Modulo 3 - Approccio Sociologico (Parte II) PDF
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The document presents an overview of Edwin H. Sutherland's theory of differential association. This theory explains crime as learned behavior, acquired through social interactions. It argues that individuals learn criminal behavior from the social groups they interact with.
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MODULO 3 APPROCCIO SOCIOLOGICO. PARTE II Edwin H. Sutherland (1883-1950), si inserisce nel filone più maturo della Scuola di Chicago, ed elabora la teoria delle associazioni differenziali. Nonostante il suo rifiuto circa le visioni psicopatologiche e biologiche del comportamento, Sutherla...
MODULO 3 APPROCCIO SOCIOLOGICO. PARTE II Edwin H. Sutherland (1883-1950), si inserisce nel filone più maturo della Scuola di Chicago, ed elabora la teoria delle associazioni differenziali. Nonostante il suo rifiuto circa le visioni psicopatologiche e biologiche del comportamento, Sutherland resta concentrato sull’individuo per capire come un comportamento potesse trasmettersi di generazione in generazione e quindi sul perché un soggetto commette un crimine. Ai suoi interrogativi rispose con il meccanismo di trasmissione culturale che si costituiva con l’apprendimento, per cui il comportamento deviante può essere appreso da chiunque, indipendentemente dalle sue condizioni economiche e sociali, nello stesso modo con cui si apprendono i comportamenti conformi: nelle interazioni con gli altri individui, mediante i normali processi di comunicazione. Occorreva dunque soffermarsi circa l’impatto delle influenze sociali sull’individuo. Il ragionamento compiuto da Sutherland ha inizio con l’affermazione che le società moderne sono caratterizzate dalla compresenza di molti e diversi gruppi sociali che possono entrare in conflitto tra di loro in quanto portatori di differenti tradizioni culturali e diversi riferimenti normativi, avendo ciascuno propri interessi e valori da tutelare. Quanto più una società è socialmente differenziata, tanto maggiore è la probabilità del manifestarsi di conflitti circa le norme da considerare valide e quale sia l’atteggiamento da tenere nei confronti della legge, espressione del gruppo sociale dominante, che ha più potere. L’autore, dunque, al concetto di disorganizzazione sociale, che sembra richiamare un’assenza di punti di riferimento, preferisce quello di organizzazione sociale differenziale perché gli individui si aggregano sempre a uno o ad un altro dei vari gruppi della loro società sulla base delle interazioni e delle interiorizzazioni dei contenuti culturali e normativi. E associazione differenziale è il processo attraverso il quale gli individui apprendono il comportamento criminale in associazione con modelli criminali. L’associazione è occasione e opportunità di apprendimento che ha carattere processuale. Questa teoria è riassumibile nei nove postulati che Sutherland traccia nella sua opera Principles of Criminology del 1947: 1 Il comportamento criminale è appreso. È escluso che il comportamento criminale si erediti o si inventi. 2 Il comportamento criminale è appreso dall’interazione con altre persone attraverso un processo di comunicazione (verbale e non verbale). 3 La parte fondamentale dell’apprendimento del comportamento criminale avviene all’interno di intime relazioni interpersonali. I microgruppi favoriscono la formazione dei delinquenti perché all’interno di essi i processi di comunicazione sono più intensi. 4 L'apprendimento del comportamento criminale include quello di: a) tecniche relative alla commissione del reato, a volte molto complesse, basti pensare quelle necessarie alla falsificazione di un bilancio, a volte molto semplici, come ad esempio quelle per uno scippo; b) orientamento specifico di motivazioni, pulsioni, razionalizzazioni ed atteggiamenti. 5 L’orientamento specifico di motivazioni e pulsioni è appreso dalle definizioni dei codici legali come favorevoli o sfavorevoli. 6 Una persona diventa delinquente per un eccesso di definizioni favorevoli alla violazione della legge rispetto a quelle contrarie ad essa. Quando una persona diventa criminale non è solo in contatto con modelli criminali ma è anche isolata da modelli anticriminali. 7 Le associazioni differenziali possono variare in frequenza, durata, priorità (precocità dello stabilirsi) ed intensità (contatto stretto e suo prestigio). 8 Il processo di apprendimento del comportamento criminale attraverso l’associazione con modelli criminali o non criminali implica tutti i meccanismi di qualsiasi altro processo di apprendimento. L’apprendimento non è limitato al processo di imitazione. 