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Questo documento esplora le origini del pensiero etico nella Grecia antica. Analizza la lotta per la sopravvivenza dell'uomo preistorico e il passaggio da un'idea del divino politeistica ad un'idea del logos. Secondo il testo, la ricerca filosofica, inizia con la meraviglia e cerca di comprendere la vita umana.
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L’uomo preistorico era costantemente coinvolto in una difficile lotta per la sopravvivenza, che lo impegnava a cercare di soddisfare i bisogni vitali e difendere la propria integrità dalle aggressioni esterne. Nel corso del tempo, con il passaggio dal determinismo cieco del mondo naturale alle liber...
L’uomo preistorico era costantemente coinvolto in una difficile lotta per la sopravvivenza, che lo impegnava a cercare di soddisfare i bisogni vitali e difendere la propria integrità dalle aggressioni esterne. Nel corso del tempo, con il passaggio dal determinismo cieco del mondo naturale alle libertà condivise del mondo storico, l’uomo ha saputo indirizzare moralmente la propria vita, potendo scegliere svariate possibilità per espandere la sfera del vissuto, in quanto è quando un soggetto impara a controllare i suoi istinti e a prendere le distanze dall’immediatezza del bisogno che il suo sguardo si allarga verso uno spazio sconosciuto di autonomia, cosicché nasce la “persona morale”, per la quale il meglio e il peggio non si riferiscono più solo a una proprietà delle cose, ma anche alla qualità di un comportamento che rivela un tratto fondamentale dell’umano. Nel circuito della parola entrano il positivo e il negativo, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, disegnando nuove forme di competizione e cooperazione; inoltre, con il passaggio dall’oralità alla scrittura si riesce a codificare la vita morale, la quale si traduce in leggi stabili e articolate, che, pertanto, non possono più essere oggetto di arbitraria iniquità (ad esempio, il “codice di Hammurabi”, risalente al II millennio a.C., e le “tavole della legge”). Al pensiero greco si deve uno spostamento decisivo nell’articolazione del senso e, quindi, nella ricerca del bene, passando dal piano del mythos, caratterizzato da interpretazioni narrative collocate in un universo dove il divino è rappresentato in forma politeistica, al piano del logos, in cui si può andare oltre l’immediatezza sensibile grazie all’amore della sapienza. La ragione filosofica pone delle domande cercando di valutarne il senso, la natura e la rilevanza per la vita umana, ponendo dei dubbi anche in quegli ambiti dell’esperienza che sembrano essere certi. Secondo Aristotele, la meraviglia costituisce la sorgente dell’atto filosofico, vale a dire è un atteggiamento fondamentale che avvia una nuova via della ricerca, che presenta benefici sia per i risultati cui conduce (crea un universo di sapere alto, comunicabile e fine a se stesso) sia per 2 il suo stesso esercizio (la ricerca di un fine conduce l’uomo verso una strada diversa rispetto a quella naturale). Tuttavia, affinché la sensibilità religiosa, la civiltà culturale, la vita politica del mondo greco antico possano giungere alla forma propria dell’argomentazione filosofica, occorre la mediazione letteraria. Nell’VIII secolo a.C., i poemi omerici ricevono una forma scritta e tramandano l’idea che dèi e uomini sono sottoposti a un ordine in relazione al quale viene configurato lo spazio della giustizia (dike) e, dunque, la differenza fra onore e disonore; per cui, chi agisce conformemente a quest’ordine è buono (agathos) e raggiunge la virtù o eccellenza (arete), come il coraggioso Achille o l’astuto Odisseo. Per misurare la scala dell’eccellenza si fa riferimento ai valori dell’autoaffermazione, del successo e della reputazione; quest’ultima ritenuta particolarmente rilevante quando è guadagnata sul campo di battaglia. Anche per il poeta Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) la storia umana si fonda sul principio fondamentale della giustizia, e non sulla legge del più forte che, invece, regola il mondo animale. Secondo la più antica coscienza greca, l’essere umano vive in una condizione in cui, da un lato, c’è un kosmos permeato dal divino e, dall’altro, l’insuperabile precarietà del tempo che tutto porta con sé. Tra VI e V secolo a.C., la tragedia greca si è concentrata sui possibili conflitti determinati da questa fragilità e ambivalenza, configurandosi una stretta connessione tra giustizia divina e responsabilità umana, tra colpa e purificazione, entro la quale si colloca il soggetto morale. Ad esempio, Eraclito (VI-V secolo a.C.) è consapevole del forte legame tra sapienza e vita morale; Democrito individua una gerarchia morale, ritenendo che ciò che rende felici gli uomini non sono né le doti fisiche né le ricchezze, bensì la rettitudine e l’avvedutezza. In tale contesto, l’etica trova spazio fra i concetti opposti della fortuna e della virtù, che il filosofo deve sempre tenere in considerazione per potere qualificare moralmente la semantica dell’eccellenza e l’esperienza della fragilità. La ricerca di un legame interno fra i valori omerici deve fare i conti con un conflitto di fondo, ossia persone buone rovinate da avvenimenti casuali non controllabili, cosicché, a fronte di questi interrogativi, i filosofi suggeriscono di guardare un orizzonte superiore, poiché l’universale prevale e nessuno può possederlo. Per gli antichi, ciò che si ripete e resta sempre identico a sé stesso attraverso tutti i mutamenti ha il carattere dell’eterno e partecipa del divino. 3 Dunque, il grande dilemma dell’etica greca consiste nel rispondere alla domanda se la ricerca di questa stabilità si esaurisce semplicemente in una comunione con il divino, promessa dall’intelletto, o se deve essere in qualche modo trasferita e sperimentata nel vissuto. Questo dilemma divide i maggiori filosofi greci, come Platone e Aristotele; dalla risposta alla domanda “È accettabile una riduzione del rischio che si spinga fino a una neutralizzazione della fragilità?” dipende la possibilità di affrontare altre questioni, come una concezione unificata del soggetto e della sua responsabilità morale, e un’espansione delle virtù dal piano competitivo a quello più collaborativo. Sin dalle sue origini, la riflessione morale, intesa in senso ampio, ha affiancato la nascita della domanda filosofica alla ricerca di un principio unificante, anche se essa coinvolge chiaramente il mondo della natura. Più specificatamente, la filosofia morale trae origine dalla meraviglia scaturente dallo spettacolo della physis che si trasforma in una dipendente dalla profondità inesauribile dell’uomo, poiché la natura umana diviene un oggetto unico dell’investigazione filosofica, a nessun’altro assimilabile. Dunque, le ricerche di un principio nella conoscenza di sé e di uno della vita buona sono inseparabili, in quanto così come l’uomo non può essere considerato un oggetto qualsiasi, anche il bene non è assimilabile a un principio qualunque; per quel principio si deve vivere e si può morire. Ragion per cui, Socrate (469-399 a.C.) viene considerato il “padre” della filosofia morale, che mette in pratica ad Atene, ossia in una polis caratterizzata da profonde trasformazioni. La recitazione e l’ascolto dei poemi antichi avevano influenzato per generazioni l’immaginario sociale, facendo scaturire la convinzione che le forme della comunità dovessero rispecchiare un supremo ordine della giustizia, comprensivo di ogni forma del vivere (ad esempio, le attività sportive e ricreative, la coltivazione della terra e delle arti, il governo della polis). In questo contesto si era sviluppato l’ideale della vita morale, concepito come un esercizio di crescita armonica e, quindi, felice della vita buona. Nell’età di Pericle (495-429 a.C.) si era convinti che il singolo cittadino potesse perseguire il proprio bene in armonia con quello della città, cosicché si stava realizzando un processo di progressiva “democratizzazione” delle virtù, in quanto, con il mutamento dell’assetto sociale aristocratico, la condizione di agathos non è più considerata una dote individuale acquisita alla nascita, bensì è una nuova virtù che consiste nell’osservanza della legge, è un patrimonio comune frutto dell’educazione dei cittadini attraverso le leggi. Tuttavia, fra il V e il IV secolo a.C., la scena politica ateniese è dominata da lotte di potere che 4 mettono in crisi tutti gli antichi ideali, nonché il rapporto consolidato tra la natura (physis) e la legge (nomos); è in tale scenario che i “sofisti” si mostrano come esperti di sapere e di virtù, capaci di insegnare a chiunque questa via della sapienza. Dunque, il sofista veniva concepito negativamente, essendo visto come colui che vende per denaro una sapienza apparente e non reale; ma nonostante ciò, la stagione sofistica influenza notevolmente la democratizzazione dei processi culturali e, al contempo, introduce un nuovo modo di fare filosofia, che concepisce il filosofo come un insegnante di eloquenza e un medico dell’anima, e non più come un cercatore di verità. Socrate accetta un confronto critico con i sofisti, riconoscendone il valore intrinsecamente educativo, che però non lo riduce a una tecnica persuasiva e superficiale, volta alla trasmissione di abilità strumentali, ma lo considera fino alle sue conseguenze più estreme. Platone condivide l’idea che la conoscenza di sé e la ricerca della virtù siano inseparabili, in quanto non è possibile perseguire la sapienza senza conoscere se stessi, né essere virtuosi senza sapere cosa sia propriamente la virtù. Aristotele riconosce a Socrate di essere stato il primo a cercare di fornire delle definizioni universali delle virtù etiche, tentando di raggiungere «l’essenza delle cose» attraverso «ragionamenti induttivi». L’etica socratica fa un costante richiamo a un inderogabile e supremo “segno divino”, in base al quale si giudica la vita della città, non facendosi influenzare dai costumi o dalle convenzioni sociali. Secondo Socrate non si poteva accettare alcun compromesso, ritenendo che fosse meglio subire l’ingiustizia piuttosto che commetterla. Dunque, nel modello di articolazione del discorso morale di Socrate emerge in modo paradigmatico, per le etiche successive, il tema della virtù e del rapporto tra virtù e felicità. Questo filosofo avvicina le domande della vita e il rigore della ricerca, conferendo all’etica una forte curvatura auto-implicativa, sostenendo un importante messaggio etico, ossia che l’uomo buono non può subire alcun male; questo nobile pensiero di Socrate è manifesto della radicalità del filosofo, della passione dell’educatore e dell’eroismo del testimone