Elementi di Antropologia Culturale (PDF) 2015

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Università degli Studi di Milano Bicocca

2015

Ugo Fabietti

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antropologia culturale cultura società antropologia

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Introduzione all'antropologia culturale di Ugo Fabietti, 2015. Spiega la natura e la genesi di questa disciplina, in cui si studia il genere umano sotto l'aspetto culturale. Mostra l'evoluzione del pensiero antropologico e il concetto di cultura stessa.

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Elementi di Antropologia culturale, Ugo Fabietti 2015 Antropologia Culturale Università degli Studi di Milano-Bicocca (UNIMIB) 67 pag. Document shared on https://www.docsity.com/...

Elementi di Antropologia culturale, Ugo Fabietti 2015 Antropologia Culturale Università degli Studi di Milano-Bicocca (UNIMIB) 67 pag. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 PARTE PRIMA GENESI E NATURA DELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE - COSA SIGNIFICA Antropologia deriva dal greco ànthropos + logos , le1eralmente uomo/genere umano + discorso. Potremmo parafrasarlo come «studio del genere umano». Tu1’oggi però rimane una definizione molto vaga, questo perché è difficile spiegare a parole quello di cui si occupa di preciso questa disciplina. Come molG altri scienze, l’antropologia si concentra sullo studio dell’uomo, di preciso dal punto di vista culturale, di come produce cultura, quali sono le sue idee e di come queste cambiano a seconda del tempo e del luogo. L’antropologia è l’insieme delle riflessioni che sono state condo1e a1orno a tali comportamenG. Non esiste un solo Gpo di antropologia, esiste anche di Gpo filosofico (mira a narrare l’essenza e la natura spirituale dell’uomo), fisica, biologica… È un sapere con molG paradigmi (paràdeigma, che significa «modello», «idea») I quali si disGnguono da quelli delle scienze naturali. Tu1e le scienze funzionano per paradigmi; mentre i paradigmi scienGfici vengono spesso superaG e sosGtuiG, i paradigmi delle scienze umane si succedono e possono cosGtuire al contempo diversi punG di riferimento. Negli ulGmi cento-cinquant’anni si sono succeduG: evoluzionismo, stoicismo, funzionalismo, stru1uralismo, neoevoluzionismo, marxismo, neostru1uralismo… Per questo moGvo si può dire che l’antropologia sia un sapere pluri- (o mul2-) paradigma2co. - QUANDO È NATA - STORIA L’interesse per i costumi dei popoli stranieri è presente nella cultura europea fin dai tempi degli storici greci e laGni. Pensiamo alle Storie di Erodoto (V secolo a.C.), ricche di informazioni e spunG di riflessione sulle usanze dei popoli con cui i greci entrarono in conta1o, o alla Germania di Tacito (I secolo d.C.), che descrive le tribù germaniche con la precisione di un tra1ato etnografico. Tu1avia è solo con l’Illuminismo del Se8ecento che si manifesta nella cultura europea un modo parGcolare di rapportarsi all’altro e che supera la semplice curiosità. Già con l’umanesimo si diede il via ad un pensiero che me1eva al centro della propria riflessione filosofica, arGsGca, della scienza e della le1eratura, l’uomo. Gli umanisG idealizzavano l’immagine dell’uomo idenGficandolo come un sogge1o aZvo, capace di cambiare le sorG del proprio desGno, nonché in grado di capire i difficili i meccanismi della realtà governata da Dio. La scoperta dell’America (1492), e poi la sua conquista, ruppero questo clima umanisGco e posero nuovi punG di partenza. I contaZ con culture e popolazioni diverse si intensificarono nel momento in cui cominciò l’espansione coloniale e il traffico di merci d’esportazione. A parGre dalla fine del Cinquecento, alcuni missionari documentarono spesso con grande precisione usi e costumi dei popoli extra europei, in parGcolare del sud del Nord America; tu1avia non vi era un vero proge1o scienGfico: perché ciò emergesse si dove1e a1endere la fine del Se8ecento, quando scienziaG naturali filosofi cominciarono a vedere il genere umano come complesso di individui potenzialmente dotaG delle stesse facoltà mentali. Cominciò un processo chiamato “decentramento“ culturale, ovvero la volontà di osservare un fenomeno senza pregiudizi e preconceZ. Verso la fine del se1ecento, autori come Voltaire, Montesquieu e Diderot anGciparono temi sviluppaG in seguito dall’antropologia: assunsero un a1eggiamento criGco ironico verso i costumi europei, iniziando una criGca all’eurocentrismo, la tendenza a interpretare ogni cosa secondo il punto di vista della cultura europea, ritenuta superiore alle altre. La “Società degli osservatori dell’uomo” fondata nel 1799 a Parigi, fu un primo tentaGvo di nascita di una disciplina dedicata allo studio del genere umano fondata sull’osservazione dire1a e lo studio comparato di usi e costumi dei popoli. Tu1avia questa società venne chiusa da Napoleone nel 1805. Nel corso dell’O1ocento l’interesse per i popoli esoGci **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 aumentò, sopra1u1o perché le più importanG potenze europee si erano dedicate alla conquista di nuove regioni in Africa, Asia e Oceania. Nella seconda metà dell’O8ocento l’antropologia fu considerata uno strumento per «riformare» la società: fu concepita dai governi europei come uno strumento per meglio conoscere i popoli delle colonie, e quindi per meglio controllarli. Gli antropologi collaborarono con queste amministrazioni coloniali, non tanto appoggiandole dire1amente, ma traendo vantaggio dalle occasioni di ricerca. (Azande) Dalla seconda metà del Novecento in avanG gli antropologi sono staG spesso implicaG in progeZ di sviluppo di varia natura: economici, educaGvi, sanitari. (PAG. 71 BOX 10, antropologia razzista). - DI COSA SI OCCUPANO GLI ANTROPOLOGI Gli antropologi si occupano dello studio dei popoli loro contemporanei, ma geograficamente lontani; studiano le loro isGtuzioni sociali, credenze religiose, tecniche di lavorazione, i culG… Fino a pochi decenni fa (etnocentrismo), gli antropologi si sono dedicaG allo studio di quei popoli che, erroneamente, venivano definiG «primiGvi» e «selvaggi», poiché ritenuG rappresentanG di fasi arcaiche del genere umano. Questo Gpo di popolazioni vivevano e vivono lontano dal mondo globalizzato, sono diffusi in aree come le isole sperdute del Pacifico o i deserG dell’Australia, dotate di tecnologie assai semplici e rudimentali. A queste, a parGre dalla metà del Novecento, sono diventate ogge1o di studio anche culture più vicine alla nostra di Gpo occidentale: infaZ oggi gli antropologi non studiano più solo le popolazioni delle savane o delle isole polinesiane, ma anche popolazioni urbane nei paesi economicamente sviluppaG (supermercaG, se1e religiose, imprese, ospedali, confliZ etnici, prosGtuzione…). «Fare antropologia» consiste nel voler affrontare l’incontro con esseri umani con abitudini e concezioni del mondo diversi dai propri, coniugando le conoscenze teoriche della disciplina con la personale esperienza di osservazione, riflessione e ricerca. Negli ulGmi trent’anni l’idea dell’antropologia come «scienza delle società primiGve» è totalmente svanita, almeno tra gli antropologi. Non solo perché la nozione di di «primiGvo» ha rivelato tuZ i suoi limiG, ma sopra1u1o perché quelle società che spesso e volenGeri erano indicate come primiGve (anche se non lo erano mai state) non esistono più oppure molG dei loro membri hanno cambiato sGle di vita. QuesG cambiamenG non sono sempre per il meglio: gli indios dell’Amazzonia, ad esempio, vivono sempre più spesso in villaggi di baracche ai margini di strade asfaltate aperte nella foresta dai cercatori di gomma o sfru1amento del legname. Se vi sono ancora popoli che mantengono una certa conGnuità nelle loro forme di vita sociale culturale e che non si sono lasciaG travolgere dall’impa1o con la civiltà delle macchine, si vive anche all’opera di molte associazioni che si adoperano per il riconoscimento dei loro diriZ. Questo mondo a dir poco globale, a fa1o si che chiunque potesse cogliere e imparare dall’altro. In Mongolia ad esempio sono state isGtuite delle scuole iGneranG che seguono gli accampamenG dei nomadi consentendo ai bambini di imparare a leggere e scrivere, ma al contempo preservare il loro sGle di vita. Per moGvi legaG dunque alla globalizzazione, oggi non è più così consueto che l’antropologo si trovi all’interno di comunità “primiGve”, anzi questa immagine così per dire romanGca è ormai svanita. Spesso l’antropologo oggi deve confrontarsi con situazioni terribili: di faZ lo sfru1amento degli esseri umani, nonostante le praGche di conGnua riaffermazione dei diriZ universali, è in aumento. Non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli occidentali, asiaGci, sudamericani… Non solo forme di schiavitù, ma anche violenze, commercio di organi, bambini soldato e molto altro. In alcuni paesi, come gli StaG UniG, la Francia o la Gran Bretagna, gli antropologi lavorano ormai da molto tempo in stru1ure e servizi, prestando la loro consulenza tra gli immigraG in materia sanitaria e giuridica. L’arrivo delle popolazioni migranG, genera inevitabili problemi di interpretazioni. Rimane comunque un sapere di Gpo accademico. **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 - COS’È LA CULTURA Non è facile dare una definizione di cultura. —> racconto dei marinai spagnoli (1568) che incontrano gli Aré Aré su alcune isole dell’arcipelago melanesiano nell’Oceano Pacifico. Questo aneddoto dimostra ciò che accade quando due comunità che non si conoscono entrano per la prima volta in conta1o: leggono le novità in base a «schemi mentali» già noG. Spagnoli e Aré Aré concepivano rispeZvamente le novità in base a ciò che per loro erano delle «verità culturali consolidate». Potremmo allora dire che una cultura è un complesso di idee, di simboli, di comportamenG e di disposizioni storicamente tramandaG e acquisiG da un certo numero di individui. L’ogge1o quindi dell’antropologia sono dunque le differenze che intercorrono tra le idee e i comportamenG tra diversi popoli. L’uomo è un‘animale sociale in grado di produrre conGnuamente cultura, si relaziona al mondo e ne sperimenta diverse visioni ed esperienze che rende personali. Come abbiamo de1o, definire il conce1o di cultura è molto difficile: nel tempo questo termine ha rivesGto significaG diversi, a seconda di chi lo interpretava e sopra1u1o quando. La prima definizione antropologica di cultura risale all’antropologo inglese Edward Tylor in Primi8ve Culture, 1871: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diri?o, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società» È evidente che qui cultura non significa più soltanto un patrimonio di conoscenze personali che fanno di un individuo una persona, come si direbbe, «colta». La definizione di Tylor coincide infaZ con l’estensione del termine cultura a indicare tu1e le aZvità umane, anche da quelle più strane alle semplici abitudini quoGdiane. Tra le varie idee contenute nella definizione, ve n’è una parGcolarmente importante: la cultura si manifesta nelle singole società come cultura specifica di coloro che nascono in quella determinata società. Tu1avia