). Terzo, non sanno cos'altro si potrebbe fare". 25 E prosegue: "Se Grameen avesse preteso che per accedere al credito, i suoi membri partecipassero a dei corsi di formazione, la sola prospettiva avrebbe spaventato la maggior parte dei clienti. Per molti l’apprendimento formale è un’esperienza traumatica: ogni persona ha uno schema di apprendimento proprio e a volte ignorarlo significa annullare le capacità naturali senza riuscire a impartirne di nuove; significa sminuire la fiducia in se stessi dando alle persone la sensazione di essere insignificanti, inutili e sciocche". 26 Il sociologo e urbanista Patrick Geddes, il quale lavorò in India negli anni a cavallo della Prima Guerra Mondiale, già allora sottolineava con grande lucidità che l’intreccio fra oppressione politica, omogeneizzazione culturale e dissipazione tecnica di cui era portatrice l’amministrazione coloniale britannica era “tanto più sinistramente insidioso in quanto sorretto in molti casi da intenzioni sincere di migliorare le condizioni di vita della popolazione”. Geddes, camminando per le città indiane e osservandone la vita quotidiana si scaglia contro quello che chiama “il modo di pensare degli ingegneri”, quell’affidarsi alle "soluzioni apparentemente più efficaci solo perché più facili da progettare e comandare, che impongono meccanicamente stili di vita incuranti dei bisogni e delle risorse locali, distruggendo immediatamente la rete di antiche tradizioni ed abitudini su cui l’equilibrio precario della città indiana si basa. L’esito quasi inevitabile di questa modernizzazione puramente tecnica, con le sue soluzioni definitive e non correggibili, è l’abbandono delle pratiche di cura e manutenzione quotidiane e diffuse che chiamavano in causa la responsabilità degli abitanti secondo le tradizioni e la cultura del luogo. Per questo lo sguardo occidentale è condannato ad oscillare fra una tentazione faustiana a riscattare l’immobilismo dell’India e un 'pessimismo senza speranza". 27 Quando parliamo di Pregiudizio2 giudizio, ci riferiamo a questo tipo di atteggiamento e di dinamiche, a questo paternalismo illuminato e cieco, alla sua incapacità di ascoltare e alle sue conseguenze. Jürgen Habermas parla di “colonizzazione della vita quotidiana”. Mi propongo di illustrare al microscopio e al rallentatore, di cosa si tratta. 28 Lo farò con “un gioco sulla scuola” intesa come laboratorio privi-legiato di analisi delle dinamiche dell'arte di ascoltare vigenti in una certa società. ### 6. Due tipi di narrazione. L'esempio che qui propongo è un gioco di immaginazione sociologica. Lo spunto lo ricavo da un esperimento riportato da Basil Bernstein29 avente come oggetto la produzione linguistica di bambini appartenenti alla classe media e alla classe operaia. Ai bambini erano state presentate quattro vignette che illustravano una storia chiedendo loro di raccontarla. Nella prima figura ci sono dei ragazzi che stanno giocando a pallone, nella seconda la palla va a finire contro una finestra, rompendola, la terza mostra una donna che guarda fuori dalla finestra e un uomo che fa un gesto di minaccia, nella quarta i bambini fuggono via. Ecco qui i due tipi di narrazione ai quali, in questo esperimento, si sono attenuti più frequentemente rispettivamente i bambini di classe media e quelli di classe operaia: 1. Tre ragazzi stanno giocando a pallone e uno di loro dà un calcio alla palla e questa va a finire contro una finestra rompendola. I ragazzi la guardano e un uomo si affaccia e li sgrida urlando perché hanno rotto la finestra. Poi essi scappano e una donna guarda dalla sua finestra e li sgrida. 