Analisi dei Settori Produttivi PDF - Riassunti libro Barbarito
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Università degli Studi 'G. d'Annunzio' Chieti-Pescara
2015
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Summary
Questo documento, tratto dal libro di Barbarito, esplora l'analisi dei settori produttivi, con un focus sull'analisi della domanda. Include concetti chiave e metodi per la comprensione del mercato, la segmentazione e le strategie aziendali, con particolare attenzione al comportamento dei consumatori.
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ANALISI DEI SETTORI PRODUTTIVI Riassunti libro Barbarito: L'analisi competitiva. Metodologia e applicazioni, 2015 CAPITOLO 3: L’ANALISI DELLA DOMANDA Il ciclo di vita del prodotto Ogni domanda è caratterizzata da un bene o un servizio acquistato dai consuma...
ANALISI DEI SETTORI PRODUTTIVI Riassunti libro Barbarito: L'analisi competitiva. Metodologia e applicazioni, 2015 CAPITOLO 3: L’ANALISI DELLA DOMANDA Il ciclo di vita del prodotto Ogni domanda è caratterizzata da un bene o un servizio acquistato dai consumatori in cambio di un prezzo. Si può considerare il prodotto a livello generico e studiarne la diffusione nel tempo. Ma si può anche intravedere all’interno di ognuno di questi mercati che esistono tipologie di prodotto differenti (s’intende suddividere l’oggetto generico scambiato in tipologie distinte da una diversa tecnologia) e osservarne l’evoluzione. Gli studi di marketing riferiscono che ogni prodotto ha un ciclo di vita contraddistinto da varie fasi: introduzione, crescita, maturità, declino, ma la durata di ciascuna fase può variare (non è facile prevedere la lunghezza del ciclo, non ci sono tempi fissi per ogni fase ma l’ampiezza del tempo con cui si sviluppa la curva è largamente diversa da prodotto a prodotto) e alcuni prodotti possono essere rivitalizzati quando entrano in fase di declino. La segmentazione della domanda La domanda del prodotto oggetto della nostra analisi competitiva è normalmente eterogenea. In tutti i mercati è certamente possibile segmentare la domanda per tipologie di prodotto richiesto fino ad arrivare ad un numero di segmenti pari a tutte le varietà dei prodotti scambiati. Segmentare la domanda aiuta a comprendere il comportamento dei consumatori. Una prima definizione di segmento può essere quella di Valdani: un sottoinsieme distinto di clienti, omogeneo al proprio interno, ma disomogeneo rispetto ai clienti di altri segmenti, dove ogni insieme può essere scelto come obiettivo di mercato da raggiungere con una particolare strategia. Una seconda definizione: un segmento è definito come quell'area di consumo che mostra caratteristiche di omogeneità al proprio interno oppure come un submercato che, all'interno del mercato generale, presenta modalità similari nell'atteggiamento verso un certo prodotto, nel consumo o nell'acquisto (Scott e Santagostino, 1984): si prende a riferimento più il comportamento dei consumatori nel consumo o nell’acquisto. A tal proposito il problema risiede nell’individuazione delle porzioni omogenee della domanda all’interno di un settore già definito. Ci sono diversi modi per scomporre la domanda in sottoinsiemi omogenei (omogeneo inteso non solamente a una scomposizione della domanda per tipologie di prodotto, ma ad esempio riferendosi anche a caratteristiche demografiche o sociologiche o comportamentali dei compratori). Più in generale, si può affermare che non vi è una sola possibile segmentazione del mercato, ma è possibile creare un numero infinito di segmentazioni. Le più tradizionali sono per tipo di consumatore e per tipo di prodotto. In un'analisi competitiva è possibile utilizzarne più di una contemporaneamente. Il vantaggio è solo quello di osservare uno stesso oggetto (la domanda) da diversi punti di vista. In un analisi competitiva non dovrebbe mancare mai né una segmentazione per prodotti né una per consumatori. Una cattiva segmentazione può portare a scelte strategiche sbagliate per l’impresa (ad esempio può portare l’impresa a concentrarsi su prodotti particolari limitando il mercato potenziale), pertanto si ha bisogno di un criterio che consenta di identificare empiricamente i segmenti, se questi esistono. Due criteri utilizzabili a posteriori per verificare se le segmentazioni sono rilevanti possono essere i seguenti: 1. Esistono due o più segmenti di prodotto, quando più del 50% dei consumatori di ognuno dei segmenti non prende in considerazione al momento dell'acquisto, i prodotti di tutti gli altri segmenti. 2. Esistono due segmenti di consumatori, quando almeno il 50% ha dei criteri di scelta dei prodotti, diversi da quelli dell'altro gruppo. Per logica della scelta si devono intendere quelle caratteristiche rilevanti che il consumatore tiene in considerazione al momento dell'acquisto. Quindi segmentare correttamente vuol dire capire quali sono le caratteristiche dei prodotti importanti per l'acquisto, ossia quelle sulle basi delle quali i consumatori operano le loro scelte. Si può dire che se si capiscono i segmenti si capisce la logica della scelta, se si capisce la logica della scelta si capiscono i segmenti. Il metodo proposto è efficace, ma ha il difetto di partire da una segmentazione rilevante che consente poi di capire i criteri di scelta del consumatore. In effetti il successo di molti prodotti nuovi risiede nell’avere capito delle determinanti fondamentali della scelta del consumatore. Perciò, come fare a capire i criteri di scelta a priori? Vi sono diversi approcci. 1° TECNICA: LE AREE STRATEGICHE D’AFFARI (STRATEGIC BUSINESS UNIT) È un approccio teorico suggerito dagli studiosi di strategia. Uno schema logico che consente di cogliere anche le possibilità potenziali del mercato, della clientela e della tecnologia. Un'area strategica d'affari è una porzione del settore o mercato identificata in base alle tipologie della clientela, alle tecnologie alternative di produzione e ai benefici ricercati dai consumatori. Le imprese dovrebbero scegliere su quali aree concentrarsi nel mercato, eventualmente organizzandosi al proprio interno in modo da poter servire al meglio le diverse tipologie di domanda associate ad ogni area strategica. Questo strumento permette anche di valutare l'opportunità dell'introduzione di nuovi prodotti per coprire aree lasciate scoperte nel mercato. I QUESTIONARI Un primo semplicissimo strumento per capire i criteri di scelta dei consumatori sta nel chiederlo direttamente ai consumatori stessi, attraverso i questionari. Consiste nello stilare una lista di possibili caratteristiche che influenzano la scelta del consumatore. Dalle risposte emergeranno i criteri più rilevanti che potrebbero essere messi su una mappa bidimensionale che ha sugli assi i primi due criteri di scelta risultati più rilevanti. Mappe che sono utili per dare un quadro visivo dei segmenti. 2° TECNICA: FOCUS GROUP Una seconda tecnica è quella del Focus Group, che viene principalmente impiegata per l'analisi dei beni di largo consumo e dei beni semidurevoli. Questa tecnica consiste nel raggruppare e nell'intervistare un numero ristretto di persone, eventualmente in più sessioni. La stessa intervista viene fatta a tutti i partecipanti che rispondono davanti ad un microfono, ma che sono anche osservati da un gruppo di consulenti e psicologi, non visibili dagli intervistati, poiché stanno al di là di un vetro a specchio che però possono comunicare con l’intervistatore presente suggerendogli ulteriori domande e non con gli intervistati. Gli intervistati appartengono ad una fascia sociale di clienti potenziali (sia consumatori che non consumatori) e ricevono un omaggio non legato all'esito né all'oggetto dell'intervista al termine della sessione. Lo scopo della sessione è quello di capire sia dal linguaggio esplicito che da quello non verbale degli intervistati, quali siano gli attributi rilevanti del prodotto, cioè gli elementi sui quali il consumatore basa la sua scelta. Le stesse domande sono fatte a più persone e i rispondenti dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione potenziale acquirente. Gli attributi rilevanti che si ricercano sono ovviamente soggettivi e sono proprio i criteri i base ai quali un consumatore si orienta verso un prodotto oppure verso un altro, sono le ragioni che spingono i consumatori all’acquisto (esempi: facilità d’uso, design, disponibilità pezzi di ricambio…). È importante distinguere dalle caratteristiche rilevanti per la scelta gli attributi necessari che il prodotto deve avere. I questionari e i focus group sono tecniche, in fondo semplici, bisogna però tenere in considerazione il fatto che il consumatore non sempre dice la verità. Pertanto per capire la logica della scelta del consumatore: è possibile desumere i criteri di scelta del consumatore dal suo comportamento e quindi non attraverso domande dirette, ma cercare di capire i suoi criteri di scelta senza chiederglieli (esempio: conjoint analysis). 