la cultura è un dato universale, comune all’intero genere umano. Non esiste alcuna disGnzione di valore tra creazioni culturali di origine colta e prodoZ di livello, per così dire, più “basso”. Il senso dell’espressione “cultura primi2va“ non è un significato dispregiaGvo, perché indica semplicemente popoli privi di scri1ura, che non hanno prodo1o documenG storici della loro vita sociale. Non esistono popoli selvaggi privi di civiltà, dato che nessun uomo vive in una condizione completamente naturale. La definizione di Tylor chiarisce che l’uomo si disGngue dagli altri esseri vivenG in quanto produ8ore di cultura. Negli animali la convivenza non genera cultura in senso antropologico, infaZ quello che manca gli animali, anche quelli più evoluG, è l’uso consapevole di strumenG simbolici come linguaggio, a1raverso i quali un individuo può dare un personale contributo alla diffusione al progresso delle conoscenze e delle tecniche. Le sue idee si rifanno alla concezione filosofica dell’evoluzionismo, secondo la quale tu1a la realtà, naturale sociale, e in perenne movimento da uno stato originario indefinito verso forme sempre più complesse. L’evoluzionismo ha rappresentato un tentaGvo di trovare delle leggi generali, valide per tu1e le civiltà, in grado di spiegare i mutamenG storico sociali. Sopra1u1o questo genere di antropologi si prefiggevano l’obieZvo di giungere alla scoperta di leggi che segnassero la trasformazione della cultura e della società, dalle forme più semplici («primiGve») fino a quelle più complesse (o «evolute»). Lo straordinario balzo tecnologico-scienGfico compiuto dall’Europa tra la fine del Se1ecento e i primi tre quarG dell’O1ocento (rivoluzione industriale) induceva molG di loro a considerare tale fenomeno come la realizzazione di un processo cara1erisGco dell’intera storia umana. **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 La sinteGca definizione di Tylor è stata arricchita e completata nei decenni successivi alla sua elaborazione, sviluppando una serie di aspeZ che essa conteneva implicitamente. - La cultura è un insieme compa1o, che ha una sua solidità e stabilità—> oggi giorno non è più possibile fare riferimento a una cultura universale condivisa da tuZ gli esseri umani. La cultura è sempre opera degli uomini e delle donne, e dunque sempre in cambiamento, non sono enGtà ma processi, dentro i quali gli uomini che risultano aZvi e creaGvi. - La natura è strumento dell’uomo ed è separata dalla cultura —> natura e la cultura procedono insieme e si influenzano reciprocamente. - Il terzo aspe1o del conce1o di cultura tyloriano è la sua natura olis2ca (dal greco òlos, “tu1o”): la convinzione che la cultura cosGtuisca una totalità in sé conclusa e complessa. Questa visione vede ha come idea che ogni cultura fosse una totalità Per Taylor però complessità non significava immediatamente integrazione tra le parG componenG. L’idea di cultura come complesso di elemenG che interagiscono tra loro si affermò solo negli anni a cavallo della prima guerra mondiale —> Oggi questo non è più possibile in quanto grazie alla globalizzazione i popoli entrano in conta1o tra loro e quindi si influenzano reciprocamente. Come de1o in precedenza, la definizione di cultura di Taylor è stata successivamente rivisitata. Un’altra definizione di cultura è quella dell’antropologo svedese Ulf Hannerz del 1992: «Una cultura è una stru?ura di significato che viaggia su reD di comunicazione non localizzate in singoli territori» Dal suo punto di vista, esiste un quadro culturale mondiale creato a1raverso la crescente interconnessione di varie culture locali, nonché tramite lo sviluppo di culture che non sono ancorate ad uno specifico territorio. Per Hannerz le culture locali sono viste più come so1o culture di un tu1o più ampio; culture che devono essere comprese nel contesto del loro ambiente culturale piu1osto che isolatamente. È a livello locale che le influenze globali vengono assimilate nella vita quoGdiana. La definizione di Clifford Geertz 1998: «L’estrema genericità, vaghezza e variabilità delle capacità di reazione innate […] dell’uomo significa che, senza l’aiuto di modelli culturali sarebbe funzionalmente incompleto […] una specie di mostro informe senza meta né capacità di autocontrollo, un caos di impulsi spasmodici e di vaghe emozioni» Alla nascita il genoma di un essere umano non conGene le informazioni necessarie per fargli ado1are automaGcamente determinaG comportamenG che sono indispensabili per sopravvivere. A differenza degli animali, l’uomo nasce «nudo». Aristotele l’aveva già fa1o presente dicendo che l’uomo nasce incompleto: infaZ dal momento in cui nasce, ha bisogno per più tempo delle cure. Ciò pare avere un riscontro nel fa1o che lo sviluppo delle connessioni neuronali del cervello umano avviene sopra1u1o dopo la nascita.il grande psicologo svizzero Jean Piaget stabilì che il processo di formazione di tali facoltà non giunge a compimento prima di 15 anni. Il nostro codice geneGco ci predispone a compiere una serie di operazioni che sono più complesse di quelle abilità effe1uabili da qualsiasi altro animale, ma non ci indica quali operazioni dobbiamo compiere. Tu1o quello che sappiamo ci viene tramandato dal nostro gruppo di appartenenza. Per questo non possiamo definire la cultura come un accessorio superfluo, ma come piu1osto un’esigenza necessaria per la nostra esistenza. Non è un qualcosa che possiamo scegliere, infaZ gli esseri umani sono **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 determina8, ovvero devono ado1are dei codici di comportamento sia praGco che mentale che siano riconoscibili e condivisi dagli altri. Noi ci comporGamo, pensiamo i senGamo in un modo piu1osto che in un altro, perché seguiamo determinaG modelli di comportamento di pensiero in un altri (vedi musulmani, crisGani, ebrei…). Tali modelli sono staG introie1aG grazie all’educazione, implicita o esplicita. La definizione di Ugo Fabie] 2004: «La cultura è un complesso di idee, di simboli, di comportamenD e di disposizioni storicamente tramandaD, acquisiD, selezionaD e largamente condivisi da un certo numero di individui, con cui quesD ulDmi si accostano al mondo sia in senso praDco sia intelle?uale» Grazie a quesG modelli, gli esseri umani si accostano al mondo in senso praGco e intelle1uale. Per alcuni antropologi la cultura è un complesso sistema capace di far fronte alle sfide dell’ambiente e della vita associata. Anche solo l’azione di procurarsi del cibo segue dei modelli di comportamento culturalmente assimilaG. Qualunque a1o comportamento umano finalizzato uno scopo materiale o intelle1uale e guidato dalla cultura. - Per questo si può affermare che la cultura è «opera8va», Cioè perme1e all’uomo di raggiungere i suoi obieZvi e di ada1arsi all’ambiente naturale. È come se fossimo predisposG operaGvamente ad affrontare il mondo fisico e morale che ci circonda; tale predisposizione deriva dall’assimilazione dei modelli culturali e corrisponde a ciò che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha chiamato habitus: Un sistema durevole di disposizioni, le quali sono il risultato di modelli di comportamento interiorizzaG in risposta all’ambiente fisico, sociale e culturale. - La cultura viene anche definita sele]va, in quanto quesG modelli vengono conGnuamente messi a confronto con altri e quindi possibilmente o sosGtuiG o ada1aG. La cultura è un complesso di modelli tramandaD, acquisiD ma anche selezionaD. Ciò significa che le generazioni successive ereditano i modelli culturali delle generazioni precedenG e ne acquisiscono di nuovi in base alla propria esperienza di un mondo in mutamento, oppure per l’influenza di modelli da altre culture (trasmissione e assimilazione). La selezione avviene per integrare o bloccare l’eventuale intrusione di modelli incompaGbili (esempio il caso degli abitanG delle isole Mantawai ‘900, in Indonesia, che rifiutarono la cultura della colGvazione del riso dei malenesiani, incompaGbile con la loro religione, che prevedeva l’interruzione dei lavori agricoli.). Esistono certamente culture più aperte alle novità, più pronte ad assorbire modelli diversi. Tu1avia non esistono situazioni di chiusura o apertura totali. Alcuni modelli sono staG imposG con la violenza (colonialismo). - I processi di selezione Gpici di tu1e le culture lasciano intendere che queste ulGme non sono delle enGtà staGche, fisse, ma piu1osto dei complessi di idee e comportamenG che cambiano il tempo: la cultura è dinamica. Le culture sono prodoZ storici, cioè il risultato di incontri e selezioni. Non si tra1a però di un processo casuale; queste cessioni, presGG… producono delle trasformazioni che, a volte, possono diventare in un cambiamento sostanziale dei modelli culturali. Proprio per questo è sbagliato definire una volta per tu1e una cultura. Questo rischio riguarda sopra1u1o i popoli più lontani. Quando essi venivano definiG primiGvi, arcaici e tradizionali, le loro culture sono state qualificate con gli stessi aggeZvi resGtuendo un’idea di culture staGche sul piano temporale, ma anche spaziale, incapaci di trasformarsi e quindi chiuse da ogni influenza esterna. In realtà tu1e le culture hanno una storia. Questo fa1o è parGcolarmente evidente oggi, in un’epoca di grande diffusione di tecnologie e di mezzi di comunicazione oltre che di grandi spostamenG di popolazioni. Al tempo quesG erano più sporadici, ma sempre esistenG. **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 - La cultura è differenziata e stra2ficata: al contrario di come normalmente pensiamo, le culture non sono delle unità uniformi e coerenG, al loro interno possiamo spesso trovare delle differenze, sul piano religioso, sul modo di rapportarsi agli altri, potere, ricchezza… Sono poche le società al cui interno queste differenze erano o sono poco accentuate. Anche nella nostra stessa società, anche se nell’ulGmo periodo le disuguaglianze sociali si sono a1enuate (e di conseguenza l’alfabeGzzazione si è ben diffusa) i modelli culturali risultano spesso molto diversi, a seconda del grado di istruzione, di opinione poliGca e di ricchezza. In passato queste differenze erano molto più accentuate, si parlava addiri1ura di cultura colta (le scienze, arG e le1ere) e cultura popolare (rituali e feste paesane). Spesso è la cultura dei più forG a prevalere e quindi a darci l’immagine stereoGpata della cultura in quesGone. - La dimensione comunica2va è centrale in qualunque processo culturale. Per esistere come enGtà operaGve, i modelli devono essere largamente condivisi dai componenG del gruppo, devono essere riconosciuG da tuZ. Questo non implica che tuZ vi debbano aderire, ma per lo meno riconosciuG come facenG parte di un sistema di segni condiviso. Se la cultura esiste come insieme di segni riconosciuG li, non significa che tali segni cosGtuiscano un repertorio fisso e ripeGbile all’infinito. I segni però possono combinarsi in diversi modi e creare nuovi significaG. Ciò coincide con la crea2vità della cultura, che riscontriamo in due cara1erisGche del linguaggio: o Universalità seman2ca: tu1e le lingue sono in grado di produrre informazioni relaGve a evenG, luoghi del passato o futuro, vicini e lontani, reali