2. Stanno giocando a pallone e lui gli dà un calcio e va a finire lì e rompe la finestra. Loro la guardano e lui si affaccia e li sgrida poiché l’hanno rotta. Poi loro scappano e lei guarda fuori e li sgrida. Bernstein usa questo esperimento per una serie di riflessioni sulle differenze fra codice linguistico elaborato e quello ristretto, sulle occasioni, i rapporti sociali, le immagini dell’autorità e i sensi di appartenenza che hanno indotto quei bambini di classe media a intendere questo compito come un contesto in cui si richiede che i significati vengano resi espliciti, cioè indipendenti dal contesto (codice elaborato), e invece quelli di classe operaia a intendere il compito come la richiesta di una narrazione in cui molto può essere lasciato implicito (codice ristretto). ### 7. Ernesto va alla guerra. Il gioco che propongo è di natura diversa e consiste in questo. Chiamiamo “Ernesto” un bambino di classe operaia al quale l’insegnante ha chiesto di narrare questa storia sulla base di queste vignette e proviamo ad immaginarci due diversi possibili quadri dialogici: il primo basato su una concezione dell’insegnamento/apprendimento che non lascia alcuno spazio all’ascolto attivo, un secondo quadro dialogico che all’opposto considera l’ascolto attivo, l’autoconsapevolezza emozionale e la gestione creativa dei conflitti i perni del processo di insegnamento/apprendimento. Su questa linea non solo agli studenti nelle lezioni universitarie, ma anche a varie platee di insegnanti di ogni ordine e grado, ho proposto i seguenti due possibili “scenari” o quadri dialogici. ### SCENARIO 1 Ernesto: "Stanno giocando a pallone e lui gli dà un calcio..." Insegnante (lo interrompe): “Chi è che gioca a pallone? Qual è il soggetto che compie l'azione?" Ernesto (stupito e imbarazzato che l'insegnante gli chieda una cosa così evidente): "Loro!" Insegnante. "Chi 'loro'?" Ernesto: "I ragazzi!" Insegnante. "Bravo, e allora dillo. Bisogna sempre precisare il soggetto altrimenti chi ti ascolta non capisce. E quanti sono i ragazzi?" Ernesto (un po' sfottente, un po' umiliato): "Tre!" Insegnante. "Bravo. Allora come dovevi dire?" Ernesto (tace, chiuso in se stesso). Insegnante. "Tre ragazzi stanno giocando a pallone. Adesso continua il racconto". Ernesto: “Lui gli dà un calcio”. Insegnante. "Chi è lui'?” Ernesto (la guarda risentito): “Uno dei ragazzi!" Insegnante. “E allora dillo! Stai iniziando una nuova proposizione e di nuovo devi precisare il soggetto. Ve l'ho ripetuto tante volte. Allora, uno dei tre ragazzi... cosa fa?" Ernesto: "Dà un calcio alla palla e va a finire lì". Insegnante. "Lì dove? Vedi che non sei preciso? Dove va il pallone?" Ernesto (ha il corpo irrigidito; le parole gli escono con sforzo): "Il pallone rompe il vetro". Insegnante. "Vedi che ti esprimi bene, quando vuoi? Soggetto, verbo, complemento. Continua così”. Ernesto (annoiato e desideroso di por fine all'interrogazione; parlando molto velocemente): “Loro la guardano e lui si affaccia e li sgrida perché l’hanno rotta. Poi loro scappano”. Insegnante. "Ma allora non mi ascolti quando parlo! Hai troppa fretta, tiri via... Chi sono 'loro'? 'La guardano'... chi, cosa guardano? Non puoi essere così superficiale. Devi impegnarti di più. Adesso ascolta gli altri e poi per casa ti darò dieci esercizi per imparare a precisare soggetto e complementi”. ### SCENARIO 2 Ernesto: "Stanno giocando a pallone e lui gli dà un calcio e va a finire lì e rompe la finestra. Loro la guardano e lui si affaccia e li sgrida perché l’hanno rotta. Poi loro scappano e lei guarda fuori e li sgrida". (L'insegnante lo lascia finire e intanto lo osserva. Com'è che a Ernesto questa descrizione appare appropriata? Qual è il suo punto di vista? Cosa sta comunicando? Ernesto man mano che parla si infervora, si immedesima, la dinamica della storia lo diverte. Le manda dei segnali di ammiccamento, di complicità. Come ha inteso il compito che gli è stato assegnato? Cosa è importante per lui?) Insegnante (con atteggiamento di complicità): “Sei un bravo narratore. Hai impostato in modo efficace il racconto della storia e io, guardando la vignetta, ho capito sempre a cosa ti riferivi. Ma adesso ti vorrei porre un problema più difficile: come racconteresti la stessa storia a una persona che non la sa già e che non ha questa vignetta sotto gli occhi?" (Ernesto è gratificato dall’accoglienza alla sua performance, ma non capisce bene cosa gli sta proponendo l’insegnante; gli sembra un po' confusa.) Insegnante. “Per esempio facciamo finta che sul banco tu abbia un telefono e tu chiami una tua amichetta che è a casa ammalata. Per tenerle su il morale, le racconti quel che abbiamo fatto in