Metodo - Malighetti PDF
Document Details
Uploaded by Deleted User
Malighetti
Tags
Summary
Questo documento riporta una lezione o un'analisi sull'applicazione del metodo scientifico allo studio delle scienze umane, in particolare dell'antropologia. Vengono presi in considerazione i contributi di filosofi come Galilei, Bacone, Newton e Cartesio, enfatizzando l'importanza dell'osservazione, della classificazione della dati e i processi di oggettivazione della natura. Il documento conclude discutendo la transizione di un metodo scientifico alla sociologia.
Full Transcript
Il metodo e l’antropologia Rivedere introduzione e fare sintesi 1. I questionari Il metodo nella scienza moderna Da metà ‘800 e per lungo tempo, si è tentato di applicare il metodo elaborato in seno alle scienze della natura allo studio della realtà umana. Già durante l’illuminism...
Il metodo e l’antropologia Rivedere introduzione e fare sintesi 1. I questionari Il metodo nella scienza moderna Da metà ‘800 e per lungo tempo, si è tentato di applicare il metodo elaborato in seno alle scienze della natura allo studio della realtà umana. Già durante l’illuminismo (settecento) si pongono le basi di quelle che saranno poi chiamate scienze umane e sociali. Il criterio di demarcazione tra saperi che possono o non possono essere chiamati scientifici risiede nell’adozione del metodo sperimentale delineatosi a partire dalla rivoluzione scientifica del seicento. Le scienze sociali si configurano come scienze naturali che riguardano gli individui nelle loro relazioni sociali, orientate a un’obiettività raggiungibile attraverso l’applicazione del metodo scientifico. Durante il positivismo ottocentesco, il progresso tecnico, che pareva aver bruciato tutte le tappe nel suo incedere, diventa criterio di conferma delle teorie, in virtù cioè dell’efficacia tecnica delle scienze, vengono poste le basi per una legittimazione incondizionata del sapere scientifico, che assorbe ogni altra possibile modalità di produzione di senso. Il modello ipotetico-sperimentale esige una riduzione e selezione dell’esperienza percettiva, in sé multiforme, imprecisa e complessa: il metodo galileiano impone allo scienziato di concentrarsi sugli aspetti quantificabili dei fenomeni, i soli a poter essere misurati con l’uso di appositi strumenti; mentre Bacone si concentra sulla funzione di controllo e classificazione dei dati osservativi raccolti induttivamente in delle tavole. Questi due metodi avranno una grande influenza in antropologia, sia nella “correlazioni statistiche” e nelle “variazioni concomitanti” di Tylor, sia nella “documentazione statistica mediante la prova concreta” di Malinowski. Il metodo di Galilei si vedrà applicato più di frequente nella prima fase dell’antropologia, quello di Bacone diventerà punto di riferimento a partire dall’ “antropologia dal basso” e da Malinowski. Galilei distingue tra proprietà primarie indispensabili (figura, grandezza, numero, posizione nello spazio e nel tempo) e secondarie (colore, sapore, odore). Le ultime sono il risultato dell’interazione tra le cose quali esse realmente sono e l’apparato percettivo dell’uomo, non hanno sussistenza propria. Tale ripartizione è esemplificativa del processo di disantropomorfizzazione della natura, divenuto elemento distintivo della pratica scientifica, una scissione tra uomo e natura, tra dati di fatto e interpretazioni, oggettive, dell’uomo circa i meccanismi di funzionamento di una realtà che è esteriore e indifferente. Newton distingue nei corpi proprietà assolute e relative, vere e apparenti, matematiche e volgari, sottolineando che la scienza deve occuparsi solo ed esclusivamente delle prime, poiché le seconde hanno qualche rilievo solo “nelle cose umane”; un primo accenno polemico che crea rapporti di subordinazione tra le scienze matematiche e tutte le altre discipline. Definisce altresì le proprietà sensibili come apparenti, illusorie, suggerisce che la realtà vera appartiene al campo delle scienze. Queste idee, trapassando nelle scienze sociali, hanno espunto proprio l’umano dai loro interessi di analisi, preferendo le informazioni che potevano essere qualitativamente raccolte, cercando di accostarsi alle scienze dure, insomma, hanno preferito il mondo trascendente dei paradigmi matematici a un approccio concreto, diretto con i popoli oggetto di studio. La destoricizzazione dei criteri della conoscenza edifica un sapere transtorico a opera di un intellettopuro, l’universalità del metodo lo rende unica vera modalità di conoscenza del mondo, un filtro di cui si fece fatica a liberarsi in cerca di una presunta verità assoluta che questo prometteva di disvelare. La possibilità dell’esistenza di una verità assoluta, pronta a essere colta dall’intelletto umano, distratto dagli impulsi dei sensi, è confermata da Cartesio che trova nell’autoevidenza del cogito, la possibilità di cogliere un mondo qual è concepito dalla mente e da essa oggettivato, puro spazio, res extensa. In altri termini, la verità non sta nella natura percepita attraverso i sensi, non è “cosa dura o pesante o colorata o che tocca i nostri sensi in qualche altro modo”, bensì la razionalizzazione che l’uomo fa della stessa, la sua versione ideale, concettualizzata dalla mente, una versione della realtà depurata dalle interferenze dei sensi, “una sostanza che ha estensione”, misurabile, quantificabile, razionale. Il dualismo cartesiano rompe la millenaria solidarietà tra uomo e natura, certificando la nascita dell’uomo moderno e della sua idea di natura. Diversamente da Platone, per Cartesio e i filosofi moderni, l’essere non si manifesta al pensiero nella sua eterna perfezione, ma è contenuto mentale e rappresentazione: ciò che il soggetto conoscente concepisce come qualcosa di contrapposto a sé. Il mondo viene quindi risolto in immagine, fissato nella sua totalità come oggetto di conoscenza mentre l’uomo diventa soggetto, essere pensante criterio di verità del rappresentare. L’idea cartesiana dell’esistenza di una realtà, res extensa, di puro spazio, da fondamento al meccanicismo galileiano, concretizzando l’esistenza di un mondo interamente quantificabile e descrivibile attraverso il linguaggio matematico. Col procedere della ricerca scientifica, il metodo di ricerca galileiano, di deduzione matematica e quello baconiano di induzione empiristica vedono un uso talvolta alterno, talvolta complementare; dalle loro formulazioni, prende il via un cambiamento radicale della concezione della mente, che fa del corpo vivente la sola entità necessaria per comprendere il mondo, sostituendo la necessità di un’entità divina che lo disvelasse per la sua vera natura; cambia anche il concetto di causa, non più principio immanente dei fenomeni ma relazione necessaria tra gli eventi, cioè legge. L’idea di regolarità, dunque di ordine, è intrinseca al concetto moderno di natura, sia essa organica o inanimata, spiegare non significa dare la ragion d’essere dei fenomeni, ma comprendere le condizioni del loro prodursi, non significa tentare di raggiungere una verità metafisica, ma ricostruirla attraverso l’osservazione della concatenazione di fenomeni di causa-effetto. Come già notava Hume, tuttavia, nulla garantisce che il legame logico tra causa-effetto sia un legame fisico oggettivo, nulla se non il postulato metafisico (teologico o psicologico) dell’uniformità della natura che prevede che le leggi che governano il mondo fisico siano costanti nello spazio e nel tempo e universali per cui le stesse cause producono sempre gli stessi effetti, indipendentemente dal contesto specifico. Questa supposta uniformità ha come base il sostrato filosofico che prevede che la natura sia esterna all’uomo, unica, controllabile, misurabile. Una scienza naturale della società Il valore predittivo e le potenzialità operative del metodo sperimentale adombrano nel corso dell’ottocento (positivismo), il fondamento metafisico dell’impresa scientifica a favore dell’evidenza autocelebrativa dei suoi trionfi pratici. La signoria sulla natura preconizzata da Bacone non sembra lontana dall’essere raggiunta e si prefigura come un risultato necessario. La fiducia nella legalità (rapporto causa-effetto) della natura si estende alla storia e prende la forma dell’ineluttabilità del progresso. Comte fu, nel contempo, fra i più convinti assertori dell’idea di progresso, il teorico del positivismo e il fondatore della sociologia. Comte interpreta la storai come storia della scienza, identifica nelle conquiste del sapere le varie tappe di un progresso culminante nella società industrializzata della sua epoca. La scienza non sarebbe quindi un prodotto della storia, ma il principio del suo svolgimento, il motore del cambiamento, il senso del suo divenire. Formula la legge dei tre stadi (teologico, metafisico, positivo). Secondo Lowith la filosofia di Comte rappresenta la versione secolarizzata dell’escatologia giudaico-cristiana, una riedizione moderna della “storia della salvezza”. Che il progresso sia un principio immanente al corso degli eventi, non ne intacca lo spessore metaempirico ed etnocentrico. Lo sviluppo storico dell’umanità non è infatti universale, ma avrebbe il suo punto di partenza unitario e determinato nella razza bianca dell’Occidente cristiano (il cui evento capitale non sarebbe l’avvento del cristianesimo, bensì la diffusione del sapere positivo). Positivo -> dal latino positum, participio passato del verbo ponere, “ciò che è posto”, dato, effettivo, certo, concreto, reale. In quest’ottica, la razionalità scientifica e il metodo sperimentale vengono elevati a razionalità universale, non c’è altra ragione valida né altra razionalità possibile. Ci si muove nella direzione dell’analisi dei “fatti sociali”, oggetto della nuova scienza empirica di cui Comte si ritiene il fondatore. La sociologia inaugura lo studio positivo della società come ambito autonomo ma omogeneo ai fenomeni naturali, egualmente riconducibile a leggi universali di valore predittivo. Per sottolineare la continuità metodologica tra sociologia e scienze della natura, Comte parla di “fisica sociale” per via della tendenza della disciplina a spiegare economicamente il maggior numero di fenomeni con il minor numero possibile di leggi fondamentali. Nonostante ciò, la scienza effettivamente più vicina alla sociologia è la biologia che, dato il suo studio degli esseri umani, si applica meglio all’analisi di esseri umani. Il modello organico è ritenuto più adatto a rendere conto delle peculiarità del vivente. A differenza delle scienze inorganiche, biologia e sociologia infatti muovono dal complesso al semplice, dal tutto alla parte, dalla società all’individuo. Comte vede le società come necessariamente ordinate e orientate a un’organizzazione sempre più razionale, efficace e durevole. Con ciò l’ottimismo progressista di Comte si salda all’altra nozione guida della seconda metà dell’Ottocento: l’evoluzionismo. Quando l’antropologia nascerà, mutuerà dalla sociologia comtiana l’approccio epistemologico, quello di omogeneità tra soggetto e oggetto, entrambi appartenenti alla realtà umana ma non per questo non passibili di uno sguardo di indagine oggettivo. I fatti culturali sarebbero dati empirici trovati nel mondo, accessibili all’osservazione diretta e formalizzabili. La sociologia sarebbe quindi una scienza politica, lontana dagli errori speculativi della metafisica, capace di fornire gli strumenti non solo per analizzare scientificamente le società industriali ma anche per indirizzarne i cambiamenti futuri. La differenza, per Comte, tra sociologia e scienze “dei corpi bruti”, starebbe nel fatto che le seconde utilizzano come loro strumenti di ricerca l’osservazione e l’esperimento, mentre la prima privilegia i metodi delle “scienze dei corpi organizzati”, ossia comparazione e storicizzazione. Nell’antropologia, gli strumenti utilizzati saranno però in misura maggiore legati all’influenza naturalistica poiché in essa confluiranno l’eredità della storia naturale del settecento, da cui l’antropologia