e non… o Produ]vità infinita: riguarda il fa1o che data una proposizione («oggi piove») nulla ci dice cosa avverrà a seguire. Un altro Gpo di creaGvità culturale consiste nella creazione di nuovi significaG che modificano la nostra visione di vedere il mondo (ceramica, scri1ura, automobile, bomba atomica…), di manipolare e modificare il mondo naturale e sociale. Per essere culturalmente rilevanG le innovazioni, la creaGvità, devono essere in grado di riorganizzare modelli culturali esistenG e devono essere acce1ate. Se infaZ incompaGbili col contesto, saranno un vero fallimento (Erone I a.C, la macchina a vapore). - La cultura è OLISTICA: i modelli culturali non vivono di vita propria: interagiscono sempre con altri modelli, ed è la loro capacità di coniugarsi in un insieme complesso che dà vita a qualcosa che noi chiamiamo «cultura». Per questo moGvo si dice che la cultura è un’enGtà olisGca, cioè complessa integrata formata da elemen2 che stanno in un rapporto di interdipendenza reciproca, anche se ciò non significa affa1o che una cultura sia «chiusa» o «isolata». Per alcuni antropologi alcune culture sarebbero più olisGche di altri. Ad esempio l’antropologo francese Louis Dumont, sosGene che la società indù sarebbe «più olisGca» di quella occidentale in quanto nella prima gli individui si considerano parte di un sistema che ha bisogno di tu1e le sue componenG per potersi mantenere e per poter essere rappresentato. Nella società indù, l’individuo non è pensato come autonomo e libero dalla società. Mentre noi siamo abituaG a separare l’uomo dal piano giuridico, morale, poliGca e religione, vita privata e pubblica… In molte società queste disGnzioni non valgono (Azande). Possiamo concludere dicendo che le culture non hanno confini neZ, precisi e idenGficabili con sicurezza. Hanno dei nuclei forG composG dei comportamenG, simboli e idee che ne disGnguono da altri, ma che allo stesso modo possono avvicinarle ad altri ancora. Quando però ci allontaniamo da quesG nuclei forG, le cose che non ho sempre più a confondersi e a intrecciarsi. L’idea che la cultura sia una specie di universo autosufficiente e dotato di rigide regole di funzionamento è stata abbandonata da parecchi anni, insieme a quella secondo cui gli individui che ne sono parte sarebbero dei soggeZ plasmaG e determinaG in tu1e per tu1o da essa. Nella seconda metà del **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 Novecento, grazie al capitalismo, all’economia internazionale e alla globalizzazione dei mezzi di comunicazione si è infaZ potuto notare un conGnuo arricchimento tra forme culturali precedentemente separate. - COME AVVIENE LA RICERCA ANTROPOLOGICA Quando si studia una cultura è impossibile sperare di conoscere tu1o ciò che avviene in essa e tu1o ciò che la cosGtuisce. Il fa1o di riconoscere il cara1ere olisGco della cultura non ci obbliga a conoscerla nella sua totalità, ma piu1osto studiarla ado1ando una prospeZva che ci predisponga a stabilire collegamenG tra i vari aspeZ della vita di coloro che vivono quella cultura. Inteso in questo modo l’olismo è uno sGle e di approccio allo studio dei fenomeni culturali che nasce dalla consapevolezza dell’estrema interdipendenza esistente tra quesG fenomeni. Gli antropologi di solito studiano determinaG aspeZ della cultura (parentela, religione, concezione della morte, magia, riG…); per far questo essi però non possono concentrarsi solo sull’aspe1o da loro prescelto, ma devono considerarlo in relazione a tuZ gli altri (la ricerca va estesa oltre la dimensione «locale»). La ricerca che si occupa della raccolta di informazioni si chiama ETNOGRAFIA. L’etnografia intesa come lavoro sul campo per tempi prolungaG, si sviluppò tra la fine dell’O1ocento e gli anni a cavallo della Prima guerra mondiale (fine ‘800 – inizio ‘900). In precedenza gli antropologi erano teorici puri e per questo definiG “da tavolino”: si avvalevano di daG raccolG indireZ, raccolG da militari, commercianG, amministratori residenG nelle colonie o in aree di conta1o. Pochi avevano la possibilità di fare ricerca dal vivo, come ad esempio Lewis Henry Morgan, il quale poté conoscere dire1amente le società indiane dell’America se1entrionale. Tu1avia erano soggiorni molto brevi e non vi era ancora uno studio dire1o e partecipaGvo. Tra la fine dell’O1ocento e i primi anni del XX secolo si verificò una svolta importante. Gli antropologi cominciarono a recarsi personalmente presso i popoli che volevano studiare. Chi definì lo sGle antropologico della ricerca sul campo fu l’antropologo polacco Bronislaw Malinowski che soggiornò circa due anni su alcune isole della Melanesia: le isole Trobriand. Teorizzò un Gpo di ricerca che prevedeva periodi di soggiorno prolungaG e un approccio olisGco. L’antropologo non studia più la cultura a distanza, ma ha il dovere di immergersi in quel mondo e cogliere il punto di vista interno dei naGvi: si devono frequentare persone, luoghi, atmosfere, riG… Solo così l’antropologo può vedere e studiare la cultura vedendo le cose come le vedono gli altri. Nel 1922 Malinowski scrive Argonau8 del Pacifico occidentale (1922), fru1o del suo lavoro nelle isole Trobriand, all’interno del quale teorizza il metodo etnografico. Il principale compito è raccogliere daG sul campo. Durante la sua ricerca, l’antropologo si avvale di: - Interviste qualitaGve (domande non stru1urate, sono come delle conversazioni estese) - QuesGonari, interviste ben stru1urate (di solito aperte, ma molto dire1e e concise, dalle quali è richiesta una determinata risposta). - Storie, registrazioni, miG… OSSERVAZIONE PARTECIPANTE: vuol dire vivere a stre8o conta8o e condividere il più possibile lo s2le di vita della cultura ospitante. La maggior parte delle informazioni sono date dalla vita quoGdiana che l’antropologo sperimenta ogni giorno: mangiare, seguire le stesse abitudini, frequentare la gente del luogo perme1e di cogliere comportamenG, gesG e sguardi che in un dialogo sarebbe difficile esplicitare. InfaZ c’è un grosso divario tra ciò che dicono e ciò che fanno le persone, e questo è un oZmo punto di partenza (come educare i bambini, rispe1o, su chi è meglio sposare…). Così facendo, l’antropologo impara a «stare dentro» una forma di vita: cominciamo a conoscere una cultura solo quando usiamo i suoi modelli: per mangiare, ridere, pregare… L’antropologo si impregna dei modi di fare della società che studia, senza però diventarne membro. **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 Questo è un aspe1o fondamentale, in quanto perme1e all’antropologo di osservare con un certo distacco l’esperienza. Ciò nonostante, quando l’antropologo sceglie come significaGvi cerG daG e non altri, egli sta già in qualche modo interpretano i daG. Questo non è tu1o, anche ciò che si presenta come una semplice informazione in realtà dietro di sé nasconde un’interpretazione della realtà sociale e culturale («interpretando interpretazioni» Geertz, 1996) —> la visione della società che l’antropologo studia sarà sempre determinata dalla visione che ne hanno i suoi componenG. Perme1e di studiare la cultura con una prospeZva olisGca, precedentemente discusso. Questa prospeZva ha indo1o gli antropologi per lungo tempo a privilegiare lo studio di comunità di piccole dimensioni, dove l’interconnessione tra i differenG aspeZ della vita sociale e culturale può essere colta meglio che altrove. I daG individuaG devono essere quindi consideraG in relazione al contesto e provenienza. Ad esempio agli inizi del XX secolo, il sociologo Max Weber fu ad esempio in grado di mostrare in maniera del tu1o plausibile come l’economia capitalisGca fosse un prodo1o della credenza dei crisGani protestanG nella predesGnazione dell’individuo. Se invece vogliamo analizzare il capitalismo oggi, dobbiamo far riferimento al contesto dell’espansione di mercato, della globalizzazione… SGUARDO UNIVERSALISTA E ANTIETNOCENTRISMO: la cara1erisGca umana universale di «produrre cultura» ha portato gli antropologi a considerare tu1e le forme di produzione culturale degne di a1enzione e uGli alla conoscenza del genere umano nel suo complesso. Si tra1a di un’impresa etnografica generalizzata. L’universalismo antropologico si oppone alle tendenze etnocentriche razziste e irrazionali che si manifestano in tu1e le culture. L’etnocentrismo, cioè la tendenza isGnGva e irrazionale (spesso sfociante nel razzismo) che consiste nel ritenere i propri comportamenG e i propri valori migliori (validi) di quelli degli altri, è un dato che accomuna tuZ i popoli della Terra, chi più chi meno (è importante notare come questo anGetnocentrismo nasca in relazione a un contesto con pensiero dominante del tu1o opposto —> colonialismo e dominanza dell’Occidente sul mondo). L’antropologia stessa non è libera da questo Gpo di pensiero: spesso anche gli antropologi interpretano la vita degli altri popoli a1raverso il filtro delle proprie categorie culturali. LO STILE COMPARATIVO: ai suoi esordi, l’antropologia si prefiggeva di giungere alla scoperta delle leggi che segnano la trasformazione della cultura e della società, dalle forme più semplici fino a quelle più complesse. All’inizio il loro modo di procedere era abbastanza semplice, anche approssimaGvo. Essi sceglievano quegli elemenG che, traZ da contesG culturali e sociali tra loro molto diversi, sembravano rafforzare le loro ipotesi. Più che di un metodo comparaGvo si tra1ava di un modo per illustrare tesi poco valide. Nel corso del XX secolo sono venuG emergendo due principali sGli comparaGvi che si discostano dal precedente: - Il primo si esercita su società e culture che sono storicamente vicine tra loro, anche a livello geografico. È un metodo molto preciso, ma non consente grandi generalizzazioni. - Il secondo sGle comparaGvo prende in considerazione società prive di legami storici reciproci e cerca, a1raverso l’accostamento di fenomeni simili, di elaborare conclusioni più ampie. È un metodo, a causa delle grandi generalizzazioni, poco preciso e si assume un grande rischio nel teorizzare delle ipotesi. Tu1avia hai il vantaggio di offrire ampie sinteGche visioni dei fenomeni consideraG. INCLINAZIONE CRITICA E APPROCCIO RELATIVISTA: l’antropologia è nata in un contesto storico di dominio, che ha consenGto di entrare in una relazione di dialogo con le popolazioni delle terre controllate. Opponendosi intelle1ualmente (non sempre in maniera esplicita) l’antropologia ha esercitato una forte funzione criGca nei confronG di a1eggiamenG di sopraffazione e **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 so1ovalutazione delle culture più deboli. L’antropologia è un sapere criGco anche nei confronG di se stesso. Non solo perché so1opone i propri conceZ a revisione conGnua, ma anche perché deve tenere lontana da se la tentazione di idealizzare le praGche e i valori che essa studia. In un celebre libro del 1955, TrisD tropici, Claude Lévi-Strauss sostenne che l’antropologo tende ad essere criGco a casa sua e conformista a casa d’altri. Mentre ad esempio nella sua società condanna cerG a1eggiamenG, in altre spesso li acce1a o addiri1ura sorvola. Tu1o ciò ha a che vedere con quell’orientamento cara1erisGco della riflessione antropologica di nome