Riassunto Geografia del Commercio Internazionale PDF
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Università degli Studi di Verona
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Questo documento riassume i concetti chiave della geografia del commercio internazionale, partendo da nozioni di spazio, tempo, e globalizzazione, per poi approfondire il ruolo delle multinazionali, degli investimenti diretti esteri e delle bilance commerciali. Il testo evidenzia come la geografia e la globalizzazione influenzano le relazioni economiche tra i diversi paesi.
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GEOGRAFIA DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE Spazio → distanza La geografia studia i rapporti tra i vari fenomeni economico/culturali e lo spazio: vengono spazializzati i fenomeni. In base a quello che si va ad analizzare, ci sono diversi ambiti della geografia (geografia economica, geografia della popol...
GEOGRAFIA DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE Spazio → distanza La geografia studia i rapporti tra i vari fenomeni economico/culturali e lo spazio: vengono spazializzati i fenomeni. In base a quello che si va ad analizzare, ci sono diversi ambiti della geografia (geografia economica, geografia della popolazione, geografia culturale). Nel corso del tempo l’oggetto di studio non è cambiato, ma è cambiato il modo in cui viene interpretato lo spazio. - Geografia tradizionale: localizzazione degli oggetti fisici → localizzare gli oggetti geografici utilizzando longitudine e latitudine) L’idea che lo spazio fosse assoluto è diventata obsoleta, infatti non c’è nulla di intrinsecamente assoluto. Nel momento in cui si considerano altri fattori oltre la distanza, come il tempo si va a considerare la distanza funzionale e la sua riduzione nel tempo → convergenza spazio-temporale. La geografia economica studia le relazioni fra gli oggetti (spazio relazionale). Se da queste isoliamo solo le relazioni economiche otteniamo lo spazio geoeconomico. Relazioni distinte in: - Relazioni orizzontali (relazioni spaziali) - Relazioni verticali Spazio e territorio Si parla di territorio quando si considera l’insieme delle relazioni verticali e le relazioni orizzontali e tutti gli oggetti geografici che queste connettono (più complesso del semplice spazio). Viene studiata anche l’organizzazione territoriale → i modi e le forme che le relazioni orizzontali assumono in un determinato luogo/momento e anche la loro evoluzione nel tempo. Ambiente L’ambiente che studia la geografia è quello fisico (risorse fisico naturali). Se rapportato al concetto di territorio possiamo dire che l’ambiente è una parte del territorio. - La vecchia geografia, quella determinista, studiava il rapporto tra ambiente e territorio in modo unidirezionale - Oggi invece viene considerato in modo bidirezionale, perché anche le attività umane condizionano l’ambiente Scala geografica Due tipi: - Scala cartografica - Scala geografica La scelta della scala da utilizzare dipende dal fenomeno preso in analisi. La geografia è anche trans-scalare → uno stesso fenomeno può essere analizzato su scale diverse. La geografia del commercio internazionale ha scala globale, ma se io volessi studiare come le aziende di una data regione si vanno a collocare nell’ambito del commercio internazionale ecco che allora dovrò scendere di scala. Si potrebbe prendere in analisi anche la filiera produttiva, incappando però quasi immediatamente nel fenomeno della delocalizzazione produttiva → imprese spostano parti della produzione in paesi esteri per motivi di convenienza. Tempo In realtà spazio e tempo sono le coordinate della geografia → la stessa globalizzazione è il risultato di un processo storico. LA GLOBALIZZAZIONE Luoghi comuni in merito alla globalizzazione: - Effetto di “annullamento” dello spazio e del tempo - Diffusione globale di prodotti e servizi → emblema delle multinazionali - Omogeneizzazione dei modi di produzione, dei consumi, dei gusti e delle culture → “McDonaldizzazione”, “Disneyificazione” - I non-luoghi → i grandi centri della globalizzazione sono un po’ tutti uguali, non hanno una particolare identità. Sono attraversati da grandi flussi di persone che però non si incontrano per davvero Può essere vista come un cambiamento di scala geografica di molti fenomeni, che fa si che oggetti geografici vadano a distribuirsi nello spazio, creando relazioni orizzontali. Si tratta dell’esito di un percorso storico. Gli esperti parlano di globalizzazioni: - Prima globalizzazione (metà Ottocento alla 1GM) - Seconda globalizzazione (2GM agli anni ’80) - Terza globalizzazione (’80 fino ad oggi) Con la caduta del Muro di Berlino si sono aperti sia uno spazio di mercato che uno spazio di produzione (tante forze manifatturiere si sono spostate nell’Europa dell’Est). Lo stesso discorso vale per la Cina, che con la politica della “porta aperta” si apre agli investimenti stranieri e al commercio estero. Attori del sistema economico globale La globalizzazione viene orientata da diversi attori, soggetti forti che la influenzano: 1. Multinazionali → le prime nascono alla fine dell’800, hanno assunto un potere enorme e creano reti di produzione di scala globale; 2. Organizzazioni economiche internazionali → WTO, IMF, Banca mondale; 3. Agenzie di rating finanziario. Diverse dimensioni della globalizzazione Essa non interessa solamente l’economia, ma anche la scienza → la ricerca scientifica non è più di un solo Paese, ma spesso viene portata avanti in reti di cooperazione tra università e centri di ricerca spalmati attorno al mondo. Anche la questione ambientale ha cambiato scala, come hanno cambiato scala le politiche ambientali. RAPPORTO FRA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA E COMMERCIO INTERNAZIONALE Tre indicatori che esprimono le dimensioni fondamentali della globalizzazione economica: 1. Forte crescita degli scambi commerciali 2. Forte crescita degli investimenti diretti esteri → IDE 3. Forte crescita dei flussi finanziari Grazie a questi tre indicatori è dimostrabile che siamo in presenza di un fenomeno di globalizzazione dell’economia → vediamo anche come questo fenomeno cambia nel tempo. Investimenti diretti esteri Sono flussi di investimenti messi in atto da soggetti (→ investitori) in Paesi diversi rispetto a quelli in cui ha sede l’attività, al fine di acquisire partecipazioni durevoli (almeno il 10% delle azioni ordinarie o il 10% del potere di voto) in un’impresa estera (→ brownfield investment) o alla costituzione di una filiale all’estero (→ greenfield investment). Sono analizzabili, grazie ai dati dell’UNCTAD, in diverso modo: - In base alla direzione del flusso → entrata / uscita La globalizzazione sia un fenomeno che procede a “diverse velocità” → è molto squilibrato a livello geografico e non fa altro che accentuare quelli che sono i divari economici e sociali su scala globale. Nonostante la delocalizzazione della global value chain le differenziazioni spaziali sono sempre presenti. Alcuni analisti preferiscono utilizzare il termine glocalizzazione, quando la dimensione globale irrompe in quella locale. Flussi finanziari Movimenti di capitale di carattere strettamente finanziario, molto spesso a carattere speculativo → compravendita di titoli, prestiti bancari, acquisto valute. Scambi commerciali Da osservare nel periodo storico non è solamente il cambiamento del tasso di apertura riguardo lo scambio internazionale, ma anche la composizione di quanto viene commerciato. Assumendo come intero la totalità dei prodotti manifatturieri scambiati, circa il 70% è costituito da semilavorati, che nella loro maggior parte vengono interscambiati tra le varie multinazionali. Quote di mercato sulle esportazioni La quota di mercato relativa alle esportazioni riguardante una specifica macroaree è la percentuale relativa alla macroarea cui ci si sta riferendo che viene controllata dai Paesi di quella macroarea. La distinzione relativa alle macroaree è quella che viene elaborata di default dalla WTO. - Osservando questi dati emerge subito all’occhio come il mercato internazionale sia governato per la gran parte dai tre poli della “triade”: EU, America settentrionale e Asia orientale, che di fatto ne controllano più del 70% Emerge anche, però, un’importante perdita di posizione sia dell’EU che dell’America settentrionale. Andando a ridurre di scala, ci si rende conto che quasi metà della quota di mercato dell’Asia Orientale è di fatto controllata dalla Cina (che nel 2022 si attesta al 14,6%). In Europa il principale esportatore rimane ancora la Germania (al 6,7%). Per quanto riguarda l’Italia nello specifico, la prima voce relativa alle esportazioni è quella dei macchinari industriali, seguita dal comparto moda e poi dal comparto dell’agroalimentare. Il commercio interregionale (ovvero la direzione dei flussi di importazioni/esportazioni) avviene principalmente tra i tre poli principali. Bilancia commerciale In riferimento a ciascun Paese vi è un rapporto tra il valore assoluto delle importazioni e delle esportazioni. Esso prende il nome di bilancia commerciale, la quale può essere in attivo o in passivo a seconda del lato verso la quale propende. A sua volta si compone di tre parti: - Bilancia industriale - Bilancia agricola - Bilancia energetica Cina, Germania e Italia hanno una bilancia in attivo; in Italia in attivo è la bilancia industriale, non quella energetica; la Russia ha una bilancia energetica fortemente in attivo; gli USA hanno una bilancia in passivo → importano più di quello che esportano: allo stesso tempo controllano grandi capitali in tutto il mondo → conto capitale. Bilancia dei pagamenti La bilancia commerciale è una delle due voci della bilancia dei pagamenti, la quale registra quelle che sono le transazioni di un Paese con il resto del mondo → registra i flussi finanziari in e out. È composta da due dimensioni: 1. Bilancia commerciale o anche conto delle partite correnti; 2. Conto capitale. La situazione ideale è che la bilancia dei pagamenti sia in equilibrio → una delle due voci può essere anche in passivo, ma deve essere in attivo l’altra. Grado di apertura commerciale di un Paese Questo indicatore è dato dalla somma di importazioni ed esportazioni sul PIL, espresso in %. Misura l’apertura di un Paese agli scambi internazionali tenendo però conto della dimensione assoluta dell’economia nazionale. LE MULTINAZIONALI E LA NUOVA DIVISIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO Non esiste un’unica definizione, nemmeno giuridica, di impresa multinazionale. Esse si distinguono in base a tre caratteristiche principali: - Coordinamento e controllo di varie fasi della catena di produzione → localizzare in diversi Paesi - Capacità di trarre vantaggio dalle differenze geografiche nella distribuzione dei fattori di produzione - Flessibilità → capacità di maturare o intercambiare forniture e operazioni tra le varie località geografiche, su scala globale Stando all’UNCTAD un’impresa è definita multinazionale quando controlla almeno una società all’estero (sempre se supera il treshold del 10% del capitale controllato). In questo modo rientrano in questa definizione un sacco di altre società, che prendono il nome di micro-multinazionali o multinazionali tascabili, che magari non controllano fette di mercato enormi, ma magari hanno solo una filiale all’estero o controllano una società estera. Come per gli IDE, anche per la dislocazione delle sedi centrali ci sono principalmente tre poli di attrazione, che sono quelli della triade + l’Arabia Saudita, dove ha sede la compagnia