3° TECNICA: CONJOINT ANALYSIS È una tecnica che consente di capire come gli individui sviluppino le proprie preferenze relativamente ad un prodotto, ad un servizio. Più precisamente, la tecnica consente di rilevare il peso che alcuni intervistati attribuiscono ad alcuni parametri di un prodotto. Per parametro s’intende un carattere del bene che è in grado di influenzarne la scelta. Per ogni parametro il ricercatore dovrà poi stabilire dei livelli qualitativi o quantitativi, non più di 4-5. Il suo pregio sta nel fatto che è possibile utilizzare sia variabili continue che nominali. L'idea di fondo è che un consumatore stimi il valore o l'utilità di un b/s combinando le parti di valore fornite da ogni singolo parametro (come se fosse una retta di regressione lineare). Gli attributi sono caratteristiche del bene che potrebbero essere rilevanti nella scelta perché aumentano o diminuiscono in modo importante l’utilità ricevuta dal bene. In generale si può ipotizzare che: Valore del bene= α0+ α1X1+ α2X2+α3X3+…+ε (valore del bene è funzione di diverse caratteristiche). Un primo passo di questa analisi è quello di creare una lista di prodotti potenziali che deriva dalla combinazione di tutti gli attributi e di tutti i livelli. A questo punto, i programmi che effettuano la Conjoint possono procedere in due modi. 1. Il più tradizionale è quello in cui viene chiesto al consumatore di mettere in ordine di preferenza i prodotti potenziali generati attraverso la combinazione di tutti gli attributi per tutti i livelli. Il consumatore cioè ordina i prodotti secondo una sua utilità complessiva. 2. Il più nuovo è quello in cui al consumatore vengono presentati a computer confronti tra pochi profili alla volta ed egli deve scegliere il prodotto per lui migliore tra quelli proposti (il numero di prodotti è a discrezione del ricercatore). Questa scelta è la più vicina a una scelta reale. Con questa tecnica subito dopo aver effettuato la prima scelta, il computer ripropone un’altra scelta tra altri prodotti e così via… è opportuno limitare il numero massimo di scelte da proporre a uno stesso consumatore per evitare che compia scelte veloci e non ragionate. L’applicazione comunque impara dalle scelte di ogni utente e i profili/prodotti teorici proposti successivamente non sono più causali, ma volti a comprendere meglio le discriminanti della scelta del consumatore. Il test in ognuna delle due modalità di esecuzione si propone poi a consumatori diversi e per ognuno, in base alle scelte effettuate, è elaborata una funzione di utilità. L'output della Conjoint è invece sempre lo stesso ed è dunque indipendente dalla metodologia utilizzata. Il primo output deriva dalla valutazione media di tutte le opinioni dei consumatori interpellati e ci restituisce i coefficienti medi α1, α2, α3. Viene quindi fornito il peso percentuale di ogni attributo nella scelta. Gli attributi on il peso % maggiore sono ovviamente più rilevanti e saranno quelli che verranno utilizzati per creare i segmenti. Sulla mappa di segmentazione si possono posizionare i prodotti reali e vedere dove vi sono aggregazioni di osservazioni. Il vantaggio di questa tecnica è che l'intervistato non è tenuto a dichiarare il peso di ogni singolo attributo della scelta, ma che quest'ultimo verrà desunto in base alla valutazione complessiva fatta dai consumatori. Il consumatore in effetti può non sapere esplicitamente tutte le ragioni razionali delle sue scelte, ma le compie attraverso dei criteri che si sono cercati di scoprire. Ci sono altri due impieghi molto utili dell'output della Conjoint Analysis. L'output della Conjoint informa anche del peso dei singoli livelli sull'utilità totale del consumatore, soprattutto per le variabili qualitative o nominali. Si noti che conoscere la variazione dell’utilità può dare importanti suggerimenti in termini di variazione del prezzo applicabile al prodotto, tanto più è utile un prodotto, tanto più il consumatore sarà disposto a pagarlo, perciò si possono avere indicazioni sul prezzo potenziale. Infine, l'output della Conjoint indica che per ogni attributo e per ogni consumatore il numero di inversioni. Le inversioni sono gli atteggiamenti diversi rispetto alla previsione generale. I consumatori non hanno tutti gli stessi criteri di scelta ma un gruppo dà maggiore importanza ad alcuni attribuiti e un altro gruppo ad altri. 4° TECNICA: FUNZIONI EDONICHE Un'altra tecnica è quella delle funzioni edoniche, nelle quali si stima una funzione di regressione che abbia come variabile dipendente il prezzo (P), che si suppone sia una misura del valore che i consumatori attribuiscono al prodotto. Come variabili indipendenti, si hanno degli attributi del prodotto (X1…Xn) possibilmente espressi come variabili continue che sono canditati potenziali a essere i criteri di scelta del consumatore. Anche in questo caso gli attributi sono scelti dal ricercatore sulla base di una valutazione preliminare del comportamento del consumatore o magari anche attraverso un questionario. Gli attributi potenziali possono essere ad esempio la dimensione, la qualità del packaging, il peso, l’affidabilità… Prezzo= α0+ α1X1+ α2X2+α3X3+…+ε. La differenza con la Conjoint è che mentre nella Conjoint il valore del bene (utilità) è espresso dal consumatore attraverso il ranking dei prodotti o attraverso le diverse scelte che egli compie, in questo caso, invece, il valore del bene espresso dal prezzo. Si suppone che se esistono consumatori disposti a pagare quel prezzo, allora l’utilità dei consumatori sarà almeno uguale a quel livello di prezzo. In questa analisi perciò si dovranno solo rilevare i prodotti esistenti, i loro prezzi e alcuni attributi che si ritengono determinanti nella scelta. Anche in questo caso si è interessati all'ordine di importanza degli attributi proposti. Una volta standardizzate le variabili per eliminare le diverse unità di misura e riportarle tutte ad una scala comune dai coefficienti a1, a2, a3, è possibile identificare quali siano gli attributi del prodotto più importanti. Tanto più alto è il valore assoluto di un coefficiente tanto maggiore sarà la sua capacità di incidere in modo positivo o negativo sul prezzo. Concettualmente questo approccio si può esporre ad alcune critiche: 1. In primo luogo, si sta ipotizzando che il prezzo rifletta il valore che ogni consumatore assegna il prodotto. In realtà questo valore potrebbe essere ben superiore al prezzo pagato. 2. In secondo luogo, il successo commerciale dei singoli prodotti (=soddisfazione dei clienti) non viene tenuto in considerazione, ma tutti i prodotti vengono trattati allo stesso modo. 3. In terzo luogo con questo approccio non cogliamo il fatto che potrebbero esistere alcuni prodotti destinati a specifici segmenti che fanno leva su alti valori di poche caratteristiche e bassi valori delle caratteristiche restanti. Anche per questa analisi, un ottimo strumento per mostrare il segmento sono le mappe del posizionamento dei prodotti. Laddove si osserva un’agglomerazione di punti vi è un segmento. 5° TECNICA: MULTIDIMENSIONAL SCALING È una tecnica statistica. Ha come obiettivo quello di posizionare vicine tra loro osservazioni ritenute simili dai consumatori in una mappa bidimensionale. La differenza rispetto alle tecniche precedenti è che il multidimensional scaling fornisce subito come primo output la mappa e poi eventualmente il ricercatore proverà a desumere gli attributi rilevanti della segmentazione. L'input iniziale è normalmente costituito da una matrice di dissimilarità tra le osservazioni. Nella matrice si osservano i dati medi rilevati da una serie di consumatori che esprimono il grado di differenza tra diverse coppie di prodotti che appartengono allo stesso mercato. Un valore pari a 0 indica che i prodotti sono identici e un valore pari a 10 che la differenza è massima. Non è rilevante il motivo alla base delle risposte del consumatore, quello che conta è solo la sua percezione di similarità tra i prodotti. Tale tecnica restituisce poi come output un grafico. Negli assi del grafico non vengono riportati i parametri reali del prodotto, le dimensioni possono infatti essere slegate dalle singole caratteristiche del prodotto. Ciò che rileva è che le distanze tra gli oggetti di una mappa riflettono il più possibile le distanze indicate dai consumatori. Prodotti percepiti come simili dai consumatori saranno pochi distanti tra loro sulla mappa, mentre i prodotti molto dissimili saranno più distanti. I valori delle dimensioni sono numeri puri, ovvero privi di un significato numerico associabile a qualche variabile, ma dotati di un significato solo statistico, il loro scopo è quello di far rispettare il più possibile le distanze