rela8vismo culturale: a1eggiamento che consiste nel ritenere che comportamenG e valori per essere compresi devono essere consideraG all’interno del loro contesto d’appartenenza. L’antropologia è dunque «rela2vista», perché certe esperienze non possono essere valutate seguendo schemi mentali e modelli culturali dell’osservatore —> prospeZva olisGca. Questo a1eggiamento spiega la volontà di mostrare come possano esistere forme di vita culturale che pur diverse da quelle occidentali, hanno senso (come Pritchard con gli Azande). Spesso glia tropologie cercano di dare una spiegazione quasi scienGfica di praGche che noi condanneremmo: infanGcidio, muGlazioni corporali, incesto… Il relaGvismo culturale non va però confuso come un modo per giusGficare tu1o e tuZ, piu1osto mira a comprendere le cose nel loro contesto. RIFLESSIVITÀ E DECENTRAMENTO DELLO SGUARDO: l’antropologia è anche una disciplina riflessiva. InfaZ l’incontro con soggeZ appartenenG a culture diverse consente agli antropologi di esplorare la propria. L’incontro con l’altro induce di conseguenza anche rifle1ere su se stessi e sui modi di agire del proprio gruppo. Le situazioni studiate dagli antropologi rimangono delle immagini in cui non solo gli antropologi, ma tuZ possono riconoscersi. La dimensione riflessiva è centrale nello studio antropologico anche per capire noi stessi. Per questo si parla di decentramento dello sguardo: dobbiamo cercare di osservare noi stessi a1raverso lo sguardo degli altri, da una prospeZva più esterna. **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 PARTE SECONDA UNITÀ E VARIETÀ DEL GENERE UMANO - «RAZZE», GENI E CULTURE Nonostante i grandi scambi culturali che avvengono oggi, grazie alla globalizzazione, migrazioni e tecnologie, il genere umano manGene sempre una grande varietà su più livelli: fisico, linguisGco, culturale. A fronte di questa vasta varietà, ci sono anche degli elemenG in comune. Alla fine del XVIII secolo, il naturalista francese George-Louis Leclerc de Buffon stabilì che gli esseri umani fanno parte di un’unica specie. Gli antropologi concordano che gli uomini sono tuZ uguali, in quanto tuZ hanno in comune di produrre cultura; i linguisG giunsero alla conclusione che le lingue parlate sulla terra sono ugualmente complesse. Per lungo tempo l’aspe1o è stato il principale mezzo per le differenze. L’aspe1o fisico è ciò che colpisce a prima vista, insieme alla lingua. In varie epoche storiche le differenze fisiche sono state di supporto a ideologie di discriminazione. il colore della pelle ha cosGtuito un marcatore di diversità da cui vengono fa1e talvolta dipendere erroneamente le differenze culturali. Il razzismo ha infaZ preteso di stabilire un nesso causale tra aspe1o fisico e cultura, e di giusGficare, la dominazione di alcuni gruppi su altri. QuesG Gpi di pensieri presero parGcolarmente piede nell’Europa dell’O1ocento, un’epoca in cui molG paesi si lanciarono nell’impresa coloniale. Queste idee posero le basi conce1uali e ideologiche per tuZ i massacri e le discriminazioni che cara1erizzarono il nostro conGnente nella prima metà del Novecento. —> RAZZISMO: a1eggiamento di auto celebrazione della propria superiorità da un lato e di disprezzo per colore che sono ritenuG inferiori dall’altro, ruota a1orno alla nozione di razza. Gli studiosi hanno tu1avia dismontato che non si può parlare di razze umane, in quanto non esiste alcun criterio che dimostri scienGficamente delle differenze tali da poter dividere il genere umano. Il più delle volte quindi il razzismo non si fonda nemmeno su delle vere e proprie teorie. Il razzismo consiste soltanto in un a1eggiamento isGnGvo di rifiuto e chiusura di fronte alle diversità. Tale a1eggiamento si accompagna alla diffidenza, esclusione, odio e violenza… La «razza» è innanzitu1o una costruzione culturale: ad esempio negli StaG UniG d’America un individuo è «classificato» in relazione ai suoi ascendenG (genitori, nonni, ecc.); in Brasile invece vale il contrario, un individuo apparGene a un «Dpo» sulla base del suo aspe1o. Non è possibile tracciare disGnzioni ne1e tra gruppi umani basandosi sulle cara1erisGche somaGche degli individui. La cosa più corre1a che si possa dire a proposito della nozione di «razza» è che tale nozione, rappresenta un veicolo i stereoGpi diffusi e persistenG in basi alle quali il senso comune opera disGnzioni connesse a pregiudizi, xenofobia, problemi sociali, ecc. Le differenze più visive sono anche quelle più superficiali. L’unico Gpo di analisi scienGficamente valida sulle differenze tra i gruppi umani è quella che si fonda sull’esame del DNA e dei suoi componenG base. Le ricerche condo1e da Luigi Luca Cavalli- Sforza, presso l’Università di Stanford, confermano che le differenze somaGche tra gli esseri umani, anche quelle più evidenG, sono superficiali e relaGvamente recenG nella storia della nostra specie. Le origini dell’uomo anatomicamente moderno (aspe1o a1uale, abilità linguisGche, capacità intelle1uali), Homo sapiens sapiens, sono da situare in Africa orientale e risalirebbero a circa 50.000 anni fa. Fu a parGre da questa data che gli esseri umani cominciarono a differenziarsi somaGcamente, in seguito ad un processo migratorio e di dispersione della specie. Inoltre, da queste ricerche, emerge anche che a livello di corredo geneGco, anche due persone apparentemente della stessa razza, per così dire, possono avere tante differenze, a livello geneGco, quanto chi non apparGene alla stessa. **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 Grazie a queste indagini è stato dunque possibile stabilire con sicurezza che l’origine dell’Homo sapiens sapiens è da collocarsi nell’Africa centro-sud-orientale da qui emigrò circa 100.000 anni fa, passando prima in Medio Oriente e poi in Europa e in Asia, per poi raggiungere il conGnente australe e le Americhe tra i 30.000 mila e i 15.000 anni fa. Queste teorie furono confermate anche dagli studi sulla classificazione delle «famiglie linguis2che». L’idea di famiglia linguisGca risale alla seconda metà del XVIII secolo, quando il giurista William Jones notò notevoli somiglianze tra il sanscrito (la lingua sacra degli indù), il laGno, il greco, il celGco e il goGco. Queste lingue mostravano un’affinità in diversi aspeZ della lingua. Questo gruppo di lingue non più parlate divenne nota come famiglia indoeuropea. Per molto tempo si ritenne che questa familiarità fosse esclusiva delle lingue sopracitate, ma con il progredire degli studi si iniziarono a intravedere somiglianze e affinità tra gruppi di anche altre lingue. Si iniziò anche a ipoGzzare che più lingue potessero far parte di più «superfamiglie», le quali sarebbero derivaG anch'esse da un unico antenato comune (glo1ologo Alfredo TrombeZ —> monogeismo). Queste posizioni sono state definiG te «unitariste». Le lingue di oggi sarebbero quindi il fru1o di famiglie e conseguenG superfamiglie, la cui nascita coinciderebbe con il distanziamento/differenziamento delle popolazioni geneGche (derivato dalle migrazioni di cui parlavamo). Le lingue non si generano solo a “cascata” per discendenza, ma anche per altri fa1ori: - L’occupazione regione disabitata —> Polinesia occupata nel I millennio a.C.; - La divergenza —> migrazioni, confliZ, deriva linguisGca (lingue che cambiano nel tempo, come l’italiano); - La convergenza —> presGG linguisGci, idiomi che nascono con contaZ esterni; - La sosGtuzione di una lingua —> gruppo conquistatore, un’élite poliGco-militare impone la propria lingua; Abbiamo quindi constatato che le migrazioni sono l’effe1o di spinte culturali. Le spinte culturali sarebbero allora anche all’origine della distanziazione geneGca. In verità il corredo geneGco degli individui varia in base anche ad altri fa1ori, causali (deriva geneGca) e ad aZvi (selezione naturale). Tu1o ciò può essere stre1amente connesso, e un esempio è la diffusione dell’agricoltura in diverse parG del pianeta a parGre dalla rivoluzione agricola dell’VIII millennio a.C.. L’adozione dell’agricoltura in aree del pianeta e in tempi diversi portò ad un incremento della popolazione. A tale incremento demografico seguì un’espansione territoriale che portò in aree sempre più vaste alla sosGtuzione della caccia-raccolta con l’agricoltura; la lingua degli agricoltori si diversificò, poiché entrata in conta1o con idiomi specifici dei nuovi territori. Le lingue nate da questo incontro sarebbero venute a formare così quella che viene chiamata una famiglia linguisGca (indoeuropea). Alla distanza geneGca e linguisGca non corrisponde una distanza culturale commensurabile. Questo perché i traZ culturali non linguisGci non sono stabili, isolabili e databili come quelli geneGci. Geni e lingue cambiano, ma ad una velocità infinitamente minore rispe1o a quella con cui mutano comportamenG, usanze e modelli culturali. Il grande sviluppo delle ricerche etnografiche nel corso del Novecento ha indo1o gli antropologi a sistemaGzzare le conoscenze acquisite secondo il criterio delle aree culturali. Un’area culturale è una regione geografica al cui interno si possono riconoscere elemenG sociali, culturali, linguisGci, ecc. relaGvamente simili. Oggi, che siamo in presenza di processi sempre più intensi di interazione tra popolazioni, la suddivisione per aree culturali va considerata come puramente indica2va delle maggiori differenze socio-culturali. Le aree culturali infaZ non sono mai state chiaramente circoscri1e e immobili. Tali aree, create all’epoca delle scoperte etnografiche, erano semplicemente modelli costruiG da antropologi e geografi allo scopo di «me1ere ordine» nella grande varietà di popolazioni. Una considerazione troppo le1erale di tali aree può portare a effeZ di irrigidimento della realtà culturale, la quale è invece assai più fluida, sopra1u1o oggi che la **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 frequenza di spostamenG umani a1raverso le regioni del pianeta è diventata superiore al passato. Parlare di aree culturali come si poteva fare nelle prima metà del Novecento è poco realisGco anche perché la pervasività dei media (televisione e social) fa si che i modelli culturali, espressivi, esteGci, poliGci ecc. vengano recepi- a livello globale -> ciò non comporta una omogeneizzazione. Il rischio di prendere sul serio le aree culturali è di essenzializzare e stereo-pare tali aree (l'Africa è stata ad esempio ritenuta per molto tempo rappresenta-va di alcune forme "classiche" di organizzazione sociale, -po la tribù). Ciò comporta la messa in ombra - mol- altri aspeE, eclissa- dal più rappresenta-vo, che rischia di dare un'immagine stereo-pata del luogo e della cultura che vi appar-ene. - FORME STORICHE DI ADATTAMENTO. LE SOCIETÀ ACQUISITIVE Nel corso degli ul-mi 50.000 anni, l'Homo sapiens sapiens è andato diversificandosi non solo sul piano soma-co, linguis-co e culturale, ma anche dal punto di vista delle forme di adaFamento all'ambiente. Durante la colonizzazione del pianeta l'umanità ha infaE occupato aree diversissime come le fasce temperate dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa; quelle fredde dell'area circumpolare (Siberia, Alaska, Groenlandia); la regione calda e umida delle zono tropicali africane, asia-che; in foreste come l'Amazzonia; nei deser-; isole vulcaniche... Durante ques- 50.000 anni la specie umana ha dovuto pertanto elaborare strategie di adaSamento altamente differen-. Le forme di adaSamento che possiamo osservare oggi, sono il risultato di processi dura- migliaia di anni, con il costante inves-mento di energie fisiche e intelleSuali per sfruSare al meglio l'ambiente circostante. Il punto focale era dunque il lavoro. Per circa 4/5 di ques- 50.000 anni, l'Homo sapiens sapiens ha fondato il proprio adaSamento su un'unica opzione, la caccia-raccolta e la pesca, disponendo sempre di tecnologie molto semplici. -> società «acquisiRve»: realizzano la propria sussistenza aSraverso il prelievo di risorse spontanee dall'ambiente. Solo negli ul-mi 10.000 anni, con l'avvento della «rivoluzione agricola», sono arrivate importan- modificazioni nella vita del genere umano: - Società stra&ficate; - Formazione di ciFà; - Divisione del lavoro; - Centralizzazione della poli&ca; - La scriFura La rivoluzione agricola si impose nel giro di pochi millenni, in gran parte del pianeta e fu accompagnata da un incremento demografico straordinario e da una diversa forma di adaSamento all'ambiente: la pastorizia nomade. Con la rivoluzione Industriale, in Europa alla fine del XVIII secolo, l'umanità ha conosciuto un'ulteriore accelerazione impensabile nel campo della produzione e innovazione tecnologica. Fino a quel periodo li l'umanità era rimasta legata a forme storiche di adaSamento. ASualmente i cacciatori-raccoglitori rappresentano una frazione percentualmente infinitesimale del totale degli abitan- sul pianeta. Si ritene infaE che essi non siano più di quarantamila. Alle soglie della rivoluzione agricola (12.000 anni fa) essi cos-tuivano invece la totalità della popolazione mondiale. E quindi evidente che la caccia-raccolta ha conosciuto una progressiva e radicale ritrazione di fronte all'incontenibile avanzata di altre forme storiche di adaSamento, in primo luogo l'agricoltura **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 IERI OGGI - Cibo: animali di grossa taglia, primaria - Cibo: si cacciano animali di piccola fonte alimentare, ricavavano anche altri taglia, che ovviamente non offrono un materiali necessari per la sopravvivenza supporto alimentare paragonabile (ves--, utensili..) all'altro, compensano con fruE - Organizzazione sociale: erano stanziali selva-ci, radici, tuberi, crostacei, e formavano gruppi di varie cen-naia di molluschi, pesci.. individui - Organizzazione sociale: sono assai mobili e vivono in gruppi di ven-- trenta, individui al massimo. —> I !Kung San Negli anni Sessanta l'antropologo Richard Lee intraprese lo studio a lungo termine di un gruppo di cacciatori-raccoglitori del deserto del Kalahari. I boscimani !Kung erano circa 450, dispersi in vari accampamen-. Erano privi di armi da fuoco, di bes-ame e di agricoltura. - Negli anni Sessanta erano interamente dipenden- dalla caccia-raccolta, tranne che per il laSe bovino che oSenevano dai loro vicini allevatori Herero. - Gli accampamen- cambiavano costantemente per quanto riguarda dimensioni e le persone che ne facevano parte. Ogni accampamento cos-tuiva un'unità autosufficiente per quanto riguarda la produzione di cibo. Si par-va la maEna e si tornava la sera. Qui ripar-vano il cibo equamente tra i membri dell'accampamento. Gli scambi tra accampamen- erano minimi, tuSavia si muovevano da un campo all'altro con molta facilità. Non accumulavano cibo conservabile per più di due o tre giorni. Il cibo vegetale rappresentava circa il 70% del regime alimentare. - L'aspeSa-va di vita si aggirava sui sessant'anni -> gli anziani erano le vere autorità - Parità di diriE e dovere a entrambi i sessi: le donne erano molto libere e trascorrevano la maggior parte del tempo in visite agli altri accampamen-, i compi- domes-ci duravano poche ore al giorno. - Giochi e diver-men-, can- e danze. Negli anni successivi, quest'area è stata raggiunta da coloni agricoli e i rappresentan- del governo del Botswana. Alla fine degli anni Novanta si poté notare come la società dei IKung era in pieno cambiamento: nello spazio di una generazione si era trasformata in una società di pastori, di salaria-, agricoltori e ar-giani... A differenza di altri popoli, i IKung non sono riusci- a mantenere il loro sistema adaEvo intaSo o a modificarlo in base al nuovo contesto. Ad oggi la caccia e la raccolta forniscono loro Il 25-30% del cibo. - LA CACCIA-RACCOLTA Si basa su tecniche di sfruSamento delle risorse naturali finalizzate all'acquisizione di risorse spontanee, di natura animale e vegetale. Non implica alcuna forma di intervento sulla natura che possa determinare un cambiamento della natura stessa. Gli esseri umani prendono ciò che la natura offre: animali, pesci, crostacei... non sono il prodoSo di una qualche forma di intervento degli esseri umani, come invece è il caso delle piante. La dispersione delle risorse che si registra nei territori di ques- gruppi comporta necessariamente un'alta mobilita degli individui che li compongono. Le risorse naturali non hanno infaE il tempo di riprodursi abbastanza velocemente per sostenere una popolazione stanziale e numerosa. La mobilita favorirebbe la formazione di gruppi ridoE («bande»), questo produce l'impossibilità di accumulare risorse u-lizzabili in altri **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 momen- (!Kung). Anche i rapporR tra uomini e donne sono qui molto più paritari che presso popoli agricoli o pastorali. La divisione del lavoro è quasi inesistente e le donne, che non possono allaSare più di un figlio per volta e sono nomadi come gli uomini, non vengono confinate alla sera domes-ca. Ciò non significa che queste società non siano prive di differenziazioni interne. Le condizioni generali di vita di ques- gruppi fanno si che le differenze tra gli individui nell'abilita del cacciare, nel valutare i problemi, nella capacità di comunicare con gli spiri- ecc. non siano stabili, ne permanen-, n'è trasmissibili da una generazione all'altra. —> I Vezo, pescatori del Madagascar (fine secolo XX) Vivono lungo la costa centro-occidentale del Madagascar e vivono in villaggi di qualche cen-naio di persone. Sono situa- a poche decine di metri dal mare, dal quale traggono la maggior parte delle risorse alimentari. La pesca pra-cata dai Vezo è con la rete o con gli ami, individuale o colleEva. Per la pesca i Vezo usano per lo più la canoa, a remi o con la vela, che ricavano scavando il tronco del farafatse, un albero locale dal legno estremamente leggero e facile da intagliare. La disponibilità con-nua di pesce non li obbliga a programmare più di tanto la produzione. Nonostante la semplicità della loro economia, i Vezo non vivono in un mondo chiuso. I loro villaggi conoscono l'influenza dei merca-. Ques- contaE consentono di diversificare la loro alimentazione, cosa che possono fare grazie alla rivendica del pescato. Il mare è visto come un luogo eterno, senza tempo, in cui da sempre esistono i pesci e gli altri animali. Il mare e le creature che lo abitano sono oggeSo di credenze e di proibizioni, l'inosservanza delle quali comporta ri- purificatori di vario -po. I Vezo hanno una speciale venerazione per i loro antenaR, ai quali erigono tombe di varie dimensioni che sono periodicamente restaurate in funzione della loro credenza in un con-nuo dialogo tra il mondo dei vivi e quello dei defun-. Non c'è dubbio che cer- aspeE di queste società possano illuminarci sullo s-le di vita dei nostri antena-, ma sarebbe fuorviante, proprio per le differenze eviden- di cui si è deSo, ritenere che i cacciatori-raccoglitori di oggi siano dei semplici «reliE del passato». InfaE i primi mantengono rappor- di vario genere con le società agricole, pastorali e con le amministrazioni degli Sta- centralizza-. Ritenere che i cacciatori-raccoglitori vivono nell'isolamento rispeSo ad altre forme di organizzazione sociale, poli-ca ed economica sarebbe un errore. Alcuni autori ritengono addiriSura che i cacciatori-raccoglitori di oggi non potrebbero sopravvivere senza interagire con società fondate su altre forme di adaSamento. - FORME STORICHE DI ADATTAMENTO, COLTIVATORI E PASTORI L'addomes-camento delle piante e degli animali ha portato gli esseri umani ad operare le prime vere modifiche sui processi di crescita e produzione degli organismi naturali. Selezionando specie vegetali e animali con caraSeris-che par-colarmente vantaggiose sul piano alimentare, il genere umano modificò il quadro generale delle proprie condizioni di vita. Sino alla metà del secolo scorso, oltre i due terzi della popolazione mondiale era cos-tuita da or-coltori e agricoltori. Or-coltura e agricoltura si fondano sullo sfruSamento di piante addomes-cate, e implicano entrambe un inves-mento lavora-vo nella loro produzione. Diversamente dalle società acquisi-ve, che colgono risorse naturali e hanno un rendimento immediato, nelle società di colRvatori il rendimento è differito. ORTICOLTURA: implica l’impianto nel terreno di talee provenien- da alberi già cresciu-, le quali danno vita ad altri alberi. Le specie col-vate in questo modo sono prevalentemente nelle fasce calde tropicali e si producono più o meno tuSo l’anno, non hanno nemmeno bisogno di preparare adeguatamente il terreno (Africa sub sahariana e America meridionale). Le popolazioni che **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 pra-cano l’or-coltura presentano delle organizzazioni sociali più egualitarie come quelle dei cacciatori-raccoglitori, ma non per questo altreSanto equilibrate e pacifiche. AGRICOLTURA: implica operazioni e strumen- più complessi, in quanto si fonda sopraSuSo sulla col-vazione di legumi, cereali, alberi da fruSo, i quali hanno bisogno di un terreno preparato adeguatamente e di cure con-nue, ritmi stagionali…. TraSandosi di piante con tempi di crescita molto lunghi, gli agricoltori devono accumulare risorse per i periodi in cui le colture sono improduEve e per poter poi ricominciare il ciclo produEvo. Secondo alcuni antropologi le società che fondano la propria sussistenza sull'agricoltura contengono in se le premesse per la comparsa dell'autorità poli-ca e della stra-ficazione sociale. Le società fondate sull'agricoltura sono talvolta conosciute come società contadine. Di solito si preferisce pero definire «contadine» quelle comunità di agricoltori che fanno parte di società ampie, che comprendono anche insediamen- urbani, e infaE risiedono nelle campagne, il contado Spesso tali società sono diventate. il principale oggeSo di sfruSamento delle élite poli-che. Il mondo contadino europeo ha fornito per secoli di manodopera la società urbana, con un trasferimento significa-vo della forza lavoro dal seSore agricolo a quello industriale (800). Nell'Europa e nel Nordamerica le società contadine hanno subito nella seconda metà del secolo scorso una profonda trasformazione grazie all'introduzione delle nuove tecnologie agricole e nuove forme di rappor- sociali e di lavoro. Oggi si paria di «agricoltura Industriale» con pochissimi lavoran- e molta tecnologia, riducendo così la manodopera necessaria. TuSavia nei 4/5 del pianeta la produzione agricola p è ancora basata su metodi