Storia Delle Dottrine Politiche PDF

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storia del pensiero politico filosofia politica grecia antica pensiero politico

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Questo documento esamina la storia del pensiero politico, concentrandosi sulle radici greche, dal periodo dei Sofisti a Socrate e Platone. Analizza i concetti di democrazia, giustizia e potere in contesti storici. Il documento esplora le diverse scuole di pensiero e le evoluzioni del pensiero politico.

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STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE 1. La nascita del pensiero politico nell’antica Grecia: dai Sofisti a Socrate. La culla del pensiero politico classico è la Grecia del V secolo a.C.; il termine politica deriva dal greco polis, si intendeva lo stato dei politi, cioè lo stato dei cittadini liberi e...

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE 1. La nascita del pensiero politico nell’antica Grecia: dai Sofisti a Socrate. La culla del pensiero politico classico è la Grecia del V secolo a.C.; il termine politica deriva dal greco polis, si intendeva lo stato dei politi, cioè lo stato dei cittadini liberi e uguali. La polis greca è la città-stato di Atene e il modello di questa si afferma come principale forma di organizzazione politica. Inizialmente queste città erano controllate da sovrani locali e poi da clan e gerarchie di tipo tribale. La loro crescita è favorita dal commercio, il dato fondamentale è la posizione geografica (costiera con entroterra agricolo). Successivamente i clan vengono sostituiti da regimi tirannici, con fondamenti instabili basati su alleanze cangianti e provvisorie. La vita politica della polis si basava sulla dialettica fra i vari gruppi sociali nella misura in cui era presente un’indipendenza economica basata su un’economia di tipo schiavista e sul lavoro domestico femminile che permettevano agli uomini di dedicarsi alla politica. Ad Atene questi processi danno luogo ad un particolare tipo di cittadinanza politica, creando delle fratture all’interno della popolazione. La polis greca è basata su un concetto piuttosto limitato di cittadinanza, cioè comprendeva solo quanti, tra i maschi liberi, erano nati da genitori ateniesi; abbiamo a che fare con una comunità politica molto ristretta e questo contribuirà allo sviluppo di una discussione di tipo democratico, cioè il dèmos (popolo) deteneva il potere sovrano, l’autorità suprema di esercitare funzioni di tipo legislativo o giudiziario, che si realizzava con la partecipazione diretta agli affari dello stato, un’adesione generale al principio della virtù civica e la subordinazione della vita privata agli affari pubblici e al bene comune. Il potere nella polis greca è organizzato attraverso una partecipazione diretta in discussioni libere, garantite dal principio dell’isegorìa, cioè l’uguale diritto per tutti di parlare nell’assemblea sovrana, dove venivano valorizzate le tendenze democratiche dell’individuo; la possibilità di influire in maniera più determinante sul potere sovrano era delegata ad alcuni cittadini preposti attraverso un’elezione e assunzione di cariche di breve durata, retribuite; aspirare a questo era possibile per tutti: l’uguaglianza diventa il fondamento politico della libertà. I limiti della democrazia greca sono rappresentati anzitutto dal fatto che la partecipazione era subordinata alle capacità oratorie del singolo, bisognava inoltre essere leader politici, spalleggiati da gruppi organizzati; i gruppi rivali finivano per delegittimarsi a vicenda per potersi affermare. Un elemento che deriva da questi era l’esistenza di reti informali di comunicazione e di complotto, questa contrapposizione sfociava in ostracismo, cioè l’esclusione della vita politica che poteva concretizzarsi poi in condanna a morte. Le decisioni popolari poggiavano su una base instabile, sulla capacità dei gruppi rivali di controllare la vita politica, rilevando una vulnerabilità dell’assemblea rispetto alle passioni del momento. Quando parliamo della democrazia ateniese facciamo riferimento ad una democrazia radicale, contrassegnata dall’assenza di contrappesi al potere, caratterizzata dal dominio del popolo, da una stabilità condizionata dai successi militari, che garantivano pace interna, e dal colonialismo. Le colonie e le città alleate di Atene pagavano costanti e pesanti tributi che servivano ad abbellire la città e a sovvenzionare la vita politica degli ateniesi, in particolare gli appartenenti alle classi inferiori, nasce così l’assistenzialismo. Tucidide racconta il dialogo tra gli ateniesi e gli ambasciatori di Melo (una delle città conquistate), gli ultimi protestavano per ottenere una liberazione dai pesanti tributi dagli atenesi che danno loro una risposta che di fatto inaugura la cosiddetta realpolitik: ‘’il fatto che i forti facciano ciò che possono e che invece i deboli facciano ciò che devono, cioè sottomettersi ai forti, è una legge di natura’’. Sul contrasto tra legge e natura, si svilupperà tutto il pensiero politico greco dal periodo dai sofisti a Socrate. La stabilità democratica di Atene durò fino alla metà del IV secolo a.C. quando il mondo greco fu conquistato da Filippo II di Macedonia e da suo figlio, Alessandro Magno, alla morte di quest’ultimo, le polis provarono a riconquistare l’indipendenza ma senza successo, poiché avevano perduto la libertà che era il 1 fondamento del loro modello. La lezione che possiamo trarre è che la libertà democratica è al tempo stesso una risorsa e un problema per la politica. All’interno del pensiero politico greco vi erano posizioni contrastanti e finanche un’opposizione nei confronti del modello della democrazia ateniese; al centro del dibattito c’era il concetto di nòmos (legge), e furono in particolare i filosofi sofisti a portare alle estreme conseguenze il conflitto fra nòmos e physis, legge e natura. I sofisti erano degli intellettuali itineranti che facevano commercio del proprio sapere e della propria conoscenza dell’arte della retorica, che i cittadini volevano imparare per prevalere nel dibattito politico. Definiti da Platone come mercenari di parole, suggerivano che l’ordine legale della polis fosse un insieme di convenzioni senza alcuna radice nella natura, che per i sofisti rappresentava l’unico elemento in grado di definire le regole di ciò che è giusto, cioè l’utile del più forte. Il punto è affermare il valore della ragione umana sopra ogni altra considerazione e difendersi dal dispotismo della legge, espressione dell’artificio con cui i deboli si sono protetti dal diritto dei più forti. Il pensiero politico greco si trova in un vicolo cieco, consapevole di questo pericolo è l’ateniese Socrate che cerca di recuperare gli elementi vitali del pensiero tradizionale della stessa critica sofistica, in una sintesi originale e insuperata. Egli utilizza il metodo dialettico fra tesi opposte per far emergere come ogni presunzione di conoscenza, vada a produrre degli effetti dannosi e il suo motto, so di non sapere, dovrebbe liberare da questa presunzione intellettuale. Non ci sono pervenuti scritti di sua mano, ma i suoi alunni, Platone e Senofonte, ci presenteranno aspetti della sua figura, definendolo il più giusto fra gli uomini di allora. Secondo Platone, egli era persuaso che la politica non fosse tutto, e che si potesse essere buoni cittadini anche senza partecipare direttamente alla lotta politica per le cariche che aveva degradato la vita politica ateniese, nasce così, l’antipolitica vista come impegno e testimonianza di virtù; inoltre giudicava assurdo che la scelta delle cariche di maggior responsabilità avvenisse per sorteggio, difende l’idea che il politico dovesse avere delle qualità e una specializzazione per poter svolgere l’arte politica, nasce pertanto la necessità di una preparazione tecnica per i governanti. Socrate si oppone alle carenze della politica ateniese in termini di morale e cultura, ed emerge la dimensione soggettiva, cioè la politica è una forma di conoscenza con cui l’essere umano attuerebbe l’ordine civile, a legare il cittadino alla legge deve essere la propria coscienza, il demone interiore, alla quale è demandata, nella vita politica, la scelta fra il bene e il male; di qui il dovere di comprendere anche la valutazione e il punto di vista altrui. 2 2. Il pensiero politico di Platone (428 – 437 a.C.) Platone nasce ad Atene nel 428 a.C. da una famiglia legata all’oligarchia filo-spartana, ed è destinato ad un importante carriera politica. Incontrò però Socrate, da cui ricava una forte critica verso le posizioni degli oligarchi, e dei democratici. Divenne suo discepolo e dopo la condanna a morte del maestro nel 399 a.C., decide di rinunciare alla vita politica. Si reca nelle colonie di Taranto e Siracusa dove cerca di influire senza successo sui tiranni che le governano. Ritornato ad Atene raccoglie dei discepoli (tra cui Dione) e nel 387 a.C. fonda l’Accademia, un centro di studio che aveva come finalità principale la preparazione degli individui alla vita politica. Platone mostra le premesse etiche della sua filosofia attraverso la forma letteraria del dialogo, il quale consente lui di presentare i concetti filosofici, sotto più punti di vista e di fare emergere progressivamente quelle verità, che ritiene necessarie (riproduzione del metodo pedagogico socratico). I sofisti sono l’obiettivo polemico principale di Platone, che vuole dimostrare come il dialogo sia superiore alla persuasione retorica. A questo tema è dedicato il dialogo del Gorgia, nel quale Socrate, che diviene personaggio letterario, dialoga con tre discepoli sofisti tentano di difendere con argomenti più o meno razionali le affermazioni ‘’avere il potere significa poter ottenere ciò che si vuole..; la buona vita consiste nella gratificazione dei nostri impulsi..; il migliore e più saggio governa sui suoi inferiori..’’. Alla retorica Socrate oppone l’arte del filosofare che ci consente di comprendere le cose come sono veramente, non limitandosi all’apparenza e che ci aiuta a capire che i potenti sono inermi, perché non ottengono veramente ciò che vogliono, cioè una vita retta ed inoltre ‘’agire giustamente è sempre la cosa migliore da fare, perché l’unica cosa che vale è avere un’anima buona e in salute’’; invece causare la morte dei propri nemici attraverso mezzi ingiusti equivale alla morte interiore. Quindi la buona vita dell’anima viene messa in comparazione con quest’ultima, queste sono le premesse della filosofia platonica. Il tema della virtù è approfondito nei dieci libri che compongono La Repubblica scritti in forma di dialogo tra il 395 e il 368 a.C.. Il Libro I è dedicato alla giustizia come fondamento della morale, poiché ‘’l’uomo giusto non deve nuocere ad alcuno, amico o nemico che sia..; deve vivere secondo la giustizia e bandire come male l’ingiustizia’’. Da qui, la giustizia emerge come quel valore che conduce gli uomini a mantenere le promesse, dire la verità, svolgere i propri doveri e obbedire alle leggi. La giustizia è dunque la prima norma per la convivenza e la sopravvivenza stessa di una comunità politica, nel dialogo Socrate afferma che anche un’associazione di briganti quando si pone un obiettivo ha bisogno di una norma di giustizia che ne regoli i comportamenti reciproci, a maggior ragione questo vale per una comunità politica. Platone, etichettando gli stati esistenti al suo tempo come ingiusti, elabora, nel Libro II, la teoria dello Stato ottimo o ideale (kallipolis), assumendo che la giustizia individuale e quella dello stato coincidano. A differenza di Socrate che partiva dall’ordine interiore all’individuo per delineare l’ordine civile, al contrario Platone parte dallo Stato ideale per fondare la giustizia dell’individuo. Gli uomini si associano in una comunità politica per la necessità di soddisfare in maniera più adeguata i propri bisogni, da qui nasce la divisione del lavoro, secondo la naturale disposizione di ciascuno verso una specializzazione. Le città-stato greche