espresse dai consumatori in distanze sulla mappa. Poiché non sempre si riesce a riportare la matrice iniziale su una mappa bidimensionale, si ha un indice di bontà dell'operazione che è detto Stress di Kruskal. L'indice misura la proporzione della varianza delle disparità, che non è spiegata dal modello. Per disparità si devono intendere le differenze tra le distanze ottenute nella mappa e le distanze della matrice di input. La logica che si segue è che tanto minore è la differenza tra la distanza reale (matrice) e quella stimata (mappa) tra le due osservazioni, tanto più piccolo sarà il numeratore e di conseguenza, tanto migliore il risultato dell'analisi. Tanto più l'indice tende a zero, tanto più l'analisi sarà considerata soddisfacente. Tanto più l’indice tende a 1, tanto meno si sarà ottenuto un risultato attendibile. Infine per comprendere meglio la segmentazione si deve osservare il grafico finale e cercare di capire se le due dimensioni sono in qualche modo riconducibili a qualche attributo del prodotto. Oltre che a iniziare da un input soggettivo, quale quello dell'opinione dei consumatori, il multidimensional scaling può iniziare da una matrice di dissimilarità basata su dati oggettivi o associata alle caratteristiche dei prodotti. Il primo passo, in questo caso, sarà quello di creare una matrice e riportare tutti i prodotti del mercato da studiare e i valori di alcune caratteristiche rilevanti. Dalla tabella è possibile ricavare una matrice delle distanze euclidee tra le osservazioni, le quali sono espressione di dissimilarità oggettive perché basate sulle caratteristiche dei prodotti. Due prodotti identici avranno una distanza euclidea pari a zero. Non c’è un valore massimo e anzi l’unità di misura precisa di questa distanza è un numero puro perché le variabili sono state standardizzate per colonna. Questi valori non dipendono dall’opinione del consumatore sulla base di una sua personale valutazione, ma sono basati sulle caratteristiche sono state individuate come rilevanti ipotizzando che il consumatore li consideri tutti ugualmente importanti. In generale oggi si tende a dare maggiore rilevanza al percepito dal consumatore rispetto al reale. Degli analisti hanno evidenziato che per i beni di largo consumo si dà maggiore peso alla soggettività, per cui la multidimensional scaling può essere utilizzata mentre per i beni industriali si dà un peso maggiore alla caratteristica reale. 6° TECNICA: CLUSTER ANALYSIS È una tecnica statistica che ha l'obiettivo di creare dei gruppi di osservazioni sulla base di più variabili che caratterizzano ognuna delle osservazioni. Per rilevare i segmenti si potrebbe procedere sia con una segmentazione per prodotti sia con una segmentazione per consumatori. Partendo dalla matrice, la cluster dapprima calcola le distanze euclidee tra tutte le osservazioni. In questo caso le distanze sono numeri che dicono quanto simili (valori bassi) o dissimili (valori alti) siano tra loro le osservazioni. Vengono poi standardizzate le variabili per dare un'uguale unità di misura a tutte le variabili, supponendo che tutte sono ugualmente importanti. A questo punto il processo calcola le distanze euclidee tra le variabili. La distanza euclidea tra due osservazioni A e B è data dalla radice quadrata del quadrato di ogni differenza tra i valori delle osservazioni, in ognuna delle variabili della matrice iniziale. La tradizionale cluster gerarchica procede per stadi nel modo seguente: la procedura gerarchica parte da un numero di gruppi uguali alle n osservazioni e, a ogni stadio delle analisi, diminuisce di un'unità il numero dei gruppi. Esistono degli algoritmi di aggregazione particolari per calcolare la distanza tra una osservazione singola oppure tra un gruppo e un gruppo formato da più osservazioni, ad esempio, si possono aggregare due gruppi o un'osservazione e un gruppo, in base alle due osservazioni più vicine (single linkage) o quelle più lontane (complete linkage). Nello stadio finale tutte le imprese sono raggruppate in un unico gruppo. Il processo di diminuzione progressiva dei gruppi può essere schematizzato in un output classico della Cluster Analysis, il diagramma ad albero. Il processo va letto da sinistra a destra, si parte da un numero di osservazioni pari a uno stesso numero di gruppi e si arriva poi a un gruppo solo. In realtà, con le procedure gerarchiche di aggregazione non emerge sempre con chiarezza quale sia il numero di gruppi da considerare. Sta al ricercatore scegliere in quanti gruppi suddividere l'insieme iniziale. La statistica suggerisce alcuni metodi. Uno di questi metodi consiste nell’osservare l’incremento percentuale della distanza media intra-cluster. La distanza media intra-cluster è una misura dell'eterogeneità media dei gruppi. Tanto più procediamo nell'aggregazione, scendendo come numero di gruppi, tanto più aumenta l'eterogeneità media intra-gruppo (più si uniscono i gruppi tanto più aumenta la varianza intragruppo). La misura dell'incremento da uno stadio all'altro riflette il fatto che si aggiunge un'osservazione più o meno vicina ad un gruppo precedente. Tanto più si uniscono come simili tanto minore sarà l’incremento del coefficiente. Un vantaggio della cluster rispetto alle altre tecniche è quello della rappresentazione grafica finale perché non si è più vincolati a due sole dimensioni o attributi. Tuttavia, è anche uno svantaggio, poiché se si inseriscno caratteristiche dei consumatori o dei prodotti non rilevanti si ottengono segmenti non significativi. Differenziazione Le imprese scelgono volontariamente spesso di differenziarsi. Gli economisti industriali teorici e empirici hanno affrontato questo tema in modo diverso osservando che in uno stesso mercato i prodotti che le imprese desiderano offrire non sono omogenei e in particolar modo quello che ha interessato gli economisti industriali è la logica della scelta dell’impresa. Il perché desiderino farlo è comprensibile, per aumentare il proprio potere monopolistico e non essere costretti ad una concorrenza solo di prezzo. Se la segmentazione aiuta a capire dove l'impresa compete, cioè in quali delle diverse parti vuole andare, gli studi della differenziazione aiutano nel capire come l'impresa compete. In un processo a cascata si può dire che prima bisogna scegliere in quale o in quali porzioni del mercato, andare più precisamente a competere. Poi, all'interno di quei segmenti ci saranno delle altre imprese con altri prodotti. A quel punto l'impresa dovrà scegliere un modo di competere, intendendo per modo di competere la scelta del come essere differente. Se vi fossero pochi prodotti e un comportamento omogeneo dai consumatori tale da non richiedere alcuna segmentazione all’interno si procederebbe con la differenziazione tra i prodotti dell’impresa. Se la domanda è eterogenea, il settore andrebbe prima segmentato e poi andrebbero analizzate le caratteristiche della differenziazione in ogni singolo segmento. In questo secondo caso la segmentazione non è una scelta dell’impresa, mentre la differenziazione si. Ci si può differenziare per tecnologia mirando ad essere riconoscibili per le alte performance in ogni segmento, oppure per il design, oppure per la facilità d’uso, o ancora per il servizio reso al cliente durante e dopo la vendita, per immagine legata al brand, per attenzione all’ambiente esterno e per inquinamento. Dal punto di vista dell'analisi empirica, due strumenti pratici, facilmente utilizzabili possono ancora essere le mappe di posizionamento e le mappe percettive. In una mappa di posizionamento si osserva il posizionamento dei prodotti all'interno di un determinato segmento. Sull'asse delle y si ha una caratteristica determinante della differenziazione (performance prodotto, facilità d’uso, qualità, durata…) e sull'asse delle ascisse il prezzo unitario oppure il costo d'uso, cioè il prezzo pagato per ogni volta che si usa il prodotto. È naturalmente possibile creare mappe diverse del posizionamento basandosi su altri caratteri. È importante che sull’asse y vi siano posti elementi della differenziazione rilevanti e percepiti dal consumatore, mettere invece degli elementi irrilevanti fa si che si ottengano mappe insignificanti. Una mappa percettiva è una mappa che riporta sugli assi cartesiani due delle caratteristiche rilevanti del prodotto. una mappa percettiva è una mappa che riporta sugli assi cartesiani due delle caratteristiche rilevanti del prodotto che nella mappa di posizionamento solitamente si riportano sull’asse verticale. Tale mappa dovrebbe mettere in luce la percezione del posizionamento dei prodotti da parte del consumatore. Valgono, a questo proposito, le considerazioni circa la segmentazione: la percezione dei consumatori può differire molto rispetto alla realtà all'interno di un segmento così come all'interno di un mercato. "Criteri