9 Sebbene il comportamento criminale sia espressione di bisogni e valori generali, non si può spiegare in base a questi, poichè anche il comportamento conforme è espressione degli stessi bisogni e valori. Il bisogno di valore e di arricchimento come obiettivi di vita non sono sufficienti per spiegare la differenza fra la condotta del ladro e quella onesta del lavoratore; la motivazione va ricercata nelle diverse esperienze di associazione che i due hanno avuto con modelli criminali e non, e per questo rispondono agli stessi bisogni in maniera non uguale. I limiti della teoria di Sutherland consistono non solo nella difficoltà di una sua dimostrazione empirica e nella discutibilità circa il fatto che debba esservi una cultura criminale; ma soprattutto nella insufficiente considerazione ed accentuazione della capacità di scegliere dell’uomo, un soggetto passivo, il cui comportamento appare totalmente determinato. L’apprendimento di condotte devianti e criminali vale per tutti gli ambiti sociali, anche in quelle in cui gli individui non dovrebbero essere tentati dal compiere reati. Da questa osservazione Sutherland collega la teoria dell’apprendimento alla ricerca della white collar criminality, su cui scrive nel 1983, anche se lo aveva già fatto nel 1949 ma non in maniera completa per timore di censura a causa di quanto affermava in relazione a talune imprese. Ho usato il termine delinquente del colletto bianco per designare una persona della classe socio-economica superiore, che viola le leggi deputate a regolare la sua attività professionale. Uso il termine nel senso con cui fu inteso dal Presidente della General Motors, Sloan, nel libro intitolato An Autobiography of a White-Collar Worker. Generalmente, invece, è usato per riferirsi agli impiegati che indossano giacca e cravatta quando lavorano, o anche ai commessi dei negozi. Autori come W. Mills e A. Morris avevano già parlato del reato del colletto bianco, ma Sutherland fu il primo a trattare sistematicamente il fenomeno, a definirne le caratteristiche e ad elaborarne una teoria scientifica. White collar crime è un reato commesso da una persona rispettabile, di elevata condizione socio-economica, nell’ambito della propria attività professionale, con abuso della fiducia, di cui gode all’interno della comunità. La domanda più importante sul delitto del colletto bianco è se si tratti di un vero e proprio reato. Questa domanda è difficile e molto tecnica; la conclusione cui sono arrivato in proposito è che le violazioni di legge accertate dai giudizi secondo equità, o in sede civile, o da commissioni amministrative sono, con pochissime eccezioni, reati. Sutherland fa rientrare nella categoria tutte le condotte contrarie alla legge penale civile o amministrativa che siano socialmente dannose, attraverso il criterio della definizione legale di danno sociale, su cui si era precedentemente espresso Durkheim: anche quando l’atto criminale è con certezza nocivo alla società, il grado di dannosità che presenta è lungi dall’essere regolarmente in rapporto con l’intensità della repressione che lo colpisce. Nel diritto penale dei popoli più civili, l’assassinio è universalemnte considerato il maggiore dei reati: tuttavia una crisi economica, un colpo di borsa, perfino un fallimento possono disorganizzare molto più gravemente il corpo sociale che non un omicidio isolato. Indubbiamente, l’assassinio è sempre un male, ma nulla prova che sia il più grande dei mali. Che cos’è un uomo di meno nella società? Che cos’è una cellula di meno nell'organismo? Si dice che la sicurezza generale sarebbe in avvenire minacciata se l’atto restasse impunito; ma che si metta a confronto l’importanza di questo pericolo, per quanto reale, e quella della pena: la sproporzione salta agli occhi. Infine, gli esempi che abbiamo or ora citati mostra che un atto può essere disastroso per una società senza incorrere nella più piccola repressione. La definizione del reato che abbiamo citato è dunque, sotto tutti gli aspetti, inadeguata. Sutherland non chiarisce in cosa consista l’elemento della rispettabilità se corrisponda all’assenza di condanne oppure faccia riferimento allo svolgimento di attività professionali che riscuotono consenso e prestigio sociale; mentre più chiara è l’elevata condizione socio-economica dal momento che essa si basa su parametri obiettivi come quello del reddito. Esplicito e chiaro è che vi deve essere una stretta relazione fra il reato e l’attività professionale, perché se il colletto bianco compie un reato al di fuori di quest’ultima rientrerebbe nella categoria della criminalità comune. E ancora la condotta deve essere compiuta abusando della fiducia conquistata nella comunità grazie alle qualità sopra menzionate che l’autore possiede. Gli studi successivi a Sutherland partono dalle linee guida tracciate dall’autore e riflettono circa le seguenti considerazioni offerte dallo stesso: i danni economici prodotti dalle attività illegali dei potenti superano di gran lunga quelli derivanti dall’insieme degli illeciti della criminalità comune, tradizionalmente ritenuti il vero ed unico problema per la società; la rilevanza dei guasti provocati sul terreno delle relazioni sociali, perchè il comportamento degli white collars minano la fiducia nelle istituzioni e nei principi su cui si fondano le relazioni sociali; l’essere notevole della capacità di impedire e/o contrastare la reazione sociale, questo per l’appartenenza degli white collars alla classe dei protagonisti. La definizione della criminalità del colletto bianco ha subito un ampliamento in corporate crime ed in criminalità economica, facendovi rientrare una vasta varietà di reati nel mondo degli affari, nei pubblici poteri e nelle professioni, questo attraverso il trasferimento dell’attenzione dal soggetto all’azione. Talcott Parsons (1902-1979) nei sui studi sul sistema sociale afferma che l’azione/l’atto rappresenta l’unità elementare che richiede i seguenti elementi: un attore che compie l’atto; un fine verso cui è orientato l’atto; una situazione di partenza ove ci sono sia le