fisica era emersa come settore autonomo di indagine. Il modello evoluzionista L’antropologia, la scienza delle società primitive, viene elaborata nel clima positivistico dell’evoluzionismo: la teoria dell’evoluzione fornisce un potente schema sintetico per organizzare i dati raccolti, estrapolati dal loro contesto di raccolta e collocati lungo una scala di sviluppo unilineare. Le argomentazioni darwiniane ebbero un’enorme influenza sulla nascente disciplina antropologica. Darwin, riprendendo i presupposti lamarckiani della trasformazione degli organismi viventi attraverso l’adattamento all’ambiente e l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, determina che gli organismi a sopravvivere sarebbero quelli più biologicamente adatti a vivere nel contesto in cui si trovano. Nell’essere traslati alla realtà umana, tuttavia, questi principi persero l’originaria connotazione naturalistica per acquisire valenze ideologiche e politche. La potenza esplicativa della teoria evolutiva ne giustificò l’estensione a criterio ordinatore della vita in generale. Nella teoria biologica di Darwin, il termine “evoluzione” ha connotazione unicamente trasformativa, un meccanismo naturale, causale, afinalistico, spoglio di qualsivoglia implicazione morale ed etica. Spencer, al contrario, elabora una teoria del darwinismo in chiave cosmica, una dottrina filosofica che sovrappone il concetto biologico di evoluzione a quello sociologico di progresso. Spencer concepisce lo studio delle società come un campo del sapere in cui agiscono le stesse leggi che determinano il funzionamento e lo sviluppo di ciascun altro ambito della natura. Considera quindi le società in termini di superorganico e applica il darwinismo alla classificazione di tutti i sistemi politici noti, ordinati gerarchicamente in cinque stadi evolutivi: 1) società semplici senza capo; 2) società dirette con capo permanente; 3) società con gerarchie di capi; 4) società politiche; 5) società moderne. Pagina 1 di 15 Il successo della teoria dell’ineluttabilità dal progresso, che passando per Lamarck e Darwin giunge a Comte e Spencer, deriva dal suo carattere sintetico, in un’epoca di grandissimi cambiamenti e di ascesa e arricchimento della classe borghese, epoca, per altro, di confronto con realtà umane totalmente diverse da quelle dell’Occidente industrializzato, le cui forme di vita andavano quindi classificate e spiegate. La dimensione autocelebratica del positivismo sociale ed evoluzionistico ne rese facile e immediata la strumentalizzazione. La borghesia europea e statunitense legittimò il liberismo economico, parimenti l’idealizzazione della società vittoriana come apcie del progresso umano ne avallò una connotazione difettiva della differenza in termini di inferiorità e superiorità e giustificò ideologicamente il progetto colonialista indirizzato a facilitare il percorso delle società rimaste indietro nell’ascesa verso la civiltià. L’antropologia si inserisce a pieno titolo nel quadro epistemologico tracciato dalla teorie evoluzioniste multistadio di Comte e Spencer, condividendo gli obiettivi della sociologia ma dividendosi con essa gli incarichi: la sociologia si sarebbe occupata delle società industriali, mentre l’antropologia su quelle “primitive”, termine che da solo è già dichiarazione degli intenti programmatici della disciplina. Le popolazioni spazialmente lontane dall’epicentro della civiltà umana vengono retrocesse nel tempo e fissate ai gradi più bassi del processo di sviluppo. La presunta arretratezza tecnica è estesa anche all’aspetto culturale e spirituale. Inoltre, l’idea di aver raggiunto l’apice dell’ascesa evolutiva, congelava i “selvaggi” in una condizione di stasi atemporale, interpetati come i rappresentanti viventi della preistoria dell’umanità e il documento etnografico è equiparato al reperto archeologico. Non a caso, i popoli “selvaggi” venivano descritti tramite l’uso del presente etnografico, strategia discorsiva poi consacrata dal funzionalismo ed emblema di allocronia. La prospettiva evoluzionistica ha contribuito alla naturalizzazione del tempo storico, liberandolo dalle ipoteche teologiche del creazionismo e del degenerazionismo (il fissismo delle specie, d’altronde, non era compatibile con l’idea di sviluppo). Le implicazioni antiantropocentriche della teoria darwiniana resero la sua affermazione più difficile. Si riconosceva, in ogni caso, a tutti gli esseri viventi, il possesso del “lume della ragione”, un principio di unità che accomunava gli uomini tutti e che ne permetteva lo studio. Questo postulato porta alla concezione, non solo di diversi gradi di razionalità, ma anche di culture plurali e diverse. Poiché tutti i popoli venivano ritenuti produttori di cultura in virtù del possesso delle stesse capacità mentali di base, si iniziano a indagare le differenze presenti. Queste teorie si sostituiscono alle dervie razziste che vedono nel selvaggio l’emblema della degenerazione dell’uomo privo di grazia divina. Gli informatori a distanza La separazione tra teoria e dati, rinforzata da Cartesio, dalla sua separazione tra mondo esterno e universo interiore, fondata sui principi galileiani, newtoniani e baconiani di una realtà misurabile e oggettificabile, prevedibile e traducibile in linguaggio matematico-empirico, è elevata dal positivismo a suprema istanza normativa. Si assume che l’sservatore rispecchi in maniera fedele e diretta la realtà. Nel caso dell’antropologia questa impostazione ha prodotto una contrapposizione tra il momento semplicemente descrittivo della ricerca, l’etnografia, e il sapere teorico di ordine superiore, l’antropologia. Un movimento dal particolare al generale, in altre parole atto alla formulazione nomotetica di leggi universali. Il campo è un laboratorio per la raccolta di dati rielaborati successivamente. Poiché, nell’ottica positivista, i fenomeni sociali era possibile coglierli al pari di ogni altra informazione in maniera chiaramente oggettiva, non ci si pose alcun problema circa le modalità di raccolta dei dati né tantomeno si analizzò criticamente l’approccio metodologico, ritenuto di per sé non problematico. La separazione tra etnografia e antropologia si esprime nella forma più netta alla fine del XIX secolo mediante una precisa differenziazione di ruoli e di compiti fra raccoglitori-osservatori (viaggiatori, esploratori, missionari, amministratori coloniali, commercianti) ed esperti teorici. Gli osservatori fornivano informazioni di prima mano seguendo le indicazioni riportate in appositi questionari a istituzioni antropologiche come l’Ethnological Society, il Royal Anthropological Institute of London e la Société Ethnographique de Paris. La divisione del lavoro venne istituzionalizzata dalla figura dell’official correspondent. I corrispondenti non dovevano avere alcuna preparazione pregressa di natura teorica o metodologica. Si riteneva che l’oggettività fosse farantita dalla neutralità dell’osservatore. La creazione di questi importanti centri di ricerca diede un forte impulso alla ricerca sul campo. Walter Baldwin Spencer fu uno dei principali informatori a distanza. Naturalista postdarwiniano, professore di biologia, l’importanza del suo ruolo in antropologia è collegata al progetto scientifico del museo Pitt Rivers di Oxford. L’obiettivo del museo era quello di costruire una collezione di cultura materiale che permettesse di mostrare l’evoluzione di diverse tipologie di oggetti, dalle loro forme più primitive a quelle contemporanee. Partecipò, Spencer, come zoologo alla Horn Expedition nel deserto centrale australiano. In quell’occasione cominciò a raccogliere materiale etnografico sugli aborigeni e approfondì il suo interesse per l’antropologia. Conobbe inoltre Francis James Gillen. Si concentrò in particolare sugli arunta australiani, con cui ebbe un proficuo sodalizio di ricerca. Presso gli arunta, si servì del supporto di Gillen, che raccoglieva informazioni per Spencer il quale, da Melbourne, gli inviava domande di tipo evoluzionistico sulle classi matrimoniali al fine di verificare il lavoro di altri informatori a distanza, i missionari Fison e Howitt. Fison e Howitt costituiscono un altro esempio significativo di etnografi corrispondenti. Collaborarono, oltre che con Morgan e Frazer, anche con Taylor e, appunto, Spencer. I due missionari, pervennero a una conoscenza approfondita di alcuni gruppi aborigeni in virtù del loro lavoro di informatori, durato a lungo. Produssero uno dei primi resoconti monografici su due tribù australiane. Dal titolo Kamilaroi and Kurnai, la monografia si occupava di queste due comunità. Pubblicata nel 1880, vede riaffiorare i postulati evoluzionisti, relegando le due tribù a uno stadio di forme primitive di vita umana. Anche Spencer e Gillen, oltre a operare come informatori, redassero alcune opere importanti. Tra queste, si distinguono The Native Tribes of Central Australia del 1899 e The Northern Tribes of Central Australia del 1904. Pur organizzando il materiale raccolto all’interno del modello evoluzionista, questi lavori non sono ancorati alle categorie fornite dai questionari e si rivelano più raffinati e approfonditi per gli standard del tempo. Sono considerati un’anticipazione dello stile monografico moderno. Il loro impatto sull’antropologia fu rilevante e i loro studi supportarono il lavoro di molti antropologi a seguire. La figura dell’antropologo armchair esprime l’impostazione metodologica positivista dell’epoca. Da un lato lo studioso elabora le leggi evolutive del progresso umano, dall’altro il corrispondente, senza alcuna competenza teorica pregressa, raccoglie dati per l’utilizzo di antropologi che scrivono senza aver avuto una conoscenza diretta di ciò su cui realizzano opere. Come rileva Evans-Pritchard, fino alla fine del XIX secolo, non un singolo antropologo aveva condotto una ricerca sul campo. Questo dato è però diretta conseguenza dei paradigmi scientifici dell’epoca. Il postulato dell’unità psichica del genere umano, impugnato contro le derive razziste e degenerazioniste, rappresenta l’anticipzione teorica più significativa per orientare gli studiosi verso la ricostruzione del processo di sviluppo complessivo della cultura. I selvaggi, in tal senso, sono considerati i rappresentati contemporanei dell’età della pietra, da studiare non per il loro valore intrinseco, ma in quanto modelli delle origini della civilizzazione, punto di esordio di una sequenza di sviluppo universale. La raccolta di informazioni sui popoli primitivi è funzionale a un impegno speculativo che gli scienziati metropolitani possono realizzare a tavolino. È significativa a tal propostio l’incredibile mole di dati raccolti e il carattere omologante della loro elaborazione statistica e comparativa. Si procede, quindi, anche a un lavoro di generalizzazione e decontestualizzazione dei dati raccolti, i quali non sono ricollocati nel contesto da cui vengono raccolti, bensì inseriti all’interno di schemi di classificazione universale in cui le variabili, ritenute insignificanti, interessano unicamente per le loro correlazioni nell’ottica di creare un ordine evolutivo I questionari La creazione di importanti enti di ricerca consolidò la differenza tra antropologi armchair e corrispondenti sul campo. Si affermò il metodo del questionario antropologico, redatto dagli armchair anthropologists e poi fornito ai ricercatori sul campo. Si tratta di elenchi di domande centrati sulle diverse problematiche che poi sarebbero state oggetto di elaborazione da parte degli studiosi. L’obiettivo era quello di raccogliere il più rapidamente possibile informazioni su culture e società considerate in via d’estizione sotto l’impatto della civiltà europea. Tale urgenza influenzò le modalità di raccolta delle informazioni e quindi la loro qualità. I questionari si diffusero oltremodo con i viaggi esplorativi dei secoli successivi. Di struttura scarna ed essenziale, i questionari erano destinati a guidare con rigidità la raccoltà dei dati. Nel 1839, la British Association