tradizionali, che si rivelano sempre meno efficaci. SopraSuSo le società agricole dell'Asia, dell'Africa e dell'America centro-meridionale sono economicamente arretrate e non riescono a far fronte allo aumento crescente della popolazione. Inoltre i nuovi semen- contenen- OGM, fanno si che la produzione agricola di mol- popoli contadini sia fuori mercato. Ciò comparta un progressivo inurbamento, che è appunto una caraSeris-ca dei paesi poveri in via di sviluppo: A questo si aggiungono anche le migrazioni forzate e provocate da disordini. guerre civili, confliE etnici…L'inurbamento ha faSo si che nella maggior parte dei paesi sopracita- si siano create enormi masse prive di lavoro, che vivono In povertà, sprovviste di istruzione e di assistenza sanitaria, con basse aspeSa-ve di vita. —> I mezzadri toscani (metà del secolo XX) La mezzadria è un'is-tuzione economica cessata defini-vamente, in Italia, negli anni Sessanta. Essa ebbe uno sviluppo notevole nell'Italia centro-se5entrionale a par-re dalla fine del Medioevo. par-colare in Toscana, dove raggiunse la sua forma compiuta alla fine del SeSecento. Ai contadini venivano affida- dei «poderi» o «case coloniche», nelle quali potevano abitare e lavorare insieme agli animali da lavoro. Queste case potevano essere id notevoli dimensioni e ospitare anche più famiglie. Il contraFo mezzadrile prevedeva che al proprietario speSasse una certa quan-tà di raccolto (la maggior parte), mentre al contadino e alla sua famiglia il resto. Il proprietario in compenso doveva fornire i mezzi di produzione. Alla metà del Novecento i mezzadri toscani abitavano, infaE, ancora con le loro famiglie in ques- «poderi». Un podere era sia l'appezzamento di terreno, sia la casa (viveva la famiglia e venivano custodi- gli animali). L'alimentazione dei contadini era cos-tuita da pane, pasta, ortaggi e, molto raramente, carne bovina, e poi polli, insacca-, ecc. Il contadino dunque non veniva pagato in denaro (si procurava il necessario rivendendo alcuni prodoE): questo fu un problema quando l'economia nazionale divenne sempre più monetarizzata e fu una delle principali cause del progressivo declino e poi scomparsa della mezzadria. La mezzadria aveva dunque un par-colare sistema economico: **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 - Da una parte gli interessi dei proprietari che rivendevano i prodoE a vari compratori; - La seconda è di autosussistenza: la famiglia mezzadrile aveva rappor- molto limita- con il mercato. Quello mezzadrile era, infaE, un mondo per cer- aspeE «chiuso». Spesso non si avevano nemmeno contaE con il proprietario, in quanto egli abitava nella ciSà, lontano dalla campagna. I paesi erano però il punto di riferimento delle famiglie, li si trovavano diversi servizi. Essi erano in mol- casi fedeli alla tradizione caFolica. I matrimoni erano quasi sempre religiosi. In certe occasioni il prete benediva gli animali da lavoro, anche macchine trebbiatrici introdoSe agli inizi del Novecento. Frequentavano assiduamente le fes-vità, svolgevano ri- propiziatori di fer-lità della terra. Erano addiriSura presen- credenze magiche e nel potere malefico/benefico di streghe e stregoni. In caso di malaEa mol- contadini preferivano talvolta rivolgersi al guaritore («stregone») piuSosto che al doSore (anche ragione economica). I buoi, unica fonte di energia per lavorare, erano «proteE» dalla sfortuna, malocchio con amule- e fiocchi di stoffa rossi: la loro morte era considerata un evento dramma-co. Le famiglie mezzadrili erano di varie dimensioni, quelle più vaste erano di -po «polinucleare»: la famiglia di lui, più la moglie e la prole. La famiglia era solitamente soSo la guida di un uomo, di solito il più anziano, il quale dirigeva i lavori. Alla «massaia», la donna più anziana, o la più capace, speSava invece l'organizzazione della vita domes-ca. Queste famiglie, benché numerose, non avevano patrimoni o eredità, tuSo era del padrone. Le forme di controllo padronale sulla vita della famiglia erano varie: vi era un potere diffuso anche sulla vita dei singoli, al punto che in cer- contraE vi era la clausola secondo cui il proprietario poteva intervenire sulle scelte matrimoniali dei giovani. I matrimoni potevano infaE influire sulla produEvità del roteare e della faSoria. Non era sempre così, a volte i rappor- tra proprietario e mezzadro erano più equi. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la mezzadria entrò nella sua fase di declino. Lo sviluppo dell'industria e dei servizi, negli anni Cinquanta e Sessanta, richiamò verso i nuclei urbani una quan-tà sempre maggiore di manodopera. Dopo il 1950 i contadini oSennero condizioni migliori, ma ciò non bastò per frenare questa migrazione dalle campagne alle ciSà. I contraE mezzadrili furono aboli- nel 1964, ma la cessazione ufficiale della mezzadria fu sancita in Italia solo nel 1982. PASTORIZIA: la pastorizia è una forma di adaSamento che segna il passaggio da un'economia di -po acquisi-vo a un'economia di produzione vera e propria. InfaE le risorse u-li all'uomo per essere prodoSe hanno bisogno del lavoro umano. Generalmente la pastorizia si è sviluppata contemporaneamente all'agricoltura e all'allevamento, tuSavia in alcuni casi la pastorizia pare essere arrivata addiriSura molto prima dell'agricoltura. Nella penisola arabica ad esempio, la pastorizia è nata come conseguenza della scarsità delle terre col-vabili (Il millennio a.C.) per effeSo di un incremento demografico. La pastorizia si dis-ngue dall'allevamento perché mentre l'allevamento usa foraggi provenien- da col-vazioni, la pastorizia nutre i propri animali con il pascolo naturale (cammelli, pecore, capre, cavalli, mucche...). La pastorizia nacque in Medio Oriente all'epoca della rivoluzione agricola. Popoli pastori sono presen- in quasi tuSa l'Asia e in Africa e, in passato, in Europa. Scarse sono le tracce della pastorizia nelle Americhe. - In Africa centro-orientale vi sono popolazioni che associano l’allevamento di dromedari e di bovini alla col-vazione di cereali, anche se la pastorizia riveste un’importanza economica e sociale di gran lunga superiore; **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 - In alcune regioni dell'Europa meridionale (Italia centro-meridionale, penisola iberica,...) e dell'area alpina la pastorizia ha cos-tuito, tra il XVI e il XX secolo, un complicato sistema di u-lizzo della manodopera e di commercializzazione del bes-ame. - Nelle steppe dell'Asia centrale e orientale, i popoli nomadi allevano cammelli e cavalli. Così loro spostamen- hanno contribuito a plasmare il profilo culturale e poli-co di gran parte dell'Asia. I pastori nomadi sono sempre sta- in relazioni simbio-che con il mondo agricolo e urbano: fornendo mezzi di trasporto, guide, animali e prodoE deriva-, in cambio ricevevano ciò che non erano in grado di trarre dalla loro economia: alimen-, stoffe, armi e aSrezzi.. La pastorizia nomade è infaE una forma iperspecializzata di adaFamento, che non può combinare efficacemente l'allevamento con forme di produzione come l'agricoltura e l'ar-gianato, le quali richiedono prima di tuSo una vita stanziale. Ciò non ha escluso casi di situazioni miste. Oggi con lo sviluppo degli Sta- nazionali, si è creata una forte dipendenza tra le società pastorali e il mondo agricolo (meno libertà di spostamen-). Nei paesi mediorientali, ad esempio in Arabia Saudita, i governi hanno invece incoraggiato la sedentarizzazione e il passaggio ad altre forme di sussistenza dei nomadi. I pastori nomadi sono oggi molto res-i al cambiamento: alcuni scelgono le opportunità offerte dagli Sta- nazionali, altri non vogliono adeguarsi e vogliono mantenere il loro s-le di vita. Altri -pi di comunità nomadi sono ad esempio i Rom, i Sin-, ecc. e sono presen- in Europa sin dal Medioevo. Queste comunità che vivono di commerci e piccoli servizi, vengono chiamate «peripateRche», cioè «in movimento». Con il tempo queste comunità sono state progressivamente emarginate dalla vita della società: mol- di loro vivono in situazioni precarie a tal punto da compiere rea- di lieve en-tà (fur- e borseggio). —> discriminazioni **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 PARTE QUARTA SISTEMI DI PENSIERO - SISTEMI «CHIUSI» E SISTEMI «APERTI» Nel 1935 un gruppo di etnologi francesi intraprese uno studio sulla popolazione Dogon: un popolo di agricoltori, che vive nell'interno dell'aSuale Stato del Mali (al tempo Africa coloniale francese). Marcel Griaule (—> Dio d'acqua, 1948), alla guida del gruppo, fu in grado di definire quella che chiamò la «cosmologia dogon», una complessa visione dell'ordine del mondo dalla sua creazione. Per quanto avvolta nell' alone del mito, la cosmologia rivelava una certa coerenza e sistema-cità, che la avvicinava alle spiegazioni teoriche fornite dalla filosofia e dalle scienze occidentali. Alcuni studiosi ritengono però il lavoro di Griaule una forzatura: egli avrebbe operato un lavoro di «composizione» di elemen- frammentari e contraddiSori conferendo al «pensiero dogon» una coerenza che di per se non aveva. In questo clima, gli antropologi cominciarono a parlare di «sistemi di pensiero», ovvero cominciarono a studiare le varie visioni del mondo e della sua realtà di quei popoli prima ritenu- non capaci di una riflessione pura. Nel corso dei decenni successivi, gli antropologi poterono dimostrare come tuE i popoli avessero una visione complessa, ar-colata e coerente del mondo umano e naturale. Ovviamente nessuna visione del mondo, per quanto complessa, è totalmente coerente, in ciascuna di esse ci sono sempre delle contraddizioni o incongruenze. TuSavia la con-nua ricerca dell'uomo di una coerenza, è proprio -pica dei «sistemi di pensiero». Quest'ul-mi comprendono ambi- di riflessione assai diversi: spazio e tempo, credenze religiose, pra-che magiche, stregoneria, natura e cultura, sessi, malaEe e salute... Alla metà degli anni Sessanta, l'antropologo Robin Horton mise a confronto quelli che chiamò i «sistemi di pensiero tradizionali africani» con il pensiero scien-fico sviluppatosi in Europa nell'età moderna. Horton riteneva che ques- due «modi di pensare», nonostante le profonde differenze, avessero una stessa funzione esplicaRva. Per dimostrare la sua tesi Horton mise a confronto alcuni aspeE del ragionamento della scienza occidentale moderna e altri del pensiero religioso africano, in quanto riteneva che quest'ul-mo svolgesse la stessa funzione esplica-va che la scienza svolge in Occidente. Entrambi i sistemi sono alla ricerca di una spiegazione del mondo, dove spiegare significa: - Oltrepassare il senso comune e la diversità dei fenomeni: - Ricercare l'unità dei principi e delle cause; - Semplificare al di la della complessità dei fenomeni; - Superare l'apparente disordine e trovare un principio; - Cogliere la dimensione di regolarità dei fenomeni al di là della loro casualità; I sistemi di pensiero africani affrontano ques- problemi in termini di conce_ religiosi e di divinità, mentre quello scien-fico moderno fa la stessa cosa con termini di forze fisiche. La realtà (nelle popolazioni africane) viene spiegata mediante l'opposizione e la tensione che si stabilisce tra un ristreSo numero di en-tà: uomini, spiri-, antena-, ecc. Agli occhi degli occidentali le spiegazioni di ques- popoli parranno assurde: fini assurdi e poca scien-ficità negli even-. Ne vedranno solo un ragionamento sbagliato dal punto di vista logico-causale (sarebbe impensabile che il dici X è responsabile del vaiolo). Dal punto di vista antropologico, sono solo dei modi alterna-vi di spiegare il mondo, che si allontanano dal senso comune. Quando, in questo genere di popolazioni, si cercano le cause di una malaEa o di una morte improvvisa, si cerca sopraSuSo di vedere quali forze (pensieri e azioni umane ecc.) abbiano spinto quella divinità o quell'antenato a comportarsi in quel modo. Si stabilisce una relazione causale tra **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 tensioni e disagi nelle relazioni interpersonali e sociali e malaEe. Anche se a noi sembra assurdo, anche nella medicina modera si è cominciato a parlare del rapporto mente-corpo. Ciò non significa che una malaEa organica ha sempre origine in un disagio psico-fisico. Il pensiero elabora sempre delle analogie esplicaRve, cioè delle associazioni faSe si per spiegare dei fenomeni: ad esempio i fisici hanno parlato dell'atomo come di un sistema solare, o i biologi del codice gene-co come una doppia elica. È stato osservato che mentre il pensiero occidentale, da un certo momento in poi, si è rivolto alle «cose» per costruire le proprie analogie esplica-ve, altri sistemi, tra cui quelli dell'Africa subsahariana, hanno privilegiato il mondo sociale. La loro «stranezza» (per noi) deriverebbe proprio dal faSo che essi si sono allontana- dai riferimen- empirici (le cose) che invece per noi sono dei parametri di riferimento. In Africa e altrove, le analogie esplica-ve si sono espresse nel linguaggio della «persona»: i fenomeni sono spiega- con l'azione di un Dio o di un antenato, scatenato da un comportamento che minaccia l'ordine del gruppo. Dunque, le spiegazioni degli even- vengono date in termini di relazioni sociali e interpersonali. - —> ESEMPIO: le popolazioni del Camerun (Africa subsahariana) considerano l'AIDS una malaEa la cui diffusione è dovuta sopraSuSo ai rappor- sessuali. TuSavia, quando si traSa di spiegarne la presenza e la maggior diffusione tra i giovani, si ri-ene che l'AIDS sia la manifestazione di forze sociali mal direSe: per i più anziani, la colpa è dei giovani che non rispeSano la tradizione di avere rappor- solo se autorizza- dai capi; mentre per i giovani l'AIDS è proprio manifestazione delle forze maligne che i capi (stregoni), indirizzano verso i giovani per traSenerli nella comunità. I giovani infaE vorrebbero condurre una vita indipendente, lontano dalle autorità tradizionali talvolta oppressive. Di faSo i giovani, recandosi nelle ciSà, hanno contaE sessuali frequen- con pros-tute. L'AIDS quindi, oltre ad essere una malaEa la cui diffusione è spiegata in termini empirici, è il segno di un male che trae origine dal malfunzionamento dell'ordine sociale, che diventa di faSo, l'elemento esplica-vo principale. Nella prima metà del Novecento, Lucien Lévy-Bruhl espose una teoria secondo cui il «pensiero primi-vo» si sarebbe dis-nto da quello razionale perché privi di logica razionale (aristotelica): - Principio di iden-tà ( A = A) - Principio di non contraddizione ( se A = A allora A # B ) - Principio di causalità Per questo i «primi-vi» non sarebbero in grado di dis-nguere tra sé e il proprio totem (animale simbolo del gruppo) e tra quest'ul-mo e gli animali della stessa specie; così come potevano credere che un gesto o una formula magica avesse degli effeE concre- su oggeE distan- (causalità). Verso la fine della sua vita, lo studioso corresse le proprie affermazioni e sostenne che questo -po di mentalità fosse alla base di gran parte dei ragionamen- di tuE gli uomini. Benché superate già alla metà del secolo, tali teorie furono comunque in grado di suscitare delle problema-che importan-. Negli anni successivi altri studiosi hanno cercato di capire le differenze che caraSerizzano diversi «sistemi di pensiero», il modo di percepire il mondo e di rappresentare la realtà. Robin Horton dis-nse tra sistemi di pensiero «chiusi» e «aperR». Horton ri-ene che uno degli elemen- centrali della differenza tra sistemi di pensiero africani e scienza moderna sia cos-tuita dal faSo che l'indovino o il sacerdote africano non sono consapevoli del faSo che esistono delle alternaRve esplicaRve. Il modo di ragionare deve sempre trovare una conferma di sé stesso. Invece lo scienziato è più pronto ad abbandonare ipotesi o teorie con maggior facilità. Questo potrebbe portarci a pensare che i sistemi di pensiero tradizionali siano necessariamente pensieri «chiusi» e che invece pensieri moderni con conceE scien-fici siano sistemi di pensiero «aper-». SopraSuSo nelle società a oralità diffusa, iI ruolo delle parole è molto importante, come se «dire» fosse **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 «fare». Per questo a volte la corrispondenza di parole e cose chiude i pensieri in un ragionamento privo di alterna-ve. Questa dis-nzione tuSavia tra apertura e chiusura alle possibili alterna-ve esplica-ve si è rivelata eccessivamente rigida. InfaE anche i sistemi tradizionali offrono alterna-ve possibili di spiegazione alla realtà, e viceversa (resistenza del sistema tolemaico su quello galileiano). Dunque la dis-nzione tra sistemi chiusi e aper- va intensa in senso rela-vo e non assoluto. Dei ragionamen- basa- su pura logica binaria, fondata sull’opposizione tra vero o falso, possiamo aspeSarceli solo da un computer. La nostra aEvità mentale non può essere priva di contraddizioni, ma è piena di sfumature. È questa la logica fuzzy («sfumata»), dis-nta dalla logica formale della tradizione filosofica occidentale. Ciò che ha permesso lo sviluppo di un pensiero più sistema-co, e più aperto a cogliere alterna-ve, è stata l’introduzione della scriSura. Con questa infaE è più facile conoscere e confrontare affermazioni, concezioni e teorie diverse, mentre, in un sistema laddove la produzione e la trasmissione dipendono esclusivamente dalla comunicazione orale, un pensiero «cri-co» è più bloccato. —> La stregoneria degli Azande Un esempio di sistema di pensiero «chiuso» può essere rappresentato da quello Azande rela-vo alla stregoneria. Abitano tra il Sudan e il Congo, studia- dall’antropologo inglese Evans-Pritchard. In Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Evans Pritchard mostrò come qualunque -po di disgrazia fosse aSribuita a un aSo di magia o stregoneria. Chiunque pa-sce una disgrazia o una sfortuna, consulta un oracolo per conoscere l’origine del male e eventualmente prendere le contromisure. Tale «sistema» risulta essere un intreccio di nozioni e conceE interconnessi in cui ogni nozione e ogni conceSo dipende dagli altri. Di fronte a eventuali fallimen- nell’interrogazione degli oracoli o nell’aSuazione di pra-che magiche, gli Azande fanno ricorso a spiegazioni secondarie, le quali non consentono di «uscire» dalla verità e dalla coerenza del sistema. TuSo ciò rende il pensiero Azande prigioniero di se stesso. Contrariamente a quanto avviene nel caso dei sistemi «chiusi», nei sistemi di pensiero «aper-» lo scollamento tra parole e cose renderebbero invece il pensiero più «dinamico», più disposto ad aprirsi a possibili alterna-ve riguardo alla spiegazione degli even-. - PENSIERO METAFORICO E PENSIERO MAGICO Mol- popoli studia- dagli antropologi hanno cosmologie e sistemi di pensiero diversi da i nostri. È un aspeSo delle società che incuriosisce molto, cercare di comprendere e capire quelle «credenze apparentemente irrazionali». Apparentemente perché son state man mano ricondoSe a forme di pensiero dotate di coerenza, con una propria funzione e sociale e un’efficacia simbolica. Non è raro, sen-r parlare certe popolazioni per metafore: il fegato è «amaro», il cuore «è pesante per la rabbia», «gli spiri- stanno sugli alberi», ecc. Queste affermazioni però il più delle volte vengono prese alla leSera, senza pensare che siano delle semplici metafore, come le nostre. Anche nel nostro linguaggio comune, usiamo dire ad esempio che il Sole «s’alza» o «cala», anche se scien-ficamente sappiamo benissimo che è la Terra a girare intorno al Sole. Molto spesso quindi il pensiero degli altri popoli è stato interpretato alla leSera, come se ciò che gli altri popoli affermano corrispondesse davvero a una concezione defini-va della realtà. Nel 1894 l’etnografo tedesco Karl von del Steinen pubblicò uno studio sui Bororo del Mato Grosso (Brasile). Essi affermavano: «noi uomini bororo siamo arara rossi» (l’arara è una varietà di pappagallo amazzonico). Ques- ul-mi sembrerebbero sta-, secondo Lévy-Bruhl, incapaci di dis-nguere tra immagine e modello, tra uomo e animale e tra quest’ul-mo e il proprio animale **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 mi-co (un pappagallo). Essi compivano un’assimilazione conceSuale per cui il pappagallo mi-co aveva i suoi discenden- sia nei pappagalli della foresta sia in loro uomini, per essi erano, per il loro ragionamento, associa- necessariamente anche agli arara rossi. I Bororo erano già no- a quell’epoca per i ri- durante i quali invitano lo «spirito» (aroe) a discendere su di loro. Tipico di qualunque cerimonia pra-cata dai Bororo (anche cris-ana) è la ves-zione di penne iridescen- dei pappagalli arara. Nella vita quo-diana però i Bororo erano ben lontani dal comportarsi come dei pappagalli. La loro affermazione «noi siamo pappagalli» non va assunta in generale, ma bisogna capire per quale punto di vista loro fanno questa assimilazione. Anche noi nel nostro parlare quo-diano facciamo con-nuamente uso di metafore. Quando sen-amo i nostri amici dire che una certa persona «è una volpe», non ci viene in mente che sia proprio l’animale, ma piuSosto che sia dotata d’astuzia. La domanda legiEma dunque è: “Perché solo noi dovremmo essere in grado di parlare per metafore, e non gli altri, come ad esempio i Bororo?”