di scelta del consumatore" e "caratteristiche rilevanti della differenziazione dei prodotti" sono due parole chiave per l'analisi della domanda. Il primo termine ci ha aiutato a capire se esistono gruppi di prodotti o gruppi di consumatori radicalmente diversi all'interno di una stessa arena competitiva. Se i segmenti esistono, dovremo chiederci come le imprese vogliono rendere i loro prodotti diversi e speciali agli occhi dei consumatori cioè quali sono le caratteristiche rilevanti della differenziazione. Gli economisti industriali cominciano ad occuparsi di differenziazione con la teoria della concorrenza monopolistica di Chamberlain (1933). I prodotti, se differenziati, possono dare all'impresa un certo grado di potere monopolistico. Il potere monopolistico sarebbe tanto più elevato quanto più differenziato, cioè speciale e particolare è il prodotto. Aumentando il potere monopolistico aumentano anche i margini e dunque i profitti. L'elasticità della domanda rispetto al prezzo risulta dunque inversamente correlata con il grado di potere monopolistico misurato attraverso l'indice di Lerner (misura il margine di profitto medio rispetto al prezzo). La differenziazione costituisce però anche una valida fonte di barriere all'entrata, rendendo speciale il prodotto agli occhi dei consumatori e creando così una fedeltà particolare. Nella realtà, nonostante l’effetto positivo della differenziazione (margine di profitto e barriera all’entrata) si osserva che molte imprese, al contrario, cercano di imitare i propri concorrenti. Quando conviene imitare e quando differenziarsi? Gli economisti industriali individuano due possibili tipi di differenziazione: o Per differenziazione orizzontale, si intende quel tipo di differenziazione che, con un costo sostanzialmente omogeneo di produzione, incide su qualcuno dei caratteri distintivi di un prodotto ma non sulla qualità complessiva. o Per differenziazione verticale, invece, si intende una differenziazione basata proprio sulla qualità complessiva di un prodotto. In questo senso, si può allora affermare che un prodotto è superiore ad un altro quando è superiore in tutti gli attributi caratterizzanti oppure quando un prodotto è almeno uguale in tutte le caratteristiche ma superiore in almeno una di queste. DIFFERENZIAZIONE ORIZZONTALE L'analisi economica ha trattato questo problema integrando nella cosiddetta differenziazione spaziale, poiché trattata con gli strumenti teorici di analisi della differenziazione spaziale, intendendo uno spazio misurabile per una caratteristica. Il punto di partenza in proposito è lo studio di Hotelling (1929). Il problema è dunque quello della scelta della localizzazione (ossia scegliere dove collocarsi su questo segmento). Le ipotesi di partenza del modello sono le seguenti: a. Vi sono due concorrenti che hanno costi di produzione simili e dunque devono praticare lo stesso prezzo del prodotto (Pa=Pb=Pc), potendo scegliere solo dove collocarsi lungo la linea L. b. Si suppone che esistano una serie di consumatori localizzati in modo uniforme lungo la linea. c. Si suppone che esistano per i consumatori dei costi di trasporto che variano proporzionalmente alla distanza dal venditore: CT=tx, dove CT sono i costi di trasporto, x la distanza e t un parametro della relazione. In senso fisico il costo di trasporto è legato allo spostamento, in senso figurato è legato alla distanza tra proprio desiderio e un prodotto preciso. In generale, tanto più lontano è un prodotto dalla collocazione del consumatore, tanto più vi sarà disutilità per il consumatore stesso. Perciò parità di prezzo, il consumatore sceglierà il prodotto a lui più vicino. Perciò le imprese non fanno la concorrenza sul prezzo, ma sulla base dell’allocazione; infatti, le imprese si sposteranno sempre di più verso il centro fin quando non si collocheranno alla metà esatta del segmento. Il principio che si può evincere da questo modello è chiaramente il principio di minima differenziazione dei prodotti: le imprese che cercano di massimizzare il proprio profitto dovrebbero cercare di vendere un prodotto con una caratteristica media, in modo da poter servire potenzialmente tutto l'intero mercato e non solo una parte di esso. Tale principio è stato criticato ed integrato dalle osservazioni di D'Aspremont, Gabszewicz e Thisse, i quali hanno osservato che una volta nella stessa posizione centrale, l'ipotesi dei prezzi dati e coincidenti sarebbe stata da rimuovere. Infatti, ognuna delle due imprese avrebbe potuto aggiudicarsi l'intero mercato semplicemente vendendo ad un prezzo leggermente più basso rispetto a quello del rivale. Ma a queste condizioni si innesca una concorrenza alla Bertrand, ovvero una concorrenza basata sul prezzo che porterebbe le imprese ad avere profitti pari a zero. Infatti, una volta raggiunta la posizione centrale del segmento (prezzo=costo di produzione), sarebbe nuovamente conveniente una localizzazione non centrale per ottenere profitti positivi, a questo punto sarebbe di nuovo conveniente una localizzazione centrale e il gioco continuerebbe infinitamente senza che si possa trovare un equilibrio. Basterebbe però rimuovere l'ipotesi del costo di trasporto lineare e sostituirla con quella del costo di trasporto che varia con il quadrato della distanza (CT=tx2) per ottenere conclusioni radicalmente diverse. Un costo di trasporto quadratico significa che il consumatore è molto più severo quando non trova un prodotto che soddisfa esattamente i propri desideri, si attribuisce una disutilità molto maggiore. In questo caso i tre autori dimostrano che la scelta da parte delle imprese porta ad un'allocazione agli estremi della linea e non in centro. L'equilibrio così raggiunto è però anche un equilibrio stabile. Questo fenomeno è stato allora chiamato il principio della massima differenziazione. In generale, nella scelta della varietà ci sono due forze contrastanti: o Proponendo un prodotto meno differenziato rispetto al rivale si è certi di competere per lo stesso mercato potenziale. o Per contro, scegliendo per una localizzazione agli estremi si aumenta il potere monopolistico, ma su un mercato potenziale è più ristretto. Il punto fondamentale della scelta è quanto il più ristretto sarà il mio mercato potenziale nell'ipotesi della massima differenziazione? La risposta a questa domanda dipende da due elementi: i costi trasporto e dalla distribuzione della preferenza lungo la caratteristica scelta. Se i costi di trasporto sono quadratici, risulta conveniente per l'impresa una strategia di massima differenziazione. La perdita di mercato potenziale è più che compensata dall'aumento di potere monopolistico associato ad una localizzazione agli estremi. Se invece i costi di trasporto fossero lineari, la perdita di mercato potenziale non compensa l'aumento di potere monopolistico su di una frazione del mercato. È allora conveniente una scelta di minima differenziazione, ovvero di localizzazione al centro. Circa la distribuzione delle preferenze, negli esempi proposti sono stati ipotizzate distribuzioni uniformi nella realtà magari si trovano più persone con un gusto intermedio e dunque la distribuzione delle preferenze potrebbe rispecchiare l'andamento di una funzione normale. A queste condizioni è preferibile un prodotto intermedio e dunque generalista. La teoria però ci ha fatto riflettere su quali sono le condizioni, modificando le quali la scelta ottimale cambia: la sensibilità del consumatore ai costi di trasporto e la distribuzione delle preferenze. Un'ultima annotazione a proposito della massimizzazione del benessere, è che né l'una e né l'altra delle scelte di localizzazioni sono pareti ottimali. Infatti, i costi di trasporto sarebbero minimi per i consumatori se i produttori fossero localizzati nel seguente modo: a=b=1/4 L. Questo indipendentemente dal tipo di costi di trasporto. DIFFERENZIAZIONE VERTICALE La differenziazione verticale è utile per entrare nel mercato attraverso la mappa percettiva. La differenziazione verticale riguarda la scelta della qualità del prodotto. In economia industriale si dice che un prodotto è superiore ad un altro quando è almeno uguale in tutte le caratteristiche superiori in almeno una. I beni di qualità superiore hanno anche un prezzo superiore, non tutti i consumatori possono essere disposti a pagare di più per il bene superiore. La mancata disponibilità a pagare di più può essere intesa in due modi: sia come una indisponibilità dovuta ad un reddito insufficiente, ma anche associata ad un'indifferenza verso il prodotto con più capacità e dunque i gusti del consumatore. La modellazione di questo tipo di problema utilizza proprio il reddito come elemento differenziante della capacità a spendere dei consumatori. Ovvero si suppone una collettività ove il reddito sia uniformemente distribuito tra un reddito minimo e uno massimo. La presenza di redditi diversi mostrerà la diversa disponibilità a pagare degli individui. Tuttavia, per analogia, possiamo utilizzare questo stesso modello anche ipotizzando una collettività che abbia un reddito uguale per tutti gli individui, ma preferenze (e quindi disponibilità a pagare) diverse tra questi. In questi modelli è rimossa l'ipotesi dei costi costanti, cioè il costo cresce con la qualità dei prodotti. La conclusione più rilevante di questi modelli è la proprietà di finitezza per la quale nel mercato potrà esistere solo un numero limitato di prodotti differenziati verticalmente. Due sono le ulteriori osservazioni importanti: 1. La prima è che, anche se il mercato aumentasse di dimensione, non sarebbe possibile l'ingresso di nuovi prodotti con qualità intermedie tra quelle esistenti. Questa osservazione ci ricorda che il grado di concentrazione di un settore può dipendere anche dalla disponibilità a pagare delle collettività e non solo dalle economie di scala. 