vivevano in condizione di guerra perenne, la difesa della città spetta ai guardiani e ai guerrieri, e fra costoro bisogna scegliere i migliori, i filosofi, affinché possano essere governanti. Platone cerca di giustificare la politica sul piano del sapere, come una forma di conoscenza: il politico perfetto è il filosofo, ovvero colui che è dedito alla ricerca del vero. Approfondisce questa provocazione attraverso il celebre mito della caverna, nella quale è raffigurata la condizione degli uomini prigionieri di falsi idoli da cui occorre liberarsi per raggiungere la conoscenza del bene e del vero. Sono legati, incatenati a delle sedie di spalle all’entrata rivolgendo il logo sguardo alla parte al fondo della caverna nella quale vedono la realtà, sotto forma di ombre proiettate. Chi vuole alzarsi e vedere meglio, è costretto a dare uno strattone alle proprie catene, una volta usciti dapprima la luce li abbaglierà, adattando la propria vista alla luce, costoro riusciranno a vedere la realtà com’è veramente; questo adattamento è la metafora del processo educativo che avviene acquisendo 3 progressivamente gradi di conoscenza fino alla conversione totale verso il Vero. La paideia diventa l’arte della conversione. Chi riuscirà a tornare nella caverna per testimoniare l’esistenza della luce, subirà l’amara sorte di essere deriso o ucciso, nonostante ciò il filosofo non può sottrarsi a questo compito, c’è questo dovere di testimonianza dettato dalla propria coscienza. Come ai filosofi spetta la missione della politica, così alla casta degli artigiani spetta produrre i beni materiali di cui la città deve vivere. Nello Stato ideale non ci sono conflitti perché ognuno fa la sua parte e realizza la sua giustizia. Questa non può che apparire una società chiusa, statica. Il modello è Sparta, una società chiusa rigidamente divisa in caste, nella quale non c’è libertà, in questa Platone vede un progetto politico basato sull’equilibrio. L’attaccamento ad ogni cosa, dalla famiglia alla proprietà privata, è da lui giudicato come fonte di corruzione e divisione della comunità politica e renderebbero più difficile perseguire il bene pubblico. Platone si fa fautore di un modello proto-totalitario, teorizzando un governo dei migliori, da questo l’accusa da parte di Karl Popper, che lo ha definito un nemico della società aperta e precursore del totalitarismo. Per il filosofo tedesco, il punto non è individuare i migliori o i più adatti all’esercizio del potere, quanto piuttosto evitare che governanti incompetenti o malvagi non facciano troppi danni. Nel libro VIII della Repubblica, Platone afferma che la bontà di una costituzione dipende dalle qualità e dalle virtù degli uomini, cioè dai loro costumi. La democrazia radicale ateniese è una forma corrotta, il cui esito finale è la tirannide. Il tiranno è il prodotto dell’assenza di leggi (anomìa, concetto antitetico all’eunomìa, cioè al buon governo) e della volontà di potenza individuale a scapito degli altri (plenoexìa). Il tiranno è l’uomo sommamente ingiusto verso gli altri e verso se stesso ed è condannato a vivere come il più infelice degli uomini perché cancella l’uomo che è dentro di lui, l’uomo di profondità; arriva ad obliare qualsiasi sentimento di giustizia, egli attua un capovolgimento della paideia platonica. La saldatura tra la concezione etico-politica e quella antropologica in Platone è rappresentata dall’idea dell’anima come mostro dalle molte teste, in cui la parte razionale dell’uomo, cioè il logos, dovrebbe disciplinare la nostra parte irascibile, metà bestia e metà uomo (metàxis). Nella natura umana è annidato il germe della sua stessa dissoluzione, solo con la paideia si può aspirare ad un assetto in cui la ragione finalmente abbia prevalere. Anni dopo, scrive il dialogo del Politico, qui la dialettica platonica non è più discendente (dalla migliore alla peggiore forma di governo, come descritto nella Repubblica), ma ascendente (dalla peggiore alla migliore). L’uomo politico deve avere il senso della situazione di ciò che deve fare, mentre il filosofo ha invece l’attitudine a conoscere la realtà, senza necessariamente mettere in pratica la sua conoscenza, da qui nasce la distinzione che facciamo fra scienze teoriche e pratiche. Il politico inoltre, deve avere capacità critica e carisma, non deve essere un pastore che cura il proprio gregge, perché non ha animali da governare, ma uomini. Per i pensatori classici come Platone, era l’epoca della perfezione, ma bisogna essere consapevoli del fatto che ogni autorità politica non raggiungerà mai la perfezione degli dei, pertanto non si tratta più di delineare lo Stato perfetto, ma ci troviamo davanti ad una situazione politica di second’ordine , in cui occorre adattarsi al governo delle leggi. Occorre mantenersi fedeli alle norme che erano state istituite dai saggi legislatori del passato, Platone non ha fiducia nei politici del suo tempo, essendo mossi dal proprio interesse. Il politico è come un tessitore, che utilizza materiali diversi, come diversi sono gli uomini per capacità e temperamento, per tessere l’ordito e la trama di un tutto armonico. L’ultima espressione del pensiero politico di Platone è le Leggi, opera pubblicata postuma, nella quale è centrale la figura del legislatore che, a differenza del filosofo, provvede all’uomo quale è nella realtà. Viene presentato attraverso il dialogo tra un Ateniese (Platone), uno Spartano e un Cretese che valutano quali siano le istituzioni umane più efficienti a governare bene (la famiglia, il ruolo della donna, l’istruzione, il commercio..). C’è spazio per una denuncia all’arte, sulla base di quella condotta dallo stesso Socrate a Omero, che aveva parificato gli dei agli uomini, per Platone la vera arte è la politica e lo Stato è la più bella e, al tempo stesso, la migliore tragedia che ci sia possibile comporre e la più vera, che solo la legge può condurre a compimento. Nelle Leggi si pone la domanda sul qual è il fine che un legislatore deve porsi: per lo Spartano e il Cretese è la guerra, per l’Ateniese la guerra guarda solo ad una parte della virtù, pertanto il legislatore deve guardare piuttosto a tutte le parti della virtù 4 in un’unità chiamata l’Uno, finalizzata alla pace. La ricerca della forma di governo che può realizzare questo fine è analizzata nei quattro stadi dell’evoluzione della società umana: il primo stadio è l’isolamento delle famiglie dopo il grande diluvio, segue l’avvento dell’agricoltura, che consente l’aggregazione delle famiglie, da questa unione si generano le polis. Su questo stadio dell’evoluzione Platone ne analizza l’insufficienza dei modelli delle città-stato. La causa del crollo era dovuta all’ignoranza nelle più importanti cose umane. Introduce nella teoria politica i l tema della misura (métrion), e la necessità di non oltrepassarla, perché evitare questo male, conoscendo la giusta misura, è la capacità dei grandi legislatori. Questo tema sarà al centro della riflessione etico-politica di Aristotele, ma già Platone contribuisce a innestare dosi di realismo. A conclusone della sua ricerca filosofica, Platone sembrerebbe dirci che l’uomo giusto e saggio non si trarrà fuori dal mondo della politica, ma si terrà disponibile per l’occasione favorevole, ad agire. 5 3. Gli scritti politici di Aristotele (384 – 322 a.C.) Aristotele nasce a Stagira, in Tracia, nel 384 a.C. da una famiglia al servizio del sovrano della Macedonia. Rimasto orfano, fu invitato dal suo tutore a studiare presso l’Accademia di Platone divenendone discepolo. Si distinse subito per le sue doti intellettuali e rimase nell’Accademia per 20 anni fino alla morte del suo maestro (347 a.C.) quando lascia Atene per dissapori nella successione alla direzione dell’Accademia e perché considerato agente straniero al servizio dei macedoni. Trasferitosi presso l’isola di Lesbo, entrà nei favori del tiranno Ermia, questo permise favorì il fatto che nel 342 a.C. venne scelto dal re Filippo di Macedonia come precettore per suo figlio Alessandro, che poi si allontana dal suo insegnamento. Dopo la morte di Alessandro (323 a.C.), gli ateniesi si ribellano all’occupazione macedone. Temendo per la propria vita, si trasferisce a Calcide, in Eubea, dove muore nel 322 a.C., dopo essersi dedicato alla costruzione di una scienza delle cose umane. Aristotele si è occupato di tutti i campi della conoscenza umana, le sue opere si dividono in due gruppi: quelle scritte per la pubblicazione chiamate essoteriche (totalmente perdute) e quelle scritte per l’insegnamento chiamate esoteriche, ce n’è arrivata una gran parte, tra cui quelli dedicati ai temi di politica). Egli fu il primo ad elaborare un sistema della politica, che affianca, ad una teoria dello Stato basata sull’osservazione empirica della realtà e sulla ricerca di elementi comuni a popolazioni differenti (le regolarità), una considerazione della liberà del soggetto politico, il cittadino della polis: ‘’l’uomo è per natura un animale politico (un essere che vive in comunità)’’. L’attività propria dell’uomo sta nel perseguire una vita all’insegna della razionalità e della virtù, una vita giusta e ben riuscita, felice, che si basa sull’unione e sulla collaborazione di cittadini liberi ed uguali nella forma della politèia. Aristotele sviluppa la sua dottrina politica in due opere diverse L’Etica Nicomachea e la Politica. Analizzando la prima, chiama in generale politica o filosofia delle cose dell’uomo, la scienza complessiva dell’attività morale degli uomini, sia come singoli sia come cittadini e la suddivide in etica e in politica propriamente detta (teoria dello Stato). Etica e morale non sono però distinte sul piano esistenziale perché Aristotele considerava l’agire umano come una realtà unitaria, sostenendo ‘’chi voglia impostare in modo opportuno l’indagine sulla costituzione migliore, per prima cosa dovrà definire quale sia il modo di vita più auspicabile’’. La risposta a questo dilemma era stata quello che conduce alla felicità, che rappresenta il fine o scopo (télos) di ogni azione umana (praxis). Ad ogni modo, l’uomo è un essere complesso, in sé persegue tanti fini particolari come nella stessa società convivono tanti fini o scopi. Il bene dell’uomo consiste nell’opera che gli è peculiare: l’attività dell’anima secondo ragione. I veri beni dell’uomo sono i beni spirituali, che consistono nella virtù della sua anima e solo in questi sta la felicità. La virtù etica è la giusta misura che la ragione impone a sentimenti o ad azioni o ad atteggiamenti che, senza il controllo della ragione, tenderebbero verso l’uno o l’altro eccesso e solo la saggezza è la capacità di trovare i giusti mezzi che portano allo scopo più alto dell’uomo, il bene morale. L’etica, pertanto, è alla base della filosofia politica aristotelica. Oggetto della filosofia politica è il bene per l’uomo: il bene del singolo è importante ma più bello e più divino è il bene della comunità, l’ethos della polis, la consuetudine della casa. La scienza politica per Aristotele è una forma di storia naturale. Nella sua Fisica, aveva individuato quattro tipi di causa per analizzare i fenomeni: formale, materiale, finale ed efficiente. Nella Politica, la forma di uno Stato è rappresentata dalla sua costituzione; la sua materia sono i cittadini; il suo fine è quello di permettere di vivere al meglio la vita comunitaria; e la causa efficiente della sua creazione è la ricerca dell’autosufficienza. Partendo dall’assunto che è necessario analizzare il composto fino agli argomenti più semplici, Aristotele inizia la sua indagine della politica dalla famiglia, quale parte del Tutto (lo Stato), pertanto valorizza la famiglia così come la proprietà privata, al contrario di Platone che considerava fonti di corruzione. Se la famiglia e il villaggio sono sufficienti a soddisfare i bisogni della vita, a rendere la vita perfetta sono le leggi e l’organizzazione dello stato perché solo la polis (Stato) dà senso alle altre comunità, perché soltanto essa è autosufficiente, per quanto si basi su un principio di esclusione: ‘’non sono 