Moda e Costume Riassunto PDF

Summary

Questo documento analizza il concetto di moda e costume, esaminando i diversi regimi di visibilità e invisibilità legati all'abbigliamento. L'approccio semiotico evidenzia come l'abbigliamento sia un dispositivo per manipolare l'apparenza e comunicare significati sociali. L'analisi si concentra sulla relazione tra corpo, sguardo e contesto, considerando l'abito come una soglia che definisce rapporti di visibilità e invisibilità.

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PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE MODA E TRASPARENZA REGIMI DISCORSIVI E DIALETTICHE TRA SGUARDI PREFAZIONE - UGO VOLLI Tutte le società umane sono ricche di dispositivi che servono a manipolare l’apparenza e produrre effe...

PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE MODA E TRASPARENZA REGIMI DISCORSIVI E DIALETTICHE TRA SGUARDI PREFAZIONE - UGO VOLLI Tutte le società umane sono ricche di dispositivi che servono a manipolare l’apparenza e produrre effetti di senso, tali sistemi vivono in una dimensione rammarica e di una semantica povera o parziale. Nel mondo di tali dispositivi l’abbigliamento e la moda hanno un posto centrale. Ci si veste non solo per motivi pratici di sicurezza, ma per realizzare degli effetti sociali, per essere considerati o trattati in un certo modo. Il filtro degli abiti sovrappone al corpo un ruolo sociale ben identificabile nel suo ambiente. In questo campo la semiotica ha cercato di definire i livelli di senso, i meccanismi di composizione e le sintassi che variano nelle varie culture. In particolare nel campo della moda vi è un aspetto di trasparenza e semi-trasparenza, ossia di come gli indumenti non esistano solo con lo scopo di coprire totalmente i corpi e bloccarne la visione diretta, ma che si lasci intravedere ciò che racchiudono, che si tratti di indumenti intimi o parti del corpo. Questo avviene per due motivi: 1. nella pragmatica dell’abbigliamento è importante il rapporto con il desiderio e il sex appeal, perché la logica del desiderio ha a che fare con l’assenza e con la dialettica tra ciò che è disponibile/a portata di mano e ciò che impossibile da raggiungere: la scollatura, la trasparenza, l’aderenza, producono desiderio perché innescano una tensione tra vicinanza e impossibilità; la differenza con la nudità è che nella trasparenza vi è una barriera, un limite che lascia desiderare ciò che è coperto, ovvero quell’oggetto che Freud chiama “zona erogena”, il luogo in cui si potrebbe eccitare il desiderio dell’altro. 2. perché tali dispositivi di trasparenza hanno senso solo rispetto allo sguardo che vi si trova di fronte; Ruggero Eugeni parla di sistema guardante-guardato, implicando una relazione comunicativa fra due diversi termini sociali, da una parte il corpo vestito, dall’altro lo sguardo dello spettatore, una sorta di voyeur che esplora il visibile alla ricerca dell’invisibile, esplora l’interdetto alla ricerca della sua violazione visiva. Moda e abbigliamento non sono quindi oggetti ben definiti da sé, ma si rivolgono sempre a uno sguardo, del quale suppongono la competenza pragmatica di riconoscere le relazioni sociali e culturali legate a certi indumenti e la condivisione di un sistema di valori e desideri. L’ambito della semi-invisibilità è il dispositivo con cui avviene questa interpellazione, in quanto è un segno riconosciuto e socialmente legittimato dall’implicazione dello spettatore e del suo desiderio nell’atto dell’abbigliamento. 1 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE CAPITOLO 1 INDAGARE LA MODA - I PATTERN DI VISIBILITA’ E INVISIBILITA’ “Vestire, non è altro che ricoprire” scrive Hegel E’ lo sguardo di chi osserva a rendere tale copertura significante e comunicativa. Lo sguardo è centrale in ogni scambio comunicativo basato sul riconoscere alcune caratteristiche nell’altro, bisogna quindi conoscere i regimi di visibilità connessi alle coperture vestimentarie. Lo sguardo è centrale in base a tre livelli diversi: 1. Nel campo del rivestimento del corpo anatomico e culturale. Quasi tutte le grammatiche vestiree presuppongono un’opposizione tra visibilità e invisibilità, tra ciò che è visibile o celato. 2. Il livello della rappresentazione commerciale. Le vetrine accompagnano i meccanismi di spettacolarizzazione della merce e sono caratterizzate da regimi di visibilità che permettono di modificarle per favore/sfavorire la vista dall’interno verso l’esterno o viceversa. 3. Il livello del poter vedere oltre l’immediata concretezza dell’oggetto, ricostruendo la sua composizione e la sua origine. E’ possibile analizzare le modalità attraverso cui si ripropone nelle varie epoche l’opposizione tra visibile e non visibile. A ciascuna epoca storica corrisponde un regime di visibilità perfetta che coinvolge il corpo biologico e il corpo sociale. Al mutare del tempo e del luogo variano le porzioni di epidermide che possono essere esposte e il grado di trasparenza delle strategie narrative e commerciali legittimate dalla moda. C’è quindi un duplice oggetto di analisi: 1. la dimensione più concreta della sfera dell’abbigliamento, che considera i gradi di semi- trasparenza o di assenza 2. la dimensione delle modalità narrative, comunicative e commerciali nelle varie epoche che hanno reso possibile l’esistenza del sistema moda. La trasparenza e i suoi gradi sono filtri capaci di postulare rapporti oppositori presupponendo modalità quali poter vedere/non poter vedere e poter attraversare/non poter attraversare, definendo dei livelli di contattabilità. Il punto di partenza sarà l’immediatezza e da queste nasceranno opposizioni che forniscono un modello di studio dell’enorme varietà (diacronica e sincronica) di nascondimento e ostensione del corpo biologico e culturale. Secondo il modello tracciato da Roland Barthes nel 1957 si procederà a inventariare, coordinare e spiegare le regole di assortimento e uso, le costrizioni e le interdizioni, le licenze e le deroghe”. Quindi, si considera l’ordine sintattico della materia estraendo le unità significative da un continuum e si considerano le semi-trasparenze e le assenze come caratterizzanti di un modello sociale che sarà inteso come significante in quanto specchio di comportamenti collettivi e in quanto mostra pattern similari di visibilità e invisibilità. Da solo l’indumento non significa niente, perché il costume è un testo senza alcun fine, del quale però bisogna delimitare le unità significative. Per delimitarle e permettere il processo di trasformazione dell’insignificante in significante, bisogna analizzare i tratti distintivi comuni della classe delle semi-trasparenze e delle loro possibili combinazioni sia nella diacronia che nella sincronia. I diversi grandi possono essere posizionati su un ideale asse paradigmatico del linguaggio vestimentario ed entrare in relazione con un asse sintagmatico. In periodi lunghi e diversi varie forme di vincoli o combinazioni sono state codificate o condannate. Per capire ciò bisogna analizzare i messaggi vestimenti proposti e i regimi di sguardo messi in atto, giacché Massimo Baldini ricorda che gli abiti devono subire un lungo trattamento per acquisire tali contenuti referenziali. 2 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE La nostra indagine avviene su due livelli: in primo luogo c’è la suddivisione tripartita di corpo- sguardo-contesto. L’analisi del corpo permette la definizione terminologica, poi si prenderà in considerazione la dicotomia tra essenza/nudità e copertura per definire i diversi gradi di semi- trasparenze possibili nella sintassi vestimentaria. Infine l’indagine sul corpo narrato riguarderà i cambiamenti delle modalità di spettacolarizzazione della merce e della comunicazione. Se il fenomeno dell’alternarsi delle mode è fortemente temporalizzato e vede nel passare del tempo un amico e un nemico, il discorso che si fa sulla moda è un discorso sul passare delle stagioni comunicative. Ciò che piace oggi domani diventa superato e la comunicazione della moda fa la stessa fine dei prodotti che propone. TRASPARENZA E ABITO COME SOGLIA La trasparenza (l'essere trasparente) è una qualità che si applica a supporti diversi, che possono essere concreti o più astratti (essere trasparente in senso figurato). Tale caratteristica è riferibile a tutti quei corpi che si lasciano attraversare dalla luce e la trasparenza non dipende solo dalla natura dell’oggetto, ma dal suo spessore. C’è quindi una relazione tra la luce come fenomeno fisico che permette la vista e la trasparenza. Tali oggetti che si pongono fra l’occhio e altri oggetti diventano a tutti gli effetti dei filtri, indicando la trasparenza come una caratteristica e allo stesso tempo una modalità di essere. Trasparenza deriva da trasparente (trasparens- entis=trans+parere, che può anche significare mostrarsi/apparire) e indica sia come si vede che come una cosa ci si mostra attraverso un filtro. In latino invece si traduce con aggettivi che rimandano al limpido e al nitido. Vedere per trasparenza, secondo il latino classico, vuol dire porre qualcosa alla luce. In greco trasparenza ha un duplice senso: vuole dire nella sua forma attiva far vedere e rendere noto, ma anche apparire e venire alla luce, nella forma passiva. Tale verbo ha un valore sensoriale e visibile è inteso come “visibile ai sensi”. Il termine trasparenza ha quindi una duplice lettura: 1. caratteristica di oggetto come funzione di filtro, la capacità di far vedere ciò che sta oltre a lui; 2. Modalità della visione stessa, perché lo sguardo per accedere alla vista di un oggetto deve necessariamente avvalersi di un filtro. Dalla definizione dizionariale noi inoltre carpiamo altri dettagli: secondo il vocabolario Palazzi, trasparente riguarda un “tessuto rigido e colorato posto sotto un merletto per farlo risaltare meglio”. L’aggettivo può riguardare il colore trasparente (che non ha corpo e non è opaco) e il verbo trasparire può significare “apparire attraverso un corpo” e rivelarsi attraverso indizi e manifestazioni esteriori”. Il termine trasparenza viene quindi usato in contesti molteplici e diversificati, come anche in ambito burocratico e politico o per esempio nel cinema, dove lo schermo trasparente permette di fondere una scena dal vero con un’altra proiettata dalla parte posteriore sullo sfondo. Esattamente come lo schermo trasparente rende possibile il dialogo tra la scena del vero e la proiezione retrostante, anche le coperture del corpo umano rappresentano una soglia. La concezione dell’abito come soglia si basa sull’opposizione tra accessibilità e non accessibilità, tra immediato e mediato. Le coperture corporee investono anche il senso della vista e propongono una relazione dialogica tra visibilità e invisibilità secondo la soglia dello sguardo. A seconda dell’interazione che di volta in volta si crea tra corpo, sguardo e contesto, i vestiti assumono il ruolo di guida per lo sguardo che vi si rapporta, evidenziando ciò che si può o non si può guardare, stipulando un contratto con l’osservatore che rispetti la volontà dell’osservato. 