condizioni ambientali nei confronti delle quali l'attore non ha possibilità di controllo, sia i mezzi rispetto a quali egli ha invece possibilità di controllo; e un orientamento normativo all’azione. Le norme collegano l’individuo alla società di appartenenza riducendone il libero arbitrio, perché da un lato l’uomo è vincolato dalle norme sociali nel suo comportamento e dall’altro le norme sono espressione dei valori di fondo di una cultura. Il sistema è un insieme interrelato di parti, in grado di autoregolazione e ogni parte adempie una funzione necessaria alla riproduzione dell’intero sistema stesso. Ogni sistema deve essere in grado di svolgere le seguenti funzioni attraverso dei sottosistemi: adattamento all’ambiente con il sottosistema economico; definizione dei propri obiettivi con il sottosistema politico; conservazione della propria organizzazione con i sottosistemi della famiglia e della scuola; integrazione delle parti componenti con i sottosistemi giuridico e religioso. Nell’analisi del comportamento deviante, parte dalla considerazione per cui i processi, attraverso cui la struttura motivazionale della personalità di un individuo giunge ad essere quello che è, sono i processi sociali che implicano l’interazione dell’ego con un gran numero di alteri. Il problema va dunque considerato in termini di interazione sociale. La devianza ha origine e consiste in un disturbo di comunicazione tra ego e alter da localizzarsi in carenze dell’alter nei confronti dell’ego che si strutturano nella personalità di quest’ultimo in un sistema di bisogni-disposizioni il cui orientamento è appunto falsato e distorto nei confronti delle aspettative condivise. Secondo Parsons se si prende come riferimento l’individuo la devianza è una tendenza motivata a far sì che l’individuo trasgredisca uno o più modelli normativi istituzionalizzati; se si prende come riferimento il sistema di interazione sociale la devianza è la tendenza, da parte di uno o più attori, a comportarsi in modo tale da disturbare l’equilibrio del processo interattivo. In relazione a e a differenza di Merton, Parsons considera: il conformismo come una condizione equilibrata del sistema interattivo, l’innovazione e il ritualismo rappresentano un conformismo obbligato, determinato dall’obbligatorio rifiuto di conformarsi alle aspettative dell’alter ed ai modelli normativi, la ribellione e la rinuncia sono due tipi di alienazione. Parsons traccia un parallelo fra il malato, il ribelle e il criminale Dove predomina il conformismo con l’interesse principale dell’ego verso le relazione con l’alter, come persona, innanzi all’ansia di un eventuale cambiamento dell’atteggiamente dell’alter da favorevole in sfavorevole, l’ego può orientarsi: attivamente, e per cui dominare l’alter che si troverà a soddisfare le aspettative dell’ego, e se vi è convergenza sulle norme si manifesta il bisogno di imporre la norma all’alter; oppure passivamente, e per cui divenire sottomesso all’alter soddisfando ogni suo interesse pur di non mettere in pericolo la relazione, e se vi è convergenza sulle norme si manifesta un bisogno all’obbedienza perfezionista. Se dovesse predominare la componente alienante delle motivazioni dell’ego, questi conserverà gli atteggiamenti favorevoli dell’alter e risponde ai bisogni in modo alienante, e quindi, se orientato: attivamente, egli sarà aggressivo verso l’alter, senza curarsi di perderlo, perchè vuole la prova di forza, se vi è convergenza sulle norme egli approfitta delle regole e delle leggi per il suo unico interesse; passivamente, egli non cercherà la prova di forza, non si crea aspettative non realizzabili da parte dell’alter, e rispetto ad egli si rende compulsivamente indipendente sino a rompere la relazione allontanandosi, se vi è convergenza sulle norme egli si sottrae a situazioni in cui rispettare aspettative o sanzioni applicate. La prevalenza dell’alienazione sia riguardo all’alter che alle norme spiega il porre sullo stesso piano la malattia mentale e la criminalità, mentre la devianza resti un fenomeno sociologico: il controllo sociale innanzi alla criminalità si attua con la reazione sociale che conduce alla segregazione - carcere -; il controllo sociale innanzi alla malattia mentale è esercitato dal medico che conduce alla segregazione - ospedale psichiatrico o TSO). Il comportamento deviante non si determina solo dalla struttura motivazionale della personalità, ma anche dall’influenza delle situazioni in cui il soggetto agente si viene a trovare, situazioni che implicano la presenza di alteri. La devianza ha tre aspetti caratteristici: motivazione, direzione e bersaglio. A seconda del rapporto fra la motivazione e la situazione sociale e culturale che si stabilisce in un determinato momento, si può avere una direzione attiva o passiva che conduce a: aggressione o ribellione, evasione o ritualismo, dirette ad un bersaglio che può essere una norma, una persona o una collettività. Se le norme dell’azione sociale, ossia del comportamento degli attori sociali, hanno il loro fondamento nel sistema di valori della società, Parsons individua come elemento fondamentale per l’integrazione del sistema sociale il processo di socializzazione. Questo consiste nella acquisizione degli orientamenti richiesti per un funzionamento soddisfacente in un ruolo, ed il suo momento-chiave è durante l’infanzia, quando ciascuno impara a conformarsi alle aspettative sociali attraverso il condizionamento del premio e della punizione, ed attraverso i meccanismi dell’identificazione e dell’imitazione. Il deviante odia gli oggetti che frustrano le sue aspettative, ma continua ad amarli perché incapace di andare al di là di essi, questa ambivalenza è all’origine delle varie forme di comportamento deviante. Il deviante è personalità immatura e/o malata per Parsons, perché tiene stretta la relazione tra equilibrio sociale e equilibrio della personalità (per questo il ribelle non è creativo). Merton e Parsons spiegano il problema della convivenza civile alla luce della interiorizzazione delle norme e dei valori socialmente condivisi; in posizione del tutto opposta si trovano i teorici del conflitto nello spiegare il cambiamento delle strutture sociali. Se per i sociologi dell’integrazione la devianza è elemento disfunzionale al sistema, che è un insieme integrato in cui ciascuno occupa un determinato status, e coloro che vengono meno alle aspettative di ruolo connesse al proprio status sociale rompono l’equilibrio del sistema; per i teorici del conflitto il conflittualismo è positivo per mantenere il sistema sociale, perché è mezzo per scaricare la tensione prima che essa raggiunga un livello tale da mettere in pericolo la stabilità del sistema stesso. Le teorie del conflitto, o meglio l'insieme di idee e teorizzazioni della criminologia del conflitto, criminologia critica o criminologia radicale, si affermano tra gli anni sessanta e settanta del Novecento nel clima di agitazione politica che metteva in discussione i valori della classe media e lo stile conformista della società americana. Erich Goode (1957-) afferma che la teoria del conflitto abbandona l’interrogativo sul perché alcune persone violino le regole. Invece, tratta la questione relativa alla produzione delle norme, in particolare di quelle penali. Perché quel comportamento è fuorilegge? E perché un altro, spesso anche più dannoso, non lo è? I teorici del conflitto rispondono a queste domande sostenendo che vengono emanate leggi e approvate regole che sostengono le usanze o gli interessi dei membri più potenti della società. In una società complessa nessuna norma o legge è accettata o ritenuta giusta dalla totalità, ma solo da una sua parte. Inoltre, nessuna regola o legge protegge i diritti o gli interessi di tutti, di nuovo solo quelli di certe categorie sociali. Solo il gruppo di potere è in grado di imporre il suo volere al resto della società ed è sicuro che vengano stabilite leggi e regole a lui favorevoli e, possibilmente, pregiudizievoli per gli altri gruppi meno forti. Questo, in poche parole, il tema centrale della teoria del conflitto. L’oggetto di studio è la società, in particolare l’analisi della formazione e applicazione delle norme, che sono strumento di coloro che promuovono i propri interessi e affermano i propri valori come unici. Il consenso e l’unione sociale sono temporanei, destinati a trasformarsi in conflitto. Se i diversi settori della società lottano per il potere, la ricchezza, un elevato status e le scarse risorse, ne deriva che la competizione è l’unica forma di interazione, che conduce ai conflitti e di conseguenza al comportamento antisociale. Ma chi stabilisce le regole e le norme giuridiche stabilisce anche chi è deviante e/o criminale. I criminali sono il fallimento della società nel venire incontro ai bisogni degli individui. Le origini del crimine vanno ricercate nelle leggi, nei costumi e nella distribuzione della ricchezza e del potere. La criminalità e la violenza sono presenti in tutte le classi sociali, ma quelle inferiori, prive di potere, sono definite devianti e/o criminali con più facilità. Il gruppo dominante emana le leggi e stabilisce le regole per difendere e sostenere i propri interessi, i suoi membri, in caso di violazione, sono in una posizione tale da non essere perseguiti, puniti ed etichettati. La giustizia non viene applicata in modo uguale per tutti gli attori sociali, quelli appartenenti alle classi svantaggiate sono maggiormente soggetti ad ingiustizie. La legge non è strumento neutrale per ricomporre i conflitti ma mezzo con cui i detentori del potere impongono la propria volontà ed i propri interessi sui più deboli. Karl Marx (1818-1883) è da molti riconosciuto come il primo teorico del conflitto perché secondo lui la realtà sociale andava intesa in termini di lotta di classe per la proprietà privata dei mezzi di produzione. Egli considerò come causa fondamentale di tutti i problemi sociali, anche quello della criminalità, il conflitto fra i detentori dei mezzi di produzione, ossia la classe dei padroni, e i lavoratori, la classe del proletariato. Indubbio è il determinismo economico di Marx, che lo portò a credere che la struttura sociale derivasse dall’organizzazione economica, e che, quindi, la posizione occupata dall’individuo nel sistema di produzione determinasse ogni aspetto della sua vita. La crescita della divisione del lavoro genera classi antagoniste sulla base della disparità dei ruoli ed opportunità all’interno della società capitalistica. Questa opposizione fra classi lavoro-capitale si trasforma in lotta politica. Marx era attento alla classe operaia, che aveva perduto valori e legami societari per l’assenza di alternative, ed ora era divenuta soggetto politico che doveva lottare per una trasformazione della società dove il potere dalla borghesia passasse nelle mani degli operai, e man mano raggiungere l’estinzione dello Stato come organo separato dalla società. Il comportamento deviante è originato dai conflitti di classe ed economici nel sistema capitalistico. Insieme a Marx, Friedrich Engels (1820-1895) affermava che il furto è, in molti casi, una scelta obbligatoria, non essendovi alcun motivo per non compierlo. La miseria lascia all’operaio soltanto la scelta se morire lentamente di inedia, uccidersi subito o prendersi ciò di cui ha bisogno là dove lo trova, in una parola, rubare. Non possiamo dunque stupirci se la maggior parte di essi preferisce il furto alla morte per fame o al suicidio. Le stesse condizioni sociali che conducono al furto portano a comportamenti devianti quali ad esempio all’alcolismo o alla prostituzione, che sono espressione dell’abbrutimento e dell’assenza di possibilità di condurre una vita dignitosa. Le ragioni del crimine sono nelle condizioni materiali proprie di ciascun individuo; ma nel comportamento criminale si scorge anche il desiderio di affrancarsi da tali condizioni, il crimine è espressione della lotta che l’individuo pone in essere con libera volontà contro le condizioni predominanti. Nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 Marx ed Engels raccontano di uno Stato come un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese; il diritto è espressione di una classe dominante nella società; e dunque la criminalità è, sì, il risultato del conflitto di classe, ma in primo luogo deriva dal fatto che i ricchi capitalisti definiscono comportamenti devianti e/o criminali quelli che potrebbero minacciare i loro interessi economici. Precisamente come il diritto, anche il delitto, ossia la lotta dell’individuo isolato contro le condizioni dominanti, non deriva dal puro arbitrio. Esso ha invece le stesse condizioni di questa dominazione. Gli stessi visionari che nel diritto e nella legge vedono la dominazione di una volontà universale per sé indipendente possono vedere nel delitto la semplice violazione del diritto e della legge. Non si dirà dunque che lo Stato esiste in virtù della volontà dominante, ma che lo Stato sorto dal modo di esistenza materiale degli individui ha anche la forma di una volontà dominante. Anche per Willem Bonger (1876-1940) il crimine è prodotto dallo stato di demoralizzazione in cui versa la società capitalista; egli però non si è limitato ad osservare la criminalità della classe lavoratrice, guarda anche quella della borghesia, considerando entrambe unificate dal pensiero criminale determinato dalla tendenza del capitalismo a creare egoismo e dalla mancanza di una istruzione morale nella popolazione. I crimini economici come la bancarotta fraudolenta e altri analoghi sono intimamente legati al modo di produzione capitalistico, questi sono causati dalla cupidigia e dall’avidità e sono motivati dall’interesse a soddisfare bisogni che rientrano nella categoria del lusso. La soluzione, nonché la prevenzione, ai problemi sociali consiste nella costruzione di una società di tipo egualitario, basata sul comune possesso dei mezzi di produzione. Il merito della prospettiva marxiana è quello di aver messo in relazione devianza e marginalità, come effetto necessario (strutturale) e non contingente del mondo di produzione capitalistico; d’altro canto va integrata con le teorie sociologiche che hanno intrecciato i fattori materiali con quelli di ordine: psicologico, relazionale e culturale che influenzano i comportamenti degli individui. Vi sono poi i teorici del conflitto non marxisti, per cui il conflitto di classe inevitabile e permanente all’interno della società non è suscettibile esclusivamente di una interpretazione economica. Lewis A. Coser (1913-2003) che sostiene che il comportamento deviante e il crimine non sono sempre disfunzionali per il gruppo anzi, il loro verificarsi porta ad una maggiore coesione morale ed etica attorno alla norma violata e ad una ridefinizione di essa. Banalmente, ciò che è cattivo implica anche una definizione di ciò che è buono. L’atto deviante indica più chiaramente i limiti del comportamento lecito e quindi il rifiuto collettivo del deviante contribuisce a rafforzare la compattezza del gruppo. Tutto questo era già stato detto da Durkheim. Ciò che invece sfuggiva, era che non sempre l’espulsione del deviante è funzionale al gruppo. Coser prende in esame tre casi limite: 1 vi è opposizione contro il deviante e il gruppo si rafforza, in questo caso la comunità mantiene sentimenti comuni e crea nuove regole morali e ridefinisce il comportamento conforme; 2 il deviante è tollerato e il gruppo si rafforza, in questo caso si tratta di gruppi organizzati in una ideologia che prescriva la cura e l’accettazione del deviante; 3 il deviante viene espulso e il gruppo si indebolisce, come nel caso di gruppi politici estremisti che l’espulsione dei militanti comporta la disgregazione dei gruppi stessi. Anche, il già studiato A.K. Cohen, affronta la questione della devianza come ausilio all’organizzazione. Una certa percentuale di deviazione, disprezzata ma non repressa rigorosamente, può rappresentare una ‘valvola di sicurezza’ che funziona per prevenire l’accumulo eccessivo di scontento e per dirottare parte della tensione fuori dall’ordine legittimo. Per esempio, si può affermare che la prostituzione rappresenti una tale ‘valvola di sicurezza’ nei confronti di alcuni bisogni non soddisfatti, senza che ciò necessariamente minacci l’istituzione della famiglia. La devianza è considerata come: un chiarimento delle regole, ossia si realizza quando contribuisce a ridurre l’ambiguità delle regole stesse; un fattore integrante del gruppo sia quando questo ritrova la solidarietà in declino unendosi contro un nemico comune, il nemico interno può. anche essere ‘scovato’ oppure può essere semplicemente ‘inventato’, al fine di provocare attraverso l'ostilità comune contro di lui di cui il gruppo ha un così forte bisogno, un rinvigorimento di quella solidarietà sociale, sia quando nel gruppo si verifica l’aumento della solidarietà in vista di un fine comune, il conflitto può anche riunire persone o gruppi che altrimenti non avrebbero niente a che fare l’uno con l’altro. (...) L’unificazione ai fini di lotta è un processo che si verifica così di frequente, che talvolta la semplice riunione di elementi diversi, anche quando avvenga senza alcun fine aggressivo o altrimenti conflittuale, appare agli occhi degli estranei un atto minaccioso e ostile; un segnale di allarme perché invita a porre attenzione sui difetti dell’organizzazione e può contribuire a provocare il riesame nelle procedure correnti, a livello di agenzie del controllo sociale, recando cambiamenti che aumentano la efficienze e il morale. Per Coser ciò comporta un modello sociale in cui la categoria di conflitto abbia la stessa funzione della categoria dell’integrazione normativa. Il tema centrale della questione criminale è il rapporto tra potere e legiferazione e in tal senso George B. Vold (1896-1967) afferma che l’intero processo di produzione, violazione, e applicazione delle leggi riflette i conflitti più profondi tra i gruppi di interesse e le lotte relative al controllo complessivo del potere di polizia dello Stato. Poiché le minoranze non sono in grado di influenzare il processo normativo, ne consegue la criminalizzazione dei loro comportamenti da parte delle leggi. La criminalità, perciò, è la conseguenza dell’azione di gruppi conflittuali che agiscono con la stessa logica di minoranze politiche e culturali, per ottenere reciproci aggiustamenti al fine di consolidare i propri interessi. All’interno dei teorici del conflitto rientra il contributo di A.T. Turk (1934-) affrontando nel suo libro Criminalità e Ordine legale le questioni relative a Normal-Legal Conflict. Lo studio della criminalità diventa lo studio dei rapporti esistenti tra gli status e i ruoli delle autorità legali (...) e quelli dei soggetti, coloro cioè che (...) non generano tali decisioni riguardanti la creazione, interpretazione e applicazione della legge. Turk afferma l’esigenza di analizzare la criminalità avendo prevalentemente come base la legge penale e di esaminarne la relazione con lo status di criminale, confermandosi la relazione autorità-soggetto. Egli afferma che il conflitto fra autorità e sudditi è causato: per differenze nei loro modelli di comportamento; oppure quando c'è risentimento, senso di persecuzione e per cui bisogna rendere più solide le credenze in opposizione con quelle delle autorità. Nel conflitto normativo-legale le autorità fanno appello alle norme legali mutando le vecchie interpretazioni per annunciarne di nuove, mentre gli oppositori, con minore potere di controllo sul processo legale, ripiegano sul non-legale. Il controllo della società può avvenire: con la coercizione o l’uso della forza fisica. oppure con il controllo dei tempi in vita; in questo secondo caso i vecchi membri della società col passare del tempo vengono meno e rimangono quelli che hanno dato vita alla nuova organizzazione sociale delineata con leggi ad hoc, ed il nuovo ordine sociale non verrà più messo in discussione. Quanto maggiore è il potere dei gruppi dominanti, tanto più cogente è la criminalizzazione dei gruppi subalterni e inferiori. E il conflitto si diffonderà più questi ultimi saranno organizzati. In ogni caso la vera ragione del conflitto non coincide mai con le affermazioni fornite dalle parti dello stesso, o meglio, lo studioso deve individuare in modo indipendente i modelli del conflitto ed analizzarli in modo neutrale con il linguaggio scientifico e verificabile. Turk prendendo in considerazione contemporaneamente le due variabili, organisation and sophistication, delineò quattro tipi di attuali o potenziali oppositori alle norme: 1 organizzati e non raffinati, come ad esempio le bande dei delinquenti, questo è il caso in cui il conflitto tra autorità e sottoposto ad essa è più probabile; 2 non organizzati e non raffinati, come ad esempio i gregari, in questo caso il conflitto tra autorità e sottoposto ad essa è meno probabile; 3 organizzati e raffinati, come ad esempio le organizzazioni criminali, in questo caso il conflitto tra autorità e sottoposto ad essa è davvero poco probabile ; 4 non organizzati e raffinati, come ad esempio i truffatori, in questo caso il conflitto tra autorità e sottoposto ad essa è improbabile. R. Quinney (1934-) elabora la teoria sulla realtà sociale del crimine, che si fonda sulle sei proposizioni: 1 Definizione del crimine. Il crimine è una definizione della condotta stabilita da attori autorizzati in una società politicamente organizzata. La devianza è definita in base alla reazione sociale e il delitto si riferisce alla definizione di un comportamento sociale ‘creata’ e ‘sviluppata’ dalle autorità, un giudizio costruito da alcune persone riguardo alle azioni, ai comportamenti ed alle caratteristiche di altre. 2 Formulazione delle definizioni penali. Le definizioni penali descrivono quei comportamenti che confliggono con gli interessi dei settori della società che hanno il potere di decidere la politica pubblica. Come affermava il Vold: qualunque interesse di gruppo possa ottenere la maggioranza di voti, determinerà se emanare o meno una nuova legge per ostacolare o reprimere gli interessi del gruppo di opposizione. 3 Applicazione delle definizioni penali. Le definizioni penali sono applicate da quei settori della società che hanno il potere di indirizzare la politica criminale, applicare le leggi penali ed amministrare la giustizia penale. Richiamando sempre il Vold: coloro che hanno la maggioranza parlamentare (legislativa) ottengono il controllo del potere di polizia e dominano le politiche che decidono chi probabilmente verrà coinvolto nella violazione della legge. 4 Sviluppo dei modelli comportamentali in relazione alle definizioni penali. I modelli di comportamento si strutturano nella società organizzata in classi in relazione alle definizioni penali e, in tale contesto, le persone si coinvolgono in azioni che hanno una relativa probabilità di essere definite criminali. Si tratta di un chiaro richiamo alla delle associazioni differenziali di Sutherland: È stato detto che i differenti settori della società hanno diversi modelli comportamentali e sistemi normativi, ognuno dei quali è espresso nel proprio ambiente culturale e sociale. La probabilità che un individuo violerà la legge penale dipende, in larga parte, da quanto potere o influenza possiede il suo settore per emanare e far osservare le norme. Quelli con poco e nessun potere scopriranno che molti dei loro normali modelli comportamentali sono criminalizzati, mentre per quelli con molto potere avviene il contrario. 5 Costruzione dei concetti di crimine. I concetti di crimine sono costruiti e diffusi nelle diverse parti sociali dai mezzi di comunicazione di massa. 6 La realtà sociale del crimine. La realtà sociale del crimine è costruita secondo la formulazione e applicazione delle definizioni penali, lo sviluppo del comportamento si modella in base alle definizioni penali e alla costruzione dei relativi concetti. Con riferimento alle ultime due proposizioni Quinney afferma che Il termine crimine può riferirsi ad un avvenimento concreto che l’individuo esperisce personalmente, come ad una concezione della realtà creata e comunicata tra gli individui con varie forme di interazione, compresi i mass media. Le diverse idee di crimine possono essere create e comunicate come parte del processo politico di promozione di particolari valori o interessi (...) Per esempio (...) gruppi di consumatori ed ecologisti sostengono che i veri criminali siano da ricercare nei grandi affari (...) I responsabili di una comunità di un quartiere urbano sostengono che i veri criminali siano i proprietari di case o terreni, che trascurano le loro proprietà, e gli avidi commercianti. Quinney giudica il modello fondato sul conflitto incompleto, egli ravvisa la necessità di sviluppare una prospettiva critica spostando l’attenzione dai conflitti alle classi sociali, perché gli individui fanno parte di queste ultime e il comportamento criminale va riesaminato collegandolo alla società organizzata in classi. Tutti i comportamenti sono sociali, diventano criminali quando sono definiti tali da agenti autorizzati dallo Stato. Se la società americana è divisa in classi e la legge criminale rappresenta i valori della classe dominante, e dal momento che le strutture che si apprendono differiscono dal contenuto dei modelli comportamentali, le persone e i comportamenti sono soggetti a diverse probabilità di essere definiti come criminali. Non va, dunque, spiegato il comportamento criminale, ma lo sviluppo dei modelli comportamentali che hanno la possibilità di essere definiti come criminali. Quinney si concentra su tre fonti generali di strutture sociali che costituiscono la base per modellare i comportamenti definiti criminali: a la struttura età-sesso; b la struttura classe sociale; c la struttura razziale-etnica. Dall’analisi di quest’ultima struttura l’autore conclude che per comprendere il crimine bisogna ricorrere anche alla psicologia sociale, secondo la quale ogni azione umana si realizza in vista di uno scopo ed è dotata di senso. Secondo questa nuova lente il conformismo è una questione di self-control e il non conformismo è ricercato consapevolmente per trovare una identità personale. La teoria interazionista della devianza o teoria dell’etichettamento nasce alla metà degli anni Sessanta del Novecento a Chicago, nello stesso Dipartimento di Sociologia della Scuola di Chicago degli anni ‘20, per questo si parla di Nuova Scuola di Chicago i cui componenti sono i cosiddetti labeling theorists. La svolta della sociologia della devianza avvenne prima negli Stati Uniti e poi in Europa. Il contesto storico si caratterizza per una società in fermento, in rottura con l’ideologia e le convenzioni del dopoguerra. C’è un clima di risveglio dell’impegno e della partecipazione politica dei cittadini. Emerge una nuova sinistra che si oppone alla rigida etica protestante. Le contestazioni, più o meno radicali, sono quelle dei movimenti degli afroamericani contro la segregazione razziale, degli studenti nei campus, dei pacifisti contro la guerra in Vietnam, delle donne all’alba del nascente femminismo, delle controculture giovanili, come ad esempio gli hippies, portatrici di valori e stili di vita lontani da quelli dell’American way of life. La società venne studiata in modo nuovo e più approfondito rispetto al passato, i cambiamenti così radicali che si stavano manifestando non potevano influenzare gli scienziati sociali che maturarono di estendere i loro studi alla ricerca applicata sugli effetti che l’appartenenza ad una classe sociale e/o ad una etnia avevano su coloro che venivano a contatto con il sistema penale. Gli studiosi si impegnarono a studiare e combattere fenomeni come quello della stigmatizzazione. I labelling theorists affermano che i gruppi sociali producono la devianza ed è deviante quel comportamento etichettato come tale. La causa della devianza va ricercata nel controllo sociale. Howard S. Becker (1928-) scrive nel 1962: La devianza è creata dalla società, Con ciò non intendo dire - come si fa di solito - che le cause della devianza risiedono nella situazione sociale del deviante o nei ‘fattori sociali’ che lo spingono all’azione. Intendo invece dire che i gruppi sociali creano la devianza stabilendo le regole la cui infrazione costituisce la devianza e applicando queste regole a persone particolari, che etichettano come outsider. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell’azione commessa, ma piuttosto la conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di regole e sanzioni al ‘trasgressore’. Il deviante è uno cui l’etichetta è stata applicata con successo; il comportamento deviante è il comportamento così etichettato dalla gente. Secondo Becker l’etichetta è la definizione che attiene ad un atto, un attore o un gruppo, data da una comunità che la crea in base alla percezione che ha di quell’atto, attore o gruppo. L’individuo è etichettato come deviante, e questo accade anche quando è innocente. e ne consegue una reazione negativa. Quest’ultima se forte e prolungata nel tempo può alterare lo stato emotivo dell’individuo e spingerlo ad agire in modo deviante e/o delinquente. Non sono le motivazioni devianti che conducono al comportamento deviante, ma al contrario, è il comportamento deviante che produce, nel corso del tempo, la motivazione deviante. Edwin M. Lemert (1912-1996) scrive nel 1967: Si tratta di un allontanamento marcato rispetto alla sociologia tradizionale, che tendeva rimanere ancorata all’idea che è la devianza a dar luogo al controllo sociale. Io sono giunto a credere che l’idea inversa (e cioè che è il controllo sociale a dar luogo alla devianza) è altrettanto sostenibile e che costituisce una premessa più feconda per lo studio della devianza nella società moderna. L’attenzione va dunque posta sulle conseguenze del controllo sociale, come la diffusione a concetti quali quello di reazione sociale, di stigma, di degradazione, di mortificazione del sé, di discrezionalità della polizia e di tipizzazione, nozioni che si sono rivelate adeguate a dare dimostrazione di come le agenzie e le istituzioni apparentemente organizzate in vista di compiti assistenziali, rieducativi, riabilitativi e terapeutici, diano forma e significato alla devianza, e giungano a stabilizzarla come devianza secondaria. Per quanto riguarda il processo attraverso il quale gli individui divengono devianti (...) ha ricevuto dei chiarimenti mediante i concetti di carriera morale, carriera deviante, eventualità, deriva, senso di ingiustizia, incapsulamento, punto critico, crisi di identità e devianza secondaria. Lemert rielabora la teoria di Becker e distingue tra devianza primaria e devianza secondaria. La devianza primaria consiste nella violazione di una norma con un atto non conforme, reattivo e dovuto a fattori occasionali, si tratta di una devianza sintomatica, ossia dovuta a fattori variamente stimolanti al non conformismo, e/o situazionale, ossia una forma di adattamento a situazioni impreviste e nuove a cui non corrispondono modelli tradizionali validi. La devianza secondaria, sistematica, sopraggiunge quando si manifesta una reazione sociale attraverso un atto definitorio di gruppo che dichiara disfunzionale il comportamento ‘diverso’ rispetto al sistema mezzi-fini della società. La stigmatizzazione sempre più intensa da parte della comunità con termini negativi e l'istituzione di apposite agenzie di controllo porta l’individuo a commettere atti devianti sempre più gravi. Il processo di etichettamento si conclude quando il soggetto ha interiorizzato l’etichetta e perciò accetta lo status di deviante a lui assegnato ed emerge la sua identità deviante. Il concetto di devianza secondaria è l’estensione logica di una formulazione della devianza in termini di problemi di controllo sociale. Esso indica che il passaggio a status degradati comporta cambiamenti nella struttura psichica, e che nel corso di esso il significato della devianza muta qualitativamente, così come mutano le sue manifestazioni esterne. La devianza viene stabilizzata entro ruoli sociali e perpetuata proprio dalle forze destinate ad eliminarla o a controllarla. Questo va inteso, naturalmente, come un processo di interazione sociale significativa.