nazionale di estrazione della Saudi Aramco. L’evoluzione storica Le prime multinazionali nascono già alla fine dell’800, legate al fenomeno del colonialismo → di prima generazione andavano principalmente nelle settler colonies per approvvigionarsi di materie prime e manodopera. Multinazionali di seconda generazione Il processo di multi nazionalizzazione vero è quello del periodo fordista (1950-1973) - Vanno ad investire all’estero → relazioni orizzontali, mettono in piedi delle strutture che replicano quelle della casa madre con l’obiettivo di entrare in nuovi mercati; - A livello delle relazioni verticali dà anche una forte spinta ai processi di urbanizzazione, conseguenza diretta della crescita delle imprese industriali → portano alla crescita delle città, industrializzazione e urbanizzazione sono due fenomeni che vanno insieme, portando alla creazioni di importanti regioni urbano industriali Crescita industriale vede una battuta d’arresto a metà degli anni ‘70, più di preciso nel 1973, anno della prima grande crisi petrolifera, quando dai paesi dell’OPEC era stato imposto un embargo commerciale che vietasse le importazioni di greggio negli USA → questo è un periodo di transizione post-fordista in cui cambiano i modi di produrre e l’organizzazione della grande impresa → si creano i presupposti che poi, nel lungo termine, porteranno alla globalizzazione Multinazionali di terza generazione Si parla di multinazionali di terza generazione quando: anche le imprese dei servizi (banche, assicurazioni, commerciali, GDO) iniziano ad internazionalizzarsi; vengono effettuati anche degli IDE guidati da fattori di costo, che portano alla creazione di relazioni verticali, con l’obiettivo di ridurre i costi di produzione. Dal fordismo al post-fordismo Questo passaggio è stato dettato da: - Aumento dei costi di produzione → materie prime e lavoro (legato anche alla crisi energetica) - Saturazione del mercato dei beni standardizzati, prodotti in grandi dimensioni a causa del modello fordista (cambiamento della domanda che si orienta di più verso beni non standardizzati) - Innovazioni nel campo dell’elettronica e dell’informatica che modificano l’organizzazione - Aumento della concorrenza di paesi con costi di produzione più bassi A livello geografico, invece: - Si assiste ad un processo di deindustrializzazione e declino urbano nei paesi economicamente avanzati. La crisi della grande impresa, che normalmente garantisce occupazione per le città, traina con sé il declino urbano → nel momento in cui la produzione viene delocalizzata viene meno la fonte della manodopera. Per la prima volta le città statunitensi (in primis) perdono popolazione → fenomeno della controurbanizzazione (introduzione dei primi tipi di metodi di produzione automatizzati) - Processo di terziarizzazione delle economie urbane ma anche internazionali - Forte sviluppo dei sistemi produttivi locali di piccola e media dimensione → esempio dei distretti industriali italiani Multinazionali di quarta generazione Alcuni al termine multinazionale alcuni esperti preferiscono utilizzare i termini multinazionale globale o impresa transnazionale. - Ha una struttura organizzativa flessibile; lascia anche dei gradi di autonomia notevoli ai vari rami della sua attività - Molteplici modalità di internazionalizzazione: o Non solo IDE (fusioni e acquisizioni, filiali estere) o Joint ventures o Subfornitura internazionale Effetti spaziali dell’economia globalizzata e delle GVC Per quanto riguarda le aree di partenza: - Crisi occupazionali → la richiesta della manodopera cambia o scompare; - Deindustrializzazione - Perdita di know hop Per quanto riguarda le aree di destinazione: - Impatto economico diretto → sui piani del reddito, dell’aumento dell’occupazione e del circolo di valuta estera - Impatto economico indiretto → trasferimenti di conoscenze (tecniche, manageriali, organizzative,) e di upgrading industriale (modernizzazione o creazione exnovo). Se nelle economie in via di sviluppo sono state messe in piedi delle politiche che attraessero gli IDE, anni fa a livello locale nei paesi economicamente già sviluppati sono state messe in piedi delle politiche che favorissero la delocalizzazione. Vanno considerati però più punti di vista: dal punto di vista dell’impresa molto spesso si tratta di una scelta vincente che ne ha garantito la competitività; dal punto di vista territoriale si sono manifestate delle grosse perdite dal punto di vista occupazionale in quanto la conversione della manodopera non è automatica. Reti transnazionali di produzione A livello di descrizione del fenomeno, è uguale dire global commodity chain e global value chain, si parla della stessa cosa, ma con la seconda terminologia si pone l’accento sull’aumento del valore → ci permette di porre l’accento anche sull’aspetto geografico della faccenda. - Il concetto di GVC risale alle teorie di Porter nel 1985, il quale lo riferiva all’impresa (la sua unità d’analisi), mentre nella definizione del Geretti la definizione si frammenta e si distribuisce su scala globale. Le fasi su cui vale la pena concentrarsi sono quelle intangibili con più alto valore aggiunto, che sono quelle iniziali e quelle finali. Il principio di base è quello del passaggio all’analisi di ciò che avviene all’interno di ogni impresa, settore o territorio all’analisi della rete che lega imprese, settori produttivi e territori. Non tutta la produzione sfrutta questo impianto, si parla principalmente di quei settori in cui è più facile frammentare la produzione (automotive, moda, elettronica). Le GVC rappresentano una quota rilevante del commercio internazionale, del PIL e dell’occupazione → sono coordinate principalmente dalle grandi imprese multinazionali Esistono diverse tipologie di GVC, che dipendono dalle imprese che ne fanno parte e dal settore produttivo specifico: 1. Catene del valore guidate dal produttore 2. Catene del valore guidate dal consumatore 3. Catene del valore modulari Le economie asiatiche Questo nuovo modo di produrre ha portato allo sviluppo di nuovi paesi, in particolare nuovi spazi di produzione, quelli delle economie asiatiche, che hanno saputo trarre i veri vantaggi della globalizzazione; in particolare si parla di Asia orientale. In Asia sono state importanti anche le politiche industriali, tutto quel sistema di incentivi messo in campo dai governi per attrarre gli investimenti stranieri. In particolare si fa riferimento alle cosiddette Quattro tigri: Cina, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Nel sud-est asiatico invece abbiamo Paesi come la Malesia, le Filippine, la Thailandia → si sono sviluppati in un secondo momento e con una crescita meno esplosiva rispetto agli altri. - I maggiori fattori di sviluppo dei Paesi dell’Asia Orientale abbiamo sicuramente la forza lavoro a basso costo e poco protetta socialmente, ma allo stesso tempo il tutto è stato voluto dai governi sviluppisti che fortemente hanno voluto e orientato il processo di crescita → Zone economiche speciali e imponenti operazioni di scolarizzazione della popolazione locale. Vengono predisposte le condizioni per il loro sviluppo, ancora prima dell’inizio del vero sviluppo della globalizzazione, accogliendo ancora negli anni ‘60 le prime multinazionali che puntavano alla delocalizzazione delle fasi di produzione più standardizzate e che non richiedevano particolari specializzazioni, con produzioni orientate all’esportazione visto che la domanda in loco non esisteva. Con il passare del tempo è stato portato a termine il processo di upgrading industriale, che ha visto un passaggio dalla produzione principalmente tessile a quella del settore dell’elettronica, che ha un maggior valore aggiunto. - Processi produttivi più standardizzati si sono spostati nuovamente verso le economie ancora sottosviluppate all’epoca, rimanendo sempre nel contesto del sud-est asiatico La situazione in Cina La modernizzazione della Cina parte a partire dal 1976, anno della morte di Mao, ma in particolar modo nell’epoca di Deng, successore di Mao → Politica della porta aperta del 1979 con la quale la Cina si apre agli investimenti stranieri e al commercio internazionale. - Anche qui entrano in campo le ZES I fattori di sviluppo di partenza della Cina sono: - Forte differenza salariale rispetto ai Paesi avanzati - Basso costo delle materie prime - Normative elastiche (o assenti) in tema di tutela ambientale - Ampia manodopera e buon livello di scolarizzazione - Mercato potenziale enorme → fin da subito è stata percepita come una realtà su cui puntare anche una volta raggiunto lo stato di economia ad industrializzazione avanzata. La politica industriale della Cina può essere definita come dinamica: nonostante inizialmente anche loro abbiano puntato sui settori del tessile, in seguito si è concentrata principalmente sui settori dei trasporti, dell’energia e dell’alta tecnologia. In secondo luogo la politica degli investimenti esteri ha cambiato rotta → da una politica di bringing in ad una di going out, sono le imprese cinesi che investono all’estero. Belt and Road Initiative È un grande progetto infrastrutturale lanciato nel 2013 con cui la Cina vuole ampliare la sua presenza nel contesto internazionale e soprattutto europeo. È un progetto molto contestato perché la Cina mira ad ampliare non solo la sua egemonia economica ma anche geo-politica. È una grande operazione di carattere commerciale, con la quale la Cina cerca di intensificare i suoi rapporti commerciali con i Paesi stranieri → in particolare con l’Europa. Enormi distanze che intercorrono tra i due terminali (Cina ed Europa): 1. Percorso marittimo attraversa il mar cinese meridionale, costeggia l’India e poi tramite il canale di Suez il tutto arriva nel Mediterraneo 2. Percorso marittimo passa a nord della Russia, o attraverso il cosiddetto passaggio a nord-ovest o attraverso il Mare del Nord 3. Percorso via terra su vie ferroviarie, che è più rapido ma più costoso perché le infrastrutture e le economie di scala non sono ancora tali per cui economicamente abbia senso Le Maquilladoras messicane La realtà delle Maquiladoras è strettamente collegata al rapporto interstatale tra Messico e USA. Si è vista una forte espansione di questo tipo di realtà nel periodo 1994-2000 grazie al NAFTA, che ha dato ulteriore impulso di diffusione a questo tipo di impianti. Dal punto di vista storico questo progetto è stato pensato per rimediare al problema della disoccupazione a seguito della caduta dell’accordo del libero attraversamento del confine degli operai agricoli stagionali, in vigore fino agli anni ‘60 → è un altro modello di industrializzazione, diverso da quello dei paesi asiatici, che non ha dato vita a percorsi di sviluppo economico autonomi come quelli cinesi. I DISTRETTI PRODUTTIVI ITALINANI Nell’epoca postfordista vediamo formarsi dei sistemi locali che mantengono un certo dinamismo e una certa produttività nel periodo di crisi della grande impresa → ci sono piccole imprese che sono ugualmente dinamiche, dipendente dal fatto che queste non vanno ad operare singolarmente, ma operano all’interno di sistemi produttivi spazializzati. Il fenomeno del distretto industriale è stato studiato un po’ in tutto il mondo, anche a livello politico, non solo economico-scientifico → ci si interrogava se questo modello di sviluppo economico fosse replicabile anche all’estero. - Si parla prevalentemente di imprese di piccola dimensione, specializzate in un settore/filiera produttiva e che si dividono il lavoro tra di loro → l’ultimo è l’elemento cruciale per l’esistenza/definizione del distretto, le