classe e vuoi descriverle la vignetta. Lei non può vederla e quindi tu in questo caso devi dirle proprio tutto, devi essere un po' pignolo in modo che lei possa immaginarsi tutti i vari personaggi e quel che succede. Vediamo se sei un bravo narratore anche in questo caso..." (Ernesto è chiaramente disponibile a collaborare con l’insegnante in queste sue proposte fantasiose. Ma a recitare una parte c’è la difficoltà dell’inizio. Esita.) Insegnante (fingendo di fare un numero in un immaginario telefono): "Ciao Giovanna, come stai? Quando torni a scuola? C'è qui Ernesto che ti vuole raccontare una storia sulla quale abbiamo lavorato oggi”. Passa la cornetta ad Ernesto. Ernesto (imbarazzato, ma divertito): “Ciao Giovanna, ..." ecc. ecc. ### 8. Domande. La capacità di osservare e/o di immaginare quadri dialogici di questo tipo è la base indispensabile, per poterci porre il seguente tipo di domande. Nei due scenari, l’insegnante Cosa osserva e cosa trascura del comportamento di Ernesto? Possiamo dire che in entrambi i casi lo ascolta? E quali sono le differenze nei due modi di ascoltare? Quali sono le caratteristiche del modus vivendi, del modo di convivere insegnante-discente nei due casi? Come verrà formulata e quale sarà la valutazione nei due casi? Possiamo formulare una previsione su come Ernesto nei due casi elaborerà il proprio rapporto con l’apprendimento e con la scuola? ### 9. Per rispondere a queste domande è utile prendere le mosse dallo scenario 2. In questo scenario l’insegnante non è che non si accorge che Ernesto non fa ricorso al soggetto e al predicato; se ne accorge. Tuttavia il suo interesse e la sua curiosità sono protesi a cercare di scoprire quali possono essere le premesse implicite che Ernesto dà per scontate che rendono logico che lui abbia inteso il compito in quel modo e logico il suo comportamento anche linguistico. Una volta compreso il punto di vista di Ernesto, l’insegnante potrà aiutarlo a mettersi nella posizione di adottare un codice linguistico più elaborato non come semplice adeguamento all’arbitrio del più forte, ma perché e quando lo vede come il più adeguato. În altre parole: vuole trasmettergli delle nozioni non sotto forma di credenze collettive obbligatorie, ma permettendogli di impossessarsene. Questa insegnante è consapevole che per insegnare qualcosa ad Ernesto deve imparare qualcosa da lui. A questo fine l’insegnante lo lascia parlare e concentra la propria attenzione su una serie di segnali metacomunicativi. I segnali di complicità, il modo di narrare (si infervora, si immedesima); il divertimento per il contenuto della storia (il vetro rotto, gli urli, la fuga) nel loro complesso stanno prima di tutto ad indicare che Ernesto dentro questo compito "ci si è buttato", vi esprime "tutto se stesso" in modo spontaneo, senza secondi fini. In questo contesto i segnali di complicità non sono interpretabili in termini di captatio benevolentiae (o almeno non principalmente in questo modo), ma piuttosto come sottolineatura di una comune appartenenza e di solidarietà: “Noi sappiamo di cosa si tratta; è inutile, fra noi, dirci cose scontate” e il divertimento: “Questo è un gioco; stiamo giocando" e il fervore narrativo stabiliscono una specie di ponte che rinsalda fra loro solidarietà e gioco. ### 10. Non ha senso chiedersi se sia “proprio così”, questa è l’interpretazione dell’insegnante che noi possiamo ricostruire dall’atteggiamento rispettoso e indagativo con il quale ha ascoltato Ernesto e che possiamo verificare e approfondire ancora meglio dai suoi atti successivi e dalle successive reazioni di Ernesto e poi dalle reazioni alle reazioni di Ernesto e così via in una serie a spirale di aggiustamenti. Quasi sempre alcune delle insegnanti impegnate con me ad individuare e interpretare coralmente questi indizi, avanzano l’ipotesi che la gran parte dei fraintendimenti che caratterizzano i dialoghi in entrambi gli scenari sarebbero stati evitati se il compito fosse stato prospettato fin dall’inizio in modo meno ambiguo e più completo. In pratica: “Devi narrare questa storia in modo tale che anche una persona che non ha visto le vignette la possa