2. La seconda osservazione riguarda proprio la disponibilità a pagare. Perché dietro al concetto di disponibilità a pagare non c'è solo il reddito, ma anche i gusti dei consumatori. Se cambia l'ampiezza dello spettro dei redditi, oppure se cambia la distribuzione di gusti, ecco che può cambiare il numero massimo di prodotti che possono essere presenti sul mercato. A questo proposito Shaked e Sutton hanno anche osservato che, nel caso in cui l'incremento di costo associato a un miglioramento di qualità sia principalmente dovuto ai costi fissi, ecco che un aumento nella dimensione del mercato, pur non accrescendo il numero massimo di prodotti presenti sul mercato, permette di offrire una gamma di qualità sempre più alte. Riassumendo, si può affermare che, a proposito della differenziazione verticale, non è sempre detto che in un mercato o in un segmento i prodotti di qualità superiori possono con certezza affermarsi a danno di quelli di qualità inferiore. In molti mercati, soprattutto laddove sono presenti forti esternalità di rete, è ancora più difficile per i prodotti tecnologicamente superiori a fermarsi. Infatti, i rendimenti crescenti dipendono da: o Effetti di rete diretti, che sono vantaggi che si hanno dall'utilizzo di molti altri soggetti. o Effetti di rete indiretti, che dipendono dalla presenza di beni e servizi complementari. La previsione quantitativa della domanda e i trend dei singoli segmenti Della stima della domanda del prodotto ci si può occupare sia a livello dell’intero mercato, sia a livello di singolo segmento, sia a livello di singola impresa. In generale, in economia politica si definisce funzione di domanda quella funzione che mostra la quantità domandata di un prodotto venduto dall'impresa i (Qdi) rispetto ad alcune variabili indipendenti come il prezzo del bene stesso (Pi), il prezzo degli altri beni (Pn-i), il reddito (Y): Qdi = f(Pi, Pn-i, Y, …). Un modello di questo genere è detto modello causale, poiché ipotizza proprio un rapporto di causa effetto tra le variabili indipendenti e la variabile dipendente, cioè la quantità domandata. La stima rigorosa di una funzione di domanda richiede un set di dati non indifferente, è infatti necessario avere delle osservazioni costanti relative sia alla variabile dipendente sia a quelle indipendenti misurate per una serie di anni consecutivi. Spesso, allora si usano modelli più parsimoniosi in termini di dati di input: le serie storiche. In una serie storica, la variabile dipendente al tempo t, si ipotizza determinata dai valori della stessa variabile al tempo, t-1, t-2, …, t-n, cioè a periodo precedenti: Qdi, (t) = f(Qdi, (t), Qdi, (t-1), Qdi, (t-2), …): è un modello di tipo autocorrelato. Sono spesso utilizzati per i beni di largo consumo e per i brevi periodi. Sia i modelli causali che i modelli autocorrelati contengono spiegazioni ragionevoli circa l'andamento della domanda di un mercato. Da un lato si intuisce che la domanda dipende da alcune forze esterne, dall'altro che la domanda futura dipenderà dalla domanda dei periodi precedenti, cioè seguirà probabilmente un trend dettato dal consumo passato. Alcune considerazioni: o In ogni mercato può non essere pacifica l'unità di misura della quantità. Dal punto di vista tecnico la migliore variabile utilizzabile è una variabile quantitativa che sia espressione dell'output, ossia dell'attività tipica dell'impresa. o Anche le variabili dipendenti possono comportare problemi simili di misurazione. Più utilizzate prezzo e reddito, spesso per i prezzi accade che sono diversi per tipologia di prodotto perciò se le varietà di prodotto sono abbastanza simili si può prendere a riferimento un prodotto base e osservare quello come prezzo, dove le varietà sono molto dissimili bisogna costruire un paniere di riferimento che rifletta il consumo medio. Oltre l'analisi dei modelli causali, vi sono anche altre tecniche di previsione, quali: o La prima è costituita dalle stime di lungo e lunghissimo periodo che sono basate sulla semplice opinione di gruppi esperti di cui si fanno normalmente delle medie delle rispettive opinioni. L'orizzonte temporale in questi casi è lungo o lunghissimo, cioè tra i 10, 20, 30 anni. o Altre tecniche come i modelli basati sulle reti neurali, mirano a cercare di prevedere nel modo migliore il futuro attraverso modelli complicati disinteressandosi dei legami di causalità tra tutte le variabili che sono date al modello. I modelli causali Qdi = f(x1, x2, x3, …) sono modelli dove la variabile dipendente di solito è la quantità domandata del prodotto oppure il valore delle vendite. La stima può essere fatta sia a livello della singola impresa che a livello dell'intero mercato. Nelle stime di breve o brevissimo periodo la domanda viene messa in relazione con una sola variabile indipendente. Ma i modelli più diffusi sono quelli in cui nella parte destra dell’equazione vi siano più variabili indipendenti. Lo strumento più utilizzato per la stima e prima per la comprensione del legame tra le variabili, è quello della regressione multipla. I modelli di questo tipo sono utilizzati di solito per stime di medio lungo periodo. Questi modelli sono molto dispendiosi in termini di variabili da ricercare. Inoltre la q.tà di variabili del modello finale non è indice della bontà della stima e anzi può essere indice anche di problemi. Il punto di partenza è sempre una tabella che mostri le osservazioni della variabile dipendente e i contemporanei valori di alcune variabili indipendenti che si ritengono correlate alla variabile dipendente. Il metodo più tradizionale di regressione multipla è quella dei minimi quadrati OLS. Con questo metodo si cerca di minimizzare la somma dei quadrati degli errori, intendendo per errore la differenza tra il valore stimato dal nostro modello (ycappuccio) e il valore reale osservato dalla variabile dipendente (y) per ognuna delle n osservazioni. Successivamente si interpreta l'output della regressione, dove sono riportati gli indicatori della bontà del modello, l’analisi della varianza con il test di Fisher e le stime dei parametri. L’R2 indica la proporzione della varianza complessiva che il modello riesce a spiegare. È dato da SSR/SST dove SSR sta per la sommatoria dei quadrati della regressione, ossia la sommatoria al quadrato delle differenze tra i risultati stimati dal modello e la media dei valori reali, mentre SST rappresenta la deviazione totale intesa come sommatoria al quadrato delle differenze tra i valori reali e la loro media. Se queste due sommatorie coincidono significa che la varianza spiegata dal modello coincide esattamente con quella dei dati reali e perciò r2 sarà uguale a 1, mentre quanto più questo rapporto è vicino allo zero tanto meno sarà affidabile il modello. Poiché tale indicatore potrebbe aver sovrastimato la bontà della stima allora l’r2 corretto, tiene in considerazione il numero delle osservazioni e il numero dei parametri da stimare. Anche lo scarto quadratico medio è una misura della bontà della regressione di un modello causale. Questo coefficiente è una stima della deviazione standard media di ogni previsione del modello. Tanto più piccola il valore, tanto migliori saranno le previsioni del modello. Se la stima fosse perfetta questo indice assumerebbe valore 0. Il test di Fischer verifica l'ipotesi che i coefficienti m che sono stati stimati siano contemporaneamente uguali a zero. Cioè che la regressione sia inattendibile. È dato SSR/m/SSE/(n-m-1). Tanto più alto è questo rapporto tanto più affidabile sarà il risultato complessivo della regressione. Si trovano poi i coefficienti stimati per le variabili e per la costante e l’errore standard dei singoli coefficienti che provano che ogni coefficiente è significativamente diverso da zero. Per controllare se ogni coefficiente di ogni variabile sia significativamente