3 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE Massimo Leone considera la doppia faccia di ogni copertura vestimentaria: la prima è rivolta verso il corpo per celarne la fisicità la seconda è quella che si sottopone allo sguardo dell’osservatore L’abito quindi, indossato per celare il corpo, finisce per palesarlo e attirare lo sguardo su di sé. Il vestito, ricorda Elizabeth Wilson, assume significato di frontiera, perché esalta la netta divisione tra corpo biologico e corpo sociale. La studiosa cita Douglas e la discussione riguardo i reali confini del corpo umano, che si estendono oltre il corpo, arrivando alla conclusione che l’abito delimita un confine ambiguo per andare in contro alla necessità di contenimento e separazione. Il rivestimento si propone così come estensione del corpo, frapponendosi tra l’intimità privata e la socialità pubblica. L’abbigliamento è sempre significativo (Carlyle) e i ruoli che ricopre lo rendono una frontiera, un palcoscenico di una rappresentazione publica con un retroscena privato e corporale. DALLA NUDITA’ ALLA SEMI-TRASPARENZA La trasparenza assoluta di un oggetto è difficilmente osservabile, perché le caratteristiche proprie dei capi si evidenziano sempre nella presenza e dei vari gradi di semi-trasparenza, invitando l’immaginazione percettiva a ricostruire il corpo semi-celato ma garantendo il rispetto delle regole sociali etico-morali. Le assenze catalizzano lo sguardo e concentrano l’attenzione su quegli elementi rimasti impliciti, dando origine al processo di implicazione. Tale processo crea una ellissi vestimentaria e rende l’elemento assente riconoscibile grazie al reticolo relazionale nel quale è inscritto e che costituisce il suo contesto. Si crea così un effetto di accelerazione che permette un’immediata comprensione e ricostruzione delle unità mancanti, attraverso la procedura di esplicitazione della catalisi (ibidem). L’opposizione tra visibile e invisibile si articola nei vari livelli di semi-trasparenza: un fascio di gradi che va da un estremo massimo di trasparenza a un estremo opposto di massima opacità. L’opposizione di partenza è tra quello che si può attraversare e quello che si può vedere. L’attraversabile, che si pone all’osservatore senza protezione, presenta l’idea di contattabilità e l’assenza di schermature. Presenza concreta, dà accessibilità diretta e immediata. In questa dimensione del corpo nudo e dello scoperto rientrano le scollature, gli spacchi e le assenze di copertura. La carenza di indumenti si inserisce nell’universo dei segni dell’uso collettivo del costume. Celfato parla dell’assenza di biancheria intima di Sharon Stone in Basic Instict come segno dell’ambiguità sessuale del personaggio, mentre l’assenza di underwear è diventata tratto distintivo della stilista Vivienne Westwood. La volontaria carenza vestimentaria assume i caratteri di una comunicazione universale, richiamando ad un atteggiamento socialmente prodotto che è un’esigenza della fisicità del capo. Considerando invece il corpo singolo nella sua forma naturale/nuda e nella sua forma culturale/rivestita, si possono applicare dei significati partendo dall’opposizione tra presenza e assenza. L’assenza scaturirà dalla nudità parziale o totale è il significato, la presenza dell’indumento data dall’opacità del filtro è il significante. Il corpo, che non è mai totalmente naturale, è il significante preso nella totalità delle sue articolazioni. Esso si pone come recto di un fogli di cui il rivestimento costituisce il verso, il segno portatore di significazione. Questi due lati danno origine a una seriosi e dunque a un segno. Il rivestimento crea il corpo come strumento di comunicazione, ma anche il corpo nudo, ossia il grado zero dell'abito, è già in sé carico di senso, poiché è sempre il risultato di un’assenza che gioca un ruolo pienamente significante. E’ l’abito che semantica il corpo facendolo esistere concretamente e visibilmente, perché quando il corpo è celato dall’abito opaco se ne avverte la fisicità e il rapporto di presupposizione reciproca con il piano del contenuto è in ogni caso soddisfatto. 4 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE Il corpo rivestito si può considerare segno, perché è dato dall’unione tra significante e significato, ed è desiderabile perché l’abito è il suggeritore che palesa la desiderabilità del corpo nudo. Il corpo si palesa per ragioni anatomiche, non arbitrarie o in casi particolari. Negli abiti dotati di diversi gradi di semi-trasparenza il corpo si palesa in maniera arbitraria per amplificare o ridurre il desiderio. Sottrazione e semi-trasparenza sono sermone arbitrarie, innanzitutto a partire dalla localizzazione. La cultura in cui il corpo e l’abito sono inseriti ci permettono di attribuire diversi significati a diverse parti del corpo in periodi storici, geografici e sociali differenti. Per questo il corpo nudo ha minore desiderabilità a un corpo sapientemente coperto, perché solo quest’ultimo evoca l’idea di una soglia da superare e presuppone una serie di competenze che sono definite da regimi di visibilità, dando origine a regolamentazione di controllo dello sguardo, attraversi cui esplorare i livelli di copertura, di semi-trasparenza e di opacità assoluta. Quest’ultima è il carattere distintivo di ogni relazione asimmetrica. Il coprire parti del proprio corpo rende il corpo un “puro oggetto (Sartre), mascherando l’oggettività del corpo nudo ed esibendo la propria capacità di vedere senza essere visto. I diversi gradi di semi-trasparenza instaurano una dialettica che mette al centro lo sguardo. La trasparenza assoluta non è concepibile e comunque non fermerebbe lo sguardo, che viene però stimolato dai livelli di semi-trasparenza, che può divenire un oggetto concreto. L’opacità ferma lo sguardo e contribuisce a disegnare un contorno. Nell’opposizione tra corpo nudo e rivestito, quest’ultimo non è mai una massa opaca di tessuti che celano senza regolamentazione. Il puro soggetto di Sartre riconosce alle coperture precise funzioni che partendo dal significato socialmente attribuito alla parola pudore, riconoscono al rivestimento corporeo il segno di uno status e di una condizione che si basa su opposizioni dicotomiche (pubblico/privato, giovane/vecchio, elegante/ casual…). Tra l’assenza e l’opacità assoluta esistono una serie di livelli di semi-trasparenza e in ognuna di tali declinazioni il vestito è sempre una soglia e formalizza alcune regole fondamentali. Nel momento in cui il rivestimento si attua nelle possibili direzioni, mette in scena una gerarchia di funzioni che permette di riconoscere il segno dell’abito. Trasparenze, opacità e dinamiche di semi- trasparenze non sono estranee alla ciclicità della moda e sono l’esserci dei segni dell’abito. Alcuni segni portano alla valorizzazione emotiva di alcuni oggetti, che diventano testi fatti di diversi linguaggi. Deve quindi esistere una precisa sintassi dell’abbigliamento, capace di definire delle pietre angolari del fenomeno vestimentario. Il rivestimento del corpo assume così un senso decodificabile o in funzione di significati sociali codificati nel tempo. Bisogna ricordare che il codice abbigliamento-moda dipende dal suo contesto e la funzione comunicativa dell’abbigliamento è in primo luogo deduttiva, basandosi su codici che contribuiscono alla formazione di una comunicazione seduttiva e attiva, ma auto-riferita. Il linguaggio dell’abbigliamento propone modificazioni degli equilibri che mettono in scena un meccanismo comunicativo di tipo deduttivo di secondo grado. Tale meccanismo è capace di dare origine a desideri attraverso la rappresentazione visiva della sua eccitazione, generando un bilancio energetico del lusso, ossia un dispendio di energie che prescindono dalla pura funzionalità CARATTERISTICHE UNIVERSALI DEL SISTEMA DELL’ABBIGLIAMENTO Il sistema di abbigliamento si basa su due caratteristiche correlative: la significatività e la stratificazione. La significazione prende spunto dal concetto che in tutte le culture l’abbigliamento figura tra i sistemi di senso più importanti, perché non accade mai in una società che gli esseri umani si vestano 5 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE semplicemente come capita o che non portino coperture diverse. La significatività presuppone che gli indumenti siano diversi, per esempio tra indumenti maschili e femminili, o tra adulti e bambini. La stratificazione invece è il concetto che dalla descrizione della dimensione sociale dell’abbigliamento si definisca una combinatoria di indumenti ricca di significato e legata a condizioni collettive e solo limitativamente a livello individuale, stabilendo quindi anche numerose differenze e vincoli sociali, dei veri codici d’abbigliamento. Esiste una terza potenziale variabile che è legata al cambiamento ciclico delle fogge, ossia un’oscillazione obbligatoria del gusto (Simmel). Tale principio lega il gusto collettivo a un andamento ciclico veloce e avvertibile, che si collega a un intervallo variabile che rende un capo ora desiderabile, ora indispensabile, ora sgradevole. Tony Cragg diceva che ogni elemento è potenzialmente magnifico, brutto o tutt’altro, a seconda della vasta gamma di criteri. La gradevolezza del capo ha poco a che fare col suo essere di moda, come la nozione di bello non è indispensabile per renderlo di moda. Baudelaire disse che la moda è uno sforzo di raggiungere il bello , un’approssimazione di un ideale il cui desiderio sollecita l’insoddisfazione umana. Kant invece sottolineava come il tratto essenziale della moda fosse la novità, capace di degenerare nello stravagante o nell’odioso, perchè non dipendente dal buon gusto, ma dal superare l’offerta precedente. Questa mutevolezza nel tempo condiziona tutti i settori di fenomeni di moda, che nell’abbigliamento è pero indissolubilmente presente, anche per la definizione stessa di moda: il rapido succedersi di fogge, forme, materiali, in omaggio a modelli estetici che si affermano cime elementi di novità ed originalità. La moda è un un meccanismo generale che assume rilevanza anche negli altri settori estranei all’abbigliamento. Adam Smith considerava la moda il fenomeno che guidava le variazioni degli ambiti legati al gusto, che fossero mobili, abiti, canzoni, poesie o anche discussioni morali. Kant era d’accordo, definendo le mode come mutevoli maniere di vivere. Lars Fr. H Svendsen definisce l’oggetto di moda come elemento di distinzione sociale e come parte di un sistema che lo sostituisce con rapidità a qualcosa di nuovo, asserendo però che in ogni settore che fa riferimento alla moda, essa si definisce secondo modalità totalmente diverse. Wittgenstein parlava di somiglianze di famiglia, analizzando la commessa rete di somiglianze che collegano i fenomeni di moda, pur non dovendo presentare essi un’unica caratteristica comune. Esiste un sistema semi-simbolico, in quanto il significato del vestire non può essere catturato se il vestiario viene considerato come dotato di un valore in sé. Al contrario il valore significante del vestiario si esprime soprattutto in quanto dispositivo che consente al corpo di articolarsi in una serie di valenze contrapposte e di manifestare tali valenze come associate a valori anch’essi alternativi (Leone). L’analisi dei fenomeni dell’abbigliamento non può prescindere dall’ambizione di costruire un inventario di forme vestimentarie per commutazione. Cambiando i significati cambiano i significanti e solo allora ci troviamo in presenza di tratti pertinenti, invece di elementi espressivi ridondanti. In ogni indumento si possono distinguere forme (riguardo l’estetica della lavorazione sartoriale) a cui corrispondono dei concetti (come il contesto sociale), ossia dei significanti che rimandano ad ulteriori significati. Barthes diceva che l’abbigliamento è un testo senza un fine in cui bisogna delimitare le unità significative, giacché la significazione del costume non ha a che vedere con l’unicità del capo, ma viene affidata a dei dettagli (una tinta, una cucitura, un inserto) o a un insieme sintagmatico più complesso (outfit nella sua interezza). La semiologia del vestito non può quindi essere di ordine lessicale ma sempre sintattico, perché l’unità significativa non va ricercata negli indumenti finiti/isolati, ma in funzioni, opposizioni, distinzioni o congruenze analoghe alle unità della fonologia. Per estrarre dal continuum vestimentario le unità significative occorre sottoporlo a prove di commutazione, procedendo con variazioni artificiali di un termine e con l’osservazione dei mutamenti provocati da questa 6 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE variazione in lettura e nell’uso di questa struttura. Per quanto riguarda il significato, il costume rimanda anche a significati socio-psicologici, ma Barthes afferma che l’indumento veicola un solo significato principale, ovvero il grado di integrazione dell’individuo nella società in cui vive. Il vestito è una sorta di modello sociale, uno specchio di comportamenti collettivi prevedibili, che a questo livello diventa significante. Come già diceva Simmel, esiste uno stretto rapporto tra moda e identità e gli abiti non funzionano come scudo del corpo, ma come suo prolungamento (Cixous) Gli studi del corpo concentrano l’attenzione sui singoli capi d’abbigliamento ed è proprio il vestito che semantica il corpo dandogli senso e facendolo esistere (Roland Barthes). Per fondare validi studi della moda è indispensabile partire dalle pratiche e dagli strumenti utilizzati dagli esseri umani per ricoprire il proprio corpo. I significati connessi agli abiti hanno una forte valenza comunicativa a sé stante e definiscono ruoli sociali e circostanze d’uso. Il codice vestimentario è uno di bassa semanticità rispetto a quelli che regolano il sistema linguistico. Fred Davis propone di considerare quello di abiti e affini un quasi codice che utilizza i convenzionali simboli visivi e tattici di una determinata cultura ma lo fa in modo allusivo, tanto che significati delle combinazioni e dei termini dei codici sono in continuo mutamento. La capacità di trasmettere messaggi momentanea e circoscritta alla singola scelta vestimentaria, che realizza il dialogo tra costume e abbigliamento postulato da Nikolaj Trubeckoj: il costume (la langue) si attualizza nell’abbigliamento (la parole), proponendo un evento. Il vestito, sostiene Gianfranco Marrone in Il senso della moda, dà origine a un vestito parlante e a un vestito parlato, che si mescolano, non capendo dove finisce uno o inizia l’altro. Quando l’abito incontra il corpo, dato che vestendomi faccio bello ciò che viene guardato dal desiderio (Ibidem), questi si costituisce come struttura di senso e passabile di un’analisi semiotica. Il vestito è dotato di molte caratteristiche analoghe alla lingua poiché è dotato di un lato istituzionale e di un lato individuale, di una componente legata al significato e di una legata al significante, di un piano paradigmatico e di un piano sintagmatico, di un livello diacronico e di uno sincronico. Il vestito di Barthes è una massa eteroclita che non deve diluirsi per sparire come oggetto unitario, ma deve trovare un punto di vista interno con cui descrivere la specificità dell’oggetto stesso. In Principi di fonologia Trubezckoj rivela la differenza tra costume e abbigliamento, dalla dicotomia saussuriana tra langue e parole. Il costume è la realtà istituzionale e sistematica indipendente dai singoli soggetti, l’abbigliamento è la realtà individuale derivante dalle scelte personali. Questa suddivisione ha 3 conseguenze: 1. che tale definizione è connessa al principio di pertinenza prescelto per distinguere due capi (differenza tra fenomeno d’abbigliamento legata all’individuo e fenomeno di costume prescritta a moda da un gruppo); 2. la relazione reciproca tra abbigliamento individuale e costume sociale, in cui l’uno è insensato se privo dell’altro; 3. la costante possibilità di un termine di sfociare nell’altro, dato che l’abbigliamento diventa costume quando gli usi individuali si istituzionalizzano e diventano significanti. E’ proprio per questo che l’indumento non significa niente e il costume è un testo senza fine di cui distinguere le unità significative. LA DIFFUSIONE DELLA MODA La moda presenta diversi livelli di diffusione. Un settore rigidamente strutturato e lineare nel tempo, prendendo proprio il tempo come caratteristica principale dell’oscillazione tra ciò che in un primo momento è adatto e in un secondo considerato inadatto, il macro universo della moda si 7 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE può suddividere in 3 sottogeneri: 1. Il primo estremo nella linea del tempo della moda è quello delle grandi mode, che propongono modifiche strutturali dei costumi maschili/femminili, destinate quindi ad espandersi per molto tempo. Per esempio la semplificazione degli abiti femminili iniziata con i bozzetti di Coco Chanel continua tutt’ora, procedendo verso una mascolinizzazione degli abiti femminili, nonché verso una fluidità di genere di stretta attualità. 2. All’estremo opposto stanno i fads, le piccole mode che modificano i gusti per poco tempo, in quanto passeggere ed effimere. 3. Nel perfetto centro ci sta la moda con la sua stabile stagionalità, che proponeva regolarità nel cambiamento delle fogge, in maniera così calenderizzata e con precise occasioni di presentazione. I due principi importanti che consentono l’alternarsi regolarizzato delle mode sono due forze uguali e contrapposte: il principio che porta verso l’imitazione e il desiderio di differenziazione. Il processo di imitazione (Herbert Spencer, 1879) si rivolge dapprima verso l’autorità, come imitazione reverenziale, trasformandosi poi in imitazione emulativa. L’idea viene ripresa da Gabriel Tarde nel 1911, che alle teorie precedenti riconosce la necessità della classe dominante di inserire nel più breve tempo possibile nuovi principi di differenziazione per riacquistare la propria posizione superiore. George Simmel propone un sintesi delle due teorie, parlando di una regola generale del mutamento dei costumi che si origina dal meccanismo dell’imitazione e contemporaneamente grazie alla spinta alla differenziazione. La moda è l’imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di un appoggio sociale. Il singolo viene condotto sulla via percorsa dagli alti, ma appaga anche il suo bisogno a differenziarsi grazie al cambiamento dei contenuti della moda, che è sempre moda di classe, di quella più elevata. Non appena le classi inferiori se ne appropriano, quelle superiori si volgono verso un’altra moda. Un gioco anch’esso ciclico, dove le classi inferiori guardano in alto, aspirando ad elevarsi. La teoria del Trickle down, del modello della caccia e della fuga (o della caccia alla volpe), è un singolo modello di diffusione delle mode, ma se ne sono aggiunti altri. Infatti alla classe agiata si è via via sostituita la classe media (Konig), i gruppi marginali (Campbell) e i personaggi dello spettacolo o dello sport (Flugel), coloro che Alberoni definisce l’elitè senza potere. Il movimento stesso della diffusione delle mode è stato messo in discussione. Con la democratizzazione della moda del tardo Novecento, la moda è diventata policroma e pluralistica ed è emerso il desiderio di esprimere i nuovi fusti che nascono in un mondo in mutamento (Blumer), facendo diventare così la moda un processo di selezione collettiva che si sviluppa in orizzontale più che in verticale. La moda vestimentaria tra il 1960 e il 2000 è stata quantomai vivace (vedi l’imporsi del pret-a- porter sulla storica haute couture), ma è sempre stata regolata da una grammatica capace di regolare le pratiche dell’abbigliamento quotidiano, senza ridurlo alla mera messa in atto dei principi di mutamento dei costumi e della moda. L’abbigliamento stesso ripercorre le trasformazioni del corpo, mettendo in evidenza le zone considerate sexy, sottolineando le zone erogene. Queste zone variano al variare di tempo e contesto, così come sono variabili le possibilità di messa in scena delle coperture, la quale si articola attraverso due regole fondamentali: l’addizione e la sottrazione. L’addizione prevede l’aggiunta di materiale a contrasto e dà origine alle semi-trasparenze, la sottrazione prevede la rimozione del materiale, per lasciare uno spazio ellittico che guida lo sguardo dello spettatore, invitandolo a completare quello che non c’è (e doveva esserci) a partire da ciò che è rimasto. Centrale nella grammatica vestimentaria è la localizzazione di addizioni e sottrazioni. 8 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE MAPPATURE DEL CORPO RIVESTITO Il linguaggio traveste i pensieri, sosteneva Wittgenstein. Per cui, dalla forma esteriore dell’abito si arriva alla forma del pensiero rivestito, perché tale forma esteriore non è fatta per far riconoscere altre forme del corpo. L’indicazione è quella di guardare al rivestimento del corpo come a un oggetto capace di raffigurare uno stato delle cose, modellando il corpo e trasformandolo in una mappa/cartografia (Celefato). Un segno ha senso per la sua collocazione in un certo punto di una sequenza, giacché è questa posizione a permettere al segno di raffigurare qualcosa. E’ chiaro che alcuni segni acquisiscono valore di segni solo collocati all’interno di una rete, di una ragnatela di percorsi di senso (Celefato). Dietro alla mutevolezza insita nella moda si cela un ideale di bellezza, che si declina sul corpo umano. Il concetto stesso di bellezza è complesso da definire: per Platone la moda è una specie illusoria di bellezza, per Baudelaire tale illusione è lo sforzo di trovare una sintesi tra il transitorio e l’eterno, che secondo Mallarmè è uno sforzo non necessario, perché la bellezza della moda è legata alla sua transitorietà e fugacità. Queste variazioni riguardo l’idea di bello vengono proposte dall’abbigliamento tramite accentuazioni o minimizzazioni, correzioni o stilizzazioni. Accanto a tali cambiamenti esistono dei punti fermi. Kybalova, Herbenova e Lamarova credono che il sesso eserciti un’influenza essenziale sulla moda, è uno dei fattori inconsci che contribuiscono alla percezione dell’abbigliamento. Già Baudrillard riconosceva alla nudità occidentale una strumentalità sessuale esclusiva della partizione del corpo, il quale è rimosso e significato in modo allusivo attraverso le coperture, mentre la nudità vera e propria come modello di simulazione del corpo. Le caratteristiche del corpo si riflettono nel disegno e nella concezione dei vestiti per soddisfare un rapporto stabile (in un determinato contesto sociale/temporale) tra parti coperte e scoperte. Il concetto di pudore è il meccanismo scatenante dei processi vestimentari e sottolinea le differenze culturali. Il pudore si modifica in funzione del contesto e varia nelle società secondo usi e tradizioni. Lo stesso amuleto un tempo serviva come protezione tra il corpo nudo e il mondo. Il pudore è il timore di compiere atti disonesti più che di compiere oscenità. Il corpo, svela Turner, è il fondamentale strumento di costruzione dell’identità nella cultura post- moderna, nella modernità è un elemento importante per la comprensione/realizzazione della propria identità. Il corpo è quindi l’oggetto privilegiato della moda come afferma Elsa Schiapparelli, che all’affermazione che i vestiti si devono adattare alle forme del corpo risponde che invece sono i corpi a doversi adattare ai vestiti. Anne Hollander in Seeing trough Clothes dimostra come I ritratti di nudi rappresentino le modelle come se fossero vestite. Ad ogni epoca storica corrisponde una forma del corpo stabile: in quella del corsetto i nudi a vita sottile e fianchi larghi, nell’epoca del taglio impero le nudità tondeggianti nella zona dello stomaco… La nostra idea della figura umana è sempre un rapporto di dipendenza con la moda imperante del momento e dà origine a un’interpretazione dei corpi basata sulle abitudini percettive. La vestizione visiva del corpo nudo o delle parti nude di un corpo vestito vive di assenze ellittiche che permettono una ricostruzione immaginaria di ciò che manca. La nudità ha un significato solo in dialogo con i vestiti. Il rapporto dialogico riguarda la collocazione fisica delle assenze e delle semi- trasparenze, tanto da permettere una mappatura. Le zone considerate sexy sono cambiate nel corso della storia, anche per via dei diversi tagli degli abiti. Queste porzione anatomiche coincidono con le zone erogene, ma la mappatura delle zone erogene si divide in primarie (genitali), secondarie (extra e para-genitali) e arcaiche, portatrici di problemi. Uno studio realizzato per la Bangor University nel 2014, fatta con 800 individui tra UK e Africa sub-sahariana, verificando le diverse risposte del cervello alle arti del coro ha composto una mappa di 41 zone erogene, classificate a seconda del grado di intensità di stimolazioni trasmesse dopo il contatto. L’indagine ha evidenziato come alcune differenze come l’età, la collocazione anagrafica, il sesso e l’orientamento sessuale abbiano influito poco sulle differenze nella mappatura. Al variare 9 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE del tempo variano le zone erogene, condizionando anche le creazioni della moda. James Laver, nel suo Modesty in Dress, teorizza l’ipotesi della zona erogena mobile, per cui in un momento storico una parte del corpo è messa in una posizione di maggior importanza rispetto alle altre, protagoniste di epoche successive o precedenti. Laver sostiene che tale cambiamento avviene nell’abbigliamento femminile per evitare che gli uomini si annoino. Pur considerando che il regime di sguardi riguarda sempre piò l’osservatore che l’osservato, sarebbe difficile considerare sia questa ipotesi che la sua variante, ovvero che anche la moda maschile cambia per non annoiare l’occhio femminile. Ciò mostra comunque come vi sia un’attenzione investita su queste zone, su cui si investe e si sperimentando vari metodi. Barthes porta l’attenzione sulla liberazione del corpo dai vestiti che, andando verso un’unificazione dei generi sessuali permettono al corpo di svelarsi rinunciando ai vestiti troppo rigidi e integrando dei capi in grado di aprirsi più facilmente tramite abbottonature più morbide. E’ contemporanea allo svelamento la volontà del singolo di orientare lo sguardo degli osservatori sulle porzioni di corpo liberate dal nascondimento vestimentario. Per adolescenti e uomini il colletto è stato per anni annodato, chiuso dalla cravatta, che nascondeva il collo. Ora il collo si libera, i colletti si aprono e sotto i colli appaiono collane, con la novità quindi di un’attenzione data alla nudità del collo. Hegel riconosceva al vestito e alla sua assenza la funzione di signficare il corpo moderno. La giustapposizione tra coperto e scoperto suscita il desiderio dell’osservatore proprio sulle parti celate, spegnendo interesse verso il visibile. Montaigne ricorda come in Perù gli uomini si procurassero piacere tra loro e le donne avevano quindi adottato vestiti scollati che non dissimulavano più nulla, rendendo però cosi gli uomini ancora più disgustati dal corpo femminile. La visibilità del seno femminile ha anch’essa vissuto cambiamenti nella moda. Solo nel ‘400 si iniziò a confezionare abiti che ne palesavano la presenza e pur attirando lo sguardo dell’osservatore, la sua vista rimaneva comunque celata. Dal ‘600 il petto femminile iniziò ad essere rigoglioso per attrarre e fiorirono abiti che ne evidenziavano le forme pronunciate, ma le misure extra-large ebbero vita breve, dato che nel ‘700 il seno doveva avere la forma di una mela. Un nuovo cambiamento avvenne nell’‘800, quando il seno perfetto tornò a riempirsi per assumere un ruolo centrale nella rappresentazione della femminilità ideale. I significati delle parti del corpo, attualizzati nel dialogo tra presenza e assenza, tra semi- trasparenze e opacità, variano indubbiamente al variare del tempo. 10 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE CAPITOLO 2 SULLO SGUARDO COME PRIMO INTERLOCUTORE DELLA MODA Maria Pia Pozzato suggerisce che la tematica centrale di ogni logica vestimentaria sia la visibilità. Il vestito copre il corpo sottraendolo alla sua primitiva esibizione in qualche misura lo lascia trasparire. I gradi di tale trasparenza sono quei livelli di semi-trasparenze possibile che rafforzano la dicotomia tea occultamento e ostensione. Questo rapporto varia di epoca in epoca, modificando la stratificazione canonica, che procede per contrapposizioni doppie, sia a livello spaziale (sopra/sotto, largo/lungo, circoscrivente/circoscritto), che a livello temporale e aspettuale. Landowski dice che la costruzione di un’identità nasce dal confronto con un non-io, con un altro che è limite e allo stesso tempo rappresentazione indiretta, specchio riflettente di ciò che siamo o crediamo di essere. Come in uno specchio, in termini di occultamento del corpo, si possono affrontare vari modelli per capire cosa era ritenuto adatto in certi contesti. L'identità del corpo contemporaneo rappresenterà una cartina tornasole per confronti con i corpi delle generazioni passate. Analizzare questi confronti diacronici come davanti a uno specchio definisce le diverse modalità dello sguardo e i regimi della visibilità, che però vanno discussi dopo i concetti di pudore e spudoratezza. Dunlap sostenne che ogni grado di vestizione, compresa la nudità, è perfettamente pudico non appena ci abituiamo. Ogni cambiamento del vestire può essere impudico se la sua natura è evidente. Il vestire in sé non né pudico, né impudico. Ma come sottolinea Massimo Leone, il pudore come passione sottende, giustifica e promuove enunciazioni del linguaggio del vestire, che può essere compreso solo secondo un’ottica differenziale che lo opponga al suo valore contrario (l’impudicizia) e al suo valore contraddittorio (la spudoratezza). La decisione di celare o di mostrare può senza difficoltà rientrare in ognuno dei 4 vertici, facendosi portatore di diverse posizioni valoriali, a seconda delle condizioni contestuali. Questi valori diventano evidenti solo se rivedono uno scarto rispetto a una tendenza sociale, sottintendendo una relazione semantica che si rivela solo in negativo, cioè quando non viene rispettata. Possiamo legare l’abito di voile con piume di struzzo di Yves Saint Laurent nella collezione Haute couture come momento di rottura e di avvertita spudoratezza rispetto al dominante concetto di pudore. Il concetto stesso di pudore porta ad accorgersi di una devianza. Questo presuppone un’organizzazione di specifici rapporti di visibilità che possono essere considerati traduzioni di dispositivi più astratti relativi alla comunicazione di un determinato tipo di sapere tra i soggetti. Alcune caratteristiche proprie del vedere sono utili nell’analisi. L’atto del vedere implica due attanti, uno che vede, l’altro che viene visto, uniti da un rapporto di presupposizione reciproca e sottintende la presenza di condizioni esteriori atte a stabilire una buona visibilità. Landowski riconosce l’esistenza di differenti specificazioni modali (volere, dovere, sapere, poter vedere) il cui inserimento condiziona la relazione tra colui che vede (S1) e colui che viene visto (S2). Tale rete tassonomica permette di stabilire un registro vario di possibili temperamenti e atteggiamenti di S1 corrispondo a 4 ruoli, ossia 4 modi di rappresentazione di sé (ibidem): 1. Voler essere visto (ostentazione); 2. Non voler essere visto (modestia); 3. Voler non essere visto (pudore); 4. Non voler non essere visto (mancanza di imbarazzo). S2 ha invece: 1. Voler vedere, 2. non voler vedere, 3. Voler non vedere 11 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE 4. Non voler non vedere. Queste 4 modalità danno origine a una modellizzazione realizzata a partire dallo stereotipi culturale dell’attore, anch’esso articolato in: 1. Voler essere visto (in scena, ruoli pubblici); 2. Non voler essere visto (nelle prove, privatizzazione di ruoli pubblici); 3. voler non essere visto (dietro le quinte, ruoli privati); 4. non voler non essere visto (in camerino, pubblicizzazione dei ruoli privati). Greimas scrive che ogni apparire è imperfetto perché nasconde l’essere ed è solo a partire da esso che si costruiscono il voler-essere e il dover-essere. Solo l’apparire è appena visibile. Come dice Landowski, l’esercizio dello sguardo (vedere ed essere visto) attualizza i conflitti tra i soggetti generando una negoziazione del diritto di sguardo fra Partners, che può garantire forme diverse di cooperazione visiva. Ad esempio nascono rapporti di conformità tra i quadranti di S1 e S2, che si realizzano in: esibizione/approccio di S1 e riservatezza/intimità di S1 che si intersecano con interessa/insistenza di S2 e disinteresse/discrezione di S2. Quando la volontà dell’osservatore si sovrappone alla volontà dell’osservato si dà origine a un regime di sguardi collaborativo. Dal punto di vista combinatorio rimangono due possibilità e i due quadranti possono essere sovrapposti dando origine a situazioni a base polemica, da cui derivano il voyeurismo (quando l’osservatore viola la sfera privata dell’osservato) e l’esibizionismo (quando l’osservato mostra all’osservatore qualcosa che egli non vorrebbe vedere). In particolare, in un rapporto di contraddizioni l’esibizionismo/ approccio e la riservatezza/intimità di S1 si combinano all’interesse/insistenza e al voyeurismo/discrezione di S2. In un rapporto di contrarietà la sfrontatezza/approccio e la riservatezza/intimità di S1, si combinano all’attenzione/insistenza e alla disattenzione/discrezione di S2. Landowksi mette in guardia contro un approccio troppo semplicistico del rapporto schematico tra osservatore e osservato, perché nella pratica sociale i rapporti tra soggetti sono meno spiccati di quanto appare negli schemi. I due ruoli non sono mai univoci, ma possono coesistere in un solo attore al procedere del suo percorso narrativo. Come nella conversazione, anche in questa conversazione visiva emittente e destinatario sono in costante ascolto dei messaggi trasmessi dal loro interlocutore e creano una comunicazione bidirezionale esercitando una doppia competenza della visione, che oltrepasserà la relazione visiva per giungere a una dimensione cognitiva dove le funzioni visive elementari non si trovano più solo citate dai protagonisti, ma assunte o negate e ostentante o dissimulate, divenendo una sorta du embrayage enunciativo, l’oggetto di un discorso secondo. Lo spazio pragmatico dove si inscrivono rapporti di visibilità, una volta riflesso nella coscienza, si trasforma in un campo di manovre cognitive (fare sapere/fare credere). Gli attanti devono quindi impegnarsi alla decodifica di ciò che si desidera far sapere e di ciò che si desidera far credere e in tali meccanismi si collocano le semi-trasparenze vestimentarie. La rivoluzione introdotta dal nude look anni ‘60 ha portato l’attenzione sulla dicotomia tra intimo ed esibito, richiedendo un maggiore grado di partecipazione e di consapevolezza nella codifica e decodifica del messaggio vestimentario. Pozzato spinge l’attenzione sull’opposizione tra “è necessario che si veda” e “è necessario che non si veda”, e poi tra “non è necessario che non si veda” e “non è necessario che si veda”, per comprendere come la stratificazione pare essere stata rimessa in discussione dai cambiamenti raggiunti attraverso semi-trasparenze e assenze. Pozzato colloca in un regime di trasgressione (non è necessario che non si veda) il corpo nudo dato dalle assenze e la biancheria intima palesata (data da assenze e semi-trasparenze), riconoscendo al non è necessario che si veda un’importanza fondamentale nella sintassi vestimentaria contemporanea, perché suggerisce una casualità che si somma alla trasgressione. 12 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE Gli occultamenti del corpo si piegano così alle regole dell’estetica, le coperture/semi-coperture rispondono ad esigenze di sbarramento dello sguardo permettendo un rimaneggiamento della fisionomia, più incisivo della totale elisione. Riconoscendo l’importanza al non è necessario che non si veda possiamo però allontanarci dalla rigidità dell’abito e cogliere l’esteticità di una copertura nello scorcio di un attimo, nel transito della cosa al suo senso (Marrone), quindi nell’oggetto estetico stesso, che secondo Greimas si costituisce solo producendo discontinuità sul continuo dello spazio visivo. I vari livelli di semi-trasparenze e assenze sono fondamentali nella lettura di un corpo rivestito e danno origine a un “trasalimento, che è la concretizzazione dell’estesia” (Greimas) e rappresenta un volere reciproco tra soggetto e oggetto, che si trasforma in attore sintattico, manifestando la sua pregnanza. IL RUOLO DELLO SGUARDO SULLA MODA COMUNICATIVA Si è di recente realizzata una modifica dei regimi di visibilità che, rendendo possibile la sovrapposizione tra autore e trend, ha raggiunto una completa trasparenza nella comunicazione. Nel 1967 il Sistema di Roland Barthes vede la luce e allora era il solo giornalismo a discutere il luogo della messa in discorso della moda, nonché l’oggetto moda e i suoi destinatari. Oggi invece siamo nell’era della social moda ed è nei social media che la moda vive più intensamente. A tutti i livelli della società la richiesta è di trasparenza assoluta, anche per via due social network e di un nuovo modello di giornalismo definito “orizzontale” e che si nutre di riflessioni e spunti dei cittadini/giornalisti/osservatori. Tra fashion blog e social network anche il linguaggio della moda si è rinnovato, proponendo nella contemporaneità come sistema intertestuale capace di essere luogo di costruzione e decostruzione dei soggetti, non più semplici destinatari, ma che attraverso una partecipazione attiva negoziano continuamente il senso della moda. La negoziazione dei contenuti che permettono l’esistenza dell’universo della moda è caratterizzata da una progressiva centralità attribuita alla trasparenza, questa volta comunicativa. La moda attraverso i mezzi di comunicazione converte l’indumento in linguaggio; il moltiplicarsi dei possibili linguaggi e la predilezione del destinatario verso l’uno o verso l’altro trasforma questa scelta in una selezione stilistica, una forma di adesione estetica ed etica (Hebdige). L’introduzione dei nuovi media permette al destinatario della comunicazione classica di trasformarsi (velocemente e semplicemente) in un possibile emittente della comunicazione di moda che non è più legata a una corrente istituzionale, ma diventa mass-moda perché passibile delle reinterpretazioni e rinegoziazioni di ognuno. Chiunque lo desideri può esprimere i propri pareri e presentare le proprie preferenze descrivendo una moda che resta solo rappresentata, ma questa volta diventa rappresentata nella quotidianità, rendendosi adatta a un uso quotidiano ma consapevole, realizzando la trasparenza. Sono trasparenti infatti le strategie comunicative adottate, gli autori diventano testimonial, e il mezzo usato (i social network) è anch’esso trasparente, proposto come filtro che lascia vedere ciò che c’è dietro. Quando fashion blogger e influencer propongono delle scelte estetiche accompagnano la proposta con un’immagine che li ritrae intenti a indossare tali indumenti, diventando in primis sedativi rispetto a sé stessi. La moda rappresentata va a presentarsi come espressione della personalità iconica del singolo. L’autore del discorso sulla moda diventa così destinante e destinatario di quegli abiti. Blogger e influencer si rifanno da un lato al giornalismo classico (nella costruzione artificiale delle immagini che propongono), ma lo reinterpretano, facendosi portatori di quei valori che caratterizzano il giornalismo orizzontale, inserendo abiti e accessori nel mondo quotidiano diventando essi stessi testimonial del proprio dizionario vestimentario, ma in rete, di fronte a un 13 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE pubblico sterminato. Solitamente descriviamo il testimonial come personaggio celebre che in un annuncio/pubblicità attesa le caratteristiche di un prodotto o di un servizio (Abruzzese e Colombo,1994), interagendo profondamente nella significazione del testo. Questo perché nell’economia della pubblicità egli si fa testo a sua volta, dotandosi di valori e temi connessi in primo luogo ai rimandi alla sua vita privata (che diventa pubblica, secondo la logica “da camerino” di Landowski) e che poi si basa sulla modalità del non voler non essere visto. Il fine del testimonial classico è creare l’illusione di una realtà e utilizzare la notorietà per aumentare il ricordo della marca. Nel nuovo modello, influencer e blogger diventano testimonial di se stessi, attuando la strategia di Greimas della comunicazione partecipativa. La nuova comunicazione ha al suo centro il corpo individuale proposto come collettivamente seducente e le modalità del suo essere al mondo, rappresentare e mascherarsi, tra stereotipi e mitologie. Il corpo del singolo testimonial-autore diventa il nuovo territorio della messa in discorso della moda. Questa superficie significante è trasparente grazie al social, che come filtro si propone di far vedere ciò che è oltre rispetto a lui. L’emittente del discorso si muove tra sfera privata e pubblica, ribaltando la divisione tra ribalta e retroscena. L’esistenza onlife dell’autore diventa trasparente, perché gli istanti domestici si accostano, on e off-line, con la vita pubblica. VETRINE E RUOLO DELLO SGUARDO DELL’OSSERVATORE/CONSUMATORE Nell’approccio del consumatore all’oggetto moda il ruolo dello sguardo è fondamentale. Il desiderio di vedere si concretizza nella vetrina, nella soglia del desiderio (Ferraresi) capace di proporsi come lo spazio che accende o impedisce il dialogo di sguardi tra interno ed esterni del punto vendita. Nell’800 i negozi hanno cominciato a presentare le vetrine, con 2 scopi: esposizione della merce volontà di trasformare il passante in acquirente. La cultura della merce esposta nasce nei passages Parigini e si sviluppa in Europa e USA. Come ricorda Simona Segre Reinach, il sistema di vendita comincia a reggersi sulla seduzione e i piaceri della merce. Le vetrine, nel loro prevedere un’invalicabile divisione tra passante e merce, si trasformano in fonte di desiderio, il quale si rende inadeguato, interrotto nelle sue potenzialità e che attrae il soggetto/ vagabondo verso ciò che vede, costringendolo a passare oltre il desiderio stesso per accedervi. Le vetrine si propongono come lo spazio fisico nel quale si realizza un’estetizzazione della moda e si attua quella che Codeluppi definisce una vetrinizzazione del prodotto. Nel Potere della marca l’invito è quello di riflettere sul fenomeno della spettacolarizzazione delle merci che caratterizza lo spazio urbano, sottolineando come le merci siano soggette a una progressiva spettacolarizzazione, a un processo di trasfigurazione dei suoi caratteri funzionari che permette loro di assumere caratteri simbolici/culturali e che fa avere loro un’aura seducente. Per potersi spettacolarizzare devono usare le possibilità offerte da luoghi particolari, usati come palcoscenici teatrali. Le vetrine dei negozi si rendono riconoscibili tramite paratesti (insegne e cartelli) disseminati per l’ambiente urbano. Sono punti d’attrazione collocati nelle zone di maggior transito, definendo così uno scambio bidirezionale tra la vitalità della zona e la collocazione delle vetrine dei negozi. Le vetrine non sono semplici decorazioni, ma anche il luogo adibito ad esporre i gusti vestimentari del momento, dettando le regole della pratica quotidiana e dunque dell’abbigliamento. Possiamo dire che le vetrine sono la cartina tornasole del gusto vestimentario e la loro diffusione nello spazio urbano permette, favorisce ed esplicita l’importanza attribuita ai fenomeni vestimentari 14 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE nello spazio urbano. Le vetrine propongono lo sguardo della trasparenza, intrinseca nel vetro che le compone, e diventa bidirezionale, prevedendo un fascio di sguardi che da una parte guarda verso l’altra. Se le vetrine sono delle soglie è ovvio che queste debbano diversificarsi tra loro per proporsi come l’accesso ad esperienze diverse. A seconda del grado di trasparenza e dei regimi di sguardo che postulano esistono 3 differenti tipi di vetrine: trasparenti, semi-trasparenti opache Le vetrine trasparenti rendono completamente visibile il contenuto del punto vendita, permettendo agli sguardi di spaziare e creando la sensazione di contiguità rispetto alla strada. Lo spazio/testo della vetrina non vive una narrazione a sé stante, dove merci svolgono il ruolo di attori, ma chiama i consumatori a interpretare il ruolo di protagonisti, i quali trovandosi nello spazio privato e sotto gli occhi di altri passanti diventano testimonial del loro acquisto e del negozio per chi guarda dall’esterno. Qui i consumatori, mostrandosi allo sguardo esterno e ricambiandolo, sponsorizzano lo spazio di vendita, condividendo temporaneamente la filosofia del negozio. Le vetrine semi-trasparenti applicano la filosofia del vedo-non-vedo. Meccanismo usato per saldi o vendite promozionali, o in ristoranti e centri estetici. Oscurano parzialmente alla vista il mondo esterno, creando un distacco, dove lo spazio è altro rispetto allo spazio in cui ci si trova. Viene garantito un maggior allontanamento e si sottolineano regole di comportamento specifiche, diverse da quelle adottate per strada. Nello spazio del negozio protetto da una semi-trasparenza è possibile guardare l’esterno ed essere guardati. C’è ancora un dialogo con consumatori esterni. Non è per nulla dialogica la relazione tra le vetrine opache e il mondo esterno, che celano al mondo esterno lo spazio del negozio, costruendo un universo parallelo che si propone come un altrove dove è indispensabile una competenza per entrare. Per esempio la adottano i sexy shop. Brunelli riconosce a queste vetrine una vicinanza strutturale rispetto allo specchio d’acqua dove si specchiava Narciso. Le vetrine opache, non lasciando vedere lo spazio del negozio, propongono un possibile mondo animato da quei manichini, che indossano i capi che potrebbero essere scelti dal passante se egli decidesse di abbandonare il suo status di passante per assumere quello di potenziale consumatore. Vedendosi realmente riflesso nella superficie specchiante può facilmente paragonare la sua immagine a scintillanti modelli di plastica, immaginando una valorizzazione di sé. La vetrina è strumento di misurazione del nostro senso di adeguatezza, ma anche luogo di potenziale dialogo tra immagine e identità (Bauman). Le vetrine opache possono rinunciare a instaurare un dialogo commerciale e proporsi come palcoscenici per narrazioni più o meno elaborate. Interessanti gli allestimenti delle Gallerie Lafayette di Parigi, che si pongono come uno spazio terzo. Da un lato rispettano il ruolo di separazione tra interno ed esterno, ma si fanno poi palcoscenico di una rappresentazione che non è quella del negozio in senso stretto. Lo scopo è quello di essere considerato soglia di oscuramento ma anche di intrattenimento e se l’obiettivo da un lato è proteggere i consumatori interni dallo sguardo esterno, dall’altro offre un diversivo a quegli esterni ai quali la vista è interdetta. L’aggiunta di altoparlanti che propongono musiche dello spettacolo e suggeriscono modifiche (prima fila rialzata di fronte alla vetrina per far assistere i bambini allo spettacolo) sarebbe una scelta interessante. Possiamo concludere come Brunelli che il testo scenografico della vetrina ha il suo percorso di lettura in relazione a diversi livelli di intertestualità. 15 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE CAPITOLO 3 MODA E SEMI-TRASPARENZE - RICOSTRUIRE UN TREND L’obiettivo è indagare le diverse tipologie di trasparenze proposte sul corpo biologico- culturalizzato, ripercorrendo le trasformazioni che il corpo e le rappresentazioni della moda hanno subito tra gli anni ‘60 e gli anni 2000, dove c’è stata un’evoluzione del regime di visibilità. L'oggetto di studio è la variabilità diacronica, possibile solo a seguito di modifiche intenzionali di progettisti e quindi più vicini alle lingue artificiali, definendola infatti finzione di diacronia. Nei fenomeni recenti alla sintassi vestimentaria viene riconosciuta una qualità predominante di casualità (non è necessario che si veda), ma è avvenuto un cambiamento che non sarà più intenzionale tout-court, ma piuttosto realizzato nell’uso di quella che si definisce massa di utenti (Simone), corrispondente alla massa parlante. La moda è legata, anche etimologicamente, all’idea di novità e rottura rispetto al passato, qualcosa di noto nelle fashion theories. L’aderenza a una moda, secondo Landowski, significa accettare di cambiare se stessi, di vedersi diversi, di piacersi diversi rispetto a come si era in precedenza. I cambiamenti temporalmente proposti non sono momenti di improvvisa rottura rispetto al passato, ma nelle modi attuali vige sempre un legame con le forme della moda precedente. Già Blumer sottolinea che nel percorso di ricerca delle novità e di nuove tendenze non si può non tenere conto di quanto è abitualmente considerato adeguato e giusto. Tale debito è legato agli innegabili condizionamenti del gusto collettivo predominante, le cui inferenze forniscono una preziosa linea guida per lo studio della sintassi vestimentaria. MODA ANNI SESSANTA Sul finire degli anni 50 la moda viene scossa dalla rivoluzione del pret-a-porter femminile. Se fino ad allora il fenomeno si poteva suddividere in due fazioni (alta moda vs abiti in serie di basso costo), con la rivoluzione della moda si assiste a un’estetizzazione della moda industriale che trasforma l’interesse per il settore da fenomeno di élite a fenomeno di massa. Nei 60’s arriva la prima crisi della modernità e la creatività pubblica della nuova moda fu la risposta alla caduta della stabilità proposta dal razionalismo. Questa rivoluzione, più che aggiunte, segnò importanti sottrazioni, le cui vittime degli anni 50 furono cappelli e guanti. Se il look rimaneva austero ed elegante (total black con gioielli e ballerine piatte alla Heburn o alla Bardot), l’acconciatura fronteggia i tempi frenetici della moda e si amplia/modifica di pari passo con il make-up, rendendo difficile lo sfoggio di cappelli e lasciando spazio a spille decorative. C’erano delle eccezioni, ma ai capelli sbarazzini le ragazze preferiscono accessori diversi, dagli orecchini di Rabanne ai Lunettes Eskimo di Courreges (Collezione Primavera Estate 1965). Anche i guanti nel tempo passano dall’essere must all’essere vezzo, finendo per essere riservati alle serate di gran gala (per riproporre il fascino di Grace Kelly). Un altro cambiamento fu lo sconvolgimento del sopra e del sotto nell’abbigliamento (Fortunati) che risemantizzando la biancheria intima come elementi di vestiario avevano creato le premesse per l’esibizione pubblica della comunicazione intima. Nonostante i segnali di vitalità nel mondo della moda, tanto limitati da essere definiti fads (piccole mode passeggere molto meno regolari che riguardano gruppi ristretti, come frangette e code di cavallo), gli anni ‘50 erano all’insegna del paradigma dell’eleganza più ricercata. Negli anni ‘60 alla moda adulta si affianca il paradigma della moda giovane. All’austerità del padre di famiglia in giacca e cravatta si affianca il giocane in jeans, alla donna in gonna e mezzi tacchi si avvicina la ragazzina in stivaletti rasoterra. 16 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE I paradigmi della moda cambiano e sono capaci di convivere e di contaminarsi a vicenda. La moda stessa cambia, passando da pratica di distinzione sociale a pratica espressiva e comunicativa (la moda degli stili di vita, dove la semantizzazione del sopra e del sotto modifica i confini tra pubblico e privato). Il passaggio dalla cultura della produzione alla cultura del consumo modifica il settore della moda, che da industria produttiva diventa industria culturale, diventano mezzo di comunicazione di ,essa che si riproduce e si diffonde secondo modalità proprie e in contatto con altri sistemi massmediatici (Calefano). L’abito anni ‘60 diventa mezzo per mostrare il proprio stile di vita e ciò cambia anche la moda maschile, facendole scoprire il casual. L’abbigliamento informale, ricorda Volli, si è imposto come secondo standard dell’abbigliamento anni ‘60, se non come seconda moda. Anche negli anni ‘60 la moda aspira al bello e fissa quindi degli standard di bellezza fisici. La figura femminile viene condizionata da Lolita di Nabokov (1955), rinunciando al sex appeal classico di Marylin Monroe (icona del vedo-non-vedo e dello svelamento improvviso), per orientarsi verso un’immagine adolescenziale e androgina. La donna anni ‘60 aspira a proporsi come una ninfetta magra e ossuta che giocava con la propria sessualità (Seeling), proponendo così una figura femminile longilinea, filiforme, efebica. E’ l’archetipo dell’adolescente folletto, dalla carica erotica perversa, espressione di libertà, indifferenza verso le gerarchie e di uno spirito sbarazzino. Ciò mostra una doppia tendenza del nostro mondo sociale, quello verso l’adolescenza prolungata e quella verso una diminuzione della differenza sessuale. Negli anni ‘ 50 i dettami della moda imponevano l’artificialità, tra abiti sculture e make up disegnato. Negli Swinging Sixties si imponeva una fanciullezza morale (“make-up old style is out”) e al posto di corsetti, tacchi a spillo e giarrettiere c’erano stivali rasoterra, abiti trapezio e make-up naturali. Questa apparenza nature mise le basi per una seconda rivoluzione: la gioventù diventa di moda. Gilles Lipovetsky scrive che la moda si è vestita da ragazzina. L’haute couture, con la sua tradizione raffinata e i suoi modelli riservati a donne di una certa età, viene screditata dalla nuova esigenza di sembrare giovani, di imporre la giovinezza come canone di imitazione sociale. Tra bigiotteria, minigonne e calzamaglie coprenti, l’eleganza abdica in favore della gioventù sbarazzina. Testimoni illustri sono Mary Quant che, in analogia alla Pop Art, trova la sua fonte d’ispirazione nella strada e anticipa la società dell’usa e getta (D’Amato), e i discendenti di Dior, ossia Yves Saint Laurent, Andre Courreges e Paco Rabanne. Saint Laurent riscrive lo stile ocheggiando all’avanguardia di Mondrian e alla neoavanguardi di Andy Warhol, mentre Courreges modifica il paradigma della moda trasportando la minigonna di Mary Quant dal pret-a-porter giovane all’Haute Couture, introducendo materiali plastici innovativi, spianando la strada a Paco Rabanne, con la sua collezione del 1966 di dodici vestiti improbabili in materiali contemporanei. Questi anni vedono l’ingresso dei nuovi materiali plastici e sono noti anche per quello che fu definito Transparent look, nato dalla combinazione di innovative fibre sintetiche e riscrittura di materiali più classici come la mussolina. Allievo prediletto di Cristobal Balenciaga, Courreges fu tra i capostipiti del Transparent Look presentando, nel 1964 a Parigi, la Moon Girl Collection, seguita da Couture Future, Hyperbole e Prototype. Le sue collezioni incarnano il mito del futuro e tra rivoluzioni geometriche e fascinazioni aliene, si celebra il cambiamento sociale/tecnologico, con l’introduzioni di tessuti sintetici moderni, come plastica e poliuretano. Egli si avvicinò alla moda armato di squadra e compasso, applicando le leggi della geometria al campo vestimentario. Secondo Barthes, egli fu capace di vestire tutte le ragazzine che diventeranno le donne del 2000, facendosi promotore dello stile minimale chic, proponendo linee rigide (noto l’abito a trapezio e i rigidi cappellini) e trasportando la gonna sopra il ginocchio, dalla strada alle passerelle dell’haute couture. Per Courreges l’eleganza era data dagli opposti, in primo luogo cromatici e stilistici, accostati nella 17 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE semplicità delle linee dritte. Destinati a dettare moda per oltre un decennio, i tagli essenziali suscitarono critiche perché in questo design ultramoderno alcuni vedevano uno svilimento della figura femminile, le cui forme non erano più messe in risalto. Tra questi anche Coco Chanel, che lo vedeva come una minaccia della sfacciataggine dell’adolescenza ai danni del fascino della femminilità emancipata (D’Amato). Ma questo era l’ideale di bellezza femminile imperante nel decennio. I capi dello stilista ebbero l’innegabile capacità di ringiovanire la donna, liberandola da indumenti eccessivamente strutturati e proponendo trasparenze create dalla contaminazione tra etereo e modernità. Anche gli oblò sui Little dress andavano nella medesima direzione, proponendo semi-trasparenze e assenze non sessuate atte a proporre una nuova figura femminile, capace di accantonare il passo felino e le pose ammiccanti dei défilé classici, per sfilare in rigide posizioni plastiche uscendo da un armadio e dalla pratica quotidiana. I Lunettes eskimo lanciati dal couturier francese nel 1965, erano occhiali da sole con lenti enormi e una fessura centrale. Lo stile di Courreges si ispira a al Bright Side of the Moon, esaltandosi con capi innovativi come i go-go boots (stivali con tacco basso, comodi ma capaci di slanciare le gambe). Le modelle di Andre Courreges incarnano il mito del domani e della conquista dello spazio, innovando anche il concetto stesso di défilé e abbandonando le passerelle per trovare l’allestimento ideale nei luoghi simbolo di Parigi. Alla fine del decennio Courreges ritornò al classico, con vesti idi organza, nei cui punti più intimi erano applicati fiori e forme geometriche. Anche questa è una conseguenza del periodo, che nella seconda metà del decennio rifiuta una modernità totale in nome di un ritorno alla natura. Esistono però, secondo Barthes, due elementi di rottura in Courreges nel confronto con il classicismo di Coco Chanel. Tra le petite robe noir e go-go boots cambia la grammatica del tempo, che secondo la prima è tempo vissuto e stile già maturo, per il secondo è ora e dunque una moda ancora tutta da vivere. Tra l’una e l’altro si modifica il concetto stesso di corpo, che passa dall’essere completamente assortito dai dettagli classici, divettando oggetto privilegiato della distinzione sociale, al volersi esprimere come entità autonoma proprio grazie all’abito. L’abito femminile Courreges regala al corpo un’espressione allusiva, suggerendo un’immagine della donna giovane, vicina, familiare e seducente, ma anche onesta e raggiungibile, a differenza delle femme fatales precedenti. Nel panorama parigino Courreges non fu il solo esponente del Transparent look, ma negli anni 60 il passaggio tra sbarazzino e selvaggio fu breve, mentre nella seconda metà del decennio si fece strada un sentimento di ritorno alla natura. In naftalina le calze di nylon, gli abiti ispirati alla conquista dello spazio e i toupet. Sandali da frate (Birkenstock rigorosamente unisex, fatti per assumere una postura più rilassata e naturale), capigliature indomabili e stoffe naturali andarono a imporsi nei guardaroba sulla scia della rivoluzione hippie. Rimase costante l’interesse per il corpo, qui chiamato a palesarsi non più attraverso trasparenze artificiali, ma attraverso un’assenza vestimentaria che voleva proporsi come segno di un ritorno alla nudità naturale, condizionando immediatamente anche l’alta moda. NUDE LOOK DI YVES SAINT LAURENT Egli si orientò verso una rilettura della predilezione hippie per la pelle nuda, riscrivendo l’alta moda attraverso un complesso meccanismo di assenze e velature che ponevano l’epidermide delle modelle al centro della scena. Abiti e camicette raggiunsero gradi di trasparenze e assenze mai tentate prima, avvicinandosi sempre di più al livello zero. Considerato il padre del nude look, propone una rivoluzione nell’alta moda femminile con alcuni capi fondativi: la camicia maschile effetto nudo, lo smoking femminile a contatto con la pelle nuda e l’abito da sera lungo fino a terra, di mussola nera trasparenze, con 18 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE piume di struzzo. Paris Match chiedeva alle sue lettrici: “oseresti indossare questi investiti?”. Alexandre Fiette scrisse che nella collezione Autunno Inverno 1968/1969 si era rivoluzionato il mondo della moda con l’abito in mussola nera di Saint Laurent e che all’annuncio del modello 74 la stampa se ne era resa conto. Per rispetto della decenza la modella è fotografata di schiena. L’intimità dei corpi lasciati visibili dai vestiti avrebbe presto smesso di essere inopportuno diventando un tema ricorrente della moda. Effettivamente le declinazioni e le combinazioni di trasparenze e assenze erano pronte a entrare nel mondo della moda proponendosi come temi rielaborandoli nel tempo. Nei tardi anni 60 lo stesso Courreges si risolse ad archiviare i tessuti più classici creando vestiti di organza, nei cui punti più intimi erano applicati dei fiori o delle forme geometriche. Anche in italia il nude look fece parlare di sé. Precursore della tendenza fu Ottavio Missoni che nel 1967 alle sfilate fiorentine di Palazzo Pitti presentò una collezione di capi trasparenti, da cui vennero cacciati il secondo anno per aver fatto sfilare donne con abiti trasparenti che lasciavano intravedere i seni nudi. Il nude look era destinato a fare scalpore in passerella, come anticipato dall’accoglienza riservata al vedo-non-vedo di Filumena-Sophia in Matrimonio all’italiana. Tale italico imbarazzo non ebbe vita lunga e in poco tempo arrivarono scoperture e trasparenze capaci di modificare per sempre, in senso lato, l’idea di accessibilità e proibizione. MODA ANNI ‘70 Appariscenti disegni geometrici e tenui fiorellini fanno da cornice allo stile vestimentario. Gli anni ‘70 riscrivono il guardaroba femminile a partire dai grandi cambiamenti socio-culturali. Continua la spinta hippie verso un ritorno alla natura che impone un corpo tornito, una percentuale di nudità crescente nel quotidiano e un diffuso scetticismo verso la tecnologia. A questo si accompagna un rifiuto verso il consumismo occidentale, che segue il picco di consumi di metà anni ‘70, durante l’adolescenza dei primi baby boomer americani. Anche la silhouette si modifica secondo una nuova architettura del corpo femminile. Ci si chiede su Vogue Italia nell’aprile 1970 che i mutamenti delle mode possano diventare mutamenti biologici. Sì, quando la moda esce dai ristretti confini del capriccio e della metamorfosi estetica per diventare un nuovo modo di vivere il corpo anni ‘70 è stato modellato da un’alimentazione razionale, dalla spinta verso lo sport, l’aria aperta e la natura. Questo nuovo modello di corpo non può che essere impaziente di mostrare la sua riconquistata forma da un lato e, dall’altro, rinunciare a un eccesso di coperture per avvicinarsi alla libertà di natura, dire addio alla donna robot-desessualizzata-astrale-metallica degli anni ‘60. Quello che ieri era considerato limite invalicabile del pudore oggi è stato largamente superato ma la nuova condizione non è la spudoratezza, ma una coscienza della libertà del proprio corpo, una ribellione all’artificiale in nome del naturale. L’aspirazione al naturale porta a una nuova concezione del corpo, a una body consciousness che travolge la moda giovane. Il corpo anni ‘ 60 non è più quello segreto e pudico dell’età vittoriana nascosto sotto strati di tessuti, biancheria e sottobiancheria, improntai nelle gabbie delle crinoline. Non è neppure quello efebico, senza curve, piallato e asessuato della donna-crisi anni ‘20, della garzone nello scimmy; è invece il corpo di una donna sana che ha ritrovato per miracolo nel periodo della dittatura tecnologica e delle donne di plastica un equilibrio nelle forme e in proporzioni che non sono giunoniche, come le donne ritratte dai pittori del Rinascimento o del Barocco, o esplosive, come le dive anni ‘50, o da ragazzo mancato come sarebbe piaciuto a sarti antifemministi. In un modo di ribellione verso i dettami androgini dei sarti antifemministi gli anni ‘70 registrano un movimento di liberazione del seno dalla prigionia del reggiseno, capitanato tra gli altri da Courreges, che già nel 1965 incitava le donne a liberarsi da certe sovrastrutture (“Basta con il 19 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE petto a piccione, con il richiamo sexy basato sulla falsità, basta con i reggiseni, il seno è molto più attraente quando rimane libero e basso, invece che alto e a punta. Basta, basta bugie”). I profeti della moda dicevano che il seno non esisterà più nel corpo della donna. Il seno, rimasto per secoli perno della storia erotica delle civiltà, ritorna ad essere cancellato, annullato. Venendo totalmente scoperto smetterà di essere simbolo sessuale. Nelle società primitive il seno è sempre nudo e nessuno lo desidera. Nel 1970 già sono caduti molti tabù e in chi adotta il nude look c’è meno gusto all’esibizionismo e una maggiore naturalezza. I creatori di moda hanno già potuto constatare che gli indumenti femminili se ne vanno come foglie d’autunno e aumenta ogni giorno il numero di donne che abbandonano il reggiseno. Il reggiseno non è l’unica vittima degli anni 70, dove le utenti finali hanno maggiore autonomia e vanno incontro a una “moda senza regole”, capace di toccare molti stili, dall’hippie al punk, e una varietà di tendenze, dai pantaloni scampanati alle gonne lunghe, dai colori flou ai tessuti naturali, dal floreale allo psichedelico. Se la minigonna è ormai un capo comune e i blue jeans arriveranno nella seconda metà del decennio, quest’ultimo viene sconvolto dai monokini. Disegnati nel 1964 da Rudi Gernreich, il costume di soli slip è l’erede del topless lanciato dalla modella Tony Lee Shelly nel ‘64, look poi riproposto da Laura Antonelli e Ursula Andress (con seno nudo) nel ‘67. Mentre in Francia si comincia a parlare di Tres Bikini, un bikini ridotto al minimo, a Saint Tropez si opta per il pezzo unico che profetizza l’avvento del nudismo. Nel 1972 il monokini alimenta chiacchiere e denunce, ma l’atto sociale del svestirsi viene eletto simbolo di una modernità trasgressiva e contestataria. L’affaire monokini nel maggio 1972 viene discusso da Vouge Italia, che fa notare come la nudomania ostentata non abbia senso tanto quanto il pudore a oltranza o un nudismo programmatico. La nudità è oggi non clamorosa e ciò indica un ritorno alla natura, il cui luogo ideale è proprio la spiaggia, dove l’esposizione nudi al sole divina un rito e a simbolo di innocenza animale e partecipazione totale alla vitalità della natura. Contemporaneamente l’era della società dei costumi è alle porte e nonostante la haute couture controlli ancora le tendenze della moda, il pret-a-porter- aumenta la sua influenza. Dal 1973 si definisce un calendario semestrale per le sfilate pret-a-porter e alle presentazioni sulle passerelle di Parigi e New York si aggiungo Londra e Tokyo. Le collezioni di moda “pronta da indossare” di Sonia Rykiel propone un nuovo guardaroba, quotidiano ma elegante, e dopo il debutto parigino nel 1960, Kenzo Takada ripropone per la vita quotidiana abiti occidentali dal fascino orientalizzante, realizzati con tessuti giapponesi trattati in modi inconsueti. Un altro must è quello naturale e naturalistico, una ribellione alle mode futuristiche anni ‘60, riproponendo un look nature in bilico tra hippie e folk. Questa tendenza fu capace di comprendere i jeans nel quotidiano, emblemi della prosperità americana e dei miti della gioventù. Le mode della strada vengono risemantizzate sulle passerelle e contribuiscono all’ascesa del pret-a- porter. In Italia le influenze hippie conquistano la moda della maglieria, che risente di un condizionamento etnico nelle collezioni Missoni, e poi anche nel settore maroquinerie. Tutta la moda italiana subisce una rivoluzione. Negli anni ‘60 il baricentro della moda si sposta (dopo essersi spostata da Firenze aristocratica alla Roma del cinema) verso la Milano industriale. Addio quindi al binomio couture-grande schermo e benvenuto il binomio industria-stilismo. Nel 1975 milano è la capitale del pret- a-porter. La centralità di Milano viene confermato dall’evento Modit, inaugurato alla fine del decennio per riunire tutte le iniziativa dei dieci anni passati in quella che si trasformerà nella Settimana della Moda di Milano. Viene adottata l’etichetta del Made in Italy, marchio distintivo di gusto e qualità, colto per primo da Walter Albini, che per primo da il via a partnership tra stilisti e aziende. Il made in Italy è frutto di una proficua cooperazione tra cultura, artigianato, abilità manifatturiera e territorio, stringendo il rapporto tra moda e industria, nonché instaurando i primi licensing, dove attraverso una licenza (es. Armani e Valentino con aziende come Aeffe e Ittierre) attraverso cui una Maison o uno stilista cedono ad un secondo soggetto il diritto d’uso del marchio a fronte della corresponsione di royalties e di 20 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE contributo pubblicitario dato l’uso di input stilistici, disegni e scelta di materiale che il licenziante fornisce al licenziatario. La licenza può essere utile quando si vuole estendere la marca a categorie di cui azienda o stilista non possiedono una professionalità specifica. Il risultato finale è la fusione della seconda generazione di stilisti italiani con il sistema di produzione industriale italiano. Viene poi sancita l’identificazione dell’Italia come centro di riferimento della moda e l’attenzione globale si sposta sui bozzetti di Valentino Caravani e sulle collezioni Giorgio Armani S.p.a. Tra i punti di forza della seconda generazione spicca l’eclettismo diffuso, che li rende capaci di combinare capi e stili diversi, presentando un prodotto aderente alle necessita della vita quotidiana. Fondata da Armani e dal socio Sergio Galeotti nel ‘75, l’etichetta pret-a-porter deve la fortuna alla prima collezione di moda uomo presentata nel ‘74 e dalla prima sfilata moda donna del ‘74. Proprio in questi anni Armani reinventa la giacca destrutturata riscrivendo un indumento formale classico in chiave moderna. Nella giacca destrutturata i tessuti morbidi, normalmente elementi femminili, vengono applicati ad abiti maschili e le differenze di genere diventano più lievi. Questo segna una profonda opposizione creativa rispetto a Versace, che invece ottenne importanti risultati nelle creazioni femminili a partire da passate forme della moda maschile, come il blady, che è la giacca maschile riproporzionava al corpo femminile. Passano gli anni e nella seconda metà dei 70s i ritmi di innovazione imposti alla Moda si velocizzano, per proporre ai giovani capi sempre nuovi. Elio Fiorucci riesce a intercettare questo desiderio, essendo tra i primi stilisti italiani ad accorgersi che il marchio può essere un elemento indispensabile per attirare l’attenzione e innova il suo simbolo con un coppia di angioletti vittoriani con occhiali da sole. Precursore della moda del riuso, sviluppa idee partendo da oggetti preesistente per riprogettarli col suo team per renderlo adatti a una produzione industriale. Partendo dalla bottega di pantofole del padre, la sua popolarità stimola la nascita dei cosiddetti “fioruccini”, giovani amanti della discoteca e degli abiti colorati comprati nella bottega del brand. Essi non erano prerogativa del giovane marchio milanese e verso la metà anni 70 le tinte s’inacidirono per dar vita ad accostamenti di colori declinati su stampe psichedeliche, che animavano testi elastici e aderenti. Mentre le donne continuano la loro battaglia al reggiseno, la moda abbandona il cote del naturalismo e riscoprire l’artificialità, nelle colorazioni e nei materiali. Anticonformista e psichedelica, la tendenza gioca sullo stravolgimento delle dimensioni classiche, proponendo maglie extra-large su micro-gonne, zeppe altissime e quei pantaloni scampanati fino all’estremo, che diventano simbolo della disco-music grazie al John Travolta di Saturday Night Fever (1977). Archiviate quindi le estremizzazioni stilistiche della contestazione giovanile e lo stile hippie, cresce l’interesse verso il pret-a-porter e verso i capispalla, che avrebbero raggiunto popolarità assoluta negli anni ‘80 con abiti e tailleur del Dress For Success. Armani vuole reintrodurre le giacche, così come il primo Ferrè, certe creazioni iper femminili di Gianni Versace e Jean Paul Gaultier con il suo nuovo folk multietnico in un mondo globalizzato. Il ritorno ai capispalla, secondo Claude Montana, è la prova della morte dello scucito. Lo stilista su Vogue italia nel gennaio 1978 racconta di volere nuovi abiti ancorati sulle spalle che siano strutturati. Non alla Courreges, ma in modo che si muovano. Stanchi del naturale a tutti i costi, vuole proporre un pret-a-porter sofisticato anche se di impronta sportiva. Alla ricerca di una nuova struttura che si allontani dal naturalismo, la moda di fine anni ‘70 unisce il retrò anni ‘40 a ispirazioni più antiche, scoprendo la novità di vestire al passato remoto e il piacere delle linee cortesi. Nel settembre 1977 si legge che i creatori d’alta moda guardano a un passato regale. Il passato rurale popolare è una fonte d’ispirazione ormai prosciugata. La novità e ora il bricolage dei fasti di tutti i temi, passando con disinvoltura sovrana dal primo, al sesto, al quindicesimo e al diciottesimo secolo. Tuttavia le nuove regole della confezione vestimentaria avranno vita breve. 