immaginare e seguire perfettamente”. È un’obiezione che ha un fondamento. Anche l’insegnante dello scenario 2 a un certo punto tenta di correggere questa ambiguità iniziale. Ma per Ernesto questa non sembra essere una chiarificazione sufficiente; rimane confuso. Se "siamo state chiare” o no, lo capiamo solo dalle reazioni dell’interlocutore, prima possiamo solo tentare di esserlo. Di nuovo l’insegnante si corregge; non sempre una maggiore precisione verbale è sufficiente. ### 11. L’insegnante dunque decide di ricorrere a una modalità di evocazione di un altro contesto molto più clamorosa ed esplicita: "Facciamo finta che sul banco ci sia un telefono..." ecc. Questa finzione ha lo scopo di aiutare Ernesto ad uscire da un rapporto di subalternità verso “un’ascoltatrice autorevole che sa già tutto”, situazione nella quale effettivamente un codice linguistico ristretto può funzionare benissimo. Ed ecco allora l’amichetta ammalata costretta a casa, rispetto alla quale è lui autorevole ed è lui che sa e alla quale deve raccontare "proprio tutto", anche a costo di essere "pignolo". Questo termine "pignolo” è molto importante: è il ponte che l’insegnante porge ad Ernesto per facilitargli il passaggio da un mondo in cui molto può e deve essere dato per scontato a un altro in cui quasi tutto deve essere reso esplicito. Infatti in un contesto in cui il codice ristretto è adeguato l’esplicitazione: “Tre ragazzi stanno giocando a pallone” appare come un’inutile pignoleria, addirittura offensiva per l’interlocutore. L’insegnante dello scenario 1, che personifica caricaturalmente la sensibilità da caprone alimentata e giustificata dall’epistemologia riduzionista dominante, non si rende conto, fra le tante cose, di questo piccolo particolare: che una delle componenti della cocciuta resistenza di Ernesto ad adeguarsi alle nome da lei indicate, può nascere da un eccessivo senso di rispetto; dalla ritrosia ad assumere un comportamento arrogante e offensivo nei suoi riguardi. ### 12. L’insegnante dello scenario 1. Questa insegnante non ascolta Ernesto, pretende solo di essere ascoltata. Mette in atto un ascolto passivo e non attivo; ascolta e osserva del comportamento di Ernesto solo quanto si adegua o si discosta da norme predeterminate, da quello che la scuola in cui opera predefinisce “un comportamento adeguato”. Nella sua missionaria insistenza ad elevare le capacità di espressione di Ernesto, ritiene sia del tutto legittimo e “professionale” trattarlo come un minus habens. Non è difficile immaginare che la valutazione di fine anno sarà del tipo: “Io non ho pregiudizi verso Ernesto. La sua cattiva fama si basa su una reputazione ben meritata”. Naturalmente non tutti i bambini hanno la cocciutaggine e la sensibilità di Ernesto, molti più facilmente di lui saranno in grado di capire l’antifona e di adeguarsi ad un contesto che in fondo chiede solo di dimostrare di aver ingerito credenze collettive obbligatorie. Certamente questo adeguamento sarà più facile per Pierino (“il figlio del dottore”...) il quale – come abbiamo visto – non ha avuto difficoltà ad interpretare subito il compito “nel modo giusto”. Ma resta il fatto che: primo, il comportamento dell’insegnante dello scenario 1 è chiaramente caratterizzato da un pregiudizio: c’è l’omologazione sulla base di uno stereotipo negativo, c’è la minaccia, la distorsione, l’irrigidimento dei rapporti e l’indicazione di una modalità di convivenza fondata sulla collusione della vittima con l’aguzzino; secondo, che si tratta di un Pregiudizio₂: c'è l’interessamento benevolo e continuativo nel tentativo di riportare il dominato nel consesso civile e un esito facilmente immaginabile come deludente. ### 13. Una brava insegnante mette sempre l’interculturalità fra sé e i suoi studenti. La stesura di entrambi questi scenari (non solo lo scenario 2, ma anche lo scenario 1), presuppone uno specifico stile di osservazione guidato dall’ascolto attivo. L’unità minima di osservazione, in questo modo di guardare, non è mai l’azione, ma la reazione alla reazione, non la “proposizione” ma – come propone Michail Bachtin – “l’enunciazione” la quale contiene