varie imprese vanno a collocarsi nelle diverse fasi del ciclo produttivo. Il Beccatini è andato ad analizzare la sua realtà, quella della Toscana, andando ad analizzare delle zone dove c’è questa alta concentrazione di imprese che sono specializzate nella produzione di un dato bene e che si suddividono le fasi del lavoro. Va quindi a riprendere una definizione che già era stata data da Marshall sul finire dell’800, il quale definiva come distretto industriale quelle concentrazioni di imprese che sopravvivevano alla “conversione” a grandi fabbriche e tra le quali c’era, al tempo stesso, un rapporto di collaborazione/convivenza ma anche di concorrenza. riprende anche il concetto di economie di agglomerazione, declinato in economie di urbanizzazione e di economie di localizzazione. Dal punto di vista della divisione del lavoro ritroveremo: - Imprese rivolte al mercato finale → producono il prodotto finito, il bene caratterizzante - Imprese monofase → si collocano in una fase del ciclo produttivo del prodotto - Imprese sussidiarie o complementari → appartengono alla filiera del distretto, ma non al settore di specializzazione Principali specializzazioni distrettuali sono sempre le stesse che sostengono il Made in Italy e le esportazioni: 1. moda → abbigliamento, calzature, occhialeria 2. sistema casa → mobili, oggettistica, arredamento, piastrelle (Sassuolo) 3. metalmeccanica → macchinari industriali, strumenti 4. agroalimentare A queste possiamo anche aggiungere anche di turismo e di cultura, estendendo il concetto e parlando anche di impresa del turismo o della cultura, aree in cui si concentrano imprese che forniscono servizi complementari alle attività turistiche/culturali che portano avanti un progetto di sviluppo comune (comunemente anche all’attore pubblico) → i.e. collaborazioni tra musei per biglietti con costi avvantaggiati.. L’origine e l’evoluzione dei distretti industriali Un modello di ciclo di vita dei distretti industriali (elaborati verso la fine degli anni ‘90/inizio ‘00) vede la seguente evoluzione: 1. Nascita del distretto → la configurazione distrettuale con un’effettiva suddivisione del lavoro inizia a comparire negli anni ‘50/’60 del secolo scorso. Le origini sono duplici: - nati per evoluzione di un precedente tessuto artigianale (la più comune) - distretti che sono nati per processi di decentramento produttivo da parte di imprese di grandi dimensioni 2. Fase dell’area sistema integrata → coincide con la crisi del modello fordista, vera fase di sviluppo dei distretti. Questo modo di suddivisione del lavoro si fa più complesso, con un sistema di pluricommittenza oppure con più reti di committenza. Vede la crescita di tutte le componenti economiche: - cresce la dimensione economica - cresce il numero di addetti - cresce il numero stesso delle imprese - si avvia il processo di esportazione 3. Maturità → rallenta la crescita (se non un’inversione di tendenza) durante la fase di globalizzazione, che fanno svanire o riducono i vantaggi portati dall’esistenza del distretto stesso. Allo stesso tempo ciò dipende anche da un mancato adeguamento alla domanda dei consumatori, che è in perenne cambiamento. Le strategie messe in atto (che non si escludono a vicenda o addirittura vengono messe in atto tutte dei distretti più avanzati) per contrastare gli effetti negativi di questa fase di cambiamento sono: - Delocalizzazione produttiva e riposizionamento nella nuova divisione globale del lavoro → GVC; → Le imprese più strutturate si spingono fino alla Cina e all’Asia, dislocandovi tutti quei processi che vengono considerate come labour-intensive; → Quelli che ne hanno approfittato di più sono quelli del sistema moda e del sistema casa, delocalizzando prevalentemente nell’est Europa, in particolare a seguito della caduta del Muro di Berlino; → Viene meno quel rapporto peculiare che nel periodo precedente legava la fabbrica al suo territorio → anche le PMI entrano a far parte delle GVC. - Strategie di concentrazione → È in quest’ultima fase che vengono a manifestarsi quelle operazioni in cui le imprese più grandi vanno ad acquisire quelle più piccole o stringendo alleanze con partner di dimensioni simili → non ci si internazionalizza solo grazie alla delocalizzazione, ma anche in altri modi. - Strategie di diversificazione produttiva e di nicchia/innovazione → Si cerca di andare a coprire più mercati oppure andando a creare concorrenza in mercati più ricercati; → Chi è riuscito a sopravvivere lo ha fatto grazie ad una forte propulsione innovativa, anche grazie alle nuove tecnologie - Cambiamenti sociali → Grazie anche al cambiamento demografico, passaggi generazionali d’impresa Mentre alcuni esperti hanno individuato anche una quarta fase, è forse più opportuno andare a considerare ed analizzare le fasi successive, legate alla crisi del 2008, pandemia e guerra russo-ucraina. I distretti dopo la crisi economica del 2008 Vi è stata una forte trasformazione della base produttiva, con un forte ridimensionamento in termini numerici (sia di imprese che di occupati), soprattutto nei settori maturi e tra le imprese di più piccola dimensione. In secondo luogo vi è stato un cambiamento della composizione settoriale → aumento dei beni intermedi, con il settore della metalmeccanica, agroalimentare e servizi. - Si è dovuto fare riscorso a leve/forze strategiche di tipo diversificato: investimenti nell’innovazione, marketing, marchi registrati a livello internazionale, brevetti, certificazioni di qualità dei prodotti. Dal punto di vista delle esportazioni la crisi porta ad allontanare lo sguardo, aumenta il raggio delle esportazioni → si guarda agli USA e alla Cina, la domanda nei Paesi dell’EU era stagnante. A tutto ciò invece va aggiunto il fenomeno del reshoring, il ritorno nel distretto di alcune delle imprese/linee di produzione. Stando alle analisi dell’ISID la performance delle imprese distrettuali è mediamente migliore rispetto a quella delle imprese non distrettuali. I distretti industriali dal punto di vista legislativo 1. Legge 317/1991, art. 36 Manca il riferimento alla divisione del lavoro tra le imprese. Al secondo comma veniva stabilito che le Regioni dovessero individuare i distretti sulla base di criteri stabiliti a livello ministeriale → quando questi criteri arrivano, due anni dopo, essi sono talmente stringenti che tutte le regioni si trovano in difficoltà nel momento dell’applicazione. 2. Legge 140/1999 Si definiscono sistemi produttivi locali i contesti produttivi omogenei, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, e da una peculiare organizzazione interna. Si definiscono distretti industriali i sistemi produttivi locali di cui al comma 1, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese industriali nonché dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese. 3. Legge 180/2001 «Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese» - distretti: contesti produttivi omogenei, caratterizzati da un’elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di micro, piccole e medie dimensioni, nonché dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese - distretti tecnologici: contesti produttivi omogenei - meta-distretti tecnologici - distretti del commercio - reti d’impresa A livello regionale veneto invece: Legge regionale n°8/2003 superata da → legge regionale n°5/2006; quello che cambia è l’approccio: nel primo caso si cerca di individuare il distretto partendo dal basso → la regione non mette dei parametri indicativi, ma lascia che siano i distretti stessi ad auto riconoscersi come distretto. Questa legge riconduce a membri del distretto produttivo anche altri soggetti non strettamente imprenditoriali (Camere di Commercio, università) per sviluppare una progettualità strategica che si esprime in un patto per lo sviluppo del distretto (di almeno 100 imprese e 100 addetti); → nel triennio 2003-2005 sono stati riconosciuti 46 distretti, che coinvolgevano più di 8000-imprese e 200k addetti → attorno al 2012 viene fatto un monitoraggio Entrambe sono state rimpiazzate dalla legge regionale n° 13/2014; qui invece si torna ad un approccio dall’alto, è la regione che sceglie i parametri e poi vengono applicati sul territorio, individuando i distretti. - Si ritorna alla definizione di distretto industriale in senso più stretto, dal punto di vista manifatturiero, industriali e artigianali, operanti su filiere specifiche produttive o in filiere a queste correlate rilevanti per l’economia regionale; - Viene individuato anche un altro istituto, quello della rete innovativa regionale, sistema di imprese e soggetti pubblici e privati presenti in ambito regionale ma non necessariamente territorialmente contigui, che operano anche in settori diversi e sono in grado di sviluppare un insieme coerente di iniziative e progetti rilevanti per l’economia regionale → viene ripreso l’approccio dal basso, sono le reti che si autopropongono e si autoriconoscono; → individuando questi due tipi di realtà la Regione vuole andare a finanziarie le realtà storiche del territorio, anche se non sono necessariamente innovative. Allo stesso tempo viene riconosciuto che ci sono tante imprese fortemente innovative → si guarda alle diverse realtà I nuovi criteri di individuazione del distretto sono tre: 1. Concentrazione all’interno di uno specifico territorio di imprese manifatturiere appartenenti alla stessa filiera di produzione → secondo l’indicatore dell’indice di specializzazione o quoziente di localizzazione industriale 2. Storicità del distretto → è sufficiente che ci sia un soggetto locale che sia riuscito a conservare la memoria storica del distretto (prodotti, materiali, brevetti, foto) 3. Competitività del sistema in ambito di innovazione e internazionalizzazione Le tipologie di interventi che sono finanziabili dalla Regione sono (art. 7): - Ricerca e innovazione - Internazionalizzazione - Infrastrutture - Sviluppo sostenibile e salvaguardia ambientale - Difesa dell’occupazione e sviluppo di nuova occupazione - Sviluppo di imprenditorialità e di nuova o rinnovata imprenditorialità - Partecipazione a progetti promossi dall’Unione Europea, anche in materia di cluster → raggruppamenti che si possono creare tra imprese locali e imprese europee - ogni ulteriore iniziativa finalizzata al rafforzamento competitivo delle imprese Di fatto si è visto che i bandi emessi dalla Regione e i progetti emessi dalle imprese si sono catalizzati su R&D, internazionalizzazione e formazione HR. Caso studio – IL DISTRETTO DELLO SPORTSYSTEM DI MONTEBELLUNA Distretti calzaturieri del veneto: - Montebelluna - Riviera del Brenta - Verona Verona non viene riconosciuto dalla legge del 2014, ma al di là di ciò ci sono comunque delle differenze rilevanti → i primi due provengono da un lungo percorso storico, mentre per Verona il contesto è partito solo a seguito dello sviluppo di imprese terziste di altre imprese tedesche negli anni ‘50. Invece già nell’800 vediamo formarsi dei primi nuclei di lavoro artigiano nella produzione di scarpe nelle altre due aree → sono il punto di partenza. Nel periodo 1890-1950 abbiamo il passaggio al sistema di fabbrica. Dal punto di vista della tipologia di prodotto tutti e tre sono diversi: 1. Montebelluna è prettamente calzatura sportiva; 2. Riviera del Brenta prevalentemente calzatura da donna/da città → al giorno d’oggi vi ricadono i grandi marchi del lusso, che vi affidano la produzione materiale; 3. A Verona le imprese sono nate specializzandosi su un prodotto comodo su una fascia di prezzo medio/basso → questo è stato il più colpito dal fenomeno della delocalizzazione