6 da considerare cittadini tutti quelli senza i quali non sussisterebbe la città’’. Negli otto libri della Politica è centrale il concetto di costituzione o governo costituzionale (politèia), Aristotele considera la città come una comunità di liberi. ‘’La costituzione è il modo in cui vengono ordinate la città, le altre magistrature e soprattutto l’autorità suprema. A disporre di questa, è quella parte di cittadinanza che detiene il governo cittadino, così che questa venga a coincidere con la costituzione’’. Ciò che distingue le costituzioni giuste da quelle ingiuste è l’esistenza di un rapporto corretto tra la società politica nel suo intero e quella parte di cittadinanza che detiene il governo cittadino. Ciò avviene solo quando l’autorità è esercitata a turno, poiché si apprende a comandare bene soltanto obbedendo, in quanto il potere è servizio. Aristotele è in grado di sottolineare nei libri III e IV della Politica, la differenza fra le forme di governo, raggruppate in sei tipi e divisi in due gruppi da tre evidenziando, per ogni forma, la sua degenerazione. Al governo di uno solo, la Monarchia, corrisponde il contraltare della Tirannide; al governo di pochi, l’Artistocrazia, corrisponde il contraltare dell’Oligarchia; al governo di molti, Politèia, corrisponde il contraltare della Democrazia. Per Aristotele, la politèia è la costituzione media, la giusta misura tra oligarchia e democrazia: la massa dei cittadini è costituita dal ceto medio e la felicità del singolo cittadino e quella della città coincidono. Quello che ci rimane della lezione di Aristotele è l’importanza dell’educazione (paideìa), affidata allo Stato, perché ciascuna venga preparato sia a comandare che ad obbedire, per avere tempo da dedicare alla contemplazione filosofica, in quanto la vita teoretica è superiore alla vita politica. 7 4. Polibio di Megalopoli (c.a. 203-121 a.C.) e l’elogio della costituzione mista della Roma Repubblicana Nei secoli dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla caduta dell’Impero d’Occidente (476 a.C.) si sono fissati i tratti essenziali e stabili della nostra civiltà occidentale. Siamo di fronte all’età ellenistica che nasce con le grandi conquiste di Alessandro e, dopo lo smembramento dell’Impero macedone, dà luogo ad alcuni grandi regni (Egitto, Asia Minore, Grecia) che poi saranno a loro volta sottomessi dai Romani. Il centro della vita politica non è più la polis, ma la persona del basileus (sovrano). I Romani porteranno a compimenti il dissolvimento dell’idea di polis circoscritta territorialmente, già superata dalla Cosmopolis, la polis universale dell’Impero macedone. Il nuovo spazio politico è la Civitas romana è uno spazio aperto ed inclusivo, che accoglie le differenze e la disciplina all’interno di una solidissima costruzione giuridico-amministrativa. Al centro c’è l’osservanza della legge, quell’insieme di regole che tengono insieme (legano) la vita e le relazioni di una città che è in costante espansione. Il pensiero politico romano è di fatto la sintesi eclettica di due elementi: la filosofia greca speculativa, nella versione dello stoicismo medio e il diritto romano. La prima divenne l’ideologia della classe dirigente della Roma imperiale e proponeva un sistema di valori incentrato sul dovere (kathékon tradotto poi nell’officium), sul senso civico e il dominio di sé, una coincidenza con i valori già praticati dai romani; postulò una corrispondenza fra ragione e legge naturale, tra ordine cosmico e ordine morale interno. Il secondo elemento, il diritto (ius), è nella tradizione romana il costume che viene in gran parte ereditato dai vari popoli che costituirono la prima popolazione della città, un insieme di regole necessarie perché le persone potessero convivere smussando il senso di reciproca insicurezza; il diritto pertanto scaturisce da esigenze di organizzazione, non ha illusioni utopiche né modelli da seguire e può essere considerato come la razionalizzazione della vita pratica degli individui, che si compone di relazioni verticali (rapporto dell’uomo con il potere pubblico) e relazioni orizzontali (tra gli stessi inidividui), da qui la differenza tra ius publicum e ius privatum, che contribuì alla stabilita politica di Roma. Nella societas romana il cittadino vive in un contesto sociale dalla realtà composita, alla quale viene dato il compito di controllare che le regole vengano osservate, e da qui il brocardo latino ubi societas ibi ius, dove c’è una società, ci sono le leggi. Il diritto romano poneva tutti i cittadini su un piano di eguaglianza giuridica (aequabilitas), Roma Antica godeva di una mobilità sociale senza precedenti nelle società antiche perché non considerava la nobilità di sangue un elemento per giustificare una disuguaglianza sul piano del diritto, questo era finalizzato alla stabilità dello Stato. Allo stesso modo questo fu il fondamento dei rapporti tra tra i romani e le popolazioni italiche che culminarono nelle istituzioni della Federazione romano-italica all’interno della quale venivano garantiti libertà di movimento e diritti di proprietà. Fu inoltre regolato il sistema della schiavitù, non considerandola più un dato naturale come i Greci. Il contesto del diritto romano favorì la mescolanza pacifica di razze e dottrine, creando una società pluralista, tutelò gli scambi commerciali fornendo protezione legale ai mercanti stranieri; garantì la stabilità e il progresso delle forme istituzionali a Roma e fornì al mondo occidentale i concetti giuridici per l’edificazione di società aperte e libere, costituendo il serbatoio ideologico per le dottrine politiche successive. Il diritto romano venne codificato e raccolto nel corpus iuris civilis nel 535 d.C., all’epoca dell’imperatore Giustiano e così venne tramandato poi alle generazioni successive sino a noi, sicchè ancora oggi tutti i concetti giuridici delle società libere sono espressi in parole di conio latino. Colui che ha descritto prima e meglio la vicenda della Repubblica romana fu Polibio di Megalopoli, che nasce intorno al 203 a.C., diplomatico e testimone diretto dell’ascesa di Roma nel Mediterraneo orientale, a scapito dei regni greci e dell’Impero macedone. Dopo la sconfitta della Macedonia alleata con Cartagine nella guerra contro Roma (168 a.C.) in cui ebbe parte attiva, in quanto membro del partito aristocratico, è consegnato come primo ostaggio dai democratici, che volevano l’alleanza con Roma. Rimane a Roma per 17 anni, divenendo amico degli Scipioni (un’èlite progressista) e potendo così seguire da vicino la politica romana. Assistette di persona all’assedio e alla successiva distruzione di Cartagine, al termine della terza guerra punica 8 (146 a.C.) per opera delle legioni di Scipione Emiliano. Morì probabilmente nel 121 a.C., non prima di aver terminato un importante resoconto di quello che aveva vissuto, le Storie sono la prima opera storica sul mondo romano. Il tema centrale dell’opera di Polibio è la superiorità di Roma, cioè come abbia fatto a sottomettere quasi tutto il mondo abitato nel giro di mezzo secolo, mentre i greci non riuscivano ad unirsi. La soluzione è nella stabilità dell’assetto costituzionale del governo misto. Ritiene che dai costumi e dalle leggi dipende il buon esito della società, Polibio ritiene di non avere tempo per le utopie che nessuno ha provato a realizzare, come quella di Platone. Pertanto passare dall’analisi di Platone e Aristotele a quella di Polibio e Cicerone significa analizzare diversi modi di intendere la politica, ci si sposta dalla filosofia all’arte di governare. Per Polibio, Roma era riuscita ad evitare quella degenerazione delle forme di governo descritta da Aristotele, che portava ad una continua instabilità, perché monarchia, aristocrazia e democrazia convivevano assieme nella res pubblica, all’interno di una forma costituzionale originale e ben definita. Il principio monarchico era incarnato dai consoli, si trattava di due individui che avendo compiuto il cursus honorum, si trovavano a gestire pro tempore il potere esecutivo. Il principio aristocratico era incarnato dal Senato, costituito dai senatori, membri delle classi elevate che avevano ricoperto una o più cariche di magistratura. Infine il principio democratico risiedeva nell’istituzione dei tribuni della plebe e dei comizi che garantivano al popolo il diritto di rivestire delle cariche pubbliche (ius honorum) e di votare (ius suffragi). Sulla base dell’esperienza romana, Polibio elabora una teoria generale della stabilità di governo, quella stabilità che la polis greca non era mai riuscita ad ottenere, questa dipendeva dal fatto che la la Repubblica romana era riuscita a fornire consenso persino alle istituzioni straordinarie come la dittatura, cui si ricorreva nei momenti di crisi. Tutti gli elementi della Costituzione necessitavano della sinergia e del bilanciamento con gli altri per operare efficacemente, per quello che può essere considerato un vero e proprio miracolo istituzionale. La distinzione fra i principi, fra poteri della res pubblica contiene giù una distinzione in via embrionale ma effettiva dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Anche se non arrivò mai a teorizzare l’esistenza di tre poteri costituzionali distinti, la sua concezione rimanda a quella cultura del limite di matrice latina per la quale il limite (termine) ha un carattere sacrale ma anche una connotazione giuridica. Il termine costituisce il limite in senso legislativo, significa che ciascun cittadino può fare quello che la legge garantisce, in quanto essa costituisce un involucro all’interno del quale svolgere la propria liberà (libertas romana intesa come libertà sotto la legge). Polibio teorizza una concezione ciclica della storia nella quale il punto di partenza è rappresentato dalla monarchia, dove gli uomini vivono in branchi e si sottomettono alla legge del più forte. Grazie ai progressi si trasforma in Regno nel quale attraverso il senso di comunità disciplinato dalla legge porta alla figura del Re, monarchia diventa ereditaria attraverso la presenza dei discendenti del re. Il regno degenera in Dittatura perché i nuovi re cedono alle tentazioni spargendo il malcontento tra i sudditi, che si organizzano guidati fra i migliori e congiurano contro il Re, nasce l’Aristocrazia, regno di pochi che si presta alla deriva oligarchica, ciò solleva il popolo che decide di fare affidamento solo su se stesso, da ciò ne deriva la Democrazia e il principio di libertà, che dura fino a quando una nuova generazione di governanti inesperti si da ad una lotta fra fazioni disperata, nella quale i ricchi fanno ricorso alla corruzione, siamo nella fase dell’Oclocrazia. A questo punto la moltitudine non sa più che fare, se non rimettersi nelle mani di un monarca. Polibio ammette che anche la forma di governo mista non è eterna ed è destinata a soccombere al ciclo, perché l’ambizione sfrenata degli uomini può corrompere le basi morali. La teoria di Polibio sarà di ispirazione fra i pensatori come Machiavelli e Montesquieu. 