. Le espressioni metaforiche non sono esclusive del nostro modo di pensare. Solo con una approfondita analisi dei contes- in cui arara e uomini vengono pos- sullo stesso rapporto, si è capita l’assimilazione metaforica. Per capirlo, bisogna prendere in considerazione tre faSori: - I Bororo dichiarano ad esempio che l’iridescenze delle piume degli arara è una manifestazione dello spirito, l’aroe. Per questo quando si vestono delle piume, è comprensibile che si sentano assimila- ai pappagalli; - La società bororo si caraSerizza per un sistema di discendenza matrilineare e un modello di residenza uxorilocale (il marito si sposta a seconda di dove sta la mogli e deve mantenerne madre e figlie). Nonostante è qui che egli risieda tuSa la sua vita, non si sente mai «a casa propria»; - Per i Bororo gli unici animali da compagnia sono i pappagalli, in quanto sono i soli ad essere cura-, nutri- e chiama- per nome; I pappagalli sono però solo ed esclusivamente posseduR dalle donne, li assimilano addiriSura a dei bambini. I pappagalli occupano così la posizione di animali «simbolo»: Dello «spirito» aroe in quanto iridescen-; Della simbiosi uomoanimale per il faSo di essere custodi- amorevolmente dalle donne; Della «strana condizione» in cui vengono a trovarsi gli uomini; Gli uomini bororo infaE svolgono un ruolo preminente sul piano poli-co e rituale da una parte, ma vivono in uno stato di apparente dipendenza dalle loro mogli dall’altra. La frase «noi uomini bororo siamo degli arara» diviene così un modo per esprimere «l’ironia della condizione maschile». - LA MAGIA E LE SUE INTERPRETAZIONI MAGIA: insieme di ges-, aE e formule verbali (anche scriSe) mediante cui si vuole influire sul corso degli even- e sulla natura delle cose. È un’azione compiuta da un soggeSo (il mago o lo stregone) nell’intento di esercitare un’influenza posi-va/nega-va (magia nera/bianca) su qualcuno o qualcosa. I primi antropologi interpretarono la magia in due modi: - Come una clamorosa mancanza di coerenza logica; - Tenta-vo di manipolare la natura, seppur in maniera sbagliata; —> James G.Frazer, che riguardo ques- temi scrisse nel 1890 Il ramo d’oro, riteneva che esistessero due -pi fondamentali di magia: - MAGIA IMITATIVA: imitando la natura la si può influenzare (vestendosi della pelle di un animale e imitandone i movimen-, si poteva influenzarne il comportamento); - MAGIA CONTAGIOSA: due cose, per il faSo di essere state a contaSo, conserverebbero, anche una volta allontanate, il potere di agire una sull’altra (magie che u-lizzano ciocche di capelli, unghie, ecc.); **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 Entrambe le magie si basano su una «legge di simpaRa universale», in base alle quale tra le cose del mondo esiste un segreto legame. Si divide nella legge di similarità (secondo cui tra due cose simili vi è un legame) e legge di contaFo (due cose che sono state in contaSo avranno un’influenza l’una sull’altra anche da separate**. In una prospeEva intelleSualista e posi-vista, Frazer riteneva ad esempio che magia, religione e scienza fossero tra loro legate dall’eterno tenta-vo dell’uomo di spiegare l’origine dei fenomeni e le relazioni tra di essi. InfaE il caraSere fondamentale del genere umano è quello di riuscire a trovare la coerenza. TuSavia, condivideva i presuppos- teorici dell’evoluzionismo, per questo pensò una concezione unitaria dello sviluppo del pensiero. Egli interpretò magia e religione come sistemi prescienRfici di conoscenza**, provvis- di una loro coerenza interna. Magia: prima esperienza dell’uomo nel tenta-vo di spiegare la realtà; Religione: dopo essersi accorto che la magia era fallimentare, l’uomo si sarebbe rivolto a un essere superiore; Scienza: ragionamento basato sulla logica razionale, l’unico in grado di spiegare esaSamente la realtà; —> Prospettiva intellettualista Per prospeEva intelleSualista si intende un modo di considerare i fenomeni che riguardano il pensiero umano e l’uso dei simboli, che si rifà al punto di vista dell’osservatore «scien-fico». Cerca di spiegare tali fenomeni su basi razionali. Laddove non c’è coerenza logica, c’è errore. —> Bronislaw Malinowski, nel corso degli anni Trenta, elaborò un’altra teoria riguardante la magia. Egli dis-ngueva neSamente la magia, dalla religione e dalla scienza. La religione non è chiamata a spiegare l’origine dei fenomeni, ma a fornire certezze di fronte ai grandi misteri della vita (il bene e il male, la morte, la vita, …). La magia ha finalità eminentemente pra-che, on ha relazioni nemmeno con la scienza, la quale esiste tra i primi-vi anche solo in forma elementare. Malinowski aveva una concezione strumentale e opera-va della cultura, la quale era u-le per adaSarsi al meglio in un ambiente pericoloso/rischioso: per questo vedeva la magia come un mezzo per rispondere a situazioni generatrici di ansia. Compiendo una serie di aE par-colare in relazione alla situazione da affrontare, mediante magia, si cercava di prefigurare il buon esito dell’impresa. La magia per Malinowski è cos-tuita da una serie di «a_ sosRtuRvi» (sferrare un pugno in aria). L’uomo tramite la magia cerca rassicurazioni di fronte all’imprevedibilità degli even-. —> Ernesto de MarAno è stato uno dei più grandi antropologi italiani e un pioniere della ricerca etnologica sul campo. Si dedicò allo studio di alcune manifestazioni della cultura popolare dell’Italia meridionale, come magia, feste religiose. Secondo De Mar-no l’universo magico può essere compreso solo in relazione all’angoscia, -picamente umana, della «perdita della presenza». L’angoscia non è l’ansia di fronte all’incontrollabile di cui parla Malinowski. La «presenza», a cui fa riferimento, è un termine di origine filosofica e indica «l’energia operaRva» umana**, ovvero la sicurezza di sé -pica di una personalità integra, che sente di poter agire nella storia. Nel mondo contadino dell’Italia meridionale, soggeSo da secoli a dominazioni, la «presenza» è in crisi; il sé è indebolito e la persona si sente impotente e minacciata. La magia fornirebbe quindi una funzione prote_va e di consolidamento della «presenza». È una forma di rassicurazione sociale. Questa esigenza di riaffermare la «presenza» era par-colarmente presente nel Mezzogiorno, una società arretrata, priva di prospeEve che rispondeva dunque alla crisi colleEva con ges- scaraman-ci. La **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 conquista della presenza non è mai defini-va, servirebbe solo con un auten-co progresso sociale e culturale. In molte circostanze diventa difficile dis-nguere gli aE magici da aE di altro -po. InfaE in mol- ri- religiosi si trovano ad esempio inseri- ges- e formule che hanno lo scopo dichiarato di influenzare gli spiri- o le divinità inducendoli a comportarsi nel modo desiderato dagli uomini. Questa è una caraSeris-ca anche delle religioni monoteiste (cris-anesimo o l’Islam). In altre regioni del pianeta nel corso di cure sui mala-, il curante può pronunciare delle formule magiche che non hanno a che vedere con l’efficacia terapeu-ca, ma piuSosto favoriscono psicologicamente l’ammalato dandogli fiducia in una rapida guarigione. —> Magie contemporanee. I buoni auspici della magie Il pensiero magico è una costante della storia umana. Anche se oggi nelle nostre società è stato confinato solo in alcune aree dei nostri comportamen-, ogni giorno potremmo ritrovarci a compiere degli aE che ne ricordano i retaggi. Ad esempio complendo ges- considera- benauguran- o ritenere che tali ges- ci proteggano dalla sfortuna. Li compiamo e basta, indipendentemente dal grado sociale o il livello di istruzione: come quando evi-amo di incrociare le streSe di mano o ci affezioniamo a un oggeSo che ci porta fortuna. La magia, che un tempo confluiva in ricerche di -po empirico è stata espulsa dalla scienza che procede mediante osservazione, esperimento e induzione. La magia, invece, da per scontate certe relazioni. La magia è dunque qualcosa che assume forme diverse, secondo le epoche. Nel nostro tempo, più la vita diventa incerta nelle relazioni economiche, sociali, affeEve, lavora-ve, più si fa ricorso alla magia. I «maghi» tengono oggi rubriche nelle radio, televisioni e riviste. TuSavia, se è vero che non siamo tuE bendispos- verso il pensiero magico, il senso di incertezza che si insinua periodicamente anche nella persona più «sicura di sé» può spingere quest’ul-ma a cercare una forma di rassicurazione in un gesto o in un oggeSo «magico». - IL PENSIERO MITICO Come tuSe le cosmologie, anche quella dogon, studiata da Marcel Griaule, conteneva mi- della creazione, cioè i «raccon-» (mito deriva dal greco mythos che vuol dire «racconto») rela-vi all’origine del mondo fisico, della società, dei ri-, ecc. Il tema del mito ha affascinato a lungo tan- antropologi. Essi si sono adopera- per spiegare l’origine dei miR, la loro coerenza e la loro connessione con i ri-. La celebrazione di un rito è spesso collegata al racconto di un faSo accaduto in un tempo indeterminato e che è ritenuto responsabile dello stato aSuale delle cose e della condizione degli esseri umani. I mi- fanno spesso riferimento a even- che avrebbero dato origine al mondo e all’aspeSo che quest’ul-mo possiede aSualmente. Può traSarsi di cosmogonie (teorie sull’origine dell’universo) o teogonie (storie di loSa tra divinità o spiri-); oppure ancora vicende avvenute in un tempo lontano e indefinito che spiegherebbero certe relazioni sociali tra gli uomini. Alcuni studiosi hanno ritenuto che i mi- fossero un modo «inesaFo» di ricostruzione o di gius-ficazione storica di even- realmente accadu-. In realtà anche nelle società in cui i mi- sono importan- esistono a volte forme di narrazione storica riconosciute come indipenden- e autonome dal racconto mi-co come tale. **Le seguenti informazioni sono state aggiunte. NON sono presenti sul manuale. Document shared on https://www.docsity.com/it/elementi-di-antropologia-culturale-ugo-fabietti-2015/9436951/ Elemen& di Antropologia Culturale, Ugo Fabie7 edizione 2015 Cecilia Ga7 Le caraFerisRche del mito: Il mito non ha ne spazio ne tempo precisi. Le azioni dei protagonis- non tengono conto infaE dell’anteriorità o della successione temporale, e fenomeni che nella realtà richiedono giorni, mesi o anche anni per compiersi nel mito impiegano solo poco tempo. I personaggi del mito agiscono o abitano in luoghi impossibili da frequentare per la maggior parte o per la totalità degli esseri viven-: cielo, nuvole, stelle, ecc. Nel mito gli uomini parlano ai pesci, alberi, astri, ecc. Il mito disegna insomma situazioni caraSerizzate da una profonda unità tra gli esseri. Il mito produce un’antropomorfizzazione della natura. ASribuisce ad animali, piante e cose caraSeris-che fondamentalmente umane come il linguaggio, i sen-men-, le emozioni, ecc. Anche gli esseri umani vengono presenta- a volte con caraSeris-che -piche degli animali. Questa comunanza animali, spiri-, uomini e natura è rappresenta-va di un originario equilibrio, dalla cui scissione sarebbe poi nato il mondo. La creazione del mondo viene quasi sempre rappresentata come la separazione di elemen- cos-tu-vi dell’unità originaria. Ad esempio nella Bibbia: cielo e terra, tenebre e luce, acqua e terra, uomo e donna, ecc. In tuSe le par- del pianeta le aree del pianeta, ma specialmente presso le culture dei na-vi nordamericani, in Europa, e in Africa subsahariana, questa roSura dell’equilibrio originario è spesso raffigurata come il fruSo dell’azione di un personaggio, un essere mezzo uomo mezzo animale, oppure un semidio, un eroe, ecc. Nella leSeratura antropologica questo personaggio prende il nome di trickster (imbroglione): è un personaggio par-colare e si presenta spesso soSo forma di animale dai traE umani. È furbo, bugiardo e agisce come uno spensierato irresponsabile; crea, inventa, genera, trasforma o meglio «plasma» la realtà così come gli uomini la conoscono. —> Mito e inversione rituale: i koyemshis degli Zuñi Presso alcuni gruppi di na-vi nordamericani, come la comunità degli Zuñi del sud-ovest degli Sta- Uni- (New Mexico, Arizona), esistevano degli individui che svolgevano la funzione di «buffoni rituali» —> nella lingua locale koyemshis. Camminando all’indietro, pronunciando le frasi e le parole al contrario, ques- buffoni sembrano voler evocare il comportamento del trickster che ha plasmato il mondo violando

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