Summary

Questo documento presenta un'analisi di concetti filosofici di Platone e Aristotele, in particolare, con riflessioni sulla vita morale e la filosofia politica. L'elaborato mette in luce le differenze nel loro approccio filosofico e fornisce uno schema storico sulle loro idee.

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Platone ha lasciato in eredità alla sua scuola un’idea organica di filosofia e di vita morale, nonché una serie di questioni aperte, successivamente riprese o disattese a seconda della recezione del suo pensiero. Con riguardo a questo processo di sistemazione scolastica, Aristotele (384/383-322/321...

Platone ha lasciato in eredità alla sua scuola un’idea organica di filosofia e di vita morale, nonché una serie di questioni aperte, successivamente riprese o disattese a seconda della recezione del suo pensiero. Con riguardo a questo processo di sistemazione scolastica, Aristotele (384/383-322/321 a.C.) ha svolto un ruolo di interlocutore critico, elaborando un proprio sistema di pensiero e, dunque, una propria visione morale. Analogamente a Platone, Aristotele ha composto dei dialoghi destinati alla pubblicazione, dei quali però sono rimasti pochi frammenti, mentre le opere “sopravvissute” sono per lo più materiali didattici destinati alla scuola da lui fondata: il Liceo. Nel Corpus aristotelicum, le tre grandi opere di etica: l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia e la Grande etica, sono collocate dopo le opere di logica, fisica, filosofia prima (o metafisica), ma prima della Politica e delle opere retoriche. Leggendo queste opere si nota il diverso approccio al problema morale, poiché mentre Platone ha affidato alla filosofia il compito di diventare la techne capace di salvare la vita umana, per Aristotele in tutti i campi della conoscenza, tra cui l’etica, il filosofo deve porsi in una relazione equilibrata con le convinzioni e i discorsi degli esseri umani realmente esistenti. A differenza di Platone che ha sentito l’esigenza di “alzare lo sguardo” rispetto al naturalismo dei filosofi presocratici; Aristotele ha voluto indagare, anche in considerazione dei guadagni metafisici del platonismo, il mondo della natura, e quindi la vita morale, per soffermarsi sui dinamismi propri e sulle interne proiezioni teleologiche. In questo “passo indietro”, la struttura dell’etica sembra essere “normalizzata”, poiché il discorso morale viene espresso in maniera più fredda e sistematica, meno incline all’entusiasmo religioso e meno disposto ad assecondare le movenze disordinate del dialogo o le suggestioni del mito. La scansione tematica della ricerca non è più la stessa, in quanto si riflette sempre in una 14 destinazione differenziata delle opere, nelle quali l’etica viene trattata in modo specifico, distinguendosi nell’oggetto e nel metodo. Un’altra differenza concerne il rapporto con le fonti perché Socrate e Platone fanno riferimento soprattutto ai saggi e ai poeti, a differenza di Aristotele che richiama Socrate, Platone, Eudosso e Speusippo. Infine, cambia anche lo statuto epistemologico dell’etica, nella ricerca di un modello di razionalità che consente di avvicinarsi il più possibile alla dinamica della prassi, riconosciuta come la forma propria della vita morale. Nel Sofista Platone ha ritenuto possibile riconoscere la molteplicità dell’essere, se si distingue tra il non-essere in senso assoluto e il non-essere in senso relativo (ciò che è diverso da qualcos’altro, non è qualcos’altro). Aristotele si è interrogato sul senso di questa molteplicità, seguendo una via che parte dal mondo dell’esperienza, al cui interno si deve ricercare quel punto di sintesi fra particolare e universale, fra molteplice e uno, fra materia e forma, che invece Platone aveva sdoppiato. Dunque, il vero tema di Aristotele è il senso dell’essere, che può essere tematizzato ricorrendo ai molti significati dell’essere, classificati nella Fisica in dieci categorie fondamentali, che tuttavia hanno sempre qualche rapporto con la sostanza. Mentre l’arte si considera un principio esterno di movimento, nella Fisica la natura stessa è ritenuta principio o causa di movimento, almeno in quattro sensi diversi: la causa materiale indica la materia di un ente; la causa formale è la sua configurazione più propria; la causa efficiente produce il movimento; la causa finale è il telos verso cui il movimento stesso è orientato. Le cause possono, a loro volta, rimandare ad altre cause, e rispetto ad esse la Metafisica individua nella “filosofia prima” la ricerca delle cause incausate. Dunque, alla distinzione tra materia e forma si collega quella tra potenza e atto, che spiega la proprietà di una sostanza di passare, in assenza di impedimenti, da uno stato all’altro; si tratta di un passaggio che si può verificare grazie all’anteriorità dell’atto, che proprio per questo orienta e finalizza il processo. Nel libro XII si trova la celebre trattazione del primo motore immobile, che muove il cielo come un oggetto del desiderio e dell’intelligenza, il quale, trattandosi di un atto puro, è separato dalle sostanze sensibili e non ha alcuna potenzialità e, pertanto, è fine a se stesso e pensa eternamente se stesso in una vita perenne e felice. Per cui, la domanda riguardante la natura dell’ente si lega alla questione dell’anima; quest’ultima è un «atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza» e, di conseguenza, 15 a differenza di quanto ritenuto da Platone, non è un’entità separata dal corpo, bensì è la forma stessa di esso, e quindi il principio che fa del vivente un’unica sostanza. Il corpo, essendo materia, ha la potenzialità del vivere, mentre l’anima, in quanto forma, rappresenta la pienezza del compimento (entelechia) che rende possibile la vita; a livelli diversi: l’anima vegetativa è il principio del nutrimento e della riproduzione (che l’uomo ha in comune con le piante), quella sensitiva è principio del movimento e della sensazione (che l’uomo ha in comune con gli animali), mentre l’anima intellettiva o razionale, che è principio del pensare e comprende in sé anche la funzioni inferiori, è propria dell’uomo. L’intelletto umano è capace di individuare le forme intelligibili degli oggetti astraendo dalla loro materia, per cui esso può attualizzare le sue potenzialità grazie a un intelletto efficiente, sempre in atto, separato ed eterno, rispetto al quale l’intelletto personale risulta in un certo senso “passivo”. In questa prospettiva, il bene viene definito come ciò a cui tutto tende. Platone ha concepito il bene come qualcosa di universale, unico e quindi separato, mentre Aristotele condivide una concezione composita del bene, e dunque della felicità, vale a dire ci sono più modi di dire il bene. D’altronde, anche la vita umana si dice “in molti sensi”, in quanto ogni tecnica e ricerca, come ogni azione e scelta, tendono a un fine proprio, che si configura come un bene. Infatti, gli uomini che possono vivere secondo le proprie scelte individuano degli scopi del viver bene (ad esempio, l’onore, la fama, la ricchezza, la cultura) in relazione ai quali verranno compiute tutte le azioni, cosicché non aver imperniato la propria esistenza attorno a qualche fine è sintomo di grande stoltezza. Ne discende che bisogna ammettere molti fini, e quindi beni, tra loro diversi che comprendono anche beni esteriori (come la salute o una ricchezza adeguata). Quando si ricercano dei beni in vista di beni ulteriori, essi tendono al raggiungimento di un fine supremo, che Aristotele l’ha identificato con la felicità (eudaimonia); invece, se il fine perfetto è perseguito per se stesso e non in vista di altro, la felicità si può considerare bene perfetto che viene scelto sempre in quanto tale e non al fine di ottenere ulteriori cose. Infatti, è possibile scegliere onore, piacere, intelligenza e ogni virtù per se stessi, senza considerare l’eventuale altro bene che potrebbe derivarne, anche se la loro selezione è legata alla felicità, poiché si ritiene che grazie ad essi si potrà essere felici. Viceversa, nessuno sceglie la felicità in vista di quei beni né, più in generale, a causa di altro. Di conseguenza bisogna ammettere anche una molteplicità di scienze: quelle pratiche hanno precisamente come oggetto il bene che si deve conseguire attraverso l’azione; in particolare, la 16 filosofia pratica ha come fine il bene supremo, per cui può dirsi anche “scienza politica”, essendo il bene supremo coincidente con quello della città. Dunque, in siffatta maniera, la prassi diventa oggetto di scienza: non basta conoscere il bene, ma occorre diventare buoni. Nella Metafisica, Aristotele ha definito la filosofia come la «scienza della verità», distinguendola in teoretica e pratica: la prima ha come fine la verità, mentre la seconda l’azione, sostenendo che coloro che perseguono quest’ultimo obiettivo si limitano ad osservare come stanno le cose, ma tendono solo alla conoscenza di ciò che è relativo ad una determinata circostanza e in un preciso momento, e non di ciò che è eterno. Pertanto, anche la filosofia pratica ricerca la verità, indagando la natura e la causa delle cose, ma lo fa in vista di altro, ossia in relazione a un’azione che deve essere compiuta in un caso particolare. Un’ulteriore precisazione si trova nel libro VI della Metafisica, laddove viene precisato che il principio delle azioni pratiche si rinviene nello stesso agente ed è la volizione, vista la coincidenza tra essa e l’oggetto dell’azione pratica. Dunque, l’oggetto della filosofia pratica dipende dalla prassi, dall’insieme delle azioni poste in essere e hanno il loro principio nel soggetto, cosicché l’azione si può considerare scopo e oggetto della filosofia pratica. Secondo Aristotele, lo stato delle cose può essere cambiato solo in un preciso settore della realtà, cioè quello costituito dalle azioni umane. L’azione (praxis) non persegue alcun fine al di fuori di sé, ma lo realizza nell’atto stesso (energheia), ad esempio nell’atto di vedere o di pensare; mentre lo scopo in base al quale si produce qualcosa è un’opera (ergon), che una volta terminato il processo sussiste autonomamente. Quindi, la forma della vita buona è un agire ben riuscito e la felicità è proprio un modo di vivere e di agire bene; in sostanza, chi mette in pratica tutti gli scopi particolari unificandoli in modo armonico e coerente vive bene. Il bene rappresenta la finalità immanente alla prassi, su cui la filosofia pratica esercita un’analisi critica, in quanto tutti desiderano essere felici ma in maniera diversa, così come una stessa persona può perseguire di volta in volta ideali diversi (ad esempio, chi è malato può identificare la felicità con la salute, chi è povero con la ricchezza). Conseguentemente, il bene supremo può essere delineato solo in termini generali

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