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This document discusses the complexity of contemporary society and the role of social work. It analyses the necessity of new approaches to social services, emphasizing the shift towards community-based social work, and explores the historical development of community social work in Italy.
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IL SERVIZIO SOCIALE DI COMUNITÀ IN ITALIA INTRODUZIONE La Complessità della Società Contemporanea e il Ruolo del Lavoro Sociale La società moderna si presenta come un contesto complesso, difficile da governare, frammentato e caratterizzato da disuguaglianze e contraddizioni che rendono la vita dei s...
IL SERVIZIO SOCIALE DI COMUNITÀ IN ITALIA INTRODUZIONE La Complessità della Società Contemporanea e il Ruolo del Lavoro Sociale La società moderna si presenta come un contesto complesso, difficile da governare, frammentato e caratterizzato da disuguaglianze e contraddizioni che rendono la vita dei singoli e la convivenza sociale più difficili (Manoukian, 2005). La contemporaneità può essere descritta come: Società del rischio (Beck, 2000): con pericoli sia individuali che globali, derivanti dalla complessità e dall’instabilità sociale. Società degli individui (Elias, 1990): caratterizzata da relazioni sociali deboli, che alimentano la solitudine e la crisi del senso di collettività. Società dell’incertezza (Bauman, 1999): marcata dall’instabilità e dalla frammentazione delle identità, con una precarietà esistenziale degli individui. Queste riflessioni aiutano a comprendere le fragilità e gli squilibri della società occidentale, che mostrano segni di vulnerabilità accentuati dai cambiamenti socioeconomici globali. L’Assedio dei Servizi Sociali e la Necessità di Nuovi Approcci Con l’aumento delle aspettative di benessere e la riduzione dei fondi per il sociale, il sistema dei Servizi Sociali è sotto pressione, con una domanda crescente di aiuto e supporto. Gli operatori sociali, pur specializzati nella gestione della crisi, faticano a rispondere ai bisogni emergenti e sempre meno standardizzabili (Manoukian, 2005). Di conseguenza, è necessario: Superare la delega esclusiva al pubblico nella gestione del disagio sociale, condividendo la responsabilità con tutta la società. Uscire dalla visione autoreferenziale dei Servizi Sociali, incoraggiando la partecipazione della comunità nella gestione dei problemi. Verso un Servizio Sociale di Comunità Per rispondere ai bisogni della società contemporanea, i Servizi Sociali devono evolversi in un Servizio Sociale di Comunità, il cui obiettivo è promuovere il benessere sociale e migliorare la qualità della vita nel territorio. Questo modello si basa su: Rafforzamento dei legami sociali e promozione dell’inclusione. Giustizia sociale, partecipazione e responsabilizzazione. Coinvolgimento della comunità nella gestione dei problemi sociali, superando un approccio esclusivamente individuale. Il Servizio Sociale di Comunità mira a prendere in carico non solo i singoli, ma l’intera comunità, rivalutando risorse comunitarie essenziali in tempi di ristrettezze economiche (Allegri, 2015). Origini e Sviluppo del Servizio Sociale di Comunità in Italia Nella prima parte del testo, vengono tracciate le origini del Servizio Sociale di Comunità, con uno sguardo ai progetti attuati nel secondo dopoguerra in contesti rurali e urbani. Si discute la possibilità di un nuovo approccio basato sulla metodologia relazionale, che privilegia le relazioni sociali come fondamentali per il benessere (Folgheraiter, 2011). CAPITOLO 1: STORIA DEL SERVIZIO SOCIALE DI COMUNITÀ IN ITALIA Tra Dimensione Individuale e Comunitaria nel Servizio Sociale Il Servizio Sociale è da sempre sfidato dalle dinamiche del territorio, spingendo gli assistenti sociali a considerare non solo l’ambiente interno ai Servizi ma anche la comunità locale. Questa prospettiva si concretizza nel Servizio Sociale di Comunità, che si distingue dagli approcci incentrati sui singoli o sui gruppi poiché adotta una visione comunitaria. Il Servizio Sociale di Comunità Il Servizio Sociale di Comunità implica interventi rivolti alla collettività, mirati a risolvere problemi sociali utilizzando le risorse presenti nella comunità stessa, grazie alla partecipazione attiva dei