diverso da zero, dobbiamo osservare la relazione tra la distribuzione di ogni coefficiente e il valore zero. Ecco che la colonna dei valori dei T mostra proprio i rapporti tra ogni coefficiente e il suo errore standard. Tanto maggiore sarà questo numero, tanto minore la probabilità che il coefficiente assuma valore zero. Il tipo di distribuzione che si utilizza è la distribuzione T. Esaminato il risultato dell'output statistico, si può stimare l'elasticità della domanda del bene, l'elasticità incrociata della domanda e l'elasticità della domanda rispetto al reddito. In questo modello di stima è vero che la scelta delle variabili è forse il problema più rilevante, ma vi sono anche altri problemi che possono riguardare: o La specificazione corretta dell'equazione o La multicollinearità o L'eteroschedastaticità o L'autocorrelazione o Equazioni simultanee e modelli econometrici I modelli autocorrelati utilizzano le serie storiche di dati come strumento previsivo della domanda. I metodi di analisi delle serie storiche implicitamente assumono che una relazione storica che è avvenuta nel passato sia destinata a ripetersi nel futuro. In generale, è possibile che sull'andamento delle vendite abbiano inciso diverse influenze: o Un trend che indica una variazione regolare delle vendite nel tempo, indipendentemente da altre oscillazioni. o Una variazione ciclica di lungo periodo dove la quantità domandata è influenzata da cicli di medio lungo periodo. o Una variazione stagionale o ciclica di breve periodo, normalmente associata alle diverse stagioni dell'anno. o Variazioni regolari dovute ad eventi specifici o imprevedibili. L'analisi delle serie storiche cerca proprio di isolare l'effetto di ognuna di queste quattro influenze e di utilizzarlo poi per proiettare le passate esperienze nel futuro. Non sempre in ogni modello possono essere presenti tutti e quattro gli effetti contemporaneamente, ma di solito trend, variazione stagionale ed errore sono sempre presenti. Per isolare il trend si può usare la tecnica della media mobile. Se avessimo dati mensili sulle vendite, sostituendo il valore reale con quello medio di n periodi, ad esempio 12, otterremo un valore che sarà la media tra l'osservazione presente, le 5 successive e le 6 precedenti. A questo punto una regressione lineare sulla media mobile consentirebbe allora di isolare il solo trend da questa serie. Vi sono altre tecniche che servono a smorzare una serie storica come l'Exsponential Smoothing, è una tecnica simile alla media mobile, ma che pesa maggiormente osservazioni più recenti rispetto a quelle più vecchie. In generale si può osservare che in una serie simile alle serie precedenti il valore del dato futuro dipenderà da tre processi che avvengono congiuntamente. 1. In un primo processo si osserva che il valore di un anno è fortemente correlato a quello dei 12, 24, 36 mesi precedenti. I punti di massimo annuali, così come quelli di minimo annuali, sono all'incirca sulla stessa retta. Nel modello si può prevedere una regressione, ovvero che il valore attuale dipenda dal valore osservato n (n=12) periodi precedenti. 2. In un secondo processo si intuisce che per ogni anno vi sono regolari differenze assolute tra il valore di un mese e il valore del mese precedente. 3. In un terzo processo che è il meno visibile della serie precedente, si può intuire che il valore di un anno potrà dipendere dalla media mobile degli errori di n periodi precedenti. L’agire integrato di questi tre processi ha portato ad ipotizzare una tecnica statistica chiamata ARIMA (autoregressive AR, integrated I, moving average MA), che tiene conto di questi possibili effetti. Sono i modelli più sofisticati per l’analisi delle serie storiche. Tale tecnica è rappresentata da p, q, d, dove p indica i ritardi delle osservazioni passate, d è il numero di volte che la serie deve essere differenziata per ottenere stazionarietà, e q è ritardo nell'errore. I modelli causali e l'analisi delle serie storiche costituiscono le due metodologie statistiche di previsione della domanda. Entrambe le tecniche sono applicabili sia in un singolo segmento sia alla domanda dell'intero settore. Non sono stati trattati i modelli qualitativi, modelli in cui sostanzialmente le previsioni sono il risultato dell'opinione di un panel di esperti del settore. Se quest'ultima tecnica costituisce probabilmente quella più semplice e meno dispendiosa di risorse, è però possibile esprimere qualche considerazione circa l'opportunità dell'uso delle prime due metodologie di stima della domanda. Per stima di breve termine (da un mese a un anno), sia le serie storiche sia una correlazione semplice, possono rilevarsi le metodologie più adeguate. Per quanto riguarda le serie storiche, è opportuno lavorare con osservazioni mensili. La variabile dipendente è normalmente la quantità venduta di un bene complementare, la cui misurazione deve avvenire con relativa facilità. Per stime di medio termine (da un anno a cinque anni), i modelli causali sono probabilmente più adeguati. Con i modelli causali si cerca di capire quali siano le determinanti della domanda e si stima quest'ultima in base ai valori futuri delle variabili indipendenti. Per previsione a lungo termine (oltre i cinque anni), è ragionevole supporre che anche i coefficienti di un modello causale siano destinati a cambiare, perché cambiano le abitudini socioeconomiche dei consumatori. Forse sono i modelli qualitativi i più appropriati. Oltre l’orizzonte temporale sulla scelta del modello può incidere anche il tipo di bene ad esempio per quelli durevoli è più adeguato il modello causale, per quelli non durevoli sarebbe meglio la serie storica. CAPITOLO 4: L’ANALISI DELL’OFFERTA Le caratteristiche dei produttori e dell’offerta Una prima informazione per il lato dell'offerta riguarda il numero e la dimensione delle imprese. Un mercato è concentrato se ci sono pochi produttori e di grandi dimensioni, viceversa è frammentato o concorrenziale se ci sono tanti produttori di piccola dimensione. Una volta identificati i concorrenti si possono creare delle classi dimensionali cercando di spiegare perché le imprese tendono ad addensarsi intorno a certe classi dimensionali. Stigler negli anni ‘50 sostenne che osservando dove vi è il maggior addensamento nella distribuzione dimensionale dell'impresa, si intuisce quale sia la dimensione del processo produttivo in termini di minori costi medi di produzione. In altre parole, la maggiore concentrazione in alcune classi sarebbe spiegata dall'esistenza di economie di scala associata a certe dimensioni del processo produttivo. Vi possono essere altre ragioni strategiche dell’addensamento verso certe classi come la maggiore flessibilità o maggior poter contrattuale nei confronti dei fornitori/clienti. La suddivisione in classi dimensionali presenta l'indubbio vantaggio di essere facilmente interpretabile. Tuttavia, essa non consente confronti intersettoriali sulla concentrazione. Non si è in grado di dire se un settore sia più o meno concentrato di un altro poiché non si ha una suddivisione in classi dimensionali che sia uguale per tutti i mercati. A questo proposito vi sono delle misure sintetiche della concentrazione che consentono di capire se esistono pochi grandi produttori oppure tanti piccoli o una via di mezzo. Questi indici si costruiscono partendo dalle dimensioni relative di ogni impresa rispetto all'intero mercato. Tradizionalmente l'unità di misura è il fatturato delle singole imprese e quindi il fatturato complessivo degli n operatori del mercato sarà utilizzato per misurare la dimensione complessiva del mercato. La quota di mercato di un'impresa i è: qmi= Fi/FM, dove qmi è la quota di mercato, Fi è il fatturato dell’impresa e FM è il fatturato del settore. Il fatturato non è l'unica variabile dimensionale per misurare le imprese e il settore. Si possono utilizzare il numero di addetti, capitale investito, valore aggiunto. Per Il fatturato bisogna fare delle considerazioni però: o È una variabile flusso e potrebbe essere influenzata da particolari andamenti annuali. o Nel caso di imprese diversificate o verticalmente integrate il fatturato totale può essere significativamente diverso dal fatturato specifico del settore. Fatturato specifico cioè il fatturato relativo alla sola produzione del settore che si sta esaminando. o Il fatturato del settore bisogna considerare il comportamento delle imprese estere che possono vendere attraverso le loro esportazioni o creare filiali in Italia. Una volta ottenute le quote di mercato delle n imprese del settore, è possibile stimare alcuni tipi di indici che consentono di misurare il grado di concentrazione del settore. 1. Il primo è l'indice di Herfindal – Hirschman (H), che è uguale alla somma di tutte le quote di mercato elevate al quadrato (il quadrato dà maggiore peso alle imprese che hanno quote più alte): Assume valori bassi tanto più il mercato è concorrenziale, assume valore 0 quando si è in concorrenza perfetta e valori sempre maggiori tanto più è concentrato il settore, infatti in caso di monopolio assume valore 1. Da questo indice è possibile calcolare anche il numero equivalente (=1/H a parità di quote di mercato) che mostra il numero medio di imprese del settore, supponendo che tutte abbiano la stessa quota di mercato. 2. Un altro indice utilizzato frequentemente per misurare il grado di concentrazione è il rapporto di concentrazione (CR). Il rapporto di concentrazione è la semplice sommatoria di un certo numero di quote di mercato delle maggiori imprese del settore. Se calcolato sulla base di 4 imprese il rapporto CR4 è: È più facile da calcolare perché necessita di informazioni rispetto alle prime 4 imprese considerate. 3. L'indice di Entropia e la Curva di Lorenz costituiscono altri due modi con i quali misurare il grado di concentrazione di un’industria. La curva di Lorenz si ottiene ponendo sull'asse delle ascisse di un diagramma cartesiano la percentuale cumulata delle imprese ordinata per ordine crescente e sull'asse delle ordinate si dovrebbe porre la percentuale cumulata delle vendite. La curva si compone congiungendo le diverse combinazioni tra percentuali di imprese e quote cumulate di mercato. Tanto più la curva è distante dalla retta a 45° tanto maggiore è la disparità dimensionale delle imprese. La curva di Lorenz consente di misurare l'area di concentrazione, che è appunto la superficie compresa tra la retta di equidistribuzione e la curva di Lorenz. Il rapporto tra l'area di concentrazione e il triangolo formato dalla retta di equidistribuzione e i due assi è definito l’indice di Gini. Quando l'area di concentrazione è zero anche l'indice di Gini è zero e le imprese sono equidistribuite, mentre tanto maggiore è l'area di concentrazione, tanto più aumenta l'indice di Gini, che può assumere un valore massimo pari a 1 nel caso in cui l'area di concentrazione coincidesse con la metà dell'area del quadrato. Indipendentemente dal settore l’indice di Gini è sempre compreso tra 0 e 1, pertanto consente confronti intersettoriali. L'interesse degli economisti per indici di che consentano di misurare e confrontare il livello di concentrazione di un'industria nasce sostanzialmente per due motivi: 1. Il primo è legato al volere provare empiricamente che vi è una correlazione positiva tra il grado di concentrazione di un settore e la profittabilità del settore stesso. 2. Il secondo è quello relativo al potere di mercato: aumentando il grado di concentrazione in un settore aumenta anche il grado di potere monopolistico delle imprese. Le autorità antitrust sono molto interessate allora al poter misurare il livello di concentrazione di un mercato, sia per decidere se autorizzare o meno una fusione, sia per accertare se un'impresa sia in posizione dominante. Una posizione dominante non è vietata, ma poiché esiste l'illecito di abuso di posizione dominante nel caso non vi fosse nemmeno una posizione dominante, osservabile anche attraverso la concentrazione, non vi sarebbe nemmeno un abuso. Da un punto di vista teorico si può dimostrare l’esistenza di un collegamento tra concentrazione e potere monopolistico attraverso l'indice di Lerner, che misura il grado di potere monopolistico di un mercato: dove Ci è il CM dell’impresa i ed e l’elasticità della domanda al prezzo. Tale indice è inversamente correlato all'elasticità della domanda al prezzo (potere di mercato c’è quando la domanda è inelastica, quindi quando e è più piccolo), ma direttamente correlata alla quota di mercato. Perciò, all'aumentare della quota di mercato aumenta il grado di potere monopolistico delle imprese. Facendo la sommatoria dell’ultima equazione per le n imprese del settore, si trova che il margine medio di profitto precedentemente trovato è correlato direttamente all’indice di Herfindal, dunque i settori più concentrati anche secondo la teoria dovrebbero essere quelli più profittevoli. Sul tema della concentrazione interessante è capire quali variabili spingono per una maggiore concentrazione in un mercato. I primi studi sul livello di concentrazione (C) di un settore hanno ipotizzato che le principali variabili responsabili della concentrazione fossero la dimensione assoluta del mercato (M), le barriere all'entrata (B) e le economie di scala (E): C=f(M, B, E). Ognuna di queste tre variabili, si suppone esogena allo stesso settore, ma alcuni contributi teorici hanno dimostrato che invece alcune barriere strategiche all’ingresso possono essere create volontariamente dalle imprese. Un secondo gruppo di contributi tende invece ad enfatizzare il ruolo che possano avere altri fattori, come il grado di apertura agli scambi internazionali correlato negativamente alla concentrazione, o il grado di concentrazione della domanda o ancora il grado differenziazione dei prodotti, tanto più in un mercato vi sono prodotti differenziati tanto più concentrato è il mercato stesso. La concentrazione dell’offerta sarebbe quindi una risposta alla concentrazione della domanda volta a controbilanciare il potere d’acquisto dei compratori. Altri tipi di ripartizione: o La produzione del settore può essere ripartita anche per tipo di prodotto. Questa ripartizione potrebbe coincidere anche con una segmentazione per prodotti. o Un altro classico modo di suddividere la produzione complessiva di un settore è quello di osservare quanta parte della produzione rimane all'interno del paese e quanto invece viene esportata. Cioè la suddivisione per tipo di destinazione. o Un altro punto di vista dell'offerta è quello della tipologia dei clienti. Anche in questo caso si segmenta all'interno dell'arena competitiva. o Si può suddividere anche per località di produzione. o Si può suddividere per canali di vendita con l’analisi della distribuzione. I canali di vendita possono variare da settore a settore, ma in generale si ha la vendita diretta e indiretta. Barriere, diversificazione, costi di produzione Per barriere all'entrata di un settore si devono intendere le difficoltà che un'impresa esterna incontra quando desidera inserirsi nel settore. Le barriere all'uscita sono invece le difficoltà che le imprese del settore incontrano quando desiderano uscire dal settore. Possono essere quantificate attraverso le Dummy (0-1) o categoriche (alte, medie, basse, assenti). Diversi economisti hanno espresso opinioni differenti sul concetto di barriere. Secondo Bain le barriere all'entrata si riferiscono al vantaggio che le imprese insediate in un settore possono avere su un neo entrante. Questo vantaggio è misurabile attraverso la differenza tra il prezzo praticato dall'impresa insediata e il prezzo (teorico) di concorrenza. Secondo Stigler, invece, una barriera all'entrata è associabile al maggior costo di produzione, che deve essere sostenuto da un'impresa entrante in un settore rispetto al costo sostenuto da un'impresa già insediata. Invece, von Weizsacker aggiunge alla definizione di Stigler la considerazione che allora esiste una relazione diretta tra barriera all'ingresso ed efficienza economica, per cui all'esistenza di barriere sarebbe associata una non ottimale allocazione delle risorse. Demsetz (è scettico sul modo di misurare i maggiori costi che il neo entrante deve sostenere dato dalle definizioni precedenti) afferma che il maggior costo che il neo entrante dovrebbe sostenere deriva spesso da investimenti precedenti in immagine, in ricerca e in reputazione delle imprese insediata. Questo maggior costo che il neo entrante dovrebbe oggi sostenere è in realtà già stato sostenuto dall'impresa insediata e probabilmente già ammortizzato. Per queste ragioni, la difficoltà nello stimare i costi del produttore entrante e di quello insediato renderebbe di fatto inapplicabile una misurazione delle barriere e una valutazione della perdita di benessere sociale legata a una non ottimale allocazione delle risorse. Ma in linea di massima le barriere sono costituite dalle difficoltà che le imprese esterne al settore devono sostenere per entrare in quel settore. Le barriere all'ingresso di un settore possono essere classificate come alte, media e basse e devono essere poi declinate in concreto per comprendere in che cosa sta la difficoltà dei nuovi entranti. Un primo tipo di difficoltà è costituito dagli ostacoli burocratici e amministrativi come permessi e licenze che sono necessari per intraprendere l’attività. Possono poi esservi delle limitazioni giuridiche come i brevetti che costituiscono una protezione per quel dato prodotto (sono barriera assoluta quando l’impresa che ha quel brevetto non concede licenze a terzi). Inoltre, una classificazione di Bain propone invece tre tipi di barriere economiche: 1. Vantaggi assoluti di costo: Derivano proprio dai minori costi che un'impresa insediata deve sostenere rispetto alle imprese nuove. Le ragioni possono derivare dal non sostenere campagne informative-pubblicitarie, dall'esistenza di economie di apprendimento che hanno determinato un know how, dall’esistenza di canali distributivi consolidati, da canali di approvvigionamento. Tutte queste situazioni creano un vantaggio di costo per l'impresa già insediata che si trovano ad avere minori costi medi di produzione indipendentemente dal livello di produzione, mentre l’impresa neoentrante è sempre svantaggiata indipendentemente dalla sua dimensione. 