for the Advancement of Science (BAAS), istituì una commissione incaricata di elaborare una serie di domande da inviare a viaggiatori o residenti nelle parti del globo abitate da “razze minacciate”. Nel 1831, stesso anno di fondazione della BAAS a Londra, venne fondata la Société Ethnologique de Paris che nel 1840 pubblicò un breve saggio intitolato Instruction générale addressée aux voyageurs che fu fonte di ispirazione per i lavori della BAAS che infatti riprese molte delle domande incluse nel pamphlet francese e le incluse nel manuale di ricerca intitolato Queries Respecting the Human Race To Be Addressed to Travellers and Others del 1841, manuale poi riprodotto nel 1852 dalla Ethnological Society con titolo A Manual of Ethnological Enquiry Being a Series of Questions Concerning the Human Race (l’Ethnological Society fu fondata proprio dalla BAAS ed aveva proprio l’obiettivo di raccogliere dati etnografici e promuovere l’avanzamento dell’etnologia). La raccolta di dati etnografici con questionari fu promossa dalle istituzioni di cui sopra e da studiosi come Frazer ed Morgan i quali redassero anche autonomamente i loro questionari. Entrambi, in questo modo, ebbero relazioni importanti con Howitt e Fison. Morgan, già conosciuto per i suoi studi sulla discendenza presso gli irochesi nel 1862, diffuse un questionario per approfondire i rapporti e le terminologie di parentela in Asia e Oceania. La diffusione del suo questionario ebbe l’appoggio della Smithsonian Institution di Washington, fondata nel 1846. I dati raccolti gli permisero di redigere Systems of Consaguinity and Affinity of the Human Family del 1871. Frazer realizzò a sua volta un importante questionario redatto più volte tra 1887 e 1916 con il titolo Questions on the Manners, Customs, Religion, Superstitions ecc. of Uncivilised or Semi-civilised Peoples. Queste 187 domande si occupavano di relazioni sociali, sulle forme di totemismo, sulle varie fasi della vita (infanzia, pubertà…), relazioni tra sessi, matrimonio, malattia, morte, forme di sussistenza, ma scarsa attenzione alla cultura materiale. V’erano poi domande sui rapporti con le altre comunità, sulla sfera simbolica, su quella concettuale. Si studiano anche i saperi locali in termini di aritmetica, astronomia, scienze, sfera magica e religiosa. Grazie a Questions on the Manners… e in particolare alle domande sulla sfera magica e religiosa, Frazer poté pubblicare Il ramo d’oro (1890) e Totemismo ed esogamia (1910). Nelle spedizioni, che andavano via via diventando sempre più frequenti, l’interesse per tematiche antropologiche era però secondario. Solo nel 1872 una spedizione si dota di un questionario antropologico specificamente redatto per l’occasione. In quell’anno, il governo inglese pianificò una missione nell’Artico e si rivolse al Royal Anthropological Institute, un organismo della Ethnological Society (a sua volta branca della BAAS). Nel 1873, l’Institute pubblico le Questions for Explorers (with Special Reference to Arctic Exploration). La redazione di lavori così mirati, indusse la BAAS a considerare l’opportunità di affidare a una nuova commissione la preparazione di una guida di carattere più generale. Nel 1874 la BAAS e il Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, che sostituì la Ethnological Society chiusa nel 1871, produssero la più importante pubblicazione di questo tipo: le Notes and Queries on Anthropology. Le Notes and Queries furono redatte in quattro edizioni: 1874, 1892, 1899, 1912, poi riprodotte senza cambiamenti significativi fino al ’51 e ristampate fino al ’71. Segnarono la ricerca per più di mezzo secolo, diventando un riferimento imprescindibile per i corrispondenti che collaboravano con gli antropologi armchair. Nate come strumento di supporto al lavoro di corrispondenti inconsapevoli delle implicazioni teoriche del processo di raccolta dei dati, sono divenute successivamente un mezzo per organizzare i risultati delle osservazioni svolte dai primi studiosi direttamente sul campo. Sopravvissero, in altri termini, persino svolte metodologiche massicce. Pagina 2 di 15 Sebbene molte domande fossero ispirate ai questionari redatti fino a quel momento, furono realizzate in modo molto più ampio e dettagliato. L’obiettivo della prima edizione del 1874 era quello di “promuovere un’accurata osservazione antropologica da parte dei viaggiatori, e di permettere a coloro che non sono antropologi di ottenere le informazioni necessarie allo studio scientifico dell’antropologia in patria”. In maniera significativa, il testo mette in evidenza le imprecisioni dei resoconti passati allorché i viaggiatori avevano riferito solo le cose che le loro conoscenze scarse o nulle gli avevano permesso di raccogliere. L’informazione ottenuta in questo modo, stando a quanto detto nella prima edizione, è “stata distorta al fine di metterla in sintonia con idee preconcette. False teorie sono spesso costruite su imperfette basi induttive”. La prima edizione uscì a soli tre anni da Primitive Culture di Tylor (1871) dove si sanciva la centralità del concetto di cultura. Le Notes and Queries furono profondamente influenzate da questo scritto come, d’altronde, l’intera antropologia britannica. La prima edizione fu redatta da studiosi come Lubbock, Evans, Galton e lo stesso Tylor che muovevano dalla convinzione che l’antropologia fosse una scienza naturale come le altre. Il manuale del 1874 è organizzato in tre sezoni, una sull’antropologia fisica, una sulla cultura e un’ultima definita “miscellanea”. L’influenza di Tylor determina la concezione di cultura, ritenuta un insieme scomponibile di parti. La sezione dedicata alla cultura nelle N&Q è infatti divisa in settantacinque voci, ciascuna per un argomento specifico da approfondire attraverso numerose domande, alcune generali, altre molto circostanziate. In questa sezione, il tema religioso era di rilevanza capitale a sfavore delle domande sulle relazioni sociali. Lubbock si occupò di una sezione sul matrimonio dove venivano elencati i termini da utilizzare per le indagini e i legami di parentela su cui concentrarsi. Alcuni erano di natura piuttosto semplice, molti altri invece erano piuttosto complessi: si arrivava a domande, che i corrispondenti dovevano porre ai nativi, come “chi è la trisnipote della sorella di tua madre?”, una meticolosità che scoraggiò la raccolta dei termini di parentela. La seconda edizione del 1892, lascia intendere col suo sottotitolo, un moto di crescente professionalizzazione del lavoro di ricerca. Il sottotitolo recita infatti: A Guide to Anthropological Research for the Use of Travellers and Others invece di For the Use of Travellers and Residents in Uncivilised Lands (ed. 1874). Questo cambiamento è in parte indicazione del progressivo esaurirsi della netta separazione dei ruoli fra ricercatore sul campo e antropologo armchair. L’opera si apre poi con una definizione di antropologia, divisa in antropografia ed etnografia, due definizioni che mettono in evidenza che ai tempi l’etnografia non era ancora concepita come ricerca sul campo, bensì come un’attenzione alla cultura dei popoli, contrariamente all’antropografia che si occupava invece dell’analisi dell’uomo dal punto di vista puramente animale, dunque evolutivo. Significativo è però che in questa edizione si sottolinei per mano di Read, direttore del dipartimento di Etnografia del British Museum, che per acquisire una piena comprensione della vita nativa era necessario un contatto prolungato con gli interlocutori. Preconizza anche l’uso della disciplina da parte delle amministrazioni coloniali nell’ottica però di evitare “i disaccordi che nascono dall’ignoranza dei pregiudizi e delle credenze native”. La commissione dell’edizione del 1892 fu ugualmente diretta da Tylor e non si parlò neanche in questo caso di metodologia di raccolta dei materiali. Ci si limita a formula domande più o meno dettagliate, con ampio spazio alla cultura materiale, ma con ancora scarsa attenzione alle relazioni sociali. Questa seconda edizione consacra il successo delle N&Q tant’è che nel 1899 venne ripubblicato senza modifiche. Si unirono alla commessione anche Pitt Rivers, Frazer e Tylor rimase a capo. Negli anni successivi però le idee di Tylor persero seguito come anche le teorie evoluzionistiche ottocentesche. Si era anche concluso il periodo delle grandi esplorazioni, missionari e viaggiatori vennero gradualmente sostituiti da ufficiali coloniali che agivano da corrispondenti degli antropologi. Gli ufficiali coloniali si concentravano su rapporti circa gli apparati legislativi e istituzionali, mentre missionari, viaggiatori, residenti e commercianti continuavano a interessarsi a questioni sui sistemi di credenze e sul linguaggio. La terza edizione del 1899 segna anche il passaggio da teorici come Tylor, Pitt Rivers e Lubbock ai naturalisti Haddon, Seligman e Rivers che animarono le due Torres Straight Expeditions. L’edizione del 1912 segna la professionalizzazione del metodo e delle N&Q, uno cambiamento sancito dall’allontanarsi di Tylor come figura guida e il subentrare di Barbara Freire-Marreco (Mrs. Aiken) e di Myres. Questa edizione sottolinea che non si tratta di una guida per viaggiatori ma di un manuale per una nuova generazione di antropologi che fondano le loro ricerche su uno studio approfondito dei metodi delle scienze esatte. Ci fu un grosso cambiamento anche dal punto di vista stilistico, le domande-guida rigide sono sostituite da una forma più narrativa che potesse fornire definizioni accurate dei termini e dei concetti. Il libro si divide in quattro sezioni: antropologia fisica, tecnologia, sociologia, arti e scienze. Nel capitolo finale sulla cultura, l’influenza di Tylor resta decisiva, ci si concentra maggiormente sulla sociologia, meno sull’antropologia fisica e sparisce l’archeologia. La sezione di sobiologia è persino introdotta da Rivers che sottolinea l’importanza di una corretta metodologia di raccolta del materiale che passa per l’apprendimento della lingua, la capacità di prendere appunti e il fare schizzi. Intere pagine di consigli su come raccogliere i dati sostituiscono le liste di domande. Si introducono sezioni di economia e diritto. È presente anche un ringraziamento a Malinowski che lo rifiuta e rigetta l’utilità dell’opera delle N&Q. Ai tempi si era già allontanato dal lavoro di Rivers. Statistica e metodo comparativo La definizione della cultura come sommatoria di tratti discreti e scomponibili serve a Tylor per elaborare una scienza naturale dell’evoluzione culturale. I differenti livelli di sviluppo dell’umanità sono stabiliti attraverso la “correlazione statistica” e le “variazioni concomitanti” di variabili opportunamente selezionate. L’applicazione della statistica all’antropologia si fonda sui presupposti delle possiblità limitate e dell’unità psichica del genere umano, mira a elaborare un modello di classificazione ispirato alle tassonomie naturalistiche. Tylor crea un modello che si fonda sulla distribuzione statistica di frequenza delle variabili. La distribuzione indica il numero di volte in cui si presenta il fenomeno, le variabili sono invece una serie elementi culturali, quelle prescelte sono le usanze matrimoniali e le regole di discendenza. L’analisi comparativa della loro distribuzione serve per definire “un’artimetica sociale”. Privilegiando il numero di casi raccolti piuttosto che il loro approfondimento idiografico, l’antropologo organizza in un momento successivo e in maniera sistematica il flusso dei dati inviati dai corrispondenti. Il singolo caso ha rilevanza solo se messo in comparazione agli altri al fine di permettere la ricostruzione di un quadro di insieme e alla formulazione di leggi generali sull’evoluzione sociale e culturale. Esempio dell’incedere della ricerca di Tylor è quello del costume dell’evitamento (avoidance), ossia il divieto di uno o entrambi i coniugi di interagire con alcuni membri della propria o dell’altrui famiglia. Il dato di partenza dunque è il seguente: di 350 popolazioni, 66 presentano casi di evitamento, dato messo poi in tabella. Comparando questa tabella con quella sui dati relativi alle modalità di residenza nelle stesse 350 popolazioni, Tylor nota l’esistenza di una relazione tra questo costume e il tipo di evitamento prescritto, infatti, dei 65 casi in cui il marito risiede presso la moglie, in 14 di essi il coniuge mette in atto una forma di evitamento nei confronti dei membri della famiglia di lei. Osserva Tylor che se questo dato fosse casuale, i casi dovrebbero essere solo 9, non 14. La sua ricerca procede dunque in questa maniera e termina con la realizzazione che l’evitamento rituale dei membri della famiglia della moglie da parte del marito è in relazione con la residenza uxorilocale (con la famiglia della moglie). Al contrario, l’evitamento rituale dei membri della famiglia del marito da parte della moglie è in relazione alla residenza virilocale (con la famiglia del marito). Tylor arriva a questi numeri applicando la statistica, calcola nello specifico, quante volte ci si può aspettare che le conclusioni che trae siano il risultato di casualità e determina, dunque, che poiché la legge matematica lo sostiene, che la sua verità è tale e che merita per questa ragione un approfondimento antropologico. Spetta dunque poi all’antropologo determinare le ragioni di questi risultati numerici. Tylor ipotizza una della cause sia la volontà di marcare la distanza tra membri di una famiglia rispetto al nuovo arrivato. L’obiettivo, in ogni caso, non è quello speculativo, ma quello di fornire un fondamento scientifico obiettivo. Questo tipo di approccio assume un’importanza fondamentale a sostegno dell’evoluzionismo. Qualora si incontri un costume che sembri confutare i dati raccolti, questo viene interpretato come una sopravvivenza di un’epoca precedente. Ad esempio, i casi in cui al marito viene impedito il contatto con i membri della famiglia della compagna nonostante la residenza virilocale sono considerati come rimasugli di uno stadio evolutivo precedente, mentre la residenza presso la moglie è uno stadio evolutivo più recente. La specificità del metodo di Tylor, insomma, consiste nella formulazione di leggi evolutive di portata universale attraverso un’accorta comparazione di variabili culturali sulla base di relazioni statisticamente rilevanti. Il lavoro di Morgan, si discosta in modo piuttosto evidente da quello di Tylor sia per la scarsa attenzione agli aspetti puramente metodologici e tecnici sia per l’obiettivo di individuare i livelli di complessità delle diverse tecniche di sussistenza. Il suo lavoro di comparazione si fonda su ricerche condotte in Europa, Asia, America e Oceania utilizzando un questionario da lui ideato e compilato da informatori a distanza. Adopera anche i dati da lui direttamente raccolti in alcune riserve indiane in Kansas e Nebraska. I risultati di questo duplice lavoro servono per comparare sistemi diversi di parentela che confluiranno poi in Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family (1871). Nel libro, Morgan stabilisce una distinzione tra due grandi gruppi di sistemi di parentela fondati su due modelli di designazione dei parenti consanguinei. I sistemi di parentela classificatori, come quello irochese, prevedono che i parenti consanguinei in linea collaterale non siano distinti da quelli in linea diretta (il fratello del padre è comunque un padre). I sistemi di parentela descrittivi, come quello occidentale, prevedono che i parenti consanguinei in linea collaterale vengano invece identificati in modo diverso rispetto a quelli in linea diretta. Secondo Morgan, le nomenclature della parentela designano differenti fasi di sviluppo della società umana e, come nel caso delle sopravvivenze di Tylor, permettono di stabilire gli stadi dell’evoluzione. Per cui, società fondate sui rapporti di parentela sono considerate risalenti al periodo barbaro, le società fondate su rapporti politici, invece, rientrano nella civiltà. La ricostruzione dei sistemi di parentela viene inoltre collegata con la possibilità di riprecorrere lo sviluppo dell’istituzione familiare, i tipi di unione matrimoniale e, nel fare ciò, creare una scala di evoluzione gerarchica, al cui apice, inevitabilmente, vi sono le famiglie occidentali di tipo descrittivo, un passaggio dalla “promiscuita originaria” in cui è impossibile riconoscere le regole per l’accoppiamento e il riconoscimento dei figli, fino alla famiglia monogamica in cui è possibile descrivere con precisione i rapporti dei membri che vi appartengono. Delinea, Morgan, anche gli step evolutivi delle famiglie, la cui transizione va dalla famiglia consanguinea, dove il matrimonio avviene anche tra fratelli e sorelle, alla famiglia punalua, in cui vige il divieto di matrimonio tra fratelli e sorelle, la famiglia sindiasmiana, dove le coppie nascono e si sciolgono spontaneamente, la famiglia patriarcale e, infine, la famiglia monogamica dove v’è formale uguaglianza tra i coniugi. Morgan articola in maniera innovativa articola questo schema evolutivo con le analisi delle tecniche di sussitenza che considera il motore principale dell’evoluzione di tutta la società e delle sue istituzioni. Morgan definisce le fasi di sviluppo delle varie epoche attraverso le invenzioni caratteristiche di ciascun periodo (stadio selvaggio -> caccia, pesca, raccolta, nomadismo ; stadio barbarico -> agricoltura e allevamente ; stadio civile -> produzione industriale). Questo schema sarà ripreso da Engels e in diversa letteratura marxista per via della sua coerenza con la concezione materialistica. Insomma, anche Morgan riproduce una traiettoria evolutiva universale e unica, non differenziata e in quest’ottica il suo lavoro è particolarmente efficace nella classificazione dei dati raccolti con questionari, che siano stati redatti e somministrati da lui o meno. 2. Il lavoro sul campo L’etnografia professionale moderna Sul finire del XIX secolo, la ricerca etnografica ricevette un grande impulso da programmi che prevedevano una raccolta sistematica di dati in zone specifiche, perlopiù su base regionale. Nel 1884, venne promosso un progetto relativo alla costa del Pacifico canadese che ebbe grande impatto sugli sviluppi dell’antropologia. Nel 1892 fu varato un programma per la realizzazione dell’Ethnographic Survey of the United Kingdom. Questo progetto mirava alla raccolta sistematica di dati di tipo fisico, etnologico, archeologico, folklorico nelle Isole Britanniche. Negli stessi anni, ci si rivolge anche all’India, un’analisi decisamente più complessa di quella svolta in patria. Il risultato fu una monumentale opera di ricerca, l’Imperial Gazetteer of India. Gli storici della disciplina considerano il decennio iniziato nel 1880 come il periodo di separazione tra l’etnografia professionale moderna e le precedenti esperienze di contatto fra europei e popolazioni “primitive”. A partire da questi anni, l’etnografia ha acquisito un’importanza crescente sia dal punto di vista professionale che metodologico. Le modalità di raccolta dei dati utilizzate fino ad allora iniziavano a dimostrare i loro limiti. Le domande dei questionari, benché spesso molto specifiche, risultavano spesso tanto difficili da porre, soprattutto se non si conosceva la lingua locale. Spesso poi i raccoglitori non ne comprendevano l’importanza, la rilevanza, il significato non avendo adeguate conoscenze e non le riferivano ai locali per queste ragioni. Pagina 3 di 15 Si cominciano a modificare le modalità di acquisizione (e produzione) della conoscenza dell’antropologo armchair e sempre più scienziati si recano sul campo per ottenere informazioni di prima mano. L’istituzionalizzazione accademica della disciplina e la possibilità di spostarsi più rapidamente ed economicamente nei domini coloniali, concorsero a produrre questo cambiamento. Nel frattempo, le amministrazioni coloniali cominciavano a mostrare maggiore interesse per l’organizzazione sociale e politica dei popoli soggiogati. Gli antropologi cominciano a scandagliare meglio questo aspetto della vita delle comunità che studiavano piuttosto che rifarsi a speculazioni di natura evoluzionistica. Lavorando maggiormente sul campo, si comprende che i “selvaggi” presentavano una disorientante complessità, ben lontana dalle norme omogenee e universalizzanti formulate da buona parte degli antropologi evoluzionisti. Le differenze cominciano ad avere maggior rilievo sostituendosi all’attenzione dedicata a una presunta uguaglianza di fondo tra tutti gli esseri umani. Gli scienziati, spesso di provenienza naturalistica, insoddisfatti dei dati di seconda mano, cominciano ad andare sul campo in prima persona. Lavoravano all’interno di grandi spedizioni multidisciplinari per l’esplorazione di vaste aree o regioni, le surveys. Lo studio della distribuzione delle forme di vita si affiancava all’analisi degli aspetti culturali, di solito ci si concentrava su aree linguistiche omogenee, l’estensione del campo era determinata da questo aspetto. Continuavano ad essere usati questionari e analisi statistiche poiché le aree erano piuttosto estese e perché le surveys erano appoggiate dalle amministrazioni coloniali, le quali richiedevano ricerche geografiche per individuare insediamenti e risorse minerarie nonché per raccogliere informazioni di natura culturale sulle popolazioni dominate. Solo in seguito iniziarono opere di lavoro intensivo, focalizzate cioè su gruppi specifici per periodi di tempo prolungati. Il riassorbimento della distinzione tra soggetto raccoglitore dei dati e soggetto eleboratore degli stessi non cambia però, come anticipato in precedenza, il fatto che ci si appoggiava a modalità di ricerca che facevano affidamento a questionari e calcoli statistici, né pone rimedio alla distinzione epistemologica tra la dimensione pratica della raccolta dei dati e quella teorica della loro analisi. Decisive per le questioni metodologiche furono le successive proposte dei nuovi etnografi naturalisti delle Torres Strait Expeditions, in particolare l’intensive method di Haddon a cui si deve il primo utilizzo in antropologia del termine fieldwork. L’antropologia comparata e la scienza d’osservazione La Société des Observateurs de l’Homme, fondata da Jauffret nel 1799, aveva il proposito di promuovere lo studio scientifico del genere umano applicando i metodi delle scienze della natura e avvalendosi di studiosi di diverse discipline. L’obiettivo era quello di portare avanti un’antropologia comparata affiancando il lavoro degli studiosi delle civiltà del passato con quello dei viaggiatori/ ricercatori (informati). De Gérando, che scrive per gli observateurs (nel 1800) in partenza, sottolinea che il “tempo dei sistemi è trascorso” e che è necessaria un’osservazione diretta. Sottolinea altresì che lo studio dell’uomo è una scienza d’osservazione al pari di ogni altra scienza naturale, una scienza che raccoglie i fatti e li compara per meglio conoscerli, il tutto rimanendo comunque in ottica evoluzionista: “il viaggiatore filosofo che naviga verso le estremità della della terra ripercorre in effetti il cammino dei tempi; viaggia nel passato”. Dunque, già nel 1800, l’antropologia francese, come dimostra questo testo di De Gérando, si interessava di questioni che l’antropologia britannica toccò solo molti anni dopo come la necessità di inserire all’interno di una scala evolutiva la diversità umana. Inoltre, dal punto di vista metodologico, questo testo offre altre importanti riflessioni. Essendo indirizzato al “viaggiatore filosofo” sottolinea, quasi cento anni prima che una figura come questa possa realmente affermarsi, che il viaggiatore non deve essere vuoto di contenuti teorici ma, al contrario, egli deve essere informato, i dati, in altri termini, vanno raccolti in prima persona, lo sottolinea lo stesso De Gérando. De Gérando si allinea all’approccio empirico-naturalista e stabilisce il primato dell’esperienza basata sull’osservazione scrupolosa, l’induzione e l’esperimento. Critica la brevità dei soggiorni, lo scarso rigore nell’annotazione delle particolarità, la loro mancata organizzazione in tabelle, l’essersi concentrati su gruppi troppo ampi ed eterogenei. In ogni caso, anche trovando soluzione a questi problemi, difficilmente si riuscirebbe a produrre testi di valore poiché coloro che si procuravano i dati, gli osservatori erano essenzialmente ignoranti, spesso incapaci di raccoglierli nella maniera adeguata perché non formati (anche nel prendere appunti, dote che DG ritiene essenziale e che potrebbe modificare i risultati della ricerca qualora condotta in maniera incorretta). Anche la questione linguistica assume un ruolo centrale nelle Considerazioni di DG. Dunque, osservatori formati, metodo induttivo per raggiungere la formulazione di leggi universalmente valide. Sottolinea poi, sempre DG, che “far ragionare il selvaggio secondo il nostro modo di ragionare” allontana il viaggiatore-filosofo da quei fatti fondati sull’esperienza a cui dovrebbe invece attenersi, senza giustapporre all’osservazione giudizi derivanti da un codice morale non necessariamente condiviso dai popoli “primitivi”. DG mostra altresì una certa sensibilità storica riconoscendo che certi eventi trascorsi possono aver condizionato il tipo di relazione che è possibile instaurare con le popolazioni oggetto di indagine: conquiste ed eventi bellicosi non sono accadimenti neutri! DG sfiora così questioni che l’antropologia tematizzerà quasi due secoli dopo riconoscendo la natura non neutrale dell’esperienza di campo, le asimmetrie di potere, persino l’empatia malinowskiana (l’abbandono del proprio modo di ragionare in favore di un avvicinamento a quello del popolo in questione, l’apprendimento della loro lingua ritenuta specchio del pensiero…). Le idee di DG erano ampiamente condivise all’interno della Société. Ciò fa emergere una notevole differenza fra l’antropologia anglosassone e quella francese che però rimase lungamente ignorata, soprattutto dagli inglesi anche per via del fatto che il programma scientifico della Société fu bruscamente interrotto nel 1805 a seguito del mutato clima politico dell’epoca. Le decisioni napoleoniche di sostenere solo gli ambiti ritenuti utili al progresso di uno stato centralizzato e burocratico, quindi discipline tecniche, portarono alla soppressione di istituzioni come la Société, giudicate inutili e persino dannose. Le idee della Société sopravvissero in parte nelle prime guide per viaggiatori, esploratori, antropologi diffuse nelle Isole Britanniche ma i “viaggiatori filosofi” auscipati da DG, erano lontani dalla pratica dell’antropologia evoluzionista inglese e vi rimase distante sostanzialmente fino alla fine del secolo. D’altronde nel 1871, anno di pubblicazione di Primitive Culture, il consenso circa la necessità di scindere studioso e teorico era pressoché unanime. Il metodo interno Negli USA l’antropologia si professionalizzò (scissione tra osservatori e teorici) ben prima che in GB. Questo fu dovuto alla westward expansion, alle ferrovie e alla necessità di dare vita a un’antropologia fondamentalmente interna. I popoli “bizzarri”, gli statunitensi, ce li avevano in patria. Si focalizzarono quindi su su culture indigene autoctone. Anche negli USA, uno dei motori principali per la raccolta di informazioni sui nativi fu l’interesse delle politiche amministrative. La distinzione tra teorici e osservatori fu meno netta che in GB ma comunque presente anche se per un periodo piuttosto limitato e non su larga scala. Non vi fu un’analisi metodologica paragonabile a quella francese, ma comunque diversi lavori furono pioneristici. Gran parte della ricerca etnografica condotta in America nella prima metà del Novecento è stata effettuata individualmente attraverso brevi e ripetute visite volte a coprire un lasso di tempo piuttosto lungo. I ricercatori si concentrarono su problemi particolari, suggeriti da musei e varie altre istituzioni promotrici. Questo costrinse gli antropologi americani a lavorare per brevi periodi con pochi informatori competenti, registrando le loro memorie ma trascurando di partecipare alla vita quotidiana del gruppo. Negli USA la ricerca sugli indiani fu sostenuta dal governo federale. Gran parte delle indagini, condotte inizialmente da funzionari, missionari ed esperti a diretto contatto coi nativi, fu pubblicata dal Bureau of American Ethnology (BAE) e dalla Smithsonian Institution. Figura rilevante in questa fase embrionale fu Schoolcraft, funzionario del Ministero per gli Affari indiani e collaboratore della Smithsonian Institution e fondatore dell’American Ethnological Society. Fece spedizioni esplorative fra le tribù nordamericane già dalla prima metà dell’Ottocento e raccolse una grande mole di materiale che lo portò a realizzare uno studio enciclopedico dei “red men” andando a toccare anche temi come demonologia, stregoneria e magia oltre che i saperi medici. Fece molta attenzione all’aspetto linguistico redigendo liste di termini indigeni e raccogliendo miti e testi poetici. Produsse anche una lista di domande. Il BAE, fondato nel 1879, fu collocato all’interno della Smithsonian Institution, entrambi controllati dal governo federale e atti a raccogliere e pubblicare informazioni sugli indiani. I lavori di queste due istituzioni promotrici, in ogni caso, anche se di valore, erano decisamente subordinate alle volontà del governo centrale; le informazioni venivano raccolte con questionari e guide ma anche con ricercatori che andavano sul campo in prima persona. Cushing fu un etnografo che lavorò in questo contesto facendo esperienza di campo in prima persona. Viene considerato tra i preconizzatori dell’osservazione partecipante. Lavorò fra gli zuni molto a lungo. Inizialmente doveva recarvisi unicamente per portare avanti studi di natura anonima, fortemente quantitativi, rimase poi presso di loro preoccupato di preservare una forma di vita che reputava in estinzione. Non aveva formazione teorica, ma le sue capacità empatiche gli permisero di essere accolto tra gli zuni e di diventare membro di una ristretta cerchia di sacerdoti. L’esperienza di Cushing rappresenta la realizzazione di ciò che Lévi-Strauss paventava, ossia l’assorbimento definitivo dell’osservatore da parte dell’oggetto osservato, tema non problematizzato da Cushing. Il suo metodo lo definiva internal method, costituito da una combinazione di analisi linguistica, osservazioni quotidiane e intuizioni personali. Per Cushing, lo studio dell’etimologia attraverso la raccolta di storie e miti locali è la chiave d’accesso alle strutture mentali delle culture indigene. Cushing fu però un caso raro, un’eccezione alla regola poiché i suoi colleghi della Smithsonian Institution. Lo standard antropologico di quel tempo costituito dalla trascrizione delle interviste a informatori chiave. Gli antropologi del BAE portavano spesso a Washington i loro informatori. Cushing si muoveva in modo radicalmente opposto, vincendo diffidenza e ostilità degli zuni. I risultati ottenuti dal BAE, spinsero la BAAS a istituire nel 1884 una commissione per promuovere una ricerca sugli indiani canadesi, in particolare nel Nord-Ovest, nella regione dei Grandi Laghi. La BAAS preparò un testo finalizzato allo studio di questi popoli, una guida specifica. Tylor ne fu il principale ideatore. In questa guida si invita, piuttosto che a fare domande, a osservare e cercare poi il significato di ciò che si stava vedendo. Si sottolinea anche l’importanza della lingua. Questa commissione fu solo una delle tante nate in questo periodo e sono rilevanti per via dei ricercatori che vennero scelti per guidarle, tra questi, Boas il quale fu scelto anche per colmare il divario tra momento teorico e momento osservativo. Boas studiò le culture native ritenute in rapida estinzione. Raccolse artefatti e testi nelle lingue originali. Lavorò tra i kwakiutl, i chinook e i tsimshian. Il suo orientamento filologico lo mutuò dalla sua tradizione di studi europei. In ogni caso, si schierò apertamente contro le surveys, contro i questionari e contro l’evoluzionismo. Non amava le comparazioni su larga scala degli armchair anthropologists né amava la loro idea che le somiglianze, qualora presenti, potessero essere interpretate come prova di un’uniforme modalità di funzionamento della mente umana piuttosto che come il segno tangibile dell’esistenza di connessioni storiche tra popoli differenti. Credevano, secondo Boas, che fenomeni etnologici simili fossero dovuti alla medesima causa (diverso stadio evolutivo), trascurando di considerare elementi storici contingenti e riducendo la diversità umana a un numero limitato di categorie tipologiche distribuite universalmente, appiattendo e riducendo la comprensione dei fatti. Boas invitava a concentrarsi sull’osservazione diretta, in un area geografica ristretta, per un solo gruppo sociale, prendendo in considerazione le relazioni intrattenute con le tribù circostanti. La ricostruzione dei processi storici, la restrizione del campo di indagine, sono strumenti atti a ridurre la generalizzazione fuorviante, fase nomotetica che richiederebbe a suo avviso una rigoroso analisi delle contingenze storiche e geografiche. Il metodo privilegiato è quindi quello dell’induzione. Si concentra su tratti culturali specifici, particolari oggetti, credenze, pratiche… intesi come atomi non ulteriormente scomponibili, totalità culturali tra loro confrontabili. Prese le distanze, per questa ragione, dalla nascente prospettiva olistica britannica e dalla pratica di ricerca continuativa e di lunga durata. Dava grande rilevanza all’impiego della statistica e diversi lo criticarono perché analizzando i dati emerge che sul campo non passò molto tempo. Il suo comparativismo su scala ridotta, insomma, non fu decisivo per lo sviluppo della disciplina, si concentrò su un’analisi approfondita e contestualizzata delle particolarità piuttosto che sulla formulazione di leggi. Prima di Geertz, in ogni caso, l’antropologia americana si concentrò su cambiamenti analitici piuttosto che metodologici, rimane tuttavia evidente che le esperienze di osservazione diretta negli USA, tra cui quelle di Boas, furono pionieristiche e misero in discussione la netta divisione di ruoli tra teorici e osservatori. Contribuirono, Boas e gli altri antropologi americani, anche ad abbandonare pretese universaliste e comparazioni su larga scala. Pagina 4 di 15 Fieldwork. Lo studio intensivo di aree limitate e il metodo genealogico In Gran Bretagna, i nuovi etnografi erano specialisti, specialisti però di materie naturalistiche. Questo spiega perché dal punto di vista metodologico non vi furono grandi cambiamenti. Tuttavia, sulla scia dei risultati della Smithsonian Institution e degli antropologi americani, gli studiosi inglesi si recavano sempre più sul campo. Questo li costrinse a mettersi a confronto con le proprie tecniche di raccolta dei dati. Capirono la necessità di restringere le proprie aree d’indagine e incrementare precisione e profondità delle ricerche. Si passa, allo stesso modo, dalle survey alle monografie. Un forte sviluppo fu dovuto al contributo di Haddon, zoologo di formazione, si interessa all’antropologia durante una spedizione di ricerca marina nello Stretto di Torres. Contribuì all’etnografia sul Regno Unito Ethnographic Survey of the United Kingdom. Lavorava sul campo e perseguiva finalità scientifiche prettamente darwiniane appoggiandosi alle N&Q. Durante il primo viaggio allo stretto di Torres, raccolse una grande quantità di informazioni la cui rielaborazione lo introdusse al mondo accademico. La prima esplorazione ebbe molto successo e ne fu organizzata una seconda, tra 1898 e 1899 che rappresenta un evento di capitale importanza nella storia dell’antropologia poiché rappresentò la fine degli antropologi armchair in favore della conoscenza diretta delle popolazioni studiate, compito portato poi a termine da Malinowski. Infatti, i ricercatori di formazione naturalista che parteciparono alla spedizione rimasero comunque esterni, con uno sguardo documentario e una posizione osservativa. Desideroso di superare i limiti dei metodi di stampo naturalista, Haddon si mostra favorevole all’introduzione dei metodi della psicologia sperimentale per “misurare le capacità mentali e sensoriali dei popoli primitivi”. Raggruppò un gran numero di studiosi di ambiti diversi (Seligman, Rivers…) per partecipare a questa spedizione e cercò di imbastire una sorta di survey al fine di raccogliere dati in un’area linguistica omogenea attraverso questionari standardizzati, elaborati poi attraverso strumenti statistici. Questa spedizione, grazie anche al materiale raccolto e poi esposto nel Museo etnografico di Cambridge, consacrò definitivamente il riconoscimento dell’antropologia sul piano accademico e presso il pubblico dei non specialisti. Esito principale della seconda spedizione allo Stretto di Torres fu un rinnovamento metodologico, un cambiamento dovuto in larga parte al coinvolgimento di scienziati coinvolti in prima persona che, inevitabilmente, si trovarono a mettere in discussione il metodo utilizzato fino a quel momento. Elemento fondamentale delle scienze naturali è il fieldwork, non a caso fortemente incoraggiato da Haddon che spinse anche per l’impiego di osservatori formati e per l’ottenimento dai nativi di materiale veritiero attraverso una permanenza dilatata nel tempo. Il lavoro di Haddon fu un primo moviemtno verso un’etnografia intensiva, favorendo il passaggio dalla ricerca quantitativa-generalizzante della survey all’intensive study of limited areas. C’è però da riscontrare che l’effettiva presenza di Haddon sul campo fu ristretta e limitata e il suo intensive study era riferito piuttosto al metodo genealogico sviluppato dal collega Rivers e infatti affermò che questo consisteva nel tracciare tutte le ramificazioni delle genealogie in modo sintetico. Rivers, neurologo e psicologo di formazione, fu inizialmente incaricato di occuparsi della percezione spaziale e dei colori presso i nativi. Si impegnò tuttavia a produrre un suo contributo metodologico. Rivers rimase sulla Mer Island senza interruzioni a differenza dei suoi interlocutori che, durante la spedizione, si spostarono di luogo in luogo. Qui condusse delle interviste formali a informatori locali in inglese pidgin, iniziando a raccogliere ed elaborare il materiale necessario per le sue elaborazioni sulla parentela, il matrimonio e l’organizzazione sociale. Iniziò a produrre una prima elaborazione del suo metodo genealogico. La sua tecnica si fonda su un approccio che mirava a ricostruire la struttura sociale di qualsiasi gruppo a partire dall’analisi delle terminologie di parentela. Ciò avrebbe permesso di indagare problemi astratti attraverso dati concreti, comprensibili per altro agli stessi nativi. Il metodo genealogico fornisce uno schema entro cui collocare i membri di una comunità e a cui riferire una vasta gamma di informazioni etnografiche. Per ogni individuo inserito nelle genealogie si da notizia sul luogo di origine e residenza, sul totem, il clan e ogni altro fatto che possa avere una qualche rilevanza sociale. Inoltre, valutando la frequenza statistica con cui gli individui di un clan sposano i membri di un altro clan della stessa comunità, è possibile formulare tanto le regole matrimoniali quanto il conflitto fra le norme culturali e la pratica reale. I dati genealogici possono essere usati per analizzare i modelli di eredità, le migrazioni, i ruoli rituali, la demografia, i comportamenti, la biografia, la magia, la religione, l’antropologia fisica, la linguistica. La parentela sarebbe quindi lo strumento di accesso privilegiato e maggiormente formalizzabile alle regole del mondo sociale, Il metodo genealogico ebbe un impatto determinante tant’è che nelle N&Q del 1912, Rivers parlò di queste sue teorie e lì sottolineò anche che i lavori d’équipe dovevano essere messi da parte come anche quelli realizzati a partire dai resoconti dei funzionari governativi e dei missionari. Rivers suggerisce anche di usare il minor numero di sostantivi e limitarsi idealmente solo a usarne cinque: madre, padre, figlio (maschio e femmina), marito e moglie. Suggerisce ancora di porre solo cinque domande: Come si chiama tuo padre? - Come si chiama tua madre? - Tuo padre ha avuto un’altra moglie o altre mogli? - Quanti figli hanno avuto tuo padre e tua madre? Forniscimi i loro nomi in ordine di età. Interrogando in questo modo i soggetti si possono ricostruire le ramificazioni di un’intera generazione, per poi tornare indietro quanto più possibile nel tempo. A differenza delle precedenti edizioni delle N&Q, Rivers dedica molto spazio alle effettive modalità di conduzione della ricerca sul campo. In particolare, pone grande enfasi sull’importanza di acquisire adeguate competenze linguistiche al fine di evitare l’utilizzo di interpreti, raccomanda di raccogliere i termini di parentela nella lingua nativa. Il ricercatore sul campo deve quindi appropriarsi delle terminologie con cui i nativi definiscono la realtà, evitando di imporre loro la propria categorizzazione del mondo. Secondo Rivers, il pensiero dei popoli “di cultura inferiore” era molto sviluppato se indirizzato alla risoluzione di questioni pratiche a discapito della capacità di astrazione, per questa ragione, il metodo genealogico, che permetteva di investigare problemi astratti su una base puramente concreta, sarebbe un modo rapido ed efficace per collezionare fatti concreti, non contaminati dalle astrazioni evoluzionistiche europee. Rivers definisce questo metodo concrete method. Il metodo concreto si basa su fatti che non possono essere influenzati da nessun pregiudizo, cosciente o incosciente, di nessun soggetto immaginabile. A partire da queste basi concrete, si raggiunge un livello di astrazione a cui il selvaggio non è in grado di pervenire. “Studiare problemi astratti, sui quali le idee del selvaggio erano vaghe, attraverso fatti concreti, nei quali è maestro permette di formulare le leggi che regolano la vite delle persone con una chiarezza e una precisione a cui non potrebbero altrimenti giungere”. Rivers spinge affinché le domande poste siano sufficientemente aperte, così da lasciare all’interlocutore un adeguato spazio di espressione che non lo costringa a rispondere con cenni affermativi o negativi. Consiglia di essere ricettivi nei confronti di testimonianze volontarie. Esorta quindi a conferme sia dirette che indirette ai fatti, sia interrogando direttamente altri individui che cogliendo eventi che possano dare informazioni su un dato fenomeno, eventi serendipici. Infine, anticipando il funzionalismo malinowskiano, Rivers ritiene essenziale approfondire l’analisi di un contesto spcifico attraverso studi multidisciplinari (cultura, sociologia, linguaggio, tecnica…) che si mostreranno tutti indissolubilmente legati. Specifica anche come trovare gli informatori migliori, ripagarli, trarre il massimo da loro, non manca di specificare consigli minuziosi su come relazionarsi con gli intervistati, sul tatto necessario… Sottolinea l’importanza delle note, l’importanza di registrare immediatamente le informazioni, descrivere il contesto, trascrivere i nomi degli informatori, mappe, disegni, schizzi. Le accortezze metodologiche di Rivers mostrano una sensibilità inusuale per l’epoca verso le difficoltà connesse alla traduzione culturale, riconoscendo la legittimità di una scala di valori alternativa, considera del tutto comprensibile lo scarso interesse degli indigeni per le domande dell’antropologo e non come una prova di inferiorità. Il selvaggio inizia a distinguersi dal fenomeno naturale e diventa soggettività complessa, pur senza essere qualificato come vero e proprio interlocutore. Rivers è fermamente convinto che “lo studio approfondito di un caso concreto nel quale le regole sociali sono state infrante può dare più risultati di un mese di interrogatori”, sottolineando così l’indispensabile presenza sul campo e avvicinandosi all’osservazione partecipante di Malinowski. Ritiene deleterie le survey su larga scala e sottolinea di concentrarsi su comunità ristrette e definite. La monografia The Todas del 1906 è una prova di questa sua predilezione. È ritenuto il padre della scuola funzionalista. 3. L’osservazione partecipante Il mito fondativo L’origine della moderna tradizione di ricerca etnografica viene fatta risalire a Malinowski. Il suo lavoro sul campo nelle Isole Trobriand tra il 1915 e il 1916, poi di nuovo 1917 fino al 1918, ha assunto forma mitologica, dentro e fuori la disciplina antropologica. È divenuto il protagonista di una rivoluzione metodologica ed è arrivato a rappresentare un ideale professionale fondato su conoscenza diretta e personale dell’oggetto di studio, teorico e ricercatore, “simile al camaleonte, perfettamente in sintonia con l’ambiente esotico che lo circonda, un miracolo vivente di empatia, tatto, pazienza e cosmopolitismo” (Geertz definisce così, in modo chiaramente ironico, Malinowski). Argonauti del Pacifico Occidentale del 1922 viene unanimamente riconosciuto come luogo di ideazione della teoria dell’osservazione partecipante. Chiaro è che Malinowski non fu il primo ad andare direttamente sul campo, Cushing, Boas, Rivers lo fecero ben prima di lui, la vera differenza tra lui e i suoi predecessori sta anzitutto in un ambiente accademico pronto ad accogliere le novità da lui introdotte, dalla formazione di natura strettamente antropologica che ricevette, ma anche al metodo funzionalista che permise di organizzare in modo comprensivo le informazioni raccolte. L’ingresso sul campo di Malinowski fu preparato dal maestro Seligman a cui dedicò il testo del 1922. Gli permise di partecipare a una ricerca sull’Isola di Mailu (Nuova Guinea), un esperimento che non andò a buon fine e che non produsse nessun risultato signficativo ma che spianò la strada per il suo chef d’œuvre. A Mailu non risiedette nemmeno tra i nativi, ma in una tenda per lui attrezzata insieme al missionario. Rimase poi sul campo per brevi periodi e utilizzò le categorie delle N&Q nonché il metodo genealogico di Rivers. Intuì in questa fase la necessità di superare Rivers, le N&Q e di vivere tra i nativi. Scrive, durante l’esperienza a Mailu, come emerge nei suoi diari pubblicati nel 1967, che “la sua esperienza dice che le domande dirette agli indigeni su un costume o una credenza non riescono mai a scoprire così profondamente il loro reale atteggiamento mentale come attraverso una discussione su fatti connessi con l’osservazione diretta di un costume o di un avvenimento concreto, nel quale tutte e due le parti sono materialmente coinvolte”. Questo passaggio sollecita a spostare l’attenzione dalle N&Q e dal metodo genealogico ma anche a spostare il luogo dell’osservazione dal ponte della nave o dalla casa del missionario al cuore pulsante del villaggio indigeno. La svolta decisiva nel percorso di Malinowski avviene però alle Trobriand, arcipelago in Papua Nuova Guinea. Il lavoro fu accolto in maniera entusiastica e ciò contribuì a consegnare alla tradizione antropologica una figura che ormai aveva assunto una connotazione mitologica. La mitologia infatti vuole che Malinowski, confinato come nemico in Australia durante la WW1, sviluppò lì il metodo che poi utilizzò sul campo. Non fu però affatto confinato, al contrario, Malinowski fu incentivato nel suo lavoro poiché le autorità australiane gli garantivano protezione. Queste circostanze permisero a Malinowski di restare sul campo dal giugno 1915 al maggio 1916 e poi di nuovo tra 1917 e 1918, prima di tornare in Inghilterra a elaborare la sua ricerca. Durante il periodo di permanenza, comprende e sottolinea l’importanza di utilizzare informatori competenti e critica il culto antropologico dei “fatti puri”, l’attribuzione a essi di un carattere sacrale, isolato e indipendente, accessibile all’osservazione diretta senza alcuna mediazione. In un suo scritto precedente ad Argonauti riflette sul fatto che “solo leggi e generalizzazioni sono fatti scientifici, e il lavoro sul campo consiste solo ed esclusivamente