suoi membri. Questo approccio non solo affronta il problema sociale come fine a sé, ma considera anche il suo potenziale per stimolare la crescita sociale e culturale della comunità (Giorio, 1999). Con il crescente disimpegno del settore pubblico, il Servizio Sociale di Comunità è tornato di attualità come possibile soluzione ai limiti dello Stato sociale. Tra i contributi più significativi su questo tema, Elena Allegri (2015) definisce il Servizio Sociale di Comunità come un metodo complesso che si adatta alle esigenze del territorio, promuovendo la collaborazione tra individui e gruppi per affrontare problemi comuni e promuovere il benessere sociale e la qualità della vita. Il Ruolo Storico del Servizio Sociale di Comunità in Italia Storicamente, il Servizio Sociale in Italia ha integrato sia la dimensione individuale che quella comunitaria. Al Convegno di Studi di Assistenza Sociale di Tremezzo nel 1946, considerato un momento fondativo per il Servizio Sociale italiano, fu affermata la necessità di interventi collettivi; tuttavia, il consenso si spostò maggiormente verso un approccio individuale. In Italia, l’attenzione per la dimensione comunitaria ha origini laiche e socialiste, mentre l’approccio individuale ha radici cattolico-sociali. Questa duplice prospettiva vedeva, da un lato, chi puntava a un cambiamento sociale attraverso il lavoro di gruppo e comunità (come Giuseppe De Rita e Angela Zucconi), e dall’altro chi riteneva prioritario l’intervento sul singolo per favorirne l’inserimento nella comunità (come don Giovanni de Menasce). La dimensione comunitaria privilegia l’idea che la crescita dell’individuo avviene all’interno della comunità, attraverso attività di gruppo che promuovono la socializzazione e il miglioramento della qualità della vita collettiva. Al contrario, la dimensione individuale si concentra su interventi psicologici ed educativi, dove l’assistente sociale aiuta il singolo ad affrontare i propri problemi per adattarsi meglio all’ambiente sociale. Le Fasi Storiche del Servizio Sociale di Comunità in Italia La storia del Servizio Sociale di Comunità in Italia dal secondo dopoguerra agli anni Settanta può essere divisa in tre fasi principali: la fase di avvio (1946-1957), la fase di sviluppo (1958-1968) e la fase di declino (1965-1970). Fase di Avvio (1946-1957) Durante il periodo postbellico, il Servizio Sociale di Comunità inizia a prendere forma grazie agli aiuti internazionali, che finanziano i primi progetti nelle aree economicamente depresse del Sud Italia. L’obiettivo era combinare interventi tecnici ed economici con iniziative sociali, promuovendo un nuovo senso di cittadinanza e partecipazione pubblica. In questo contesto, il CEPAS (Centro Educazione Professionale per Assistenti Sociali) e l’ENSISS (Ente Nazionale Scuole Italiane di Servizio Sociale) svolgono un ruolo cruciale nello sviluppo di progetti sociali nelle aree più povere. Figura centrale in questa fase è Angela Zucconi, che sottolinea l’importanza della comunità come base per la coesione civile e la crescita sociale. Gli assistenti sociali, in collaborazione con altri operatori sociali, lavorano per sensibilizzare i cittadini sulla loro condizione, incoraggiandoli a partecipare attivamente nelle decisioni riguardanti il loro territorio. Fase di Sviluppo (1958-1968) Negli anni Sessanta, il Servizio Sociale di Comunità si sviluppa ulteriormente attraverso il consolidamento metodologico e la crescente necessità di una formazione specifica per gli operatori. In questo periodo, i Centri sociali diventano il fulcro del lavoro comunitario, dove gli assistenti sociali analizzano i territori, coordinano con gli enti locali e stimolano gruppi ad affrontare problemi urgenti, sviluppando così il senso di appartenenza e l’interesse per le questioni collettive. L’approccio comunitario, innovativo rispetto alla tradizione centralistica italiana, permette di conoscere meglio la realtà locale e di rendere gli interventi sociali più efficaci e partecipativi (Lambertini, 2005). Fase di Declino (1965-1970) Verso la fine degli anni Sessanta, il Servizio Sociale di Comunità inizia a declinare. I principali progetti di sviluppo comunitario si concludono, sia nelle aree urbane che rurali, segnando l’inizio di una crisi e di un ripensamento professionale, complice