2. Economie di scala: Costituiscono una seconda fonte di barriere all'entrata, perché comportano una diminuzione del costo medio all'aumentare della dimensione dell'impresa, misurata attraverso l'output del processo produttivo. L’entrante dovrà accontentarsi almeno all’inizio di una. piccola quota di mercato, egli produrrà a un livello di produzione inferiore associato a maggiori costi medi rispetto all’impresa insediata. Se l'entrante non riesce a guadagnare al più presto quote di mercato, può essere costretto ad uscire dal mercato perché non competitivo in termini di prezzo oppure ad accontentarsi solo di nicchie. Queste economie determinano la possibilità di entrare solo con elevati volumi di produzione il che è associato a investimenti più alti e una potenziale maggior perdita in caso in cui l’entrata non abbia successo. 3. Differenziazione di prodotto: Si può intenderla come la preferenza consolidata dei consumatori di un prodotto per un bene che già conoscono (fedeltà alla marca e forte riconoscibilità). Soprattutto per i beni di consumo durevoli, per i quali è importante la reputazione e l'affidabilità dell'impresa. Ma la differenziazione può essere vista come causa di barriera all'entrata, perché l'esistenza di prodotti differenziati può comportare anche degli switching cost tra prodotti dello stesso settore. A queste poi gli economisti industriali hanno aggiunto: 4. Barriere strategiche: Sono istituite volontariamente dalle imprese esistenti allo scopo di limitare il più possibile le entrate nel settore ed eventualmente di favorire qualche uscita. Tra tali barriere possono ricordarsi lo sfruttamento aggressivo di economie di scala e di apprendimento, la ricerca di brevetti o tecnologie per prodotti sostituti, l’uso della pubblicità per consolidare la reputazione, annunci allo scopo di migliorare la reputazione, la fissazione di prezzi limite, la creazione di capacità in eccesso (Smiley). Per esempio, il prezzo limite riduce i profitti attuali dell'impresa, scoraggiando però l'ingresso di altre imprese entranti, poiché non profittevole o molto rischioso. L’ingresso di piccole imprese è scoraggiato poiché si troverebbero con livelli di produzione non corrispondenti alla scala minima ottima. La nuova impresa potrebbe entrare con una capacità uguale a quella dell’impresa esistente ma con un rischio estremo poiché nel settore non vi è posto per due imprese perciò una delle due si vede costretta ad uscire. Tra i prezzi limite si hanno i prezzi predatori, un tipo di prezzo destinato a far uscire concorrenti già entrati. Nei mercati monopolistici si può osservare come barriera all’ingresso la capacità in eccesso. Anche l’introduzione di nuove varietà di prodotto allo scopo di chiudere tutte le possibili nicchie di mercato. L'uso del concetto di barriere all’entrata ha anche destato qualche perplessità tra gli economisti, alcuni dei quali ritengono che le barriere in ogni settore siano relative alla singola impresa. In altre parole, due imprese diverse possono avere un diverso grado di difficoltà ad entrate in uno stesso settore. Questa osservazione è corretta a seconda del tipo di comportamento strategico che si intende successivamente perseguire, sarà più o meno difficile l’entrata. Quest'ultima considerazione è quella che da luogo al concetto di barriere alla mobilità, ossia le barriere che proteggono un singolo raggruppamento strategico all’interno di un settore e che impediscono anche lo spostamento strategico (=cambio di strategia) da parte di imprese che già appartengono al settore. Le imprese possono avere difficoltà a uscire da un settore. Le barriere all'uscita riguardano unicamente l'esistenza di costi fissi e dal fatto che il valore residuo dei beni da ammortizzare possa essere superiore o inferiore rispetto al valore di mercato che l'impresa potrebbe ottenere rivendendo il proprio capitale fisso. Se l’impresa prevede delle perdite e ha ancora capitale fisso da ammortizzare l'impresa deciderà di uscire dal settore se la sommatoria delle perdite saranno maggiori della sommatoria dei costi fissi annuali al netto delle plusvalenze da cessioni da capitale fisso. Diversamente deciderà di rimanere nel settore se la disuguaglianza avesse segno contrario. Se però vi fosse una minusvalenza da cessione del capitale fisso aumenterebbero questa difficoltà. Allo stesso modo tanto più lungo è il periodo di ammortamento del capitale fisso tanto maggiore risulta la parte destra della disuguaglianza e perciò aumenterebbero ancora le difficoltà a uscire. Infine in un analisi di settore può essere opportuno rilevare se esistano delle modalità precise che caratterizzano l’entrata e l’uscita dal settore. I principali risultati di questa ricerca sono stati proposti (Dunne), Roberts e Samuelson: o Ogni 5 anni vi è un turnover di circa il 30%/40% delle imprese di ogni settore. Il 30%/40% delle imprese neo entrante è mediamente di dimensioni inferiori rispetto alle imprese del settore, tanto da coprire solo il 12%/20% del fatturato medio. La metà delle nuove imprese è costituita da imprese diversificate. o L’entrante medio ha una dimensione di circa 1/3 di quella delle imprese esistenti, anche se un'importante eccezione è costituita dalle imprese diversificate che costruiscono nuovi impianti. o Anche le imprese che escono hanno una dimensione media di circa 1/3 di quella delle imprese insistenti. o Solo il 60% degli entranti sopravvive per più di 10 anni, e quelli che sopravvivono raddoppiano la propria capacità produttiva. o I tassi di entrata e di uscita variano a seconda del settore, ma sono correlati tra loro. Vi possono essere diverse ragioni da parti di un’impresa per diversificare: o Le grandi imprese diversificano per ridurre il rischio di impresa. o Altre imprese desiderano diversificare quando il mercato del prodotto principale è maturo o in declino. o Una terza ragione potrebbe essere collegata al desiderio di sfruttare economie di varietà. o Per motivi finanziari. Le diversificazioni non hanno però solo vantaggi. L'impresa può dedicare meno risorse al proprio core business e diversificare in mercati in cui ha meno competenze e capacità di successo. Le imprese diversificate appaiono solo nel settore della loro attività prevalente nelle classificazioni statistiche. La diversificazione può essere: o Diversificazione conglomerale: indica il processo di crescita in termini di dimensione attraverso il quale l’impresa sviluppa prodotti che non hanno nessun rapporto con le attività tradizionali ne sul piano tecnologico ne sul piano commerciale (navi, palloni). o Diversificazione concentrica: si manifesta quando tra due prodotti presentano dei significativi legami di complementarietà sul piano commerciale e/o tecnologico che permette di sfruttare sinergie (pc, telefono stessa tecnologia). o Diversificazione verticale: consiste nell’estensione delle proprie attività a monte o a valle della propria catena del valore. o Diversificazione orizzontale: Il processo di diversificazione avviene con l’introduzione, sugli stessi segmenti di mercato in cui l’impresa è attualmente presente, di nuove funzioni- tecnologie di prodotto che interpretano delle discontinuità tecnologiche con quelle attuali. La diversificazione di un'impresa è misurabile. Un primo indice utile è ancora quello di Herfindal, che può essere utilizzato anche per misurare il grado di diversificazione (D) di un'impresa: Rumelt, invece, suggerisce di classificare il grado di diversificazione di un'impresa in funzione dell'importanza del prodotto principale dell'impresa stessa. Questa è importanza e misurata attraverso un coefficiente di specializzazione (CS) che misura la proporzione del fatturato del prodotto principale rispetto al fatturato complessivo delle imprese: CS=Fpp/FT, dove Fpp: fatturato del prodotto principale e FT: fatturato totale. Può essere utile sia per verificare un’eventuale disomogeneità nel grado di differenziazione delle imprese, sia quando si va a verificare l’esistenza di gruppi strategici di imprese all’interno di un settore. Dal valore del coefficiente ottenuto è possibile poi classificare le imprese in imprese monoprodotto (CS>0,95), con un prodotto principale (0,70