produttiva. Dal punto di vista del calcolo effettuato dalla Regione, vediamo che l’indice di specializzazione è uno degli indicatori più rilevanti per cogliere le specializzazioni e le concentrazioni delle attività economiche. Nel caso specifico Montebelluna arriva ad un QL di 5,26 → altissimo. La stessa formula è stata applicata anche alle unità produttive locali, che anche qui Montebelluna supera. Fasi evolutive Il distretto di Montebelluna parte da un substrato di imprese/laboratori/botteghe artigiane, che nei primi anni del Novecento passano ad un sistema di fabbrica → non ancora in un distretto vero e proprio. In questa prima fase il prodotto era molto rozzo, semplice e senza alcun tipo di macchinario industriale che coadiuvasse la produzione. - Si teorizza che questo tipo di distretto si sia sviluppato proprio lì perché si trova proprio a metà tra i mercati di approvvigionamento e mercati di destinazione del prodotto → nel caso specifico per i primi si parla delle concerie locali della pianura, mentre per i secondi si parla fondamentalmente delle zone montanare fino al bellunese. Nella seconda fase, che va dal 1900 al 1950, si manifesta la transizione al sistema di fabbrica → l’evoluzione è stata spinta da input esterni e da cambiamenti interni. Nello specifico: - Forniture ai comandi militari locali; - Diffusione dell’alpinismo e aumento domanda della scarpe da roccia; → specializzazione sulla scarpa da montagna - Prima diffusione dello sci come disciplina olimpionica; → prima diversificazione → scarpone da sci monouso, non più una semplice scarpa da montagna rivista e riadattata Nonostante questa evoluzione, la base economica dell’area non cambia → non sostituisce le attività agricole. Nel 1890 nasce la prima banca locale → Banca di Montebelluna, che aveva l’obiettivo di finanziare e sostenere le attività del territorio. Abbiamo qui la fondazione dei marchi che ancora oggi esistono (→ Nordica, Dolomite). È solo nella terza fase, quella che va dal 1950 al 1969 (quelli del Boom Economico italiano), che ci avviciniamo alla definizione di distretto industriale → siamo nella specializzazione di fase, vi è una specializzazione sulle diverse fasi della produzione. Tutto ciò è stimolato da: - Fase del boom economico, di scala nazionale; → Aumenta la domanda di attrezzature sciistiche → Effetto trainante di importanti eventi sportivi → conquista del K2, Olimpiadi di Cortina - Vengono introdotti i primi macchinari moderni per la fabbricazione delle calzature; - Vera e propria organizzazione distrettuale; - Nascono e si sviluppano tutta una serie di imprese più piccole che si specializzano sulle fasi intermedie del ciclo produttivo → fenomeno dello spin-off aziendale o della gemmazione; → Spesso sono ex-dipendenti che si mettono in proprio e a cui l’impresa “madre” affida delle produzioni o delle fasi di produzione. → Anche l’apprendimento avviene per processi spontanei, non ci sono scuole (a differenza della zona della Riviera del Brenta). Nella quarta fase, quella del 1969 - 1980, ci è una forte riorganizzazione data dalla realizzazione dell’esistenza del distretto, spinta anche dall’arrivo della plastica nel settore dello scarpone da sci. Questo tipo di innovazione tecnologica porta ad un drastico aumento della domanda. - A seguito dell’invenzione dello scarpone in plastica da parte degli americani (Innovazione radicale), i montebellunesi hanno perfezionato il progetto del prodotto, portando alla seconda grande diversificazione (innovazione incrementale); - Il distretto a livello generale si destruttura e si riorganizza, portando ad uno sviluppo di settori tra loro contigui e che porta ad un’evoluzione verso un tipo di distretto che sia plurispecializzato; → Nasce anche un comparto complementare, quello del doposcì. → Conseguentemente nascono anche imprese che producono stampi, macchinari, servizi, … → diventa una vera e propria filiera, e dal punto di vista della divisione del lavoro il tutto diventa più complesso, con rapporti di pluricommittenza e subfornitura a più livelli. - Chiaramente tutto ciò va insieme ad un aumento della domanda dell’export internazionale ed all’aumento delle sponsorizzazioni sportive → forniscono i prodotti per le squadre nazionali Nella quinta fase, quella di maturità degli anni ‘80, vi è una prima crisi, per fattori che sono anche un po’ specifici per questo distretto: - fenomeno di saturazione dei mercati; - aumento del costo delle materie prime → 2a crisi petrolifera; - aumento del costo del lavoro; - scarso innevamento; - aumento della competizione internazionale Per contrastare questa fase di contrazione, il distretto di Montebelluna ricorre alla delocalizzazione produttiva, specialmente per quei segmenti molto standardizzati → vanno a delocalizzare che richiedono ancora tanta forza lavoro che non sia specializzata. Delocalizzano prevalentemente nell’est Europa, in Paesi vicini che hanno comunque un tessuto industriale e che offrano anche condizioni vantaggiose per quanto riguarda la delocalizzazione. I più grandi si spingono anche fino in Cina/Taiwan oppure in Nord Africa (Tunisia e Marocco). - Il fenomeno che va a verificarsi è che anche i sub-fornitori seguono i committenti, pur di non perdere la commessa; Si inizia a diversificarsi anche in settori contigui → pattino in linea, scarpa da città, scarpa traspirante (Geox nasce qui). Vi sono poi anche dei processi di concentrazione, con la formazione di grandi gruppi industriali, che coinvolgono anche le multinazionali straniere del settore → non entrano per produrre ma per localizzare dei centri di ricerca, perché si ritiene che vi sia un nucleo di competenze e specializzazioni a cui si possa attingere. Questo è stato uno dei distretti riconosciuti da tutte le tornate normative → a prescindere dalla tipologia di approccio (dall’alto o dal basso). Il soggetto giuridico responsabile delle interazioni con la regione è UNINT → un consorzio composto dai membri industriali delle province di Treviso, Padova e Venezia. Nel suo programma di sviluppo il distretto ha proposto (per il triennio 2020-23): - ricerca e innovazione relativa ai processi produttivi e ai prodotti (Industria 4.0; sostenibilità ambientale); - internazionalizzazione (soprattutto PMI); - formazione del capitale umano. IL CLUSTER DI PORTER È nell’ambito della svolta a livello spaziale delle GVC che si collocano le analisi sui cluster → nel mondo esistono delle concentrazioni spaziali delle attività economiche, specialmente in particolari settori. Sono queste concentrazioni che danno un vantaggio competitivo alle regioni che le ospitano (Porter, 1990, 1998). Come per i distretti industriali è presente questo mix di collaborazione e competizione. La prima differenza rispetto ai distretti industriali è che quella di cluster è una definizione più ampia → non si fa riferimento alla specializzazione industriale, non si fa riferimento alla dimensione d’impresa. La seconda differenza è che i confini geografici sono molto meno definiti → sono individuabili anche su scale geografiche differenti (z.B. cluster del vino californiano → hanno dimensioni anche molto estese). In terzo luogo viene sottolineata la presenza delle istituzioni → nonostante oggi ci siano anche nei distretti, esse non sono fondamentali, e nelle fasi di formazioni/sviluppo il loro ruolo non era primario. - L’elemento dominante non sembra essere tanto la vicinanza spaziale, quanto più le reti che sono in piedi tra le varie imprese, tra imprese che non sempre sono fisicamente vicine. Sembra che i cluster siano quasi più simili alle reti innovative regionali. Il cluster dell’high tech Bisogna prestare attenzione a non confondere le imprese high-tech con quelle innovative. In questo ambito: - Una quota consistente degli investimenti sono dedicati all’R&D; - Viene impiegata forza lavoro altamente qualificata; - Gli investimenti sono ad alto rischio, spesso a redditività differita nel tempo. I settori principali sono quelli delle nanotecnologie, biotecnologie, robotica, aerospaziale, elettronica, informatica, telecomunicazioni, farmaceutica. L’industria high-tech è uno di quei settori principalmente suddivisi in cluster, che però hanno anche un importante tasso di concentrazione a livello spaziale: - Silicon Valley (USA) - Trieste (IT) - Cambridge (UK) - Etna Valley (IT) - Grenoble (FR) - Bangalore (IN) Questi cluster hanno in comune una serie di caratteristiche, come: - L’elevato numero di imprese tecnologiche → che lavorano nei settori dell’high-tech (anche di laboratori di R&D di grandi imprese) - Presenza di università e centri di ricerca di livello internazionale; - presenza di servizi avanzati, in particolare venture capital → servizi rivolti al - Finanziamento di attività che sono rischiose e non sempre a redditività garantita; - Infrastrutture di rango elevato, che connettono il sistema con l’esterno; - Buona attrattività del luogo; (non sempre) centri di ricerca e di sperimentazione militari; (non sempre) ruolo delle politiche territoriali → politiche pubbliche che intervengono creando parchi tecnologici/industriali all’interno dei quali vengono accolte queste imprese. Fattori di sviluppo dei cluster high-tech sono: 1. Presenza di università e centri di ricerca o specialmente quelle che hanno un ruolo ben consolidato nella produzione di o conoscenza o trasferimento di tecnologia o produzione di capitale umano o attrazione/creazione di start-ups 2. Venture-capital o normalmente queste attività non si finanziano attraverso i normali canali bancari o investire in aree innovative e rischiose o diffusione di una cultura industriale orientata a questi investimenti 3. Infrastrutture di rango elevato La definizione della Silicon Valley è nata negli anni ‘70, quando in realtà la concentrazione industriale era già presente. In quest’area è partita la terza rivoluzione industriale. Le origini di questo cluster prendono forma nel periodo precedente alla WW2; gli attori protagonisti sono il DoD statunitense e l’University of Stanford. Solitamente si fa coincidere con la nascita di HP nel 1938, che nasce per iniziativa di un docente dell’università di Stanford che cerca di far nascere un progetto basato sulla tesi di laurea di uno dei due fondatori dell’azienda. - In particolare riguardava un oscillatore radio, che viene poi commercializzato → la prima commissione arriva dalla Walt Disney, ma ciò che lancia la fortuna di quest’impresa è, appunto, la WW2, perché queste tecnologie hanno anche delle applicazioni in ambito militare. I primi flussi di finanziamento arrivano dal ministero della difesa (non esistevano ancora i venture capital), che aumentano insieme alle commesse militari per questo tipo di prodotti. La transizione verso il moderno cluster è stata resa possibile dalla capacità della Silicon Valley di rendersi indipendente dalle commesse militari/statali, orientandosi verso la commercializzazione privata. Se negli anni ‘50-‘60 era ancora fortemente dipendente (circa il 50%), nel 1970 le commesse statali raggiungono il 10% → è nata un’economia in grado di auto-sostenersi. Nel 1951 viene creato il primo parco industriale degli USA, lo Stanford Industrial Park, nel quale rientrano solamente imprese high-tech. A livello di specializzazione industriale, il percorso si snoda lungo tre periodi temporali, scanditi da diverse innovazioni tecnologiche: 1. 1950 - 1970: fondazione della Shockley Transistor Corporation, che riunisce una serie di ingegneri, dalla quale se ne distacca un gruppo che fonderà la Fairchild Semiconductors, che lavoreranno ai semiconduttori al silicio da qui partirà un processo di gemmazione aziendale → Intel 2. 