nell’interpretazione della realtà sociale caotica, e nel subordinarla a regole generali”. Incalza poi sostenendo che “i fatti non esistono nella realtà sociologica più che nella realtà fisica; cioè, non risiedono nel continuum spazio-temporale per essere fruiti da un occhio non formato” e possono “essere scoperti solamente con il calcolo induttivo”. Insiste sul ruolo dell’antropologo nel cogliere la realtà profonda dei fenomeni da un punto di vista specializzato, fonda in questo modo la qualità scientifica dell’antropologia sulla necessaria differenza dal linguaggio comune e dai resoconti dei nativi. Oggetto, metodo e finalità della ricerca L’oggetto principale della monografia è un particolare sistema di transazione commerciale che coinvolge un gran numero di comunità entro un ampio cerchio di isole secondo modalità e tempi determinati. In un contesto di scambi personali fondati sul rango e sulla posizione sociale, si esamina la circolazione di due principali tipi di manufatti: collane di conchiglie rosse (soulawa) e bracciali di conchiglia bianche (mwali). Pagina 5 di 15 La ricca documentazione fotografica è l’espediente più immediato di cui l’autore si serve per convincere i lettori della legittimità delle proprie affermazioni e per fondare una nuova forma di autorità etnografica. La presentazione in stile realistico e attendibile sortisce l’effetto di confermare l’oggettività dei dati raccolti attraverso il metodo etnografico. Malinowski riesce così a convincere la comunità scientifica che i fatti da lui presentati, pur acquisiti attraverso l’implicazione soggettiva, non sono semplici opinioni, ma la materia di un discorso scientifico e oggettivo. Il coinvolgimento personale è usato come prova di rigore scientifico. L’etnografia ripresenta con Malinowski la propria identità di scienza sperimentale. Il testo fu di tale rilevanza che per decenni il solo rimando da parte degli antropologi al metodo malinowskiano e alla lunga permanenza sul campo li permise di essere dispensati da qualsivoglia spiegazione di natura metodologica, la mera esibizione di prove che certificassero l’avvenuto soggiorno presso popolazioni considerate lontane ed esotiche conferiva all’analisi un’autorevolezza fondata sulla conoscenza diretta dell’oggetto di ricerca. Chiaro è che, come sottolineava lo stesso Malinowski, la qualità dei dati raccolti è strettamente correlata alla solidità della preparazione teorica e metodologica del ricercatore. La prospettiva di Argonauti è di natura positivista, coerente con i percorsi di studio dei suoi predecessori e con l’atmosfera accademica del tempo. I dati oggettivamente esistenti a prescindere dallo sguardo di chi li osserva, possono essere raccolti solamente da un approccio scientifico e utilizzati da studiosi formati. L’impresa etnografica è considerata al pari dell’esperimento nelle scienze naturali, dove l’avanzamento del sapere avviene in forma empirica. Malinowski esorta poi il ricercatore all’impegno di esplicitare la metodologia a lavoro concluso, al fine di rendere credibili e verificabili i risultati raggiunti. L’osservazione partecipante Malinowskiana, data l’impostazione scientista e oggettivante del suo lavoro, non gli permise di seguire le sue stesse indicazioni. La sua importanza resta legata alla considerazione dell’etnografia come scienza sperimentale e alla convergenza tra la figura del teorico e quella del ricercatore. Egli rimase, tuttavia, ancorato a un approccio positivista e alla separazione del momento empirico da quello teorico e la ricerca sul campo rimane subordinata al momento di rielaborazione teorica, tant’è che definisce l’etnografia come un primo passaggio di mera raccolta dati, seguito dall’etnologia, che è un primo momento teorico, che a sua volta conduce all’antropologia, la rielaborazione compiuta e portata a termine. Malinowski, ne Gli Argonauti, definisce le “tre pietre angolari del lavoro sul terreno”: 1) l’etnografo deve conoscere principi, finalità e risultati della moderna ricerca scientifica; 2) deve vivere fra le persone che studia; 3) deve applicare alcuni metodi specifici per raccogliere, elaborare e definire i dati. L’insistenza sulla necessità che l’etnografo possieda una formazione scientifica, che demarchi la distanza della nuova etnografia dai precedenti dilettanteschi è funzionale al conseguimento della finalità principale della ricerca etnografia, ossia “districare le leggi e le regolarità di tutti i fenomeni culturali”. La base teorica ha l’obiettivo di fornire al ricercatore le competenze necessarie per porre le domande corrette ai nativi, portando sul campo questioni rilevanti per la disciplina e il suo sviluppo scientifico. Come anche Rivers, Malinowski ritiene che gli individui agiscono in base a principi e assunti culturali impliciti ed è quindi necessario essere sia formati che essere sul campo per cogliere ogni momento potenzialmente rilevante. La formazione è altresì indispensabile perché il lavoro antropologico è creativo: “il lavoro dell’etnografo è un lavoro creativo, nella misura in cui egli porta alla luce dei fenomeni della natura umana interamente nascosti anche a coloro che li hanno vissuti. È creativo nel senso in cui è creativa l’elaborazione dei principi generali delle scienze naturali, in cui delle leggi obiettive di vastissima applicazione rimangono nascoste finché non vengono portate alla luce dalla mente curiosa dell’uomo”. La partecipazione è essenziale per raccogliere dati oggettivi e, induttivamente, formulare leggi universali. Per raccogliere i dati essendo sicuri di non contaminarli, è necessario restare tra i nativi, “tagliarsi fuori dalla compagnia di altri uomini bianchi”. Per Malinowski però, l’etnografo, escludendosi dalle relazioni con altri uomini bianchi, verrebbe a porsi spontaneamente in armonia con l’ambiente circostante, un assunto problematico, tanto più in quell’epoca di colonizzazione in cui la presenza del bianco era decisamente problematica. Questo dato, che emerse negli appunti di Malinowski pubblicati nel ’67, viene da lui trascurato. In ogni caso, nel suo metodo, la solitudine, intesa come allontanamento radicale e straniante dal proprio mondo, diventa una condizione sperimentale necessaria alla conoscenza dell’alterità. La pratica dell’osservazione partecipante si basa sulla neutralizzazione delle perturbazioni causate dall’estraneità dell’antropologo, quindi sulla necessità di conformare l’ambito della ricerca etnografica all’asetticità della situazione sperimentale, la lunga permanenza serve proprio a questo, a ridurre la reattività del contesto, dissolvendo la presenza dell’osservatore fra gli osservati. Arriva però a sostenere persino che la vita del ricercatore di campo “prende presto un ritmo abbastanza naturale che è in piena armonia con l’ambiente circostante”, sembra quasi porre il ricercatore allo stesso livello del nativo, come se diventassero membri di una stessa comunità senza che questo possa causare alcun problema. La lunga presenza sul campo è oltremodo necessaria per fornire una spiegazione scientifica del punto di vista del nativo. Malinowski mira a cogliere il punto di vista dell’indigeno a partire da un’esperienza empatica immediata e soggettiva, successivamente tradotta nel linguaggio impersonale e neutrale proprio della scienza. Lo iato tra osservazione di campo e lavoro teorico è evidente. L’etnografo impegnato nell’osservazione diviene così uno specchio senza ombre che riflette la realtà tal quale essa è. La terza indicazione, quella di applicare alcuni metodi specifici per la rielaborazione dei dati raccolti si concretizza nel metodo della documentazione statistica mediante la prova concreta. Come nel caso di Tylor, la statistica sostiene la scientificità e il rigore del metodo proposto. Solo attraverso il raffronto tra un numero sufficientemente ampio di casi, raggruppati per variabili, è possibile ottenere un quadro esaustivo dell’organizzazione della tribù e dell’anatomia della sua cultura, dati che una volta raccolti saranno messi in una tabella come quella dedicata alla magia del kula che è compilata ordinando tutti i rituali osservati secondo quattro variabili: temporalità, luogo di svolgimento, attività propiziate, descrizione della magia e sue finalità. Grazie a una tavola come questa, il ricercatore sarebbe in grado di giungere a una visione generale della concezione magica degli indigeni, passibile di verifica empirica. Una reinterpretazione dell’induzione baconiana. Completano la raccolta di dati dei questionari e dei censimenti. In questo modo si avrebbero una quantità di dati sufficienti e confrontabili per ottenere una visione coerente e completa della società studiata. Malinowski invita il ricercatore a dirigere l’osservazione (imparziale e priva di pregiudizi) a quei fenomeni che definisce gli imponderabili della vita reale, ossia fatti della vita vissuta che permettono di connettere “gli innumerevoli fili che tengono unita la famiglia, il clan, la comunità, il villaggio, la tribù”. Sono i dettagli minuti della quotidianità che si considerano indispensabili per penetrare l’atteggiamento mentale che vi si esprime e che spiegano (e in seguito guidano) i dati raccolti. Per tale fine è indispensabile che l’etnografo aggiorni con regolarità un diario etnografico. Occorre poi, attingere a giudizi, opinioni ed espressioni degli indigeni, dunque l’importanza dalla conoscenza della lingua, necessaria anche a compilare una raccolta di fonti scritte in lingua originale, opportunamente tradotte. Il punto di vista del nativo sarebbe quindi il prodotto di un’astrazione intellettuale che trascende le opinioni dei soggetti e la variabilità del loro posizionamento, la verità culturale sarebbe accessibili quindi attraverso un informatore depositario di un’essenza culturale atemporale e incontaminata. Il nativo appare dunque come una figura sostanzialmente indifferenziata per età, genere e status sociale a cui non viene riconosciuta una specifica individualità. Postulando una presunta omogeneità culturale, al nativo non viene riconosciuta una specifica individualità. La monografia funzionalista Il paradigma funzionalista prevede che una particolare credenza o istituzione sia interrelata con altre e contribuisca alla persistenza del sistema socioculturale nel suo insieme. Da questa idea discendono i principi metodologici messi in campo da Malinowski che, non a caso, mira a fornire un’immagine olistica della cultura di un mondo osservato da vicino. Malinowski si distanzia definitivamente anche da Rivers, suo punto di riferimento fondamentale, sostenendo che il metodo concreto sarebbe troppo atomistico, troppo rigido e schematico per considerare da un punto di vista complessivo l’oggetto di indagine. L’obiettivo della ricerca deve essere quello di fornire un profilo chiaro dell’assetto della società indagata, spiegando in che modo i suoi vari elementi costitutivi configurino un insieme complesso. Le singole parti non adrebbero quindi studiate in modo settoriale, ma nelle loro interrelazioni reciproche e sistematiche al fine di ricostruire la totalità del sistema sociale preso in esame. In quest’ottica, tavole sinottiche e statistica si rivelano fondamentali per ricostruire i meccanismi di funzionamento di una cultura dai confini ben definiti. In quest’ottica, i concetti stessi di cultura e società vengono a coincidere. Malinowski perviene a fondare il genere della monografia etnografica intesa come la ricostruzione di un intero modo di vita nella sua globalità, scomposto e analizzato secondo un formato standard e attraverso una serie di astrazioni teoriche che ne coprono i molteplici aspetti. Fondata sull’induzione e l’osservazione diretta e prolungata, la monografia è modellata al fine di avere una scrittura di genere scientifico tramite un registro linguistico osservativo-visuale, una scrittura improntata al realismo o al naturalismo. La forma narrativa è perlopiù impersonale e mira a restituire l’obiettiva neutralità dell’autore, è diretta a una restituzione oggettiva, attraverso la registrazione di dati puri, incontaminati dai riferimenti alle concrete relazioni sul campo, restituisce un oggetto antropologico statico, chiuso nel proprio spazio e nel proprio tempo. L’approccio sincronico è evidente dall’utilizzo del presente etnografico, tempo verbale della scienza e della verità oggettiva, si basa sul presupposto di una sostanza culturale incontaminata e pura, sottratta al divenire storico e ricostruita dalle competenze scientifiche dell’antropologo. Questo modello ha influenzato molto l’antropologia, fornendo un’immagine delle culture come parcellizzate e ben definite, organismi funzionanti da sé, che non necessitano né hanno alcuna influenza esterna. L’equivoco empatico La distinzione che Malinowski fa tra note di campo e diario personale lascia intuire lo sforzo che egli dovette compiere per tentare di annullare la sua figura in favore del conseguimento di un obiettivo di scientifica purezza descrittiva. La pubblicazione nel 1967 dei diari segreti di Malinowski porta scompiglio nella disciplina e dimostra l’ossimoro intrinseco al metodo dell’osservazione partecipante. Il tentativo di convogliare il coinvolgimento personale, di confinarlo nei diari per avere modo di condurre un’osservazione pura dei fenomeni quali essi sono, era decisamente ambizioso e anzi, fu proprio questo tentativo che rese metodologicamente problematica la ricerca dell’antropologo polacco. I diari problematizzano l’idea che possa esistere un oggetto osservabile a prescindere dai preconcetti dell’antropologo, la separazione fra soggetto e oggetto se non impossibile, è decisamente problematica nei suoi risvolti metodologici pratici. Mantenersi sufficientemente distaccati dall’oggetto di ricerca ma rimanervi abbastanza vicini in modo da poter partecipare è, ad essere generosi, complesso. C’è il rischio del going native, dando quindi per scontati dei modi di vita che sembreranno naturali e auto-esplicativi, o al lato opposto, un’eccessiva oggettivazione della cultura osservata, che viene deumanizzata rendendo lo sguardo dell’osservatore l’unica luce in una stanza buia, quella dell’antropologo sarebbe l’unica verità possibile in questo modo. Un’eventuale e improbabile partecipazione consentirebbe al più di partecipare come nativo, non certo come antropologo, selezionando discorsi diversi che appartengnon e sono legittimati dal posizionamento indigeno. Nonostante i presupposti teorici, Malinowski è stato più un osservatore che un partecipante e ancor di più un intervistatore, tollerato a fatica perché bianco e ricco. Gran parte delle sue conversazioni con gli informatori prevedeva un risarcimento in tabacco e su interviste che per lui non avevano la stessa importanza del dato statistico. Inoltre non riuscì a partecipare tanto quanto il suo metodo suggerisce poiché, come emerge dai diari, i nativi lo ritenevano portatore di sciagure. Una relazione di immersione empatica presuppone che antropologo e nativo siano posti su uno stesso livello, condizione inattuabile nel contesto del tempo di feroci guerre tra occidentali e nativi nonché di lavoro forzato. Le società melanesiane erano state culturalmente, socialmente e demograficamente distrutte dal violento contatto con gli europei, le leggi britanniche imposte tramite l’indirect rule. I diari di Malinowski infatti rivelano un clima di grande tensione e la scarsa collaborazione dei nativi. I resoconti di Malinowski testimoniano una forte avversione per le crudeltà del sistema coloniale, per i missionari e i colonizzatori, ritenuti insensibili e ignoranti. Pagina 6 di 15 Il fatto che vi fossero queste presenze però, restituisce l’immagine di un campo affollato, dove l’osservazione oggettiva e il tentativo di giungere a un’immagine incontaminata della cultura nativa era di impossibile realizzazione poiché queste presenze alimentano inevitabilmente processi di scambio e riformulazione identitaria molto intensi. Nelle Isole Trobriand poi la società era fortemente stratificata e centralizzata politicamente. Per sua stessa ammissione, Malinowski intrattiene conversazioni con gli aristocratici dei villaggi, inoltre, stando a quanto si legge in Argonauti, solo sposando una donna trobriandese, ossia entrando nella rete di parentela e impegnandosi con gli altri uomini nelle attività agricole, sarebbe stato possibile vivere come un trobriandese. Malinowski si stabilì all’interno del villaggio come un membro d’élite e assunse una posizione elevata nella gerarchia sociale, servito e riverito da numerosi servitori. Produce un monologo basato sul potere e sul monopolio della scrittura, considera i suoi interlocutori come specimen zoologici. La rivoluzione etnografica malinowskiana Il metodo malinowskiano non prese piede da subito, nonostante la permanenza sul campo sia considerata ancora oggi elemento fondamentale della pratica antropologica. Tra i vari individui contrari alla pratica malinowskiana, v’è Radcliffe-Brown, il quale sosteneva l’etnografia non avesse la rilevanza decantata da Malinowski e che il lavoro antropologico dovesse basarsi su regole generali da cui dedurre spiegazioni per fenomeni isolati. Il metodo induttivo di Malinowski, insomma, lo mise da parte. L’antropologia anglofona, almeno fino agli anni Settanta, può essere compresa come un tentativo di applicare le astrazioni teoriche di RB (struttural-funzionalismo) alle pratiche comprensive e dettagliate del metodo malinowskiano (funzionalismo). L’impianto epistemologico nomotetico e oggettivante dello struttural-funzionalismo, portarono a mettere da parte il lavoro di campo. Con lo strutturalismo, l’attenzione si sposta dalla cultura alla società. L’antropologia di RB non si interessa alle attività degli individui, si analizza la forma della vita sociale, ossia la realtà empirica oggettiva accessibile all’osservazione diretta, immediata e non problematica. Utilizza interpreti e questionari. Evans-Pritchard, formatosi strutturalista, si schiera invece col tempo dal canto opposto e critica le tendenze generalizzanti di RB, sostenendo che la comparazione non servisse a evidenziare elementi di fondo nelle culture umane ma che al contrario dovesse concentrarsi su casi ben circoscritti. L’attenzione di Evans-Pritchard alle specificità socioculturali si coniugò all’università di Chicago con gli interessi della sociologia. Antropologia e sociologia si influenzarono reciprocamente, una cross- pollination che diede vita a lavori che si concentrarono sulle società occidentali ma che le interpretavano con occhi funzionalisti, come insiemi chiusi, con meccanismi di funzionamento interni che portano a un generale equilibrio. Insomma, negli USA c’è una parziale aderenza ai metodi inglesi, una contaminazione con la sociologia che porta le idee di EP in Occidente e nell’America Latina. In Francia, c’era ancora una forte divisione del lavoro tra etnografi e antropologi, una divisione che vedeva gli antropologi impegnati a formulare ipotesi deduttive, tant’è che anche i nomi più illustri non fecero ricerca sul campo in senso malinowskiano, appoggiandosi a équipe, N&Q e intensive method. 4. Il circolo ermeneutico Un approccio fenomenotecnico I grandi cambiamenti nelle configurazioni culturali e nelle relazioni interculturali tra WW1 e fine della WW2, mettono in discussione la disciplina antropologica, accusata di essere child of imperialism o applied colonialism. La complicità tra antropologi e istituzioni governative era per altro evidente, il progetto Camelot ne è solo uno degli esempi più evidenti, ma d’altronde anche il lavoro di Malinowski fu possibile per via delle istituzioni coloniali. In diversi sostennero la fine dell’antropologia come conseguenza della progressiva e inesorabile estinzione di un oggetto di studio identificato in società statiche e isolate. In questo momento di crisi, la disciplina dovette trovare un nuovo assetto, riconoscere gli interlocutori come soggetti titolari di diritti prima ancora che come oggetti di analisi scientifica, la disciplina ha cominciato a farsi carico dei problemi del mondo contemporaneo, allargando gli orizzonti allo studio delle culture di potere e delle istituzioni dominanti, considerando le dimensioni politiche della pratica etnografica. Lo sviluppo dell’antropologia femminista diede poi un ulteriore impulso al processo di rinnovamento intrapreso. In questo panorama inquieto, la pubblicazione nel 1973 di Interpretazione di culture di Geertz il quale identifica la disciplina come una storia di appropriazione delle voci dei deboli da parte delle voci dei forti, al pari di quello ceh accadde col loro lavoro e le loro risorse. Geertz sottolinea poi che l’antropologo non lavora più in situazioni di isolamento e di dominio coloniale che autorizzano le ricerche e legittimano il monopolio della sua rappresentazione della realtà. Geertz affronta la crisi dei paradigmi totalizzanti e propone, in opposizione ad approcci nomotetici e fondazionalisti reificanti, una scienza che si allontani dalla pretesa di essere naturale, matematica, statistica, oggettiva. Invita a problematizzare i tentativi di costruire teorie generali che sussumano i particolari. Mette da parte i paradigmi delle scienze ormai superati abbracciando gli approcci della scienza contemporanea, lontana dagli assolutismi galileiani ed euclidei. La meccanica quantistica d’altronde insegna che in ogni misurazione c’è un’interazione finita tra oggetto e strumento e soprattutto le scienze contemporanee sono consapevoli che non si può condurre un esperimento a prescindere dalle condizioni specifiche dell’osservabilità sperimentale. Dunque Geertz approccia queste prospettive indeterminate, di un mondo fatto di oggetti non assoluti e non localizzabili, di oggetti che non preesistono alla inevitabile alterazione dei parametri prodotta dal soggetto conoscente. Liberata dai dogmatismi, la scienza viene fatta risalire all’uomo e alla sua capacità di dare senso al mondo, è concepita come fenomenotecnica, tecnica di produzione dei fenomeni secondo l’espressione di Bachelard. Da questa prospettiva, gli oggetti delle scienze, sia umane che naturali, non si offrono a un metodo neutrale di osservazione e rappresentazione, sono costrutti artificiali, risultato di complesse procedure di messa in forma. Ciò che conosciamo, afferma Geertz, non sono i dati, ma i fatti i quali, come l’etimologia del termine lascia intendere, sono prodotto umano (factum, factus, facere). Insomma, Geertz impegna la disciplina a riflettere sulle sue modalità di produzione della conoscenza, superando presunzioni di oggettività e la separazione tra teoria e pratica, superando l’assunto dell’autonomia dell’empirico. Gli esperimenti e il lavoro sul campo sono quindi pratiche di costruzione dell’oggettività, non di disvelamento della stessa. L’orizzonte è di tipo semantico, il linguaggio costruisce gli oggetti formando e trasformando i significati, riprende le prospettive di Gadamer e Wittgenstein i quali sostengono che i limiti del proprio linguaggio siano i limiti del proprio mondo. Il vedere, quindi, non è un atto neutro, meccanico, trasparente, si tratta al contrario di comprendere, di interpretare, di sviluppare un proprio modo di interpretare il dato per conoscerlo. Geertz colloca le posizioni costruttiviste all’interno della definzione delle scienze umane come scienze interpretative. L’attività conoscitiva è quindi un’attività formatrice, che da senso e valore ai fenomeni anziché rappresentarli oggettivamente, il soggetto conoscente non è un essere neutro ma un agente linguistico e storico, vincolato a un insieme di precomprensioni concettuali e strumentali senza le quali la comprensione non sarebbe possibile. I dati dell’antropologo quindi non sarebbero altro che le nostre interpretazioni delle interpretazioni di altri su ciò che fanno loro e i loro compatrioti. La natura secondaria delle interpretazioni demarca la distanza da un ideale positivistico della conoscenza, i testi non sono riproduzioni, bensì produzioni, verità parziali, inc