21 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE Ai margini della moda anni 70 si intravede una nuova rivoluzione, ossia quella di Vivienne Westwood. L’epicentro del movimento punk è dal 1971 al 430 di King’s Road, sede dei Sex Pistols. La location è il negozio Let it rock, aperto dalla Westwood con Malcolm McLaren. Nato come subcultura, il punk è la prima dimostrazione dell’attenzione della mia ufficiale verso la moda alternativa, nata sulle strade, e l’artefice dell’ascesa è la Westwood, ideatrice di una nuova immagine provocatoria. Il nome del movimento si riferisce a qualcosa di scarsa qualità, da due soldi. A riprova dello scarso valore riconosciutogli, gli elementi usuali vengono distrutti, squarciati, riempiti di safety pin (tra i principali elementi di rottura del punk l’accostamento cromatico di colori chiassosi tra loro come rosa e arancione, mentre il punk anni ‘80 alla Sid Vicious, con pantaloni in pelle, stivali cintura, chiodo e capello sparato diventerà il punk per antonomasia) e quegli abiti diventano un riconoscibile elemento di sovversione. Lo stile rifiuta i canoni tradizionali le sue regole, proponendosi così come antesignano della tendenza genderless. Il punk influenza presto il settore prêt-a-porter. Già nel ‘77 la stilista Sandra Rhodes inserisce numerose citazioni al punk, edulcorate nei suoi estremismi, mentre nomi come Gianni Versace raffinano alcuni concetti del movimento rendendoli tratti distintivi del pret-a-porter anni ‘80. MODA ANNI 80 Nel primo agosto 1981, con l’annuncio “Ladies and gentleman, rock and roll”, viene lanciata la neonata MTV. Il decennio sarà ricordato per le contaminazioni tra musica e moda e vedrà le dive del cinema abdicare, al ritmo dei videoclip di Madonna, mentre le dive dello showbusiness musicale diventano le principali icone di stile del decennio. Gli anni ‘80 sono anche l’epoca dell’edonismo. Un decennio in cui tutto, e quindi anche la moda, è permeato dal desiderio di affermarsi e di comparire. Si modella un nuovo modo di vivere e la competizione diventa un elemento dominante. Nel 1980 in USA inizia la deregulation, il fenomeno economico influenzato da Von Mises e Kahn e poi eseguita dai presidenti Carter e Reagan, dove con la liberalizzazione del mercato e la concorrenza a tutto tondo il successo e la carriera diventano parole d’ordine. Si palesa una nuova figura sociale e stilistica di rampante successo ad ogni costo, quella della Young Urban Professional. Vogue italia nel marzo 1987 parla di successo come mito contemporaneo solido e totalizzante. Ingrediente del meeting pot della cultura edonista rimbalza dalle passerelle del made in Italy con modelli attraenti, “arrivati” e sicuri di sé, alle liste di personalità eccellenti pubblicate dai settimanali. I nuovi idoli sono manager che comandano i proprietari, ma cala l’interesse collettivo per oggetti tradizionali del desiderio di imitazione, come gli attori, che resistono solo se si dimostrano colti intrattenitori. A questa moda adulta nata per comunicare uno status sociale di successo corrisponde una moda giovane americana. Interpretazione USA dello stile Preppy style, si rifà alle pre-school americane ed è la sublimazione dei classici sportivi fatti di blazer, chinos con stemmi di college, fantasie classiche e colori neutri. Lo stile preppy, proposto nel programma Happy Days, segnò il successo di Tommy Hilfinger. Per quanto riguarda la moda femminile, figura emblematica è la donna in carriera elegante ed efficiente. Vogue Italia nel gennaio 1980 chiede un parere a Christiane Collange (“non accetto di morire né di noia domestica, né di fatica professionale”), che considera la figura della career woman troppo dura verso se stessa, in quanto l’occhio femminile nota molto di più le imperfezioni di quello maschile. La padrona misogina come una direttrice di collegi, mette nell’angolo per una semplice macchia sul grembiule. Gli anni ‘80 furono però palco di tendenze e innovazioni capaci di diffondersi grazie al fenomeno della targettizazione, che modifica il concetto stesso di gusto, che su Vogue Italia nel febbraio ‘83 22 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE viene definito “un supermarket come tanti altri”. Più che di un gusto è opportuno parlare di più gusti destinati a diventare stili. Nei paesi ricchi si fanno strada le saturazioni quantitative e Bucci ci dice che a causa di esse le maison di moda e gli stilisti devono cominciare a far leva su aspetti immateriali dei loro prodotti, concentrano l’attenzione su valori aggiunti, che devono essere in primo luogo di tipo estetico. In un mercato dell’abbigliamento ormai indifferente alla costante e ciclica ricerca del nuovo, data “per scontata” perché considerata un attributo della moda, si diffonde un interesse di carattere più personale. Il bombardamento di immagini crea nel consumatore un “rifiuto visivo”, che modifica il panorama dell’offerta anni 80, che vede gli stilisti impegnati a creare uno stile peculiare che li distingua e non più legato alla stagionalità delle presentazioni. Gli stilisti e i marchi lavorano verso una definizione d’identità, di un racconto, di una narrazione che tende a creare uno spazio preciso nell’immaginario del consumatore, introducendo delle varianti stagionali che non compromettano la riconoscibilità dello stile stesso. I consumatori non si trovano più davanti a un cambiamento stagionale onnicomprensivo, ma in diverse collezioni riconoscono un dispiegamento parallelo di stili con precise “variabili valorizzi” (Grandi). Il consumatore dei tardi anni ‘80 può servirsi di una molteplicità di negozi di quartiere dove trovare, stagionalmente, solo oggetti adatti al suo gusto. Prima di arrivare alla consapevolezza di questa “moda di stili” nei primi anni ‘80 si susseguono tendenze che si accreditano come imperative. Opulenza ed eccesso diventano la parola chiave e nel 1981 al suo matrimonio la principessa di Galles sfoggia l’abito firmato dai coniugi Emanuel. Ruches, gonna ampia, nastri, pizzo antico, paillettes, maniche a sbuffo e collo fu-fru diventa segno dell’opulenza inglese. In un settore ormai forte della sua vocazione internazionale le romantiche esagerazioni di UK si scontrano con l’informe minimalismo nipponico firmato da Rei Kuwakubo per Comme Des Garcons. La sfilata parigina dell’81 vede la stilista giapponese introdurre l’espressionismo nella moda, creando un’anti-moda destrutturata e avversa alle simmetrie classiche delle forme femminili. Simmetrie e silhouette destinati a riapparire nell’iper-femminile Mini-Crini (1984) della Westwood, ormai eclettica cacciatrice di suggestioni. I suoi guardaroba sono storicamente e geograficamente lontani e lei si riappropria dei capisaldi vittoriani, ribaltando la classica forma a triangolo rovesciato (vita stretta e spalle larghe) con un mini-abito che accosta crinolina e tutù in forma di triangolo (stretto in vita ma ampio sull’orlo inferiore). La predominanza del pret-a-porter sull’Alta Moda è un dato acquisito e alla “moda pronta” si affiancano nuove strategie di diversificazione. La diversificazione merceologica è il punto di forza del fashion italiano all’estero, in quanto l’estendere il marchio agli accessori originerà la convinzione che il complemento sia obbligatorio, anticipando il Total Look anni ‘90. In particolare le aziende di moda si diversificano fino a diventare brand a tutti gli effetti e il trionfo edonistico dell’immagine si riconosce nel valore simbolico della marca e delle sua caratteristiche comunicative estrinseche. Il marchio diventa il segno capace di soddisfare il bisogno di consumo, come il profumo Armani, che per il marchio assume già un valore estrinseco riconosciuto. La moda diventa un fenomeno di marca internazionale, dove più paesi si affiancano al classico scontro tra Francia e Italia, come negli USA la moda sportiva ma ricercata (Donna Karana, Calvin Klein, Ralph Lauren), in Giappone la moda d’avanguardia e l’export della moda italiana Laura Biagiotti, che si rivolge ai mercati cinesi e russi, dando origine a joint venture e collezioni di seconda linea. Si assiste così alla consacrazione globale del made in Italy, dove il sistema moda italiano, sostenuto da una filiera produttiva che integra il tessile e l’industria all’abbigliamento, si rafforza e diventa brand. Bucci riconosce a 4 stilisti italiani la comprensione della moda degli stili, in quanto hanno espresso nei brand delle maschere e immagini capaci di coinvolgere i consumatori in un processo di identificazione: 1. Gianfranco Ferré, l’architetto della moda, con la società fondata nel maggio 1978 e che si era imposta con il debutto di pret-a-porter, orientandosi poi verso il mondo degli accessori 23 PRESO DA STUDOCU GRATUITAMENTE (Gianfranco Ferré Jeans e il profumo femminile) dal 1979 all’84. La maschera proposta da Ferré comunica l’importanza, la sicurezza, l’imponenza e l’eleganza progettata. 2. Giorgio Armani. L’attesa per il suo profumo viene spiegata nell’articolo di Vogue “L’essenza del suo stile”, dove viene definito “profumo per sempre”, dove avere addosso due gocce di Armani dà l’idea di avere addosso un abito con la sua firma, affermando così la brandizzazione del settore moda. C’è l’idea che adesso la moda è di moda e di Armani si comincia a parlare per tutta l’industria Armani. Tale esplosione del brand è possibile solo con presupposti di notorietà e come dice Bucci, Armani già presentava i concerti di classico/attuale, eleganza minimalista, parità dei sessi e post-femminismo. Nel vocabolario anni ‘80 non può mancare la “giacca destrutturata” ed è il processo di immedesimazione tra i suoi clienti che permette ad Armani di definire una nuova forma di stile, diventando così sinonimo di italianità. Il Times gli dedica la copertina dell’aprile 1982, dove diviene chiaro come lo stile di Armani diventi iconico dell’italian style. Se per l’apporto innovativo egli viene paragonato a Giorgio Morandi, il parallelo che si conferma più calzante è quello con Coco Chanel: nel tailleur lei, nella giacca lui, entrambi hanno trovato la forma prodigio di un’epoca, con un’eleganza funzionale e naturale apparentemente facile da imitare, sempre in sottotono

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