1970 - 1990: periodo dello sviluppo del microprocessore, che da via all’era dei PC → Apple; 3. 1990 - : periodo dello sviluppo e della commercializzazione di software, servizi informatici e internet. A livello occupazionale, questo settore è stato influenzato non solo da fenomeni finanziari di scala globale (crisi economico-finanziaria del 2008, pandemia), ma anche crisi più settorializzate → bolla delle dot-com. TRASPORTI, SPAZIO E TERRITORIO Il rapporto tra il settore dei trasporti si declina su diverse scale geografiche, specialmente riguardo al rapporto con lo spazio (relazioni orizzontali) e il rapporto con il territorio (relazioni verticali). Il settore dei trasporti è fondamentale come settore dell’economia a sé stante → nella maggior parte dei Paesi economicamente avanzati, esso contribuisce alla formazione del PIL per una quota che va dall’ 8% al 10%. Ciò è vero anche in termini di investimenti (pubblici e privati) e anche dal punto di vista dell’occupazione. Dal punto di vista degli effetti geografici, ci interessa il fatto che esso sia trasversale, perché ha delle ricadute su tutti gli altri settori dell’economia → ormai tutto è mobilitato ed è fondamentale che sia accessibile (industria, turismo, agricoltura, …). Il rapporto tra trasporti, spazio e territorio è da leggere secondo le dimensioni di: 1. Innovazione → tutta la storia dei trasporti è caratterizzata dalle innovazioni (ferrovie, motorizzazione, navigazione, …) per arrivare poi alla situazione attuale in cui oltre ai trasporti vanno citate anche le telecomunicazioni; 2. Politiche → di infrastrutturazione del territorio, il riferimento è l’Unione Europea, che da quelle che sono le grandi linee d’indirizzo per quanto riguarda l’obiettivo di apertura e di coesione dello spazio interno europeo. Tutti questi obiettivi vengono via via recepiti a scale geografiche più piccole dai livelli di governo inferiore (comunitaria → nazionale → regionale → provinciale → comuni). L’effetto combinato di queste due forze ci porta direttamente al tema del commercio internazionale, perché questi due elementi hanno determinato un’intensificazione delle relazioni commerciali su scala globale, sono una delle cause della globalizzazione dell’economia e anche del forte sviluppo del commercio internazionale → convergenza spazio-temporale. → Chiaramente, non tutti i Paesi beneficiano di queste innovazioni dal punto di vista infrastrutturale, a livello di scala globale ci sono ancora delle grosse differenze. Lo sviluppo dei trasporti è importante anche a livello locale → tante politiche regionali si sono concentrate proprio sui trasporti, che diventano un’economia esterna. Se nelle prime fasi c’era un rapporto di causa-effetto tra sviluppo dei trasporti e sviluppo economico, ora si parla di un rapporto circolare → ogni sviluppo di un settore causa lo sviluppo dell’altro, non siamo più in grado di distinguere la causa dall’effetto. Anche nelle politiche dei trasporti è rientrato anche l’obiettivo della sostenibilità, che va aggiunta ad ogni tipo di ragionamento riguardo l’efficienza. A livello di terminologia di parla di: - rete - assi - nodi - corridoi o direttrici Nel caso di Paesi di grande estensione (Cina) o che sono arrivati solo recentemente allo sviluppo economico, vediamo che le reti di trasporto coincidono e si concentrano con le zone che maggiormente spingono appunto lo sviluppo, lasciando in secondo piano le aree che non lo fanno sviluppare ulteriormente. Grande rivoluzione dei trasporti Nella seconda metà del Novecento vi è stata questa grande rivoluzione dei trasporti, a livello tecnologico ma anche organizzativo → la riduzione della distanza funzionale spesso porta anche a una riduzione dei costi. Non sono solamente innovazioni riguardanti la velocità e la capacità di carico, ma anche delle innovazioni che riguardano delle nuove modalità organizzative → l’intermodalità e le UTI. Come conseguenza inizia a manifestarsi l’unitizzazione dei carichi → organizzazione dei carichi in pezzi “uguali”, riconducibili ad alcune dimensioni standard. Da ciò consegue una considerevole velocizzazione delle operazioni di carico e scarico delle merci, dato che i container non vanno sballati e re-imballati. In ultimo, sono state le UTI che hanno portato alla vera intermodalità dei trasporti → ogni mezzo di trasporto non è un sistema stagno indipendente, ma tutti le modalità collaborano tra loro. I principali mezzi di trasporto sono: - trasporto su strada → molto flessibile ma indicato principalmente per la breve distanza, perché il costo aumenta in modo pressoché parallelo in rapporto alla distanza - ferrovie → media distanza, per carichi più voluminosi - via nave → lunga distanza, anche con tempi molto più lunghi In riassunto, il trasporto può essere intermodale, multimodale o combinato. Inoltre, il combinato può essere definito anche come accompagnato o non accompagnato. - combinato marittimo; - combinato ferro-gomma → viene chiamata anche autostrada viaggiante. All’intermodalità sono associati sia benefici che costi: Benefici: 1. Quando sfruttata bene si realizzano delle economie di scala; 2. Minori costi fissi → principalmente i costi per l’acquisto dei mezzi e i costi che prevedono un danno quando non vengono utilizzati; 3. Transit time inferiore; 4. Minor rischio di danneggiamento del contenuto. Costi: 1. Costi delle operazioni terminali → carico/scarico ed eventualmente stoccaggio delle UTI; 2. Costi di organizzazione del viaggio stesso → va organizzato un intero ciclo di trasporto che va organizzato in tutte le sue parti, da parte dei grandi operatori della logistica; 3. Aumento dei tempi di viaggio → su brevi distanze non è assolutamente conveniente. Il vantaggio collettivo dell’intermodalità, soprattutto in riferimento al combinato, è una maggiore sostenibilità ambientale. Logistica È l’insieme delle attività che, nell’azienda, riguardano l’organizzazione, la gestione e il controllo dei flussi di materiali e delle relative informazioni dalle origini presso i fornitori fino alla consegna dei prodotti finiti ai clienti e al servizio postvendita. Essa è un’attività di carattere più complesso, che avviene anche su scala più piccola all’interno della stessa azienda → il trasporto è una delle attività di cui si occupa la logistica. Il “Quadrante Europa” di Verona L’intermodalità ha cambiato anche i nodi, ovvero le infrastrutture in cui si gestiscono questi flussi di trasporto. Ad esempio: - Per quanto riguarda i porti essa ha cambiato tutta l’organizzazione; - Nel trasporto terreste essa ha portato alla formazione di nuovi nodi, che prendono il nome di interporti o freight villages. I servizi che vengono offerti da un interporto sono principalmente: 1. Servizi alle merci → tutti quelli che hanno a che fare con l’intermodalità, quelli di dogana, stoccaggio, controllo qualità, imballaggio 2. Servizi ai mezzi → rifornimenti, officine, riparazione dei veicoli e delle UTI, pulizia, sosta temporanea, parcheggio, sorveglianza 3. Servizi alla persona → banche, centri congressi, uffici postali, centri congressi, hotel, servizi informatici e telematici I primi sono quelli più importanti, gli altri prendono il nome di servizi di supporto. In particolare, quello di Verona si trova al centro di due delle principali TEN-T → quello nord-sud che dai paesi scandinavi arriva fino a Malta e quello est-ovest, che dal Portogallo arriva ai Balcani. Il trasporto marittimo e l’ “Europort” di Rotterdam L’intermodalità ha cambiato in primo luogo le modalità del trasporto marittimo, che si è evoluto fino a diventare trasporto combinato marittimo. In particolare l’Europort di Rotterdam era anche uno dei principali porti container mondiali, prima di essere sorpassato da quelli cinesi. Tutta la diffusione dei container via mare parte dalla standardizzazione → gli standard, per quanto riguarda i container sono fondamentalmente due, relative alla lunghezza: 1. Container da 20 piedi 2. Container da 40 piedi Da qui si è definita l’unità di misura di quello che è il traffico dei container, che è il TEU → 1 TEU corrisponde ad un container da 20 piedi, mentre 2 TEU ad un container da 40 piedi. Se noi guardiamo il traffico dei porti o interporti, esso non viene misurato in tonnellate, bensì in TEU. Per quanto riguarda il trasporto marittimo, esso è diventato anche l’unità di misura della capacità di trasporto delle navi. La containerizzazione ha cambiato tutto il trasporto navale, diffondendosi prima sulle rotte trans-oceaniche, arrivando poi anche sulle tratte più brevi e poi nel trasporto combinato terrestre. Un primo effetto dell’introduzione dei container ha portato ad una lievitazione delle dimensioni delle navi (“gigantismo navale”) e in secondo luogo ha portato ad una totale riorganizzazione del funzionamento delle compagnie navali e delle strutture portuali. Tutto ciò ha portato ad una riduzione dei tempi e dei costi del trasporto delle merci → crescita del commercio internazionale. Il trasporto marittimo può essere organizzato principalmente in due modi: 1. Trasporto verso i cosiddetti porti gateway → la portacontainer arriva lì e i container vengono trasferiti direttamente sui treni o sulle chiatte (nel caso di trasporto fluviale). L’efficienza si gioca sulla velocità di scarico e sui collegamenti infrastrutturali; 2. Trasporto transhipment → fa leva sui porti, che in questo caso fanno più da hub: le navi madre vengono scaricate e i container vengono poi ricaricati su delle navi feeder, che li portano poi nei porti regionali, che sono più piccoli. - Su questo fa leva il fatto di far viaggiare le navi più grandi sempre a pieno carico, per ridurre al minimo il numero di viaggi - Allo stesso tempo vi è però sempre l’esigenza di servire più località finali, e per questo motivo vengono adoperati delle navi “secondarie”, le navi feeder, che portano poi i container nel porto regionale di destinazione. Con l’intermodalità i porti si sono trasformati in modo estremamente competitivo, perché adesso tutti quasi le stesse funzioni: - Porti di transhipment, gateway o misti (viene definito di transhipment se >50% del flusso segue questa modalità) - Spazi e strutture adeguate alla movimentazione e allo stoccaggio dei container - Ampi spazi dismessi; - Dissociazione sempre più profonda tra porto e la città in cui si trova. Dal punto di vista europeo, il principale fronte portuale è quello del Northern Range, che va dalla foce dell’Elba alla foce della Senna, passando dal canale della Manica, e di conseguenza davanti alla Germania del Nord, Paesi Bassi, Belgio e Francia. Lì terminano le principali direttrici nord- sud, che collegheranno la costa con l’entroterra europeo. In Italia, il porto di Gioia Tauro ha recentemente sorpassato il porto di Genova per quanto riguarda la dimensione del traffico delle TEU, che però svolge nella sua totalità secondo la modalità del transhipment, per via di una grossa mancanza di collegamenti via terra. Paradossalmente, il transhipment incide solamente per il 10,6% (dati del 2022) per quanto riguarda il traffico del porto di Genova (e incide allo 0% per quanto riguarda il porto di Venezia). Trasporto aereo È la modalità che si è sviluppata più recentemente → fino alla WW2 gli aerei venivano utilizzati per scopi di carattere prevalentemente militare. Bisogna attendere gli sviluppi tecnologici degli ultimi 30/40 anni per poter arrivare ad una vera e propria esplosione del segmento dell’aviazione civile, anche per quanto riguarda le innovazioni che hanno portato ad un miglioramento del livello di sicurezza. - La