anche l’istituzione delle Regioni. Figure e Iniziative Chiave del Lavoro Comunitario in Italia Il Servizio Sociale di Comunità in Italia è stato sostenuto da figure e movimenti rilevanti: Adriano Olivetti promuove nel Canavese lo sviluppo sociale e politico attraverso i Centri comunitari, sostenuti dal Movimento di Comunità. Danilo Dolci si dedica al lavoro comunitario in Sicilia, collaborando con contadini per promuovere il senso civico. Movimento di Collaborazione Civica a Roma e i Centri di Orientamento Sociale in Umbria, guidati da Aldo Capitini, incoraggiano la partecipazione civica e l’educazione democratica. Organizzazioni come l’UNRRA-CASAS e l’INA-Casa contribuiscono anch’esse allo sviluppo comunitario, realizzando centri sociali e un’azione capillare di ricostruzione e sostegno nelle aree urbane più nuove e povere, fino a creare un ente specifico per il Servizio Sociale di Comunità, l’Ente Gestione Servizio Sociale (EGSS). La Fase di Sviluppo Metodologico (1958-1968) La seconda fase del Servizio Sociale di Comunità in Italia, compresa tra il 1958 e il 1968, è caratterizzata da un importante sviluppo metodologico e da un intenso dibattito sull’importanza di una formazione specifica per gli assistenti sociali. In questo periodo, molte scuole di Servizio Sociale iniziano a includere il lavoro comunitario nei loro piani di studio, promuovendo anche tirocini per favorire un approccio pratico. Si delineano due orientamenti metodologici distinti: Specializzazione statunitense: richiede una formazione specifica per gli assistenti sociali che operano nella comunità. Approccio generalista: sostiene che l’attenzione verso la comunità debba essere un aspetto base del lavoro sociale. Verso la metà degli anni Sessanta, diventa chiaro che il lavoro con la comunità deve essere una parte integrante della preparazione degli assistenti sociali, per renderli capaci di analizzare e supportare le comunità in modo efficace. I Convegni di Riferimento (1958-1968) In questa fase si svolgono numerosi convegni nazionali e internazionali che contribuiscono alla definizione metodologica del Servizio Sociale di Comunità in Italia. Questi incontri favoriscono lo scambio di esperienze e aiutano a stabilire le linee guida per il lavoro comunitario. Prima serie di convegni (1958-1961): focalizzati su questioni generali. Tra i più significativi: 1958, Palermo: “La ricerca sociale e lo Sviluppo di Comunità nelle aree problema europee” – approfondisce principi generali e approcci per le aree depresse. 1959, Bristol: discute lo sviluppo comunitario urbano e la necessità di partecipazione e coordinamento locale. 1961, Atene: si concentra sulla formazione del personale per il lavoro di comunità. Seconda serie di convegni (1961-1968): caratterizzata da una riflessione metodologica più approfondita. Gli incontri più importanti includono: 1961, Roma: ribadisce la necessità di includere il Servizio Sociale in attività di intervento sociale ed economico. 1962, Fregene: il convegno sulla professionalità degli assistenti sociali evidenzia l’importanza di interventi sociali preventivi. 1964, Frascati: rappresenta una pietra miliare per lo sviluppo metodologico in Italia, esplorando vari approcci di Servizio Sociale di Comunità e sottolineando la carenza di una tradizione comunitaria italiana. Il Convegno di Sorrento del 1968, organizzato dalla Fondazione Adriano Olivetti e dalla Fondazione Zancan, conclude questa fase di dibattiti sul Servizio Sociale di Comunità. La Fase di Declino (1965-1970) Durante questo periodo si conclude la maggior parte dei progetti di Sviluppo di Comunità, tanto in aree urbane quanto rurali, portando a una crisi e a un ripensamento del ruolo professionale, accentuati dall’istituzione delle Regioni. I principali interventi di comunità attuati in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale si dividono in tre ambiti: 1. Sviluppo di Comunità in zone rurali (1951-1968): Progetti orientati a comunità consolidate, per proteggerle durante lo sviluppo, e a nuove comunità da sostenere nella formazione di un’identità interna. 2. Lavoro sociale di comunità in aree urbane periferiche (1955-1975): Prevedeva centri sociali nei nuovi quartieri di edilizia popolare, con assistenti sociali impegnati a facilitare l’integrazione e l’organizzazione dei servizi. 