9 5. Le origini del repubblicanesimo nel pensiero di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) Marco Tullio Cicerone nasce nel 106 a.C. ad Arpino, da una famiglia benestante, appartenente all’ordine degli equites, dei cavalieri, dunque non faceva parte dell’élite senatoriale, tuttavia il padre nutriva delle ambizioni per il figlio e lo mandò a Roma a imparare per farsi valere in un mondo in cui era un homo novus. A 16 anni partecipa alla guerra sociale tra Roma e i suoi alleati italici, poi si dedica all’attività forense, dopo un lungo viaggio in Grecia per studiare retorica e filosofia, inizia la carriera politica (cursus honorum) perseguendo un programma improntato alla moderazione, raggruppando tre elementi della classe politica romana del tempo, i cavalieri, gli aristocratici e il campo plebeo, osteggiando le derive speculari della tirannide e del dispotismo popolare. Ricopre il ruolo di questore nella provincia della Sicilia, ricopre magistrature minori fino a divenire console assieme a Marco Antonio, con ci si trova presto in un’opposizione violenta. Con l’avvento del primo triumvirato (60 a.C.), viene esiliato e in questo periodo si oppone intensamente alla dittatura di Cesare ma, non avendo un ruolo politico attivo, si dedica alla scrittura di opere fondamentali: De re publica, De Legibus e il De Offici. L’assassinio di Cesare gli fa sperare nella possibilità di un ritorno alla Repubblica, tutto questo contrasta però con l’ambizione di coloro che vogliono succedergli, in particolare Marco Antonio, che una volta accordatosi con il secondo triumvirato e concessagli mano libera per far fuori i propri oppositori politici, fa assassinare Cicerone il 7 dicembre del 43 a.C. Il punto di partenza della riflessione politica di Cicerone sta nella considerazione del diritto come elemento centrale nella vita dell’ordine politico, in quanto iustum, incarna la Giustizia naturale teorizzata dallo stoicismo, in quando iussum, consiste di leggi positive emanate da un potere che ha l’autorità per farlo (lo Stato). Nel De Legibus si focalizza sulla relazione tra la legge naturale (legge morale, divina, universale), che è ricevuta dagli uomini, e legge positiva, che è prodotta dagli uomini e combina entrambi questi elementi nella concezione dello stoicismo. Cicerone afferma che tutte le leggi scritte e tutte le consuetudini dei vari popoli, per essere approvabili dalla Ragione, devono essere conformi alla legge naturale, secondo il criterio della Iniusta lex nulla lex est, una legge che va a violare la giustizia non è possibile chiamarla legge. Nel De re publica indaga le modalità con cui gli esseri umani che hanno un bisogno naturale di associarsi, diano vita ad una comunità politica regolata dal diritto e che nasce non per paura o legittima difesa, ma perché ciò risponde alla necessità naturale degli uomini di legarsi e di comunicare fra loro, in quando la res pubblica è ciò che appartiene al popolo ed è una società organizzata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza di interessi. Per Cicerone lo Stato si configura quindi come l’ambito del consenso fondato sulle leggi (consensus iuris), laddove invece non vi è un’organizzazione giuridico-politica è impossibile esercitare le virtù civiche, virtù che si ottiene attraverso una condotta pratica finalizzata al governo delle città e un’opera di autodisciplina, affinché l’ordine interiore si rifletta e abbia il suo compimento nell’ordine esteriore della res publica. Egli condannava le pratiche della democrazia senza freni e dell’assemblearismo disordinato dei Greci che li avevano portati a perdere l’indipendenza; la stessa Roma non era certo immune da questo processo per aver creato il dualismo fra Senato e popolo che aveva pericolosamente incrinato il consensus iuris e per lui è proprio il mancato rispetto dei fondamenti giuridici della convivenza civile ad aver fatto sprofondare Roma nella crisi politica. Ad ogni modo riteneva che Roma avesse nella sua storia e nella sua tradizione costituzionale, gli anticorpi necessari per opporsi a questa crisi e centrale era il principio dell’aequabilitas, l’equilibrio tra le diverse classi sociali, che non è da intendersi come livellamento sociale, ma consiste nel dare a ciascuno il suo, rispettando le differenze e garantendo il connubio tra aristocratici e popolo che assicurava stabilità e continuità dello stato. Da questa esperienza di convivenza plurale tra le classi, i Romani traggono una norma su cui basare i rapporti con gli altri popoli, incorporandoli nel sistema romani di diritti/ doveri: il sistema romano si adopererà affinchè tutti i popoli soggetti potessero essere regolati da leggi proprie, salvo l’ordine pubblico, l’autorità locale ha la supremazia sulla romana (es. il processo a Gesù), inoltre 10 il processo di acquisizione della cittadinanza politica avviene per gradi, assicurando prima l’assimilazione attraverso l’estensione dei diritti civili. Cicerone idealizza le istituzioni della tradizione romana, rendendole seducenti come modello per l’avvenire, a differenza di Platone è un utopista del passato e diviene interprete della necessità della necessità della costituzione mista, per temperare le pretese al potere di patrizi e plebei, come forma di garanzia del consensus iuris, essa garantirebbe equilibrio, stabilità, armonia che sono i contenuti proprio del bene comune, cioè della pace sociale. A Roma la libertà era stata ordinata e disciplinata grazie all’opera degli antichi che rifiutarono il potere deliberativo all’assemblea popolare, sostituita da una struttura corporata, formata da tribù, centurie, ordini sociali, classi, che ascoltava le proposte e le approvava o respingeva, li portò a porre la concessione di un potere forte ai consoli, riducendone però ad un anno la durata. Tutta la costituzione ruotava attorno all’auctoritas senatoria, il centro da cui traeva legittimità la potestas (il potere) esercitata dalle numerose magistrature, poste al servizio della res publica, secondo l’assunto il magistrato è la legge che parla e la legge è un magistrato muto. Cicerone prevede una funzione arbitrale di tutela e moderazione da affidare al princeps (il cittadino migliore, che considera egli stesso), con questo non nutre nostalgie monarchiche o pretese teocratiche, vuole garantire con la prudentia propria di un uomo superiore il funzionamento della costituzione mista. Tutto l’insegnamento di Cicerone ci suggerisce di guardare a quella romana come ad una costruzione politica aperta, in quanto societas è il risultato di un cammino compiuto da più individui, solidali nel creare le condizioni e le regole indispensabili ad una convivenza che sia pacifica e felice, queste sono solo il mezzo, le istituzioni si costruiscono nel tempo per prove ed errori e non c’è un modello preesistente su cui rifarsi. Pertanto considerare la comunità politica come opera relazionale, che vive dell’apporto reciproco fra gli esseri umani e fra le generazioni, ci restituisce il senso vivo del termine popolo. 11 6. Il pensiero politico cristiano dalle origini ad Agostino D’Ippona (354-430) Il cristianesimo diventa un culto riconosciuto e praticato liberamente con l’Editto di Milano promulgato dall’imperatore Costantino nel 313 d.C. I principi cristiani portarono a compimento i germi di consapevolezza presenti nella cultura latina e si sostituirono progressivamente all’etica pagana, con rilevanti riflessi sul piano politico, va osservata tra questi la profonda evoluzione dei concetti di libertà ed uguaglianza e l’affermazione della dignità umana di ogni essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio e dunque il superamento della schiavitù, in nome della comune fratellanza dei figli di Dio aprendo la strada per una concezione più inclusiva della comunità politica, di portata universale e dando un senso nuovo allo stesso concetto di cittadinanza. In questa trasformazione del pensiero si contesta la pretesa del potere politico di assorbire e controllare la totalità dell’esistenza umana, proponendo una concezione relazionale dell’autorità politica come legame giuridico di obblighi reciproci tra governanti e governati e assegnando un valore contingente, relativo e transeunte alle forme politiche. La relatività delle forme politiche sarà una conquista tardiva da parte del pensiero politico cristiano, ma i suoi germi erano già presenti nella normale evoluzione della storia, nella quale le istituzioni cambiano. Bastava osservare come la forma giuridica della comunità politica romana fosse mutata da Repubblica a Impero quando era sopravvenuta l’esigenza di governare un territorio divenuto sterminato, con molti popoli al proprio interno, e questo sancirà l’entrata in una fase di cristi, fra i tanti sarà Agostino, il vescovo di Ippona, a cogliere gli elementi fondamentali della crisi dell’Impero romano dalla quale saprà trarne un’originale dottrina politica. Agostino nasce a Tagaste, nella provincia nordafricana della Numidia, nel 354 d.C., nel corso della sua vita il cristianesimo diventò la regione ufficiale dell’Impero romano con l’editto di Tessalonica del 380 d.C., il consolidamento del favore imperiale verso la religione aveva consentito a famiglie come quella di Agostino di vivere in una certa agiatezza, ed è pertanto avviato ad una carriera brillante nell’amministrazione imperiale. Dopo aver studiato ed insegnato retorica a Cartagine e a Roma, divenne professore a Milano, dove la sua vita professionale si intreccia con la vicenda spirituale poiché vi incontra l’allora vescovo Ambrogio, che lo affascina in maniera tale da abbandonare il manicheismo e una vita dissoluta e battezzarsi nel 386 d.C. Fa ritorno a Tagaste, dove fonda con alcuni amici una comunità monastica; ordinato sacerdote, diviene in seguito vescovo di Ippona nel 395 d.C. Il vescovo a quei tempi di crisi dell’Impero assommava alla cura spirituale del popolo anche compiti di ordinaria amministrazione secolare, specie in campo giurisdizionale. Racconterà la sua vita e la conversione nelle Confessioni, infine muore nel 430 d.C. mentre Ippona è assediata dai vandali. Nei turbolenti anni di crisi e di decadenza che precedono la caduta dell’Impero romano d’Occidente scrive La città di Dio contro i pagani opera basata sull’assunto di realismo che gli imperi non sono eterni, ma come ogni casa umana sono destinati a finire. Egli vuole difendere il Cristianesimo dall’accusa di aver causato il crollo dell’Impero, da addebitare invece alla corruzione dei costumi dovuta all’inclinazione umana verso il peccato, alla libido dominandi di cui soffriva Roma, una brama di potere in contrasto con la ricerca della giustizia. Agostino nega che ci sia mai stata nella storia una vera res publica nel senso ciceroniano del termine, con questo si vuol dimostrare che le istituzioni politiche non durano perché si disgregano per il desiderio del potere, che corrompe. Il punto è che se la giustizia non è raggiungibile su questa terra, il problema della teoria politica non è più la costruzione della città giusta secondo la concezione greco-romana, ma l’edificazione di una città ben ordinata al bene comune. La realtà di Agostino non è fatta di principi, ma dagli individui e dai loro comportamenti, questo ci consente di affermare che la politica è strettamente connessa con la realtà esistenziale degli individui, che sono dotati di libero arbitrio e che da soli concorrono a far si che gli Stati si sviluppino o degenerino. Il germe dell’imperfezione, eredità del peccato originale, accompagna tutte le opere umane, chi è cattivo non lo è per essenza ma per difetto di bene. Parlare di scelta per Agostino, significa considerare che la volontà sottointende una molla che determina verso il bene e verso il male, cioè l’amore, non la giustizia, è 12 fondamento delle relazioni umane e forza attiva nel mondo. Nella seconda parte della Città di Dio il punto centrale diviene la relazione dell’uomo con Dio, nella quale sono spiegate anche le relazioni sociali. Da qui deriva la famosa dottrina agostiniana delle due città, caratterizzate da due tipi di amore diverso: l’amore di sé (amor sui), che, spinto fino al disprezzo di Dio ha formato la città terrena, e l’amore di Dio (amor Dei) che, spinto fino al disprezzo di sé, ha formato la città celeste. Esse si trovano, finchè dura il mondo, come incastrate l’una nell’altra e mescolate nel tempo della storia, e si staccheranno differenziandosi solo al momento del giudizio finale. I cristiani fanno parte sia dell’una che dell’altra città usufruendo dei medesimi beni temporali e soffrendo gli stessi mali che toccano anche ai pagani. La differenza sta nel fatto che essi devono impegnarsi a considerare i beni come mezzi da utilizzare in vista di un fine che è ultraterreno come manifestazione della volontà di dio, poiché i cristiani vivono con gli altri, ma non come gli altri. La scelta dell’amore di Dio fino a rinnegare il proprio egoismo è un fatto che nasce dal di dentro ed è un frutto di libertà, poiché sono gli uomini che credono in Dio che agendo lo fanno entrare nella storia. Ecco perché gli Stati come quello romano, non dipendono per la prosperità a favore degli dei, perché la politica è un fatto concreto, e per Agostino, non può pretendere di realizzare dei modelli politici duraturi, in quanto le prospettive della religione cristiana vanno al di là della storia, convinta che nulla sia statico e duraturo nella vita sociale. Aggiunge che gli esseri umani sono di passaggio su questa terra, la vita stessa delle istituzioni è soggetta alla decadenza e dunque non aveva senso porsi il problema dello Stato ideale, come fecero gli antichi. Agostino liberava il cristiano da una concezione totale della politica che lo potesse distogliere dalla ricerca di un senso più profondo della propria vita individuale e relazionale. Di fatto liquida, il problema della forma di governo, in quanto qualcosa di contingente, non ha nulla di immutabile. La vera giustizia consiste nel dare a tutti quello che veramente meritano, e l’unico a saperlo è Dio, la vera giustizia si realizza solo nell’eternità. Per Agostino il potere si fonda sul consenso degli associati, e da questo scaturisce il patto sociale: ‘’il popolo è l’aggregazione di molti esseri razionali saldati da un comune accordo sugli oggetti del loro amore.’’ Sostiene che la legge non sarà cattiva per il fatto che a promulgarla sia un individuo ingiusto e corrotto, questo però non impedisce di sottolineare come il cristiano abbia il dovere di disubbidire alle leggi contrarie alla propria coscienza, secondo me è legge soltanto quella giusta. Nonostante ciò, Agostino segue l’insegnamento di San Paolo, secondo il quale in nessun caso i cristiani avrebbero potuto rivoltarsi contro l’autorità legittima. In questo caso il cambiamento politico si verifica con la progressiva decadenza degli stati frutto di un processo interno di disgregazione, quando le leggi si svuotano di contenuto e non sono più in grado di risolvere i conflitti sociali, in questo caso si genera un clima di disordine che rende impossibile la vita associata. Il cristiano sa che senza un ordine giuridico non è possibile raggiungere quel bene comune che è all’origine della civitas, tutto questo manca e allora lo Stato finisce per essere una banda di ladri o di pirati (magna latrocinia), ed in quest’ottica, la lotta per il potere diventa l’essenza della politica che si realizza nel saeculum, nella contingenza storica, come obbligazione politica. Da qui l’importanza del potere visto come una delle forme più dure di disciplina, in quanto forza che rispetta i diritti dei soggetti, il compito fondamentale è quello di essere vigile contro ogni forma di corruzione, quello di consentire una vita ordinata in cui a ciascuno è garantito di ricevere tutela per le proprie proprietà e di godere dei frutti della pace. La pace e l’ordine sono un bisogno esistenziale dell’uomo che per ottenerli si unisce ai propri simili per godere con essi la tranquillitas ordinis. Il bene comune è frutto dell’unione delle volontà regolate dal diritto, che garantisce la pace temporale, cioè la concordia ordinata nel comandare e nell’obbedire i cittadini. L’ordine politico deve essere sempre voluto, da qui il messaggio del cristianesimo che per Agostino incita comunque la volontà dell’uomo ad attendere verso quest’ordine e siccome il compimento della vita si realizza nella vita ultraterrena, il problema politico diventa vivere la quotidianità, tenendo gli occhi fissi al cielo, sulla terra dobbiamo solo sforzarci di vivere nella giustizia e nella pace. 13 7. Il pensiero politico nel Medioevo cristiano I moderni nel XV secolo coniano la denominazione di Medioevo per indicare quest’epoca come media etas, età di mezzo che convenzionalmente si apre con la caduta dell’Impero romano d’occidente nel 476 d.C. dopo la quale iniziarono a formarsi i regni romano -barbarici. Nel periodo successivo alla dissoluzione dell’Impero è stato notato come l’unica orza unificante sia stata la cristianità e, con la conversione di alcuni capi barbari al cristianesimo, fu il papato a costituirsi come entità statale ereditando il territorio dell’Impero, la chiesa pertanto rappresentò il mezzo con il quale l’idea di una comunità politica governata dalla legge fu trasmessa all’Europa Medievale, recuperando fra il XI e XIV secolo, periodo del cosiddetto Basso Medioevo, i grandi contenuti della classicità romano-latina e del diritto romano. L’Impero si sostituisce alla polis come spazio politico principale. Lungo questo cammino la l’autorità della Chiesa venne sfidata dalla pretesa avanzata del Sacro Romano Impero, in cui i titolari del potere sono i fedeli e soggetti alla giurisdizione spirituale della Chiesa. Talvolta potere spirituale e temporale tenderanno a sovrapporsi all’interno di questa dialettica fra papato e Impero la loro decadenza chiuderà l’età medievale, a vantaggio delle nascenti monarchie nazionali che animeranno l’età moderna. Tra gli autori che hanno interpretato questi cambiamenti epocali vi è l’inglese Giovanni di Salisbury che vive tra il 1110 e il 1180 ed è l’autore dell’opera Policraticus, un manuale rivolto ai governanti per ricordare i loro doveri, nel quale egli recupera, la dimensione del diritto romano e dell’amministrazione di matrice classica, affermando che senza consenso non si può assolutamente governare. Afferma che l’autorità proviene da Dio, le leggi sono fatte con l’assenso del popolo che è un corpo politico, poiché l’interesse comune del popolo per il proprio bene è quello che ne fa un’unica entità con a capo il Re. Giovanni teorizza una resistenza al tiranno che si collega al pensiero classico intorno ai limiti del potere sostenendo uccidere un tiranno non è solo lecito, ma è anche equo e giusto, le ragioni di una posizione così forte sono comprensibili nel periodo storico in cui vive, l’Inghilterra del sovrano Enrico II che ordina l’omicidio dell’allora arcivescovo di Canterbury, che era stato amico di Giovanni. Afferma inoltre che non si può giustificare nessun potere assoluto, neppure se esso promette sicurezza, che se garantita da un tiranno, può essere solo momentanea, e va a tracciare un profilo di quella che dovrebbe essere la natura del principe per differenziarsi dal primo sostenendo che deve essere garante della legge, ma non può mai sostituirsi alla legge, e deve ricordare che è superiore agli altri nel senso che deve sobbarcarsi i problemi di tutti e che egli non è padrone nemmeno di se stesso ma appartiene ai suoi sudditi. Infine Giovanni incoraggia una gestione del potere sempre più affidata ai laici in collaborazione con gli ecclesiastici, si tratta di un grande passo in avanti nella riflessione politica proposto in particolare dal più grande pensatore del medioevo Tommaso d’Aquino. Egli opera una sintesi teorica tra cultura greca aristotelica e la dimensione giuridica latina. Secondo lui come non c’è assolutamente contrasto tra fede e ragione, così non può esserci contrasto tra la religione e la filosofia. In Tommaso l’uomo non è più solo un animale politico, ma un animale sociale, in un contesto in cui la dimensione politica non dà la felicità che viene invece collocata in una dimensione ultraterrena, di fatto l’individuo viene prima della realtà politica, facendo parte di alcuni nuclei sociali che precedono la realtà politica stessa. Per realizzare questo stato di benessere dato dall’ordine, che è un presupposto della pace, è necessario riconoscere alcune regole: esistono delle leggi positive, che sono l’espressione della volontà che si manifesta per conseguire i fini che i membri della società si sono dati, e delle leggi di natura che non dovrebbero mai essere poste in contrasto con le prime, poiché l’uomo deve ubbidire fintanto che le leggi positive non gli comandano qualcosa che sia contrario alla sua coscienza. Per Tommaso l’autorità politica che gestisce il potere nell’ambito delle leggi proviene da Dio e passa attraverso il popolo che diventa il primo soggetto del potere, l’Imperatore eletto diviene sovrano perché eletto dai grandi elettori. In definitiva quella proposta da Tommaso è una monarchia moderata, nella quale i Re avrebbero dovuto regnare con la guida morale della Chiesa, che avrebbe dovuto cercare la salvezza delle anime attraverso l’istillazione di virtù nei 14 cittadini, un pensiero che sarà da apripista per le importanti riflessioni di autori come Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham. Tra Tommaso e questi pensatori, va tenuta in considerazione la riflessione di Dante Alighieri, il grande poeta ricoprì ruoli importanti nel governo del Comune di Firenze, fu esiliato dalla città per motivi politici e nell’opera del De Monarchia articola la sua risposta politica e filosofica tratteggiando il rapporto fra papato e Impero. La sua tesi è un nuovo Impero, modellato su quello di Roma, avrebbe creato le condizioni nelle quali l’umanità sarebbe potuta rifiorire, un corpo di coordinamento tra tutte le strutture che dal basso salgono verso l’alto, una sorta di modello proto-federale. Il compito dell’Impero è lasciare ai corpi inferiori, cioè alle autonomie locali, la massima autonomia e cercare di garantire unicamente la giustizia e la libertà poiché solo grazie alla libertà siamo sulla terra felici come uomini, e in cielo come dèi. Nel suo modello cerca di garantire l’osservanza del diritto come presupposto del perfezionamento culturale e umano dell’individuo in un governo laico e super partes che deriva il suo potere direttamente da Dio, Dante fonda di fatto la teoria del diritto divino dei Re. Egli individua nella frantumazione della sovranità la causa di tutto il male che è toccato al mondo, pertanto il fine della perfezione può essere raggiunto soltanto attraverso l’unità di tutto il genere umano realizzando una monarchia universale, strumento per realizzare il disegno della Provvidenza divina. Il 1300 è un secolo complesso nei rapporti fra papato e impero, alcuni pensatori portano delle riflessioni originali a separare le funzioni dei due poteri fra questi l’opera di Marsilio da Padova, giurista, professore e poi rettore della Università Sorbona di Parigi. Egli ritiene che la crisi della Cristianità sia dovuta all’esistenza dei due poteri in contrasto (Papato e Impero appunto), che comportano continui dubbi di obbedienza e crisi di coscienza ai cittadini oltre ad una continua lotta di gestione del potere, affermando pertanto, che per garantire la pace, tutta l’autorità deve essere concessa ad un unico individuo, il Defensor Pacis. Si tratta di una carica elettiva subordinata alla legge e al consenso dei cittadini secundum voluntatem subditorum. Per Marsilio, l’autorità di fare le leggi appartiene al corpo di tutti i cittadini e con questo anticipa il concetto di sovranità popolare e allo stesso tempo recupera quel concetto giuridico romano che vedeva nelle leggi l’espressione di un populus, l’insieme come superiore alla parte. Egli pone anche il problema della disubbidienza alla legge, e da qui una sanzione che si accompagna ad essa, questa legge e il potere che la deve fare applicare appartengono esclusivamente all’ordine temporale, la Chiesa non ha alcuna funzione possibile, la sua giurisdizione appartiene solo alle coscienze, e con questo si va a risolvere il dualismo medievale dei due poteri conferendo il primato al potere temporale su quello spirituale. Così come l’Impero, è persuaso che dal popolo derivi l’organizzazione della Chiesa, a questo fine egli prevede la creazione di un Concilio, in rappresentanza dell’universalità dei fedeli che discuta e prenda le decisioni in modo comunitario, sia a livello locale che a livello generale. In questo modo vuole abbattere sia la concezione gerarchica della Chiesa, sia quella del primato papale, sia un’unità giuridica ecclesiale, e presenta questa posizione in analogia ad altri pensatori del tempo, considerati eretici. Infine, arriviamo all’originale dottrina politica espressa dal frate francescano inglese Guglielmo di Ockham, fautore del nominalismo e precursore dell’individualismo, riconosce all’esperienza religiosa un suo valore individuale e per questo è riuscito a salvaguardarla dalle intromissioni del potere politico. Egli vede l’umanità come l’articolarsi sempre crescente di una unità che però non arriva mai a soffocare l’individuo e la sua dignità, sostiene che la ragione ha dei limiti, poiché da sola non può raggiungere nessun oggettivo dato conoscitivo, cioè deve essere garantito un corretto uso della ragione. Sulla base di questo assunto egli analizza i temi cruciali del suo tempo sostenendo che l’autorità politica dell’Impero ha una sua giustificazione non religiosa ma razionale, sottolinea inoltre i l ruolo della plenitudo potestatis come priva di fondamento razionale, in quanto significato di negazione delle fondamentali libertà di coscienza che sono garantite dalla stessa legge divina. Ad ogni modo, il potere politico ha una propria giustificazione che deriva unicamente dal volere degli uomini, dal consenso, dal dissenso che riescono a manifestare nei confronti del potere stesso attraverso la legge che garantisce all’uomo un’esistenza pacifica. 15 8. Il realismo politico di Niccolò Macchiavelli (1469-1527) È opinione comune che la riflessione politica medievale venga chiusa con l’inizio del pensiero politico umanistico rinascimentale che si usa identificare nell’opera di Niccolò Macchiavelli. Bisogna tener presente che egli vive nel momento del crollo delle grandi istituzioni medievali, il Papato e l’Impero, il loro crollo progressivo come autorità garanti dell’ordine civile risente di due contraddizioni: l’abbandono di una concezione del potere fondata sul servizio e i disastri che la confusione sul piano spirituale e temporale ha arrecato ad entrambe queste forme politiche. Nella penisola italiana ciò si traduce nella fine dell’equilibrio politico tra gli stati, venuto meno il sogno della pacificazione dell’Italia si era sviluppata una lotta fra le grandi monarchie in particolare Milano e Napoli, e fra queste e gli stati-città come Firenze, a loro volta divisi internamente in fazioni. Machiavelli osserva il disfacimento dell’equilibrio politico reso ancora più evidente con la discesa di Carlo VIII che destituisce i Medici a Firenze, ed infine il sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi nel 1527 sancirà definitivamente l’equilibrio politico ed economico dell’Italia rinascimentale. Egli è l’ultimo esponente dell’umanesimo civile che considerava l’impegno politico superiore alla vita contemplativa, ma è già conscio di vivere in un’epoca di crisi. Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da un’antica famiglia di mercanti di modeste condizioni economiche. Nel giugno 1498 entra nel servizio dell’amministrazione della repubblica di Firenze in qualità di Segretario della seconda cancelleria della Signoria. Pur senza mai raggiungere posizioni di vertice, viene incaricato di missioni diplomatiche nella penisola, che lo portarono a toccare con mano le problematiche della politica italiana del suo tempo. Svolge il suo lavoro fino al 1512, quando il ritorno al potere dei Medici lo fa allontanare a causa del suo vigoroso sostegno alla causa della Repubblica. Viene imprigionato e torturato per poi essere liberato nel 1513, costretto all’esilio avrà un lungo periodo di feconda attività di scrittore di opere storiche, politiche e letterarie, morirà nel 1527. Dalle esperienze e dall’osservazione di vicende concrete trae alcune regole dell’agire politico: anzitutto che in politica non si deve operare alla ricerca di un giusto mezzo perché questo è indefinibile, occorre rigettare i compromessi e optare per soluzioni estreme, conta la forza ed è inutile affidarsi a i buoni sentimenti, cercare il benefitio del tempo, rinviare le decisioni è tipico deli stati deboli e irresoluti, la celerità e la segretezza nelle decisioni e nella loro esecuzione è fondamentale per avere successo, ma tutto ciò non basta se poi la fortuna avversa dispone altrimenti. Il fine su cui tende tutta l’opera di Machiavelli è la salvezza dello Stato che nella sua forma migliore è una repubblica, perché solo in questa l’uomo vive libero e uguale, come ci hanno insegnato i greci e i romani. L’esistenza giuridica dello stato significa vita civile, cioè sotto le leggi, in quest’ottica il Principato è una necessità storica richiesta dai tempi per garantire ordine e salvezza dello Stato. Una delle prime opere di Machiavelli è i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, pubblicata postuma nel 1531 e ispirata all’Ab Urbe condita dello storico romano Tito Livio, con l’intento di recuperare la grandezza della romanità antica e diffonderla con l’italianità nascente. Si tratta di un modello per la sua concezione dinamica della realtà, secondo la quale tutte le cose salgono o scendono, l’osservazione di questa realtà storica si intreccia con la teoria dell’anaciclosi (ritorno ciclico delle forme di governo) di Polibio. Nei Discorsi analizza il governo misto della Repubblica romana frutto di una lunga genesi istituzionale, ha una storia alle spalle che costituisce il laboratorio scientifico del politico, al punto che chi governava sentiva su di sé il peso di questa tradizione, del diritto. Per questo, per Machiavelli, la storia va studiata ed imitata, la virtù politica pertanto consiste nel paragonare i tempi attuali con il passato per trarre degli insegnamenti e la storia indicava il successo del modello della Repubblica romana libera e potente, mentre altre potenze, come Sparta, cadevano. Essere liberi significa vivere sotto buoni ordini, cioè gli ordinamenti costituzionali, e sotto buone leggi, questi contribuiscono a regolare la vita dei cittadini ed è la successione dei buoni ordini, non la virtù del singolo ad essere la forza degli stati. La repubblica, per lui, è lo stato dei buoni ordini, dove vita politica e vita religiosa coincidono, la politica serve a stare bene e a usufruire 16 di quello che noi possediamo, se l’ordine garantisce il godimento dei beni nella quotidianità, la politica è dunque un’opportunità per sottrarsi al disordine. Quindi bene comune coincide con il benessere materiale dei cittadini. Macchiavelli aggiorna la tripartizione aristotelica delle forme di governo, ritenendo che ognuna contenga il germe della propria dissoluzione perché il potere tende sempre a divenire personale e dispotico: Il principato, la monarchia, è difficile da conquistarsi e facile da mantenersi; il governo degli ottimati, aristocrazia, è facile a conquistarsi ma difficile a mantenersi; infine, la repubblica o ordinamento misto (democrazia) necessita di alcuni prerequisiti di natura civile, storica morale e sociale che si realizzano con molta fatica attraverso una lunga storia. Il principato nasce dal fatto che gli uomini si uniscono e scelgono un capo sul riconoscimento del primato della forza, nasce la giustizia come gratitudine verso il benefattore e questo va a coincidere con l’obbligazione politica. Quando nel principe subentra la forza delle passioni, sfocia in tirannide, a questo punto i migliori agiscono per spodestare il tiranno, e arrivano a produrre il governo degli ottimati fondata sulle leggi, ma anche qui può venirsi a creare un principio di ereditarietà delle cariche politiche. Il governo si corrompe e dà vita al governo di pochi l’oligarchia, infine il passaggio dall’oligarchia alla repubblica non è automatico, nel ripercorrere la storia di Roma, Machiavelli nota come abbia ricevuto la repubblica per caso, che rientra nella natura delle cose. Un esempio portato da Machiavelli era la Repubblica di Venezia, che rinuncia alla conquista per poter vivere sicura entro i propri confini, e questo significa innescare un processo di decadenza poiché rimanere statici è contrario alla legge della storia, il fine dello Stato deve essere l’espansione territoriale e la grandezza, da realizzarsi non con forze mercenarie ma attraverso armi proprie, cioè l’istituzione di una milizia cittadina, un esercito formato dal popolo che per essere legato alle sorti dello Stato deve prendere parte alla difesa della libertà repubblicana. Liberato dalla prigionia, Machiavelli potè cimentarsi nella scrittura del Principe, che dedicò a Lorenzo de Medici, con il quale auspica l’avvento di una figura capace di dare agli Stati italiani quell’unità con cui possano competere con i grandi Stati nazionali che già si erano formati a quel tempo in Europa, e venga uno principe e riunisca queste membra sparse. Egli dovrebbe arrivare al potere per porre fine allo stato di incapacità politica e di corruzione dei costumi delle repubbliche italiane, i cui regimi popolari erano degenerati in licenza ed arbitrio, la virtù del Principe si innesta nella decadenza della Repubblica dovuta alla perdita della virtù da parte del popolo, che è indotta dalle buone leggi e dai buoni ordini. Se ne i primi tempi è più facile indurre gli uomini alla virtù, man mano diventa difficile ripristinare la situazione di partenza a causa dell’accumularsi dei vizi, come successe a Roma. Finchè lo Stato non raggiunge l’estrema corruzione, è possibile riportarlo alla bontà originaria, è necessario avviare un nuovo ciclo rifacendo le istituzioni, quell’insieme di regole che organizzano la vita comune anche tramite il ricorso a mezzi violenti. Machiavelli non è il teorico dell’assolutismo, secondo lui il fondatore di nuovi ordini deve governare da solo per un tempo breve, perché poi debbono subentrargli le istituzioni. Nella lettera a Francesco Vettori nel 1513, Machiavelli si mostra in dialogo con gli antichi cui domanda la ragione delle loro azioni, conscio che la storia abbia una causalità tutta umana se si eccettua il ruolo della fortuna, da qui l’idea di una politica laica, basata su una concezione strumentale della storia, fatta dagli uomini e non dalla Provvidenza. La virtù si esplica nel saper interpretare il momento in cui si vive, accordandolo con il passato, la fortuna è un evento che esiste nella storia, va controllata, prevista, analizzata, da parte di chi sa fare politica. Il rapporto fra il Principe e i sudditi è analizzato nel capitolo XIII del Principe, attraverso la figura di Chirone il Centauro precettore dei principi, metà uomo e metà bestia ad indicare i due lati degli uomini. Il Principe, pertanto, deve conoscere anzitutto la natura umana e in particolare quella dei suoi sudditi: per governare la parte razionale utilizzerà le leggi e la religione (un instrumentum regni), per governare la parte bestiale, dovrà avere la furbizia della volpe e la forza e il coraggio del leone. Il pessimismo antropologico di Machiavelli si basa sulla considerazione che l’uomo è malvagio ma soprattutto è incostante, si stanca di tutto anche del bene cui aspira, fuorché dei suoi beni, pertanto se il Principe non tocca i beni materiali del suddito, questi sarà disposto a dare il sangue per lui. Dal momento che gli uomini sono superficiali e guardano solo alle apparenze, il Principe deve mostrarsi anche per ciò che non è, al fine di 17 conquistare consenso secondo l’assunto governare è far credere, perché in politica l’importante è vincere, chi non vince non può nulla, chi vince non prova mai vergogna. Il grande uomo politico deve possedere la scienza della natura e della storia umane ma anche alcune capacità innate o virtù che rendono la politica simile ad un’arte: l’intuizione, per riuscire a prevedere anche le conseguenze delle proprie decisioni; il coraggio di attuare le decisioni e di resistere all’impulso di vendicarsi subito delle offese subite; l’astuzia e la forza, per poter sottomettere un popolo che pensa esclusivamente ai propri interessi. Ecco perché a fare politica non possono essere uomini qualunque ma quelli dotati di queste virtù, i probi viri, che non sono di natura ascetica, ma esclusivamente politica. Questo ci riporta al discorso di fondo su Machiavelli, che il potere è scevro di qualunque considerazione morale ed è privo di rapporti con l’etica, si tratta di una rottura con gli insegnamenti dei classici, in particolare di Aristotele. La politica è una scienza razionale e autonoma, si giustifica da sè stessa, senza riferimento a motivazioni di ordine trascendente o religioso. L’esercizio del potere può essere anche scellerato, a patto che riesca a conseguire l’ordine politico e a mantenerlo e a garantire i mezzi per uscire dal disordine dispotico, e che venga fatto salvo il principio della ragion di Stato. Ad ogni modo per Machiavelli, la politica è una scienza che si fonda su una conoscenza precisa della realtà effettuale, di quello che accade quotidianamente o che è accaduto in passato. Il Buono e il Cattivo non rispondono a principi di natura metafisica o religiosa ma il loro criterio si basa sulla necessità del momento, la cosiddetta contingenza storica, pertanto Machiavelli è certamente il primo grande pensatore a sostenere che la politica è incomprensibile se pensata attraverso il codice buono-cattivo, è invece necessario tematizzare la dimensione strategica della politica, il gioco degli interessi, la logica autonoma del potere. Egli da alla politica una morale del successo, cioè tutto quello che serve al conseguimento di un determinato scopo. Questa è una politica fortunata, perché l’uomo politico è riuscito a portare la fortuna dalla sua parte, invitandola ad essere sua compagna. In definitiva governare è far credere, questo porta dalla nostra parte la fortuna, non allontanandosi dal bene se si può, ma saper commettere il male se vi è costretti, poiché il fine ultimo è la salvezza dello Stato, davanti al quale è morale anche compiere il male. Andiamo a considerare alcuni interpreti del pensiero di Machiavelli fra questi Leo Strauss secondo cui Machiavelli fu un teorico del male. Di tutt’altro avviso furono Pocock e Skinner, in cui videro, ciascuno a suo modo, l’antesignano della tradizione repubblicano liberale inglese. Pocock stabilisce una linea di continuità dall’aristotelismo politico all’umanesimo civile che si sviluppa lungo l’opposizione virtù/corruzione, poiché il potere non è associato alla forza dello Stato ma alla partecipazione politica, che mira alla realizzazione del bene comune, con questo la politica sarebbe la massima espressione etica dell’attività umana. L’altro elemento che analizza è quello della partecipazione politica che si manifesta come effetto della pratica delle armi, un senatus populusque, in grado di affrontare i nemici e nutrire una volontà disciplinata e volta a migliorare i rapporti interni. Skinner va a delineare un’interpretazione che differisce da quella di Pocock, sostenendo che Machiavelli considera la libertà come assenza di costrizioni, in quanto il governo repubblicano non è un fine ma è lo strumento per difendere la libertà degli individui che perseguono molteplici fini, e la conflittualità sociale innescata dal modello di governo misto di Roma permette la libertà, la circolarità fra virtù e libertà consente di rendere il conflitto ordinato e di mantenere a stabilità. L’opera di Machiavelli viene assunta anche oggi come modello, questa attualità sembra consistere nella compresenza di ordine e conflitto che definisce la sua visione del potere. La politica è vista nella sua natura intrinsecamente plurale e dinamica, in cui potenza, partecipazione e conflitto si danno in costante tensione. Accostarsi a Machiavelli con sguardo rinnovato significa comprendere la sua eccentricità rispetto a Bodin e Hobbes, e proprio in questa distanza va rintracciato l’intimo segreto della vitalità della sua opera. Con lui politica ed etica vanno a dissociarsi in nome di un’esigenza di autonomia, la politica non riceve più il suo senso dall’esterno, ma al contrario trova la sua logica specifica nell’operare una delimitazione della sfera di potenza. 18 9. Il valore della contingenza e del particulare nel realismo di Francesco Guicciardini (1483-1540) Guicciardini nasce a Firenze nel 1483 da una famiglia aristocratica sostenitrice di Medici, cresce con una propensione agli studi umanistici, ma la sua formazione diventa giuridica e pratica l’attività forense. In questo periodo scrive le Storie fiorentine. Svolse il ruolo di ambasciatore presso il Re di Spagna. Dopo la restaurazione dei Medici, passa al servizio del Papa ed è nominato governatore di Modena e della Romagna, e gli viene affidata la direzione della politica estera della Curia Pontificia durante il sacco di Roma del 1527. Sono anni molto bui, nei quali scrive tre opere fondamentali: il discorso di Logrogno, il trattato del modo di assicurare lo Stato alla casa dei Medici e infine il dialogo del reggimento di Firenze. Nel 1530 viene messo sotto accusa ed è costretto a rifugiarsi a Roma, in questo periodo compone le considerazioni intorno ai discorsi del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio, da cui emergeranno diverse differenze. Caduta la Repubblica di Firenze nel 1537 viene messo in disparte, si ritira dalla vita politica e si dedica alla composizione della sua opera più imkl,km,klk,lkmm,,lk,mmkm,m,portante, la storia d’Italia, che concluderà prima di morire nel 1540. Ed è proprio quest’opera a mostrarci il punto di partenza della sua analisi politica cioè la situazione di crisi degli Stati italiani del ‘500, processo iniziato con la morte di Lorenzo il Magnifico, la discesa del re francese Carlo VIII fino al 1527 con il sacco di Roma. L’intento narrativo di Guicciardini è descrivere entità politiche disomogenee interpretandole come parte di un discorso capace di andare oltre i confini. Un elemento fondamentale è l’accento sull’imprevedibilità dei fatti che da instabilità e incapacità di prevedere i meccanismi della politica, quanto emerge da quest’opera è proprio l’idea che fosse stata l’incapacità dei governanti degli stati italici a causare la fine della stabilità nella penisola, cioè a fronteggiare il trasferimento dei traffici del mediterraneo, a far fronte comune alle brame dei potenti sovrani stranieri e alla litigiosità permanente fra i sovrani. Questo elemento lodifferenza da Machiavelli per cui il conflitto è l’anima della lotta politica, per Guicciardini invece è una minaccia al valore dell’ordine, ma non per questo elude il conflitto poiché sa benissimo e osserva il conflitto interno agli Stati tra tendenze dispotiche dei principi e istanze repubblicane. La fine del sogno repubblicano rappresenta l’espressione della stanchezza, quindi pur di avere un po' di pace si accettava chiunque potesse garantirla, l’aristocrazia italiana e le grandi forze mercantili desideravano uno vivere nel quale governasse chi si volessi non fussino, molestati nelle loro facoltà. C’è un paradosso, pur di avere pace viene giustificato l’avvento di un potere forte a sacrificare la libertà. Sulla scorta di questa riflessione non possiamo esimerci dal confronto diretto tra le opere di Guicciardini e Machiavelli. Guicciardini esprime il rifiuto del punto di vista di Machiavelli che nei fatti storici aveva creduto poter orientare l’azione politica, lo giudica un prigioniero di una illusione libresca incapace di cogliere la varietà della realtà e ammonisce a non prendere per regola assoluta quel che dice uno scrittore al quale sempre piacciono sopra ogni modo rimedi straordinari, violenti. Secondo Guicciardini il ricorso alla violenza non è corretto, perché ha sempre degli. Effetti di lungo periodo, questo serva lui per esprimere le perplessità di fronte al cosiddetto classicismo politico, occorre esercitare una facoltà che egli chiama discrezione, una presa di petto contro la storia maestra di vita, nel momento in cui si inizia a studiare il processo, facendo riferimento all’autorità degli antichi, si portano via energie intellettuali e questo porta ad omettere dei dati fondamentali, e quindi spiega l’impossibilità di un paragone con la realtà romana. Guicciardini contesta in particolare che le divisioni sociali e i tumulti della plebe nella storia romana abbiano avuto qualsiasi funzione positiva nel processo istituzionale, egli sostiene che il popolo non è capace di deliberare le cose importanti perché caratterizzato dall’imprudenza e incostanza, appetito di cose nuove, sospetto immoderato, invidia infinita contro a tutti quelli che hanno facultà e qualità e di conseguenza è ben presto minacciata l’esistenza di uno Stato in cui si possono insinuare tendenze demagogiche, quando il potere viene conquistato da personaggi di questo tipo. Per questo Guicciardini prospetto l’avvento di una Repubblica degli ottimati che si regga su delle famiglie aristocratiche riunite in un consiglio e possano temperare con i loro consigli stabilità e 19 conservazione. Il modello istituzionale di Guicciardini è la Repubblica di Venezia nella quale vede realizzata una perfetta costituzione mista, in cui la centralità dell’elemento ottimatizio tempera e media tra le opposte istanze, da cui Firenze era periodicamente lacerata, che si esprimevano in pulsioni popolari e assolutismo signorile. Per Machiavelli il politico ideale non può non essere un grande uomo d’armi, per Guicciardini è quello del giurista sorretto dalla fiducia del sistema costituzionale. Guicciardini e Machiavelli sono entrambi iniziatori del realismo, ma la loro interpretazione diverge su alcuni punti significativi, anzitutto la posizione dell’individuo nei confronti dello Stato che per Guicciardini è il punto di riferimento della politica, e le entità politiche collettive non devono assorbire tutte le forme e le dimensioni dell’esperienza umana e questo pensiero contiene gli anticorpi nei confronti della politica totalitaria. Questo ci porta a ragionale sulla concretezza della politica e non solo sulle idealità che sono gli inganni della storia, per Guicciardini c’è un elemento assoluto, la fortuna, che giganteggia sulla vita degli uomini e non è possibile prevedere la regolarità dei comportamenti senza queste difese occorre arrendersi alla legge suprema delle necessità che l’uomo politico deve assecondare, questa considerazione nasce dal fatto che le forme politiche sono destinate a cadere e in Guicciardini il fato assume un peso schiacciante, conduce colui che vuole lasciarsi guidare, pertanto l’agire umano è ridotto a quello che lui chiama il Particulare. Il pessimismo di Guicciardini non è radicale come quello di Machiavelli, non ritiene che individuo sia sinonimo di egoismo, ritiene che gli uomini siano inclinati più al bene che al male però consapevole che la natura dell’uomo sia fragile questo porta a deviare verso il male laddove c’è un interesse di roba o di Stato e questo porta ad una degenerazione morale, nonostante tutto c’è nell’uomo la volontà di non darsi prede alla fortuna ma andare con la ragione. Questa lezione è osservabile nelle vicende degli uomini politici che detengono il potere, per Guicciardini, è ambizione perniciosa e detestabile questa è la grande differenza con Macchiavelli, non si deve prendere la potenza per idolo. Tuttavia uno dei punti di contatto fra Gucciardini e Macchiavelli è ammettere che l’etica cristiana possa essere utile per il governo degli Stati, la politica ha un suo codice di condotta perché la ragione degli Stati e l’uso degli Stati sono cosa diverse dalla moralità comune, è impossibile regolare i governi secondo i precetti della legge cristiana, e non si può tenere gli Stati secondo coscienza e i sudditi bene senza severità. Tutto questo deve accompagnare il potere attraverso delle buone istituzioni che siano in grado di evitare la violenza politica ed evitare che le cose pubbliche finiscano in violenza. Nelle cose della politica è meglio allungare i tempi e rendere più consapevole l’azione, e qui la distanza enorme con Machiavelli. Per Guicciardini chi governa a caso si ritrova alla fine a caso, e coltiva una visione a lungo periodo di responsabilità delle generazioni future rispetto a Machiavelli. In definitiva, da queste considerazioni egli trae nozioni di teoria politica che sono il rifiuto di una concezione della regolarità della politica e una valorizzazione della discrezione. Nelle vicende umane e politiche, l’incertezza è sempre presente anche se gli uomini agiscono come se tutto fosse estremamente certo. Eppure, sostiene Guicciardini che le previsioni degli esperti si discostano troppo dalla realtà, piuttosto ci chiama all’osservazione della contingenza del particulare e al tempo stesso offre la possibilità di allontanarsi dal laboratorio e rientrare nella piazza per osservare i comportamenti reali delle persone, quello che vede nella storia è la capacità di poter indagare nel lungo periodo le cause della situazione presente e questo può essere utile a gestire le necessità politiche della contingenza nella quale occorreva rispristinare il governo degli ottimati. Nelle Storie fiorentine emerge la mancanza di un potere stabile in grado di contrastare le pretese dei grandi Stati moderni europei, e lo esprime anche con il Discorso di Logrogno, nel quale è consapevole della tempesta che sta arrivando, l’uomo saggio deve impegnarsi a considerare le possibilità di azioni che restano e pensare alle generazioni successive. Un altro elemento da sottolineare è il legame tra il vivere libero garantito dalla presenza dei buoni ordini in un governo misto dove non c’è potere che prevarichi su un altro. Tutto questo ci da la misura della distanza fra una visione ideale della politica ed una visione basata sull’osservazione dei fatti, e si tramuta in un’accusa nei confronti di Platone, perché ritiene che la validità di ciascuna forma di governo sia giudicabile solo in base agli effetti che essa può produrre dai benefici ottenuti e dai danni procurati. 