sempre al suo interno una domanda, un appello, l’anticipazione di una risposta che può essere confermata o disattesa; contiene sempre due soggetti (il minimo dialogico). È un’unità che incorpora fin dall’inizio le modalità dialogiche della comunicazione e si colloca in una dimensione intertestuale e in uno spazio culturale ben definito, quello spazio che permette, per esempio, a me e alle insegnanti con le quali ho lavorato di trovare abbastanza facilmente un accordo su come potevano essere intesi i segnali metacomunicativi di Ernesto e anche quelli delle due insegnanti. A questo riguardo l’insegnante dello scenario 2 è una “esploratrice di mondi possibili” tanto quanto l’etnografa che la osserva; il loro modo di guardare e di ascoltare è lo stesso e in esso risiede il fulcro della loro professionalità. Invece l’insegnante dello scenario 1 assomiglia a certi sociologi positivisti: parte da un modello nel quale sono predefinite le variabili rilevanti e concentra l’attenzione su azioni e proposizioni isolate, interrompendo in continuazione Ernesto e negandogli la capacità di metacomunicare, cioè di precisare – anche lui – entro quale cornice relazionale si stanno muovendo. ### 14. Gli atteggiamenti delle due insegnanti possono dunque essere sintetizzati nella seguente tavola sinottica: | Scenario 1 | Scenario 2 | | --------------------------------------------------------------------------- | ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- | | Interrompe l’altro (lei sa, lui non sa) | Esploratrice di mondi possibili | | Nega all’altro la capacità di metacomunicare (di precisare la cornice relazionale) | Concentra l’attenzione su reazioni a reazioni ed enunciazioni (proposte, anticipazioni di risposte) | | = Ascolto passivo | Concentra l'attenzione su azioni e proposizioni isolate | | Valutazione: “Io non ho pregiudizi verso Ernesto. La sua cattiva fama si basa su una reputazione ben meritata" | Lo lascia parlare (atteggiamento rispettoso e indagativo) | | | Riconosce all’altro la capacità di metacomunicare (e assegna grande importanza ai segnali metacomunicativi) | | | = Ascolto attivo | | | Valutazione. “È un ragazzino cocciuto e molto sensibile. Non rinuncia facilmente al suo punto di vista. Ma una volta trovato il contatto, impara con entusiasmo" | ### 15. Conoscenza e convivenza. Un’insegnante che desideri passare dallo scenario 1 allo scenario 2 non dovrà solo cambiare “metodo pedagogico”, dovrà abbandonare un atteggiamento rigido, difensivo, di controllo a favore di un atteggiamento flessibile, fiducioso, incerto, esplorativo. Deve cambiare il tipo di personalità che prima riteneva il più adeguato nello svolgimento del suo lavoro. Numerose teoriche femministe hanno sottolineato negli anni recenti come l’epistemologia moderna che separa gli aspetti razionali da quelli emotivi e lo stile cognitivo dai modi di convivenza al fine di mettersi al riparo dalle trappole ideative e dall’assunzione di responsabilità nella costruzione dei significati, è essa stessa compenetrata di emozioni, fra le quali spiccano: separazione, ansia, paranoia, ossessione per il controllo e paure di contaminazione. Un ventaglio di emozioni che non sembra quello più adatto per favorire l’equilibrio e la salute mentale. 31 Il sogno di una ragione purificata è esso stesso un pregiudizio. Non può che fare piacere constatare che negli ultimi anni questa consapevolezza è diventata sempre più diffusa. Anzi, talmente diffusa da configurarsi anche come una moda. Fanno un po' impressione – come ha notato Paolo Perticari ### 16. Una metodologia umoristica. L’insegnante che desideri passare dallo scenario 1 allo scenario 2 dovrà abbandonare un approccio razionalistico nel quale le emozioni sono considerate disturbatrici e nemiche della conoscenza, impulsi ideosincratici e mutevoli, in favore di un approccio “umoristico”, basato sul dialogo con le proprie emozioni e considerare la continua contrattazione sulla propria e altrui identità parte fondamentale delle dinamiche interattive analizzate. Questo processo se visto al microscopio e al rallentatore è rappresentabile in termini delle due matrici percettivo valutative sovrapposte e va narrato dinamicamente in analogia con il modo di operare del “giudice saggio”. ### 17. Possiamo per esempio facilmente immaginare che anche l’insegnante dello scenario 2 come quella dello scenario 1, quando Ernesto inizia il suo racconto con le parole: “Stanno giocando a pallone” abbia avuto come prima reazione la tentazione di inchiodarlo sul suo errore, di riportarlo al proprio modo di inquadrare gli eventi. Il processo di trattenersi cercando di rispettare la logica dell’altro è una disposizione d’animo di accoglienza dell’ambiguità, della polisemanticità, è un muoversi in attesa di una possibile bisociazione delle rispettive matrici percettivo-valutative. La constatazione che tale bisociazione ha dei fondamenti (Ernesto dimostra una coerenza nel suo non rispetto delle norme...) rimanda a ulteriori esplorazioni in attesa che l’accumularsi dei piccoli particolari, dei segnali metacomunicativi permetta di interpretare con un grado soddisfacente di approssimazione non solo il comportamento di Ernesto, ma l’intera dinamica e gioco dei reciproci equivoci. E analogamente potrebbe essere avvenuto quando l’insegnante ha tentato la via di una maggiore precisione verbale nell’assegnare il compito o quando si è accorta che doveva essere lei ad iniziare la recita nella finzione. ### 18. Appendice. Alcuni appunti su ascolto attivo e ascolto passivo, ispirati dalla lettura di Michail Bachtin. Alla base dell’ascolto attivo c’è il principio dell’ermeneutica secondo il quale “è l’ascoltatore, non il parlante, che determina il significato di un’enunciazione”. Ascolto attivo non è un gioco a somma zero, è un gioco aperto. Più è intelligente (“potente”) l’ascoltatore, più è intelligente e potenziato il parlante. La dimensione dell’ascolto attivo è polifonica. L’ascolto attivo preme per riuscire a creare un’interazione di reciprocità fra coscienze dotate di pari diritto e pari significato. Ha una tensione emancipativa che lo ricollega all’impostazione della teoria critica. Ascolto attivo non significa affatto “andare d’accordo”. Senza tensione non c’è ascolto attivo; quando manca la tensione, l’ascolto attivo la provoca. Significa solo che i conflitti anche più radicali vengono gestiti "in modo urbano", creativo. L'ascolto attivo ha non solo come premessa, ma come carattere fondamentale delle interazioni che instaura, la gestione creativa dei conflitti. - Nell’ascolto passivo il modo di inquadrare gli eventi che avevamo all’inizio è fondamentalmente lo stesso alla fine. Operiamo sotto l’impulso di un’urgenza classificatoria; i nostri criteri di rilevanza non vengono scalfiti; tutto ciò che a noi pare trascurabile, ma non all’interlocutore, viene scartato. Ne usciamo solo con qualche informazione in più. - L’ascolto passivo spesso assume il volto della pietà, dell’amore per chi è debole e piccolo; l’altro cessa di essere una cosa, ma non diventa una persona. Non essere uditi, l’umiliazione di essere ignorati è solo un caso limite dell’ascolto passivo. L’ascolto passivo riduce ogni problema a problema semplice, affrontabile in termini di rapporti fra poche variabili isolabili. Ascolto passivo: nella vita quotidiana questa modalità di ascolto si dimostra adeguata quando gli interlocutori possono assumere che comunicano dando per scontate le stesse premesse implicite e che gli eventuali fraintendimenti e tensioni sono rapidamente risolvibili con un supplemento di informazioni e il ricorso al ragionamento logico. ### LE SETTE REGOLE DELL'ARTE DI ASCOLTARE 1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca. 2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista. 3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva. 4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico. 5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze. 6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti. 7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé. 34 Per “teoria critica” si intende comunemente l’approccio della scuola di Francoforte di cui attualmente Jürgen Habermas è l’erede e il rappresentante più noto.

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