3. Lavoro di comunità nelle strutture amministrative nel Sud (1960-1965): Un programma di assistenza tecnica, gestito dall’Amministrazione Aiuti Internazionali (AAI) e dalla Cassa del Mezzogiorno, favoriva la partecipazione attiva e l’organizzazione di nuovi servizi socio assistenziali, educativi e sanitari in province meridionali come Avellino, Brindisi e Pescara. Interventi di Comunità in Aree Rurali L’approccio comunitario nel Sud Italia ebbe origine nel primo dopoguerra, con l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI), che promosse l’alfabetizzazione dei contadini e un’educazione dal basso ispirata alla democrazia anglosassone. Durante il fascismo, l’alfabetizzazione proseguì tramite istituzioni del regime, con l’obiettivo di combattere la disoccupazione e rallentare l’emigrazione. Nel secondo dopoguerra, durante il Convegno di Tremezzo del 1946, si stabilì che gli assistenti sociali dovevano supportare il nuovo Stato sociale per ridurre l’esclusione, in particolare nel Sud. Tuttavia, si delinearono due visioni opposte per lo sviluppo: Modello elitario: prevedeva interventi dall’alto, con ruolo centrale dello Stato. Modello partecipativo: promuoveva politiche nate dal basso, sostenendo la comunità. I Centri di Cultura Meridionalista nel Dopoguerra Tre centri principali sostennero una cultura comunitaria nel Mezzogiorno: 1. Movimento di Comunità di Adriano Olivetti. 2. Centro studi della SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno). 3. CEPAS (Centro Educazione Professionale per Assistenti Sociali): Fondato dai coniugi Guido e Maria Comandini Calogero, fu pioniere dell’educazione per assistenti sociali e introdusse metodi americani in Italia, supportando lo sviluppo rurale in Basilicata e Abruzzo. Negli anni Cinquanta, in Italia vennero avviati diversi progetti di Sviluppo di Comunità in aree rurali, specialmente nel Mezzogiorno e nelle zone economicamente depresse del Nord. Questi progetti, nove secondo la letteratura, furono realizzati tra il 1948 e il 1963 per promuovere lo sviluppo socioeconomico delle regioni coinvolte. Solo sette di essi includevano assistenti sociali, coinvolti in iniziative come il Movimento di Comunità nel Canavese (1948-1965) e il Progetto Molise (1953). L’approccio concettuale rifletteva una visione di sottosviluppo come ritardo interno, per cui le risorse venivano concentrate localmente per stimolare il progresso interno, riducendo il trasferimento di risorse verso l’esterno. Classificazioni dei progetti Secondo Ferrario e Gottardi, i progetti in aree rurali sono classificabili in base a: 1. Prospettive di intervento: progetti a obiettivo generale o focalizzati su settori specifici e sullo sviluppo delle risorse locali. 2. Soggetti dell’iniziativa: enti esterni, partenariati o nuovi gruppi volontari. 3. Strategie di partecipazione: stimolo alla cultura, presa di coscienza, conoscenza normativa e capacità collettive di azione. Ruolo degli assistenti sociali Gli assistenti sociali furono impegnati in attività di ricerca, promozione di servizi essenziali, consulenze e iniziative educative per adulti. La ricerca, componente permanente nei progetti, utilizzava vari strumenti (questionari, interviste, osservazione partecipante) per diagnosticare le condizioni della comunità e favorire la partecipazione. Esempi di progetti significativi Movimento di Comunità nel Canavese (1948): Fondato da Adriano Olivetti, mirava a soddisfare bisogni di lavoro, abitazione, cultura e tempo libero, promuovendo il benessere dei lavoratori anche al di fuori della fabbrica. L’iniziativa si tradusse nella creazione di Centri comunitari che offrivano servizi culturali, educativi e sanitari. Progetto pilota per l’Abruzzo (1958): Sostenuto da UNRRA-CASAS e CEPAS, cercava di accompagnare la crisi rurale con politiche di educazione civica e sviluppo socioeconomico, includendo supporto tecnico in agricoltura, artigianato e turismo. Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione di Partinico (1958): Fondato da Danilo Dolci, promosse una pianificazione dal basso basata su partecipazione attiva, educazione e supporto a settori agricoli e socioeducativi. Iniziative come queste rispecchiavano un modello di sviluppo alternativo a quello occidentale top-down, puntando su cooperazione e solidarietà. Critiche e conclusione I progetti di sviluppo comunitario nelle aree rurali italiane si conclusero nella seconda metà degli anni Sessanta, spesso per cause interne ed esterne. Durante il Convegno di Sorrento (1968), vennero discusse quattro problematiche principali: la mancanza di una solida dimensione politica, il ruolo dello Stato, la frammentazione tecnica degli interventi e la necessità di una partecipazione dal basso più robusta. Il Servizio Sociale di Comunità nelle Aree Urbane In Italia, il Servizio Sociale di Comunità si è sviluppato attraverso due enti principali: l’ISES, che operava nelle aree rurali, e l’EGSS, attivo nelle aree urbane. Negli anni Cinquanta, con la costruzione di nuovi complessi di edilizia popolare grazie al Piano Fanfani, il Servizio Sociale venne coinvolto per migliorare la convivenza tra i nuovi residenti, specialmente nei quartieri INA-Casa. Il Piano Fanfani e la Crescita dell’Edilizia Popolare Il Piano Fanfani, approvato nel 1949, mirava a combattere la disoccupazione attraverso il settore edilizio e la costruzione di case per i lavoratori meno abbienti. Finanziato dallo Stato, dai datori di lavoro e dai dipendenti, il piano portò alla costruzione di circa 350.000 alloggi tra il 1949 e il 1963, migliorando le condizioni abitative per molte famiglie italiane e riducendo le situazioni di precarietà abitativa. Gli urbanisti italiani utilizzarono questi progetti per promuovere un nuovo modello di “quartiere”, inteso non solo come raggruppamento di edifici ma come comunità, con spazi pubblici pensati per favorire le interazioni tra abitanti. Sfide Sociali e Ghettizzazione La crescita della domanda abitativa portò alla costruzione di complessi edilizi anche in zone extraurbane, spesso carenti di servizi e difficilmente accessibili. Queste carenze infrastrutturali favorirono processi di ghettizzazione, sottolineando la necessità di interventi per promuovere una reale integrazione sociale. L’Integrazione degli Assistenti Sociali Dal 1951, il Piano Fanfani sperimentò l’inserimento di assistenti sociali nei nuovi quartieri per facilitare la nascita di una “vita sociale” attraverso la mediazione tra i residenti e le istituzioni. Questo intervento, che culminò nella creazione dell’EGSS nel 1954, si proponeva di sostenere attivamente la formazione delle nuove comunità attraverso la mediazione sociale, la promozione culturale e la sensibilizzazione dei residenti sui diritti e doveri abitativi. L’EGSS e la Formazione di un Servizio Sociale Unificato Sotto la direzione di Riccardo Catelani, l’EGSS promosse uno studio delle realtà sociali locali e stabilì due servizi di supporto per diffondere la conoscenza dell’ente e sostenere la programmazione e l’attività degli assistenti sociali. L’intervento del Servizio Sociale di Comunità puntava a coinvolgere l’intera collettività e si sviluppava attraverso un approccio metodologico che prevedeva identificazione del problema, diagnosi, pianificazione, realizzazione e valutazione delle azioni. Il modello promuoveva la partecipazione dei residenti e un’integrazione tra le azioni pubbliche e le forze sociali locali. La Trasformazione in ISSCAL Nel 1963, con la chiusura del Piano INA-Casa, l’EGSS si trasformò in ISSCAL, ente morale specializzato in interventi sociali urbani, collaborando con le amministrazioni locali per migliorare la qualità della vita dei residenti. L’ISSCAL si impegnava a elevare il livello socioculturale dei quartieri, sensibilizzare i residenti sui propri diritti e doveri, promuovere uno sviluppo urbanistico armonico e facilitare l’accesso a servizi e infrastrutture, mantenendo così la missione di creare una coesione sociale duratura. I Centri sociali e il ruolo degli assistenti sociali Nei contesti urbani, l’assistente sociale favoriva l’organizzazione della comunità coinvolgendo attivamente i residenti. Il lavoro si concentrava nei Centri sociali, pensati per stimolare la partecipazione dei cittadini nelle decisioni locali e per risolvere problemi della collettività (Catelani, 1965). I Centri sociali INA-Casa, creati nei quartieri più popolosi, fungevano da osservatori sociali e avevano l’obiettivo di promuovere la crescita sociale e democratica degli individui (La Banca, 2015). I Centri erano edifici multifunzionali che offrivano