20 Guicciardini fonda questa proposta istituzionale attraverso la formula del governo ristretto composto dall’aristocrazia a garanzia che le decisioni vengano prese con prudenza, finalizzata all’opposizione del dispotismo. Per Guicciardini, uno Stato deve basarsi su criteri di merito, selezionare dei gruppi dirigenti competenti, poiché gli uomini non sono tutti atti a governare, il lavoro politico esige una preparazione per formare alla virtù e la capacità occorre un’educazione che serva non solo a riscaldare i molti, ma che accenda i rari, cioè una visione in grado di poter esaltare i più dotati. Quindi virtù e vivere libero sono connessi e le opportunità che vengono agli uomini di talento fanno si che questi possano esercitarlo a servizio di tutti. Per concludere, in questo ragionamento, Guicciardini aggiunge che gli uomini amano l’uguaglianza, perciò si accordano mal volentieri a riconoscere altri per superiore. 21 10. L’invenzione della sovranità dello Stato moderno dopo le riforme religiose Il periodo medievale si conclude con una dialettica fra impero e papato e fra i due litiganti emerge lo Stato, la risposta che l’Europa moderna ha fornito al problema dell’ordine politico o implosione dell’ordine medievale che pone fine alla frammentazione ed anche alle istanze universalistiche dell’Impero e della Chiesa e in questo modo la monarchia assoluta diventa la forma istituzionale prevalente. Questo quadro viene caratterizzato dall’affermazione della riforma protestante. In questa situazione si afferma lo scisma di Martin Lutero che nel 1521 porta a questa rottura. Seguirono decenni di lotte religiose che terminarono nel 1555 con la pace di Agusta, dove viene sancito il principio del cuius regius, eius et religio, cioè la scelta del sovrano a determinare la fede dei suoi sudditi. Quel che Lutero combatte è un potere spirituale organizzato sul modello di quello temporale, l’opera esisterà in una sublimazione del potere religioso che ripudia l’istituzionalizzazione della chiesa. Altro elemento è costituito dall’assicurarsi appoggi utili alla giustificazione dell’intervento dei principi in materia religiosa, formulando un assolutismo laico, e su questo punto la sua concezione va ad opporsi nettamente a quella tradizionale tomista medievale. Per Lutero lo Stato è un potere di repressione e va subito passivamente, questo crea una delle società più chiuse nell’epoca moderna. Per Lutero va a ricercare una chiesa di Stato, dove al fedele non è data nessuna possibilità di ribellione, la sua libertà di fede si manifesta solo sul piano interiore. La riforma diventerà uno strumento di consolidamento del potere nelle mani della borghesia. Questo processo viene radicalizzato da Giovanni Calvino, grazie alla sua opera la Riforma si afferma a Ginevra, trasformandola in una repubblica teocratica, cioè una fusione tra società politica e comunità religiosa. Il suo pensiero è rappresentato dall’affermazione il potere esiste solo per condurre gli uomini secondo la volontà di Dio. Nell’Europa del ‘500 le classi politiche al potere e quelle che ambiscono ad ottenerlo reinterpretano e utilizzano i temi teologici per finalità di carattere politico, nascono così le ideologie, in questo quadro avviene una differenziazione di atteggiamento dei protestanti, quando sono al potere sono caratterizzati da intolleranza e schemi rigidi di governo, ad esempio nel regime puritano di Cromwell in Inghilterra; quando sono all’opposizione, elaborano dottrine del diritto di resistenza e l’idea di tolleranza nei confronti delle minoranze, ad esempio in Scozia e in Francia con gli ugonotti. Le riforme religiose, compresa quella cattolica, determinarono tutte, sul piano politico, un sostegno all’assolutismo e un contributo alla formulazione della teoria del diritto divino dei re. In questo quadro emergono conflitti che hanno origine politica ma anche giustificazione di tipo religioso. In Francia le guerre religiose sono il paravento dello scontro tra la monarchia nazionale emergente, gli antichi privilegi della nobiltà feudale e la borghesia emergente. Nel frattempo gli ugonotti, ricchi borghesi protestanti alleatisi con i nobili, vengono decimati dall’esercito reale nella Notte di San Bartolomeo, scatenando la reazione dei monarcomachi, intellettuali che teorizzavano la destituzione e l’assassinio del re. Tra i testi fondanti di questa posizione politica vi sono le Vindiciae contra tyrannos, nelle quali si sostiene che la pretesa del re di controllare anche la sfera religiosa dei sudditi è illegittima perché il rapporto che lo lega alla comunità è contrattuale, non può esercitare poteri che non gli siano stati conferiti dai sudditi. Da questo ne deriva che se il re invade indebitamente l’ambito religioso, si trasforma in tiranno, e di conseguenza può essere legittimamente ucciso dalla comunità. In questo tragitto incontriamo la figura di Jean Bodin, un giurista cattolico che fa parte dei Politiques, intellettuali e funzionari pubblici, che, per superare le lotte religiose in Francia, cercavano una fonte di legittimazione al potere diversa da quella religiosa secondo i quali l’unità va ricercata nella monarchia e si fonda sull’autorità politica. Bodin era consapevole della necessità di legare la monarchia con la borghesia per consolidare lo Stato moderno e dedicò la sua attività intellettuale alla creazione di premesse teoriche e pratiche affinchè lo Stato francese potesse fondarsi sulla sicurezza e sulla stabilità a livello interno. Compone i Sei libri della Repubblica dove inventa di fatto l’idea della sovranità, vero fondamento su cui poggia tutta la struttura dello Stato. La teoria della sovranità di Bodin 22 genera la frattura rispetto sia al mondo antico che a quello medievale, con lui emerga l’elemento giuridico a sostegno della legittimazione del potere. Il principio giuridico sostituisce il principio teologico tramite argomentazioni di natura tecnica. Assumendo questa concezione giuridica Bodin si oppone a qualunque lascito del Medioevo e con questa delegittimazione dei poteri derivanti dal feudalesimo condanna all’irrilevanza politica la monarchia e fonda su diverse basi la sovranità del re. La repubblica è il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune fra loro, intende la cosa pubblica e non il governo misto degli antichi romani. Con governo giusto intende conforme a certi valori, giusto perché riesca a tenere armonicamente insieme tutte le componenti della società. Governo che ha il suo antecedente naturale nella famiglia, vuol dire che i diritti delle famiglie sono intangibili dal sovrano. Bodin specifica che per sovranità si intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato, si tratta di un potere che chi esercita ne è solo concessionario, il contratto può essere temporaneo ma l’obbligazione politica è eterna e la sovranità diventa immortale. È un potere che non ammette l’Impero o la Chiesa, è l’origine di ogni potere interno. Questi caratteri di assolutezza stanno a significare l’idea che la sovranità, sta nel trono e nella corona, non già nella figura fisica del monarca, pertanto non muore mai e viene esercitata senza il consenso di nessuno, però il titolare della sovranità può delegare il proprio potere a diverse forme di governo. La sovranità è inoltre inalienabile e imprescrittibile, i diritti pubblici non possono essere ceduti a terzi. Bodin intuisce il ruolo fondamentale del sovrano, il cui compito è quello di prendere decisioni politiche, specie in circostanze eccezionali, non si tratta di un potere distopico, tirannico o arbitrario perché incontra alcuni limiti, le leggi di natura, le leggi divine, le leggi fondamentali del regno, come ad esempio la legge di successione, i diritti delle famiglie e le leggi che garantiscono il rispetto della proprietà privata dei sudditi. Stante l’esistenza di questi limiti, per Bodin si può parlare di monarchia regia o legittima, la posizione degli aiutanti della monarchia amministrativa, del ceto dei servitori dello Stato che, a partire dal ‘500 ne costituiranno l’ossatura. Lungo questa frattura si inserisce una nuova forma di pensiero politico che fa capo ad una nozione di ragion di Stato, dottrina nata dalla necessità dei nuovi Stati nazionali per la cura della conservazione del potere. Il problema che si poneva era la constatazione di un divorzio fra l’utile, cioè la conservazione della potenza dello Stato e il bene, l’onesto, questo tema anima le opere politiche del tempo. In Italia, Il principale animatore di questa dottrina fu Giovanni Botero che deve la sua fama al trattato della ragion di Stato composto tra il 1589 e il 1598 con il quale voleva individuare le tecniche necessarie al principe per il mantenimento del suo dominio. Egli afferma che lo Stato è dominio fermo sopra i popoli e Ragione di stato è notizia di mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare un dominio così fatto. La ragion di Stato definisce sé stessa come una conoscenza, una contravvenzione alle ragioni ordinarie in vista del pubblico bene, il benessere dello Stato. Si possono ricondurre molteplici strategie di governo alle quali Botero ricorre, nel caso dei poveri, dei popoli conquistati, in entrambi i casi adotta la medesima strategia, da un lato mira a mantenere la pace pubblica e dall’altro favorisce l’accrescimento delle ricchezze dei sudditi del Regno. All’interno di questa strategia bisogna collocare l’idea di Botero di arrivare un vero e proprio governo economico della società. Per Botero, il principe per mantenere il popolo nell’obbedienza che è sempre la finalità dello Stato, deve procurare al popolo benessere. Oltre a queste funzioni deve mirare all’ingrandimento del proprio Stato attraverso l’accrescimento della popolazione e delle sue forze, questo meccanismo viene sposato dalla promozione delle attività economiche direttamente da parte del principe. Occorra che all’obbedienza degli individui corrisponda l’eminenza della virtù del principe riconducibile alla prudenza, si tratta di una norma di governo universale alla quale il principe si deve attenere in tutti i campi della propria azione. Botero di fatto, ammette che lo Stato è un apparato di potere e che la sua funzione essenziale è quella di esercitare un dominio sul popolo per imporgli una disciplina politica e normativa. Qui si ravvisa una sorta di pessimismo antropologico che ricollega Botero a Machiavelli. A partire dal XVI secolo, il realismo politico e la ragion di Stato prendono il sopravvento sulle motivazioni religiose, la religione diventa uno strumento della politica degli Stati nazionali e un loro affare interno. Tutto questo porta una nuova 2

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