pandemia del 2020 è stato il primo evento da quanto si tiene monitorata la situazione che ha portato ad uno stallo quasi totale del traffico aereo dei passeggeri (e ha impattato negativamente anche quello del traffico delle merci). La differenza è che il traffico delle merci nel giro di un anno si è normalizzato, mentre quello passeggeri è rimasto ancora indietro. Quello che più ha cambiato il trasporto aereo è stata la deregulation, la liberalizzazione del traffico aereo → ha abbattuto le barriere alla concorrenza, permettendo a più operatori di entrare nel settore, e poi ha eliminato i controlli sulle tariffe, portando ad un abbassamento delle stesse. Questo ha portato anche una moltiplicazione del numero delle compagnie aeree e allo sviluppo di nuovi modelli di business → low cost carriers. Va da sé che ciò abbia portato anche ad una riorganizzazione degli aeroporti e allo sviluppo di nuovi modelli organizzativi.. Parte tutto nel 1978 con il Deregulation Act negli USA, dove liberalizzano il commercio aereo. In Europa tra il 1988 e il 1993 vengono proposti tre pacchetti comunitari liberalizzando il mercato del trasporto aereo nello spazio comunitario. Prima di ciò: 1. In Europa: - Il mercato era monopolizzato dalle cosiddette compagnie di bandiera → pubbliche o a partecipazione pubblica, di fatto controllavano tutte (o quasi) le rotte nazionali - Per quanto riguarda gli scambi tra Paesi, esso funzionava secondo accordi bilaterali tra le varie compagnie di bandiera (i.e. Alitalia ed AirFrance si mettono d’accordo), era un accordo molto rigido, che si traduceva in costi molto alti. 2. Negli USA: - Non c’erano compagnie di bandiera ma il mercato era comunque controllato da un ente federale che limitava l’accesso alle compagnie e controllava le tariffe Gli effetti di questo processo di liberalizzazione sono diversi: - Negli USA compaiono molti operatori, la spinta di liberalizzazione era arrivata dalle compagnie più piccole che non riuscivano ad entrare nel mercato → il tutto si razionalizza anche attraverso dei processi di fusione. - In Europa è stato molto più graduale, ci sono state anche parecchie resistenze da parte delle compagnie di bandiera → un po’ alla volta il mercato si è aperto, ma le compagnie di bandiera nella transizione sono state comunque aiutate dagli Stati, per evitarne il fallimento e l’uscita dal mercato. → La liberalizzazione è diventata in qualche modo compiuta con l’approvazione dell’accordo di Schengen Un secondo effetto della liberalizzazione è quello dell’entrata in campo anche delle compagnie low-cost → prezzi molto più bassi rispetto ai full service carriers. Questo modello di business fa leva su delle strategie diverse da quelle tradizionali, riducendo i costi operativi e riducendo quindi i prezzi dei biglietti: - Eliminazione dei servizi di catering - Standardizzazione dei velivoli o risparmio sulla formazione del personale o economie di scala nel momento dell’acquisto in massa da parte dei fornitori - Massimizzazione del carico → aumento della densità dei posti - Collegamenti Point-to-Point operati su scali secondari - Biglietterie on-line - Riduzione dei tempi morti in aeroporto I modelli fondamentali di riferimento per quanto riguarda l’organizzazione del trasporto aereo sono due: 1. Modello Point-to-Point → quello prevalente prima della liberalizzazione, collega direttamente gli aeroporti l’uno con l’altro. 2. Modello hub-and-spoke → si fa riferimento ad un hub centrale, specialmente per collegare tra loro una grande quantità di scali. Normalmente un aeroporto hub dovrebbe avere: - un bacino d’utenza di grandi dimensioni - un’elevata capacità di traffico ed efficienza dei sistemi di decollo e atterraggio - aerostazioni concepite per agevolare il trasferimento dei passeggeri da un aereo all’altro L’impatto delle infrastrutture aeroportuali è di diverso tipo: - Impatto diretto: occupazione, reddito e valore aggiunto generati dalle attività direttamente connesse alla gestione aeroportuale; - Impatto indiretto: attività che si collocano a valle della filiera della gestione aeroportuale e dell’aviazione in generale → fornitori di carburante, energia elettrica, tour operator - Impatto indotto: generato dal reddito prodotto dagli occupati del settore avio sugli altri settori economici → meccanismo dei cicli di spesa, gli occupati del settore avio percepiscono uno stipendio e con il loro stipendio mettono in moto tutta un’altra serie di settori - Impatto catalitico: ampio ventaglio di benefici economici connessi alla presenza su un territorio di scali aeroportuali efficienti → commercio, investimenti, turismo e produttività. Il segmento cargo viene adoperato principalmente per beni deperibili, di alto valore, tecnologicamente avanzati e animali vivi, posta e colli espresso e consegne d’emergenza. Esistono quattro tipi di operatori del segmento cargo: 1. Combination carriers → normalmente effettuano trasporto passeggeri ma caricano le merci in stiva; 2. All-cargo carriers → esclusivamente cargo; 3. Integrators → detti anche couriers, offrono un servizio D2D, nel senso che offrono anche il servizio di trasporto via terra; 4. Operatori specializzati → servizi di nicchia. Per quanto riguarda l’intermodalità essa riguarda chiaramente anche il trasporto avio, specialmente per quanto riguarda l’avio-camionato → è un po’ particolare perché l’air-container ha delle dimensioni più piccole. ICT E COMMERCIO ELETTRONICO Quello a cui ci riferiamo sono le Information & Communication Technologies e dei loro effetti geografici → uno dei più importanti è il digital divide, il fatto che non tutti hanno accesso alle ultime tecnologie della comunicazione. Riguardano singoli individui, famiglie fino ad arrivare ad interi Stati. Le telecomunicazioni hanno permesso lo scambio di informazioni quasi in tempo reale da un lato all’altro del mondo → dovrebbero ridurre o azzerare la distanza funzionale, ma spesso ciò non avviene per via del digital divide. Digital divide Su scala globale inizialmente contrapponeva Paesi ricchi e Paesi poveri, ma al contempo esso è presente anche all’interno dei Paesi stessi o anche tra fasce d’età. Diventa una sorta di nuova diseguaglianza sociale, che viene monitorata tradizionalmente tramite questi indicatori: 1. Indice di teledensità → rapporto tra numero di abbonamenti telefonici e abitanti 2. Utilizzo di PC → numero di computer per ogni cento abitanti 3. Diffusione di internet → numero di utenti internet ogni cento abitanti Negli ultimi 10/15 il valore medio della diffusione di internet a livello globale è circa raddoppiato. Digital Economy and Society Index Indicatore che misura la digitalizzazione e la sua evoluzione in Europa → viene calcolato di anno in anno. Si basa su quattro macro parametri: 1. Capitale umano → misura le competenze necessarie a utilizzare le tecnologie digitali e trarre vantaggio dalle possibilità che offrono o importante perché inizialmente il digital divide era principalmente legato all’infrastruttura, che poi è diventato un problema umano 2. Connettività → sviluppo e qualità della banda larga, accesso fatto da vari stakeholder 3. Integrazione delle tecnologie digitali → misura il grado di digitalizzazione delle imprese e l’e-commerce; 4. Servizi pubblici digitali → digitalizzazione della pubblica amministrazione. Queste quattro dimensioni vengono scorporate in elementi più piccoli, per i quali vengono individuati degli indicatori più piccoli e granulari. Stando ai dati del 2022 vediamo che per l’Italia le aree più critiche sono quelle del capitale umano e i servizi pubblici digitali, che sono sotto al valore medio dell’Europa. E-Commerce Nasce sostanzialmente in contemporanea all’internet, il cui primo formato era il sistema EDI (→ Electronic Data Interchange) → le imprese si scambiavano ordini di acquisto e fatture in formato elettronico. Era un sistema chiuso al quale avevano accesso solo quegli attori che avevano un software ben preciso. Consentiva di ridurre il cartaceo, eliminare la presenza umana e velocizzare i tempi. - Il tutto nasce con Amazon, il primo marketplace vero e proprio, che nasce come libreria online e via via si allarga. Ciò che ha fatto fare un vero e proprio balzo in avanti, verso la metà degli anni 2000 è stato il passaggio dal web statico al Web 2.0, o web dinamico, che consente di interagire con la rete più attivamente. In secondo luogo vi è stata anche la diffusione dei dispositivi mobile che sono perennemente connessi alla rete. Esso si presenta in diverse tipologie: B2B → Business-to-business - Gli attori principali sono le imprese - I vantaggi sono il raggiungimento più ampio di acquirenti/fornitori, con un entrata più rapida nei vari mercati che consente poi alle PMI di entrare in GVC B2C → Business-to-consumer - Gli attori sono le imprese e i consumatori - I vantaggi per le imprese sono l’accesso ad un mercato globale di consumatori, mentre per i consumatori si ha l’accesso ad un’ ampia offerta di prodotti C2C → Consumer-to-consumer - Gli attori sono solamente i consumatori - Settore sviluppatosi anche grazie alla nascita e diffusione di siti di aste online B2G → Business-to-government - Gli attori sono le imprese, la pubblica amministrazione e i cittadini C2B → Consumer-to-business - I consumatori offrono prodotti/servizi alle aziende in cambio di un compenso - I consumatori stabiliscono quanto sono disposti a pagare per un prodotto/servizio - I consumatori creano valore attraverso recensioni e proposte di modifica dei prodotti Si può distinguere anche in base a ciò che viene venduto: - Indiretto → beni materiali (solo la transazione/pagamento avviene online) - Diretto → beni digitali e immateriali LA LIBERALIZZAZIONE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE Lo sviluppo del commercio internazionale dipende anche dal fatto che a partire dal post- WW2 esso sia stato parecchio liberalizzato. La liberalizzazione commerciale si declina principalmente in: 1. Multilateralismo → ruolo guida della WTO 2. Regionalismo commerciale Inoltre è opportuno delineare anche una distinzione per quanto riguarda le barriere agli scambi, che possono essere: 1. Tariffarie → modificano direttamente i prezzi dei beni scambiati tramite l’introduzione di un’imposta (→ dazi doganali) 2. Non tariffarie → sono barriere non fiscali, come i contingentamenti, regolamenti sanitari, standard tecnici, sussidi Il multilateralismo Esso è un processo complesso, che ha un precedente storico molto articolato e che risale addirittura a prima della fine della WW2, con la conferenza di Bretton Woods voluta dagli USA, per stabilire quello che sarebbe stato l’assetto del mondo dal punto di vista commerciale una volta conclusosi il conflitto → evitare di cadere nel protezionismo tipico del periodo tra WW1 e WW2. Da qui sarebbe uscito il sistema monetario di Bretton Woods → prevedeva che tutte le monete stabilissero un cambio fisso rispetto all’USD, che diventava la valuta di riferimento negli scambi internazionali e solo quello poteva essere convertito in oro, per evitare eccessive fluttuazioni delle monete, che avevano creato instabilità nel periodo precedente alla WW2. - Poco tempo dopo questo sistema cade, e di colpo le valute diventano un bene volubile, scambiabile e commercializzabile, soggette a fluttuazioni → è qui che la Comunità Europea inizia a pensare ad una valuta unica. Il secondo esito della conferenza è la nascita di tre organizzazioni, che sono diventate i pilastri del sistema economico globale, i principali attori del sistema economico: 1. IMF - Nato per vigilare sul rispetto del sistema di Bretton Woods, ora svolge funzioni di monitoraggio, sostegno della crescita ed assistenza finanziaria per Paesi che si trovano in difficoltà momentanee con la bilancia dei pagamenti Gli vengono rivolte diverse accuse: o Non è un sistema democratico → viene finanziato da quote conferite dai singoli Paesi (= i Paesi più ricchi versano quote maggiori), e il potere di voto è ponderato in base all’entità delle quote versate o Per avere i finanziamenti dell’IMF i Paesi devono sottostare a dei piani di aggiustamento strutturale, realizzando tutta una serie di interventi sulle loro economie, che vanno a colpire servizi pubblici, sanità, istruzione, mettendo in campo delle riforme che vanno a colpire gli strati più deboli della società. 2. World Bank - Nata per la ricostruzione dei Paesi, si è poi orientata verso il finanziamento per lo Sviluppo dei Paesi poveri, ai quali conviene rivolgersi ad essa rispetto al mercato libero per motivi di tassi d’interesse più vantaggiosi, periodi per la restituzione del credito molto più dilazionati e per la sua estrema credibilità sullo scenario internazionale, in quanto comunque finanziata dalle quote dei Paesi membri. - Ha un sistema un po’ più democratico rispetto all’IMF, in quanto una parte dei diritti di voto è distribuita equamente tra tutti i Paesi, poi però c’è una quota aggiuntiva che viene distribuita a seconda del capitale conferitovi. inizialmente i finanziamenti erano finalizzati prevalentemente a grandi interventi infrastrutturali (dighe, aeroporti, autostrade) poi però si è visto che questo tipo di interventi non porta ad uno stimolo reale dello sviluppo economico → l’attenzione si è spostata più verso la lotta alla povertà e alla corruzione, finanziando dei“micro-progetti”che vanno a sostenere le PMI, l’imprenditorialità femminile, i sistemi di irrigazione. 3. ITO - Ha avuto un percorso piuttosto travagliato, in realtà non è mai nata → è stato elaborato lo statuto, che però non è mai stato ratificato. - È stato ratificato invece il General Agreement on Tariffes and Trades (GATT 1947), che è stato utilizzato fino all’entrata in essere della WTO nel 1995 → nata a seguito dell’Uruguay Round nel 1986. - Anche dopo l’entrata in essere della WTO i negoziati comunque non si concludono → uno tra tutti il Doha Round che ha portato all’Accordo di Bali (2013). In generale ci sono diversi accordi multilaterali ratificati: - General Agreement on Tariffes and Trades (GATT 1994) → versione aggiornata del General Agreement on Tariffes and Trades (GATT 1947) → beni - General Agreement on Trades in Services (GATS) → servizi - Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPS) → proprietà intellettuale WTO vs General Agreement on Tariffes and Trade (GATT 1947) Il secondo è un accordo sottoscritto solamente tra i vari Paesi, mentre la prima è una vera e propria organizzazione con un budget, uno staff e dei finanziamenti conferiti dai Paesi membri. Alla WTO aderiscono 164 Paesi, numero molto superiore all’adesione al GATT ‘47 → rimangono ancora dei Paesi osservatori, la cui richiesta è ancora in fase di discussione, i quali possono partecipare alle riunioni generali ma non hanno diritto di voto. I principi che regolano la WTO sono: 1. Il principio di non-discriminazione → non devono esserci delle politiche commerciali diverse a seconda del partner commerciale o dalla provenienza dei prodotti. o Clausola della nazione più favorita: ciascun Paese ha l’obbligo di estendere a tutti gli altri membri della WTO le migliori condizioni che concede ad uno di essi, che vengono siglati con patti bilaterali (→ multilateralismo) con il Paese in questione. o Principio del trattamento nazionale: non devono esistere politiche diverse tra prodotti simili, nazionali ed extra-nazionali. 2. Il principio di liberalizzazione → prevede che sia graduale, attraverso negoziati multilaterali finalizzati a incoraggiare gli scambi e di ridurre gli ostacoli al commercio internazionali, una volta consolidati i dazi essi non si possono aumentare, non si possono imporre nuovi dazi e non si può ricorrere a contingentamenti. In realtà sono presenti svariate eccezioni, la prima che riguarda il regionalismo commerciale o i Paesi in via di sviluppo. Le funzioni principali della WTO sono: 1. Essere un forum negoziale per la discussione della normativa del commercio internazionale → vengono definiti solamente degli accordi, non delle leggi o Le decisioni, secondo statuto, vengono prese secondo il meccanismo del consensus (→ consenso); le decisioni vengono prese non dopo l’approvazione dalla parte dei Paesi, ma dopo la non-opposizione a questa decisione 2. Sistema di regole condivise che disciplinano il commercio internazionale al fine di liberalizzare gli scambi in ambito globale 3. È anche un organismo per la risoluzione delle dispute internazionali sul commercio → Dispute Settlement Body o La WTO non può stabilire delle sanzioni, lo fa invece questo organismo, autorizzando il Paese danneggiato ad imporre delle sanzioni nei confronti del Paese danneggiante o Una volta condannato, il Paese danneggiante ha un tempo ben determinato per adeguarsi prima di essere sottoposto alle conseguenza della disputa A favore della WTO - Effettiva riduzione delle barriere tariffarie al commercio; - Vantaggi per i consumatori in termini di prezzi e varietà di prodotti disponibili sul mercato; - Distensione politica internazionale. Contro la WTO - Limiti del processo decisionale (→ consensus); - Scarso peso dei Paesi in via di sviluppo; - Problemi relativi alla qualità dei prodotti. Quali sono i principali attori del sistema economico globale? 1. Organismi internazionali usciti da Bretton Woods: - IMF - World Bank - ITO → WTO 2. Multinazionali 3. Agenzie di rating finanziario Il processo del regionalismo commerciale Il fatto stesso che esistano questi accordi regionali contraddice il principio di non-discriminazione → ciò è perfettamente lecito perché consentito da uno degli articoli dello statuto della WTO. Oggi non esiste un Paese che non faccia parte di un accordo regionale; i più attivi sono quelli dell’UE e nord America. Essi, tuttavia, sono ammessi all’interno dell’art.24 dello statuto della WTO → è stato inserito perché, nel momento della costituzione e dell’ entrata in essere della WTO, era impensabile abolire tutti gli accordi già pre-esistenti (anche se di fatto erano pochi). - Un esempio per tutti è quello della Comunità Economica Europea. Alcuni studiosi in realtà sostengono che il regionalismo possa essere visto come una tappa intermedia nel percorso verso il multilateralismo → il regionalismo è, infatti, dettato anche da ragioni più di ordine politico; più l’integrazione economica è stretta, meno conviene fare una guerra, o perlomeno è uno dei deterrenti più efficaci. Dal punto di vista dei PVS, essi possono essere utilizzati anche per fare massa critica nel momento in cui si va a trattare con i Paesi sviluppati. In ultimo luogo, i negoziati in sede WTO si protraggono ormai per anni → è più facile ed efficace mettersi d’accordo tra Paesi che sono più vicini e più simili tra loro da più punti di vista. Tipologie di accordi regionali: criterio dell’integrazione Esistono quindi anche più tipologie di accordi regionali, che vengono classificati in base al loro livello di integrazione: 1. Aree di libero scambio (livello più basso): hanno semplicemente eliminato le barriere doganali tra i Paesi membri, ma non hanno una politica commerciale comune verso l’esterno, ogni Paese fa come meglio crede rispetto all’esterno → USMCA oppure AfCFTA 2. Unioni doganali: hanno le stesse caratteristiche delle precedenti, ma hanno anche una politica commerciale comune nei confronti dei Paesi esterni → CEE 3. Mercati comuni: a quelle precedenti aggiungono anche la libera circolazione dei fattori produttivi (→ capitale e lavoro) → MERCOSUR 4. Unioni economiche (livello più alto): in questo caso di parla anche di armonizzazione di politiche economiche più ampie in diversi ambiti e anche delle istituzioni che ne regolano il funzionamento. I Paesi membri rinunciano a parte della loro sovranità per avere queste forme di pseudo-governo che possano prendere delle decisioni più di carattere comune → UE. L’Unione Europea ha attraversato tutti questi stadi, partendo dalla CECA → era un’area di libero scambio che coinvolgeva solo i settori dell’energia e della siderurgia. Questo perché i principali giacimenti delle risorse base di questo accordo si trovavano proprio nelle aree di contatto/confine tra i Paesi che sarebbero andati a creare il nucleo centrale dell’UE (Alsazia e Lorena). Pochi anni dopo, con il Trattato di Roma del ‘58, la CECA diventa un’unione doganale (→ CEE). Con l’Atto Unico Europeo si viene a costituire il MEC nell’87 e invece con i Trattati di Maastricht e il Trattato di Lisbona si crea l’attuale EU. Tipologie di accordi regionali: criterio del livello di sviluppo Gli accordi regionali si possono distinguere anche in base al livello di sviluppo dei Paesi aderenti. Nello specifico vediamo come nella prima fase (1960-70) vediamo un tipo di regionalismo più orizzontale (Accordi Nord-Nord o Accordi Sud-Sud), che puntava più che altro alla riduzione dei dazi. Nella seconda fase (1990-) vediamo anche accordi più verticali (Accordi Nord-Sud), tra Paesi diversi a livello di sviluppo economico → i.e. NAFTA nel momento della sua costituzione era esattamente questo. Questo tipo di accordi contemplano la riduzione/abbattimento di barriere di carattere anche non puramente tariffario (normative standard, investimenti esteri, appalti). Gli accordi orizzontali sono stati sicuramente meno successful rispetto a quelli verticali, specialmente perché storicamente abbiamo visto che alcuni dei contraenti non si adeguavano totalmente ai regolamenti; in secondo luogo diversi di questi Paesi avevano delle economie troppo uguali, che esportavano gli stessi prodotti (→ accordi tra Paesi africani). Ci cascano dentro poi anche delle ragioni di carattere politico. Accordi di nuova generazione Sono sostanzialmente dei mega-accordi perché vengono sottoscritti da gruppi di Paesi che già costituiscono un accordo regionale con altri Paesi o gruppi di Paesi. Questa stagione di accordi commerciali è stata inaugurata dall’Unione Europea, che ha in atto degli accordi con aree che non sono vicine fisicamente e porteranno alla creazione di spazi commerciali enormi. Alcuni esempi: - CETA → Accordo tra Unione Europea e Canada - TTIP → Trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico finalizzato ad abbattere le barriere commerciali (soprattutto non tariffarie) tra UE e Stati Uniti; al momento in fase di stallo - RCEP → coinvolge molti dei paesi del sud-est asiatico Il futuro del commercio Quello che emerge da questo tipo di analisi è che molti Paesi, o intere regioni globali, non partecipano a questo processo di integrazione → spesso questo coincide con le situazioni più drammatiche per quanto riguarda gli elementi sociali/umani. Per quanto riguarda il futuro del multilateralismo si è assistito ad una specie di ritorno al protezionismo, che molti Paesi hanno messo in atto dopo la crisi economico-finanziaria del 2008 e in risposta anche alla pandemia del 2020 → questo vale sia per le barriere tariffarie che non. Sono da considerare anche gli effetti che sono stati causati sulle GVC portati dalla pandemia e dalle guerre → in particolare si parla di: - Aumento dei costi di trasporto - Allungamento dei tempi di produzione e di trasporto - Aumento dei costi dell’energia - Riorganizzazione delle GVC → reshoring, nearshoring, friend-shoring - Riorganizzazione del commercio internazionale → regionalismo Il reshoring in realtà è partito ancora prima della pandemia, specialmente per quanto riguardava le principali aziende statunitensi, che hanno cambiato fornitori per prediligere quelli più locali, degli USA. I principali driver del reshoring sono: 1. Costi diretti ed indiretti: - riduzione dei differenziali salariali - costi di trasporto e logistica - costi indiretti nei Paesi di delocalizzazione - protezionismo e guerre commerciali 2. Vantaggi del contesto d’origine: - prestigio creato dall’effetto Made In - politiche di incentivazione - riduzione dei costi → lavoro ed energia - industria 4.0 3. Logistica: - semplificazione del coordinamento - rischi delle supply-chain estese - tempi di approvvigionamento/consegna Il nearshoring può essere visto come case americane che avevano delocalizzato in Cina e rilocalizzano non in patria ma in Messico → controllano meglio le GVC ma riescono ancora ad avvantaggiarsi del costo del lavoro più basso. L’ultimo, il friend-shoring, prevede un riavvicinamento in Paesi in cui si è relativamente certi che non sorgano conflitti per quanto riguarda la produzione di beni strategici. LE ATTIVITÀ UMANE E L’AMBIENTE Argomento che dovrebbe portarci a riflettere su come tutto ciò di cui abbiamo parlato (industria, commercio internazionale, GVC) tutto ha un impatto sull’ambiente. La scala di cui ci si occupa molto è la scala globale → è qui che vengono delineate le politiche per contrastare il cambiamento climatico. Tra le diverse emergenze di carattere globale, la questione principale è quella del cambiamento climatico. La metafora di Boulding (1966) Boulding è uno dei primi economisti ambientali, il quale nel 1966 pubblica un articolo titolato “The economics of the coming spaceship Earth”, nel quale attraverso la metafora del cowboy e della navicella spaziale pone la questione della situazione ambientale → risorse limitate ed elevata pressione umana. Presenta due situazioni: 1. Un uomo e il suo cavallo consumano le risorse naturali ed abbandonano i loro rifiuti nell’ambiente → ciò avviene in modo del tutto aproblematico; alle spalle di ciò sta lo schema dell’economia aperta. 2. L’immagine della navicella spaziale invece è più simile alla nostra situazione, in cui la navicella spaziale ha disposizione una quantità limitata di materie prime e una possibilità altrettanto limitata di trasportare rifiuti. la base è quella dell’economia circolare. Il sistema dell’economia aperta era sostenibile e/o applicabile solamente nel contesto della società preindustriale, perché fino ad allora l’ambiente era in grado di riassorbire i cambiamenti apportati dall’uomo. Dall’avvento della prima rivoluzione industriale in poi ciò non è stato più possibile → produzione di massa, urbanizzazione, colonizzazione. Il tutto arriva al culmine nel periodo del capitalismo fordista nei decenni post-WW2 e proseguono poi nel periodo della globalizzazione, quando anche i PVS hanno iniziato a seguire dei percorsi di crescita simili a quelli dell’occidente, concentrato peraltro nello spazio di pochi decenni. É lo sfasamento, che sta andando via via allargandosi, tra i tempi dell’uomo e i tempi della Terra (o tempi naturali) che porta alla questione ambientale. Preoccupa anche la scala con cui essa si manifesta → è un problema globale. - Come esempio di un tipo diverso di sfasamento spazio-temporale (la manifestazione di effetti a distanza di spazio o di tempo) viene utilizzato l’esempio del disastro di Chernobyl. Tra i principali effetto del cambiamento climatico ritroviamo lo scioglimento dei ghiacci polari, il cambiamento degli ecosistemi naturali, l’aumento dell’intensità e della frequenza dei fenomeni estremi, l’aumento della desertificazione e l’aumento delle migrazioni internazionali ad essi connesse. Il percorso dello sviluppo sostenibile Circa negli anni Settanta gli scienziati si rendono conto dello sviluppo del problema della questione ambientale; la prima azione che viene intrapresa è quella della Conferenza ONU di Stoccolma del 1972. È la prima sui temi ambientali, è il primo passo verso il concetto di sviluppo sostenibile → si parla di correttivi alla traiettoria dell’inquinamento, e ciò porta ad un contrasto immediato tra Paesi ricchi e poveri perché anche a questi ultimi viene chiesto di prendere dei provvedimenti per porre rimedio ad un problema che loro avevano contribuito a creare solamente in modo marginale. Nel 1987, dopo una pausa legata alle due crisi petrolifere che hanno segnato gli anni Settanta, viene a crearsi la World Commission on Environment and Development, che porta alla stesura del Rapporto Bruntland. In questo rapporto compare per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile. Su cosa si basa il Rapporto Bruntland? 1. La conservazione dell’integrità dell’ecosistema → mantenimento dei sistemi ecologici ben conservati, limitando l’inquinamento ed evitando le alterazioni irreversibili 2. Efficienza economica → introdurre forme di tutela che consentano adeguati processi di crescita economica 3. Equità sociale → da intendere su scala intergenerazionale, prevedere un eguale accesso a tutte le risorse La Conferenza di Rio del 1992 viene spinto di nuovo il concetto di sviluppo sostenibile, ma emergono di nuovo le differenze tra Paesi ricchi e PVS → i problemi di scala globale vanno affrontati tramite strategie di cooperazione intranazionale. Si diffonde la nozione che i PVS, che hanno contribuito solo in parte alla creazione del problema ambientale, debbano essere sostenuti dai Paesi più ricchi per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità. Di seguito, alla COP 3 del 1997 viene sottoscritto il Protocollo di Kyoto, che però è entrato in vigore solamente nel 2005, perché una delle clausole è che sarebbe entrato in vigore solamente nel momento in cui almeno il 55% dei Paesi sottoscrittori lo avessero ratificato e che questa fetta di Paesi fosse responsabile del 55% delle emissioni. Si poneva come obiettivo la riduzione di gas serra entro il 2012 del 5,2% rispetto al 1990. → La principale criticità è che non stabiliva obiettivi di riduzione per i PVS e vi sono state svariati rifiuti alla ratifica da parte di Paesi altamente inquinanti → all’epoca la Cina ricadeva nella prima categoria, mentre gli USA ricadono nella seconda. Alla COP 21 del 2015 viene sottoscritto l’Accordo sul Clima di Parigi ed entrato in vigore l’anno seguente. Questo giro non ci sono obblighi di riduzione del CO2, ma viene fissato un obbligo di carattere generale, che è quello di mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto del +2°rispetto all’era pre-industriale. Prevede anche una serie di impegni nazionali e di revisione periodica → i singoli Paesi si impegnano a presentare ogni 5 anni i loro obiettivi di contrasto al cambiamento climatico. Il tutto è corredato poi da un pacchetto di aiuti finanziari ai PVS → 100B $/anno. Il vantaggio rispetto al Protocollo di Kyoto è che viene sottoscritto da un numero più elevato di Paesi, anche quelli che hanno vissuto un periodo di forte sviluppo economico (→ Cina e India) e inoltre non vengono imposti dei limiti che siano uguali per tutti, ciascun Paese definisce i propri in modo graduale, idealmente, innalzandoli ogni 5 anni. Non sono previste delle penalizzazioni, ma si punta sul fatto che i Paesi vogliano difendere in qualche modo la loro reputazione di fronte all’ONU e all’opinione pubblica internazionale. Agenda 2030 Sempre nel 2015 l’ONU ha stabilito l’Agenda 2030 → sono 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, con tutta una serie di sotto-obiettivi, per un totale di 169. Ricomprende le tre dimensioni della sostenibilità (economica, ambientale e sociale). Modelli di sviluppo sostenibile 1. Economia circolare, presentato alla Commissione Europea nel 1976 o Il punto di partenza ufficiale è il rapporto “The potential for substituting manpower for energy” 2. Green economy è già un modello degli anni ‘80/‘90 3. Blue economy, presentato nel 2010 sempre alla Commissione Europea e che gira sempre attorno all’idea di un’economia che in qualche modo si rigeneri o La Commissione Europea utilizza questo termine per fare riferimento a tutte quelle attività che in qualche modo coinvolgano il mare (→ coste, acque, fondali) e che sono però sostenibili 4. Industrial ecology è una vera e propria disciplina scientifica, che parte dallo studio degli ecosistemi viventi e cerca di applicarne i meccanismi ai processi produttivi. o Mentre le altre sono tutte nell’ambito dell’economia, questa fa riferimento alle scienze naturali o Si applica direttamente nei parchi industriali Quello che sta alla base è l’idea che il nostro modello economico possa in qualche modo convertisti in modo da poter essere circolare (in qualche modo) e sostenibile. Problematiche relative al green-washing Il primo problema è relativo alle indagini statistiche → non ci sono ancora dei censimenti relativi alla sostenibilità delle imprese, ci sono solo studi effettuati a campione. In secondo luogo quando si parla di green-washing si fa riferimento ad una specie di operazione di marketing, ma anche la pubblica amministrazione, ci si auto-definisce green quando non lo si è → l’obiettivo è quello della salvaguardia dell’immagine. In ultimo luogo bisogna fare attenzione anche all’applicazione della definizione di green perché bisogna fare attenzione anche alla sostenibilità quando applicata alle GVC → rispettano le normative in patria ma non nei Paesi in cui vanno a sub-appaltare. Caso studio del tessile-abbigliamento Quello della moda è uno dei settori più importanti a livello globale ma anche per le singole economie nazionali, ma è anche uno dei settori più altamente insostenibili e/o impattanti → in Italia questo settore è al secondo posto per quanto riguarda la cifra assoluta delle esportazioni. È un settore che tende a formare dei distretti industriali altamente specializzati. La filiera è divisa in: - Operatori a monte → si occupano della produzione dei filati stessi, la tessitura o la nobilitazione del tessile - Operatori a valle → si occupano di realizzare il prodotto finito Vi sono diversi fattori che possono facilitare od ostacolare l’adozione di modelli produttivi sostenibili: Fattori positivi: - Strumenti regolativi - Cambiamenti della domanda - Effetto trainante dei grandi player del settore - Innovazione tecnologica - Nuovi strumenti di finanziamento per le start-ups Fattori negativi: - Reti estese di delocalizzazione - Ciclo di vita breve dei prodotti → fast fashion - Alto costo dei nuovi processi produttivi - Mancanza di coordinamento tra le politiche e le imprese Nel settore del tessile/abbigliamento negli ultimi anni, grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie, sono emerse le prime imprese circolari → riutilizzano gli scarti della filiera agro-alimentare. DRIVER DEL CAMBIAMENTO DEL COMMERCIO ESTERO E DELLA PRODUZIONE INTERNAZIONALE Secondo l’UNCTAD, i principali drive del cambiamento sono: 1. Driver economici e politici: - Crisi della governance economica globale - Pandemia - Guerre 2. Sviluppo sostenibile: - Cambiamento climatico; - Rischi climatici; - Decarbonizzazione → carbon border tax. 3. Driver tecnologici - Digitalizzazione - Quarta rivoluzione industriale Tutti questi tre driver potrebbero spingere ad un cambiamento del modello di produzione incentrato sulle GVC, che diventerebbero sempre più regionalizzate e meno estese. A livello di avanzamento tecnologico, si sta ormai parlando di quarta rivoluzione industriale, che è quella in cui noi stiamo vivendo, che viene realizzata tramit