servizi diversificati, come biblioteche, scuole materne, corsi di doposcuola e di formazione lavorativa, con l’ufficio dell’assistente sociale al centro della struttura. Questa figura professionale era responsabile di aiutare gli abitanti a risolvere i propri problemi, analizzando i bisogni della comunità, mantenendo i contatti con le istituzioni e promuovendo interventi specifici (EGSS, 1959). Secondo una circolare dell’ISSCAL del 1962, i Centri sociali incoraggiavano la partecipazione attiva della comunità, sostenendo la formazione di gruppi di interesse e associazioni e promuovendo la solidarietà tra i residenti. L’assistente sociale rivestiva due ruoli: quello di consulente tecnico della comunità, supportando l’impegno civico dei cittadini, e quello di assistente sociale del quartiere, responsabile della gestione dei servizi sociali (Catelani, 1956). Odile Vallin, pioniera del Servizio Sociale in Italia, descriveva il Centro come un luogo dove i residenti potevano trascorrere il tempo libero e fare esperienze diverse dal quotidiano (Vallin, 1960). I Centri sociali erano anche spazi di confronto e di rappresentanza, contribuendo a migliorare il rapporto tra cittadini e istituzioni e a stimolare l’interesse civico (La Banca, 2015). Integrazione nelle periferie urbane I Centri sociali erano cruciali nelle periferie urbane, favorendo l’integrazione dei nuovi quartieri con la città esistente e prevenendo la ghettizzazione. Fungevano da intermediari tra i residenti e i servizi urbani, incoraggiando lo spirito di appartenenza e promuovendo rapporti di buon vicinato. In Sicilia, per esempio, Carmela Cosentino, assistente sociale, lavorò in progetti di edilizia popolare, organizzando incontri per aiutare i residenti ad adattarsi ai nuovi spazi abitativi, come nel caso di Gela, dove molte famiglie abituate a vivere in un’unica stanza imparavano a gestire appartamenti più ampi e moderni. L’importanza dei Centri sociali nelle periferie urbane I Centri sociali furono fondamentali per stimolare la partecipazione della popolazione nelle periferie urbane, favorendo la soluzione dei problemi locali e un processo di autodeterminazione comunitaria. L’intervento iniziava spesso con i giovanissimi, coinvolgendo poi progressivamente anche i genitori, sebbene fosse più facile coinvolgere le madri rispetto ai padri, che si mostravano più restii. Un esempio di coinvolgimento diretto della comunità è il caso della pulizia del quartiere, in cui le donne si occupavano anche della cura delle aree comuni, sentendo il loro ambiente come parte integrante della loro vita quotidiana (Cosentino, 2017). Centri sociali in diverse realtà italiane Da Nord a Sud, i Centri sociali hanno avuto un ruolo diversificato a seconda delle problematiche locali e della capacità degli assistenti sociali. A Roma, ad esempio, i Centri sociali Tiburtino e Tuscolano sono diventati punti di riferimento per le comunità locali. Il Centro Tiburtino si concentrò su attività di doposcuola per ragazzi e corsi di addestramento professionale per i giovani in cerca di lavoro. Il Centro Tuscolano, invece, riuscì a coinvolgere attivamente gli abitanti nella gestione e nella costruzione delle attività sociali. A Napoli, il Centro sociale del rione Traiano, gestito dal Centro Italiano Femminile, affrontò il problema dell’evasione scolastica, attivando scuole materne, doposcuola e corsi di educazione popolare. Un particolare impegno fu dedicato a corsi per adulti, soprattutto per le donne, con l’obiettivo di promuoverne l’autonomia sociale ed economica. Tuttavia, la partecipazione femminile a questi corsi serali fu limitata, in quanto molte donne erano occupate nei lavori domestici. L’esperienza dei Centri sociali ad Ancona Nel caso di Ancona, l’intervento nei quartieri Grazie e Collemarino fu particolarmente significativo. Nel quartiere Grazie, l’assistente sociale lavorò a stretto contatto con gli inquilini per aiutarli a integrarsi nei nuovi alloggi. Nel quartiere Collemarino, gli assistenti sociali si concentrarono su un intervento triplice: informativo, affiancando gli enti locali nel promuovere i servizi, e osservativo, monitorando l’ambiente sociale per intervenire tempestivamente su eventuali problematiche. In generale, l’azione dei Centri sociali, attraverso il lavoro degli assistenti sociali, contribuì significativamente al miglioramento delle condizioni di vita nei nuovi quartieri, favorendo la crescita e lo sviluppo sociale delle periferie urbane. CAPITOLO 2: POLITICHE E NORMATIVE PER LA PROMOZIONE DELLA DIMENSIONE COMUNITARIA Dal Welfare State al Welfare Comunitario Il lavoro di comunità ha avuto un ruolo cruciale nella storia del Servizio Sociale italiano, specialmente tra gli anni Cinquanta e Sessanta, periodo in cui si svilupparono le prime esperimentazioni di Servizio Sociale di Comunità, sia nelle aree rurali che urbane. Questi progetti rappresentarono un’innovazione significativa nel contesto di un welfare assistenzialistico e in tempi di scarsità di risorse. Il Servizio Sociale, strettamente legato ai processi di solidarietà nelle società moderne, è stato per lungo tempo considerato parte integrante del welfare state. Il ruolo dell’assistente sociale e la connessione con il welfare L’assistente sociale è considerato il tecnico del welfare istituzionale, specializzato nell’erogazione delle risorse pubbliche collettive. Il welfare, inteso come l’insieme di politiche finalizzate a garantire protezione sociale (previdenza, assistenza e sicurezza), è un bene comune a cui i cittadini accedono per il loro sviluppo personale, sociale ed economico. Il legame tra politiche sociali e Servizio Sociale professionale è molto forte, come sottolinea Teresa Bertotti, poiché il Servizio Sociale opera all’intersezione tra i bisogni individuali e le risposte organizzate della società, con l’obiettivo di rispondere alle necessità emergenti. Evoluzione del welfare: dal tradizionale al welfare mix Il welfare state tradizionale, in cui lo Stato produceva direttamente e gestiva i servizi per la popolazione, è stato sostituito dal modello del welfare mix. In quest’ultimo, le prestazioni sociali vengono erogate da una pluralità di soggetti pubblici e privati, dando vita a una situazione di “quasi mercato”, dove l’utente ha la possibilità di scegliere il servizio che preferisce, premiando chi offre il miglior rapporto qualità/prezzo. Tuttavia, questo sistema ha mostrato delle criticità, tra cui la difficoltà dello Stato di gestire efficacemente le politiche di welfare e la difficoltà di alcuni operatori privati nel soddisfare adeguatamente gli utenti. Le sfide del welfare moderno Negli ultimi anni, con l’aumento esponenziale delle richieste di prestazioni sociali e la crisi economica, il modello del welfare state europeo ha mostrato segni di insostenibilità. Gli Stati occidentali, a causa della globalizzazione economica, non riescono più a mantenere il finanziamento dei servizi sociali come in passato, e il costo del welfare è aumentato considerevolmente. Ciò ha portato a una riduzione dell’offerta di servizi, che spesso si traduce in prestazioni di minore qualità, liste d’attesa più lunghe e un aumento delle difficoltà per i cittadini nell’accesso ai servizi. Verso un welfare comunitario e generativo Alla luce delle sfide economiche e sociali, è necessario ripensare il welfare, abbandonando il vecchio modello assistenzialistico per abbracciare un nuovo approccio che metta al centro lo sviluppo delle competenze individuali e collettive. Un modello di welfare che sia comunitario e generativo, in cui le risorse locali vengono valorizzate attraverso una sinergia tra istituzioni e cittadini. In questo contesto, la comunità non è solo un contenitore di bisogni, ma una risorsa collettiva e attiva, in grado di promuovere competenze e risorse attraverso la collaborazione sociale. Il modello di welfare comunitario proposto da Folgheraiter evidenzia l’importanza di creare ricchezze immateriali e risorse attraverso le capacità naturali delle reti sociali, enfatizzando l’intelligenza e il cuore delle comunità locali come motori di benessere. Il Welfare Comunitario: Un Nuovo Modello di Collaborazione tra Stato e Società Il welfare comunitario si configura come un’alternativa al tradizionale modello basato sul rapporto individuo-Stato, enfatizzando la collaborazione tra Stato e società civile per il miglioramento del benessere collettivo. In questo modello, l’impegno per il benessere sociale diventa parte integrante della vita quotidiana dei cittadini e si realizza attraverso un’interazione costante tra le istituzioni statali e la comunità locale. Questo approccio non si limita a garantire diritti individuali, ma integra anche il concetto di doveri reciproci, in particolare verso il bene comune. I diritti individuali non sono più visti come elementi separati, ma come diritti a corrispettivo sociale, in cui ciò che una persona riceve serve a migliorare non solo la sua condizione, ma anche quella degli altri, stimolando la solidarietà e la responsabilità sociale. Diritti, Doveri e Solidarietà Sociale Nel welfare comunitario, i diritti individuali vengono bilanciati da doveri di solidarietà, dove ogni beneficiario è chiamato a responsabilizzarsi e a partecipare attivamente al miglioramento della propria condizione e a quella degli altri. L’idea di “reciprocità” implica che ciascuna persona, aiutata o meno, diventi attore del proprio benessere e di quello collettivo. In questo modo, si promuove un tipo di assistenza che non sia consumata in solitudine, ma che favorisca l’interconnessione tra gli individui, incoraggiando la condivisione e la collaborazione. Le “azioni a corrispettivo sociale” sono un esempio pratico di questa logica: attività solidali che, anche se già remunerate attraverso i benefici ricevuti, contribuiscono al bene comune e responsabilizzano i beneficiari. Il Welfare Generativo e la Regola delle 5 “R” Il welfare comunitario si basa sulla sussidiarietà, il principio che sostiene un passaggio dal welfare state tradizionale a un modello in cui lo Stato non è più un’entità paternalista, ma un facilitatore che rigenera le risorse locali e responsabilizza la società civile. In questa visione, il welfare non si limita a raccogliere e redistribuire risorse, ma ha anche la funzione di rigenerare, rendere e responsabilizzare. Queste funzioni sono descritte dalle “R” del welfare generativo: 1. Raccogliere e Redistribuire: Funzioni storicamente attribuite allo Stato, che si occupa della raccolta e della redistribuzione delle risorse. 2. Rigenerare: Le istituzioni locali identificano le migliori prassi per erogare aiuti, trasformando le risorse disponibili in nuove opportunità. 3. Rendere: I beneficiari degli aiuti sono messi nelle condizioni di usare queste risorse per aiutare anche altri, ampliando l’effetto positivo sulla comunità. 4. Responsabilizzare: La circolarità dell’aiuto viene promossa, potenziata e divulgata, mirando a costruire capitale sociale e bene comune. In questo contesto, il welfare comunitario diventa un sistema che non solo fornisce assistenza, ma stimola una cultura di aiuto reciproco, coinvolgendo la comunità locale in un processo di crescita e sostegno collettivo. Il Welfare Generativo e la Solidarietà Una nuova stagione del welfare emerge con una concezione generativa che si basa sulla sussidiarietà e la solidarietà. In alcune aree, questa visione si concretizza attraverso le esperienze del non profit, che favoriscono il rafforzamento dei legami sociali e la creazione di fiducia, coinvolgendo enti locali e imprese nel processo. Le azioni generative attivate stimolano l’innovazione sociale, creando valore condiviso e costruendo relazioni che uniscono sviluppo e coesione sociale. L’obiettivo è “ri-legare” gli attori sociali, costruendo connessioni che favoriscano l’integrazione della comunità. Welfare di Prossimità e Relazioni Sociali Il welfare di prossimità si fonda su relazioni di vicinato, famiglie allargate, mediazioni e ascolto. Le esperienze locali dimostrano che il welfare è più efficace quando è meno anonimo, quando si attivano risorse sociali e si promuove un tessuto aggregativo. Questo approccio estende i confini informali del mercato della cura, portando a pratiche come condomini solidali, progetti di vicinato, famiglie allargate e co-housing. In questo contesto, il legame sociale diventa una potente risorsa di cura, trasformando i residenti in “agenti” locali, protagonisti di un welfare partecipato e autopromosso, responsabili della cura civica dei beni comuni come salute, solidarietà e reti di prossimità. Ruolo dello Stato e delle Comunità Nel welfare comunitario, i cittadini sono i motori principali delle iniziative di benessere, creando e gestendo strutture associative che rispondono ai bisogni locali. Lo Stato, invece, ha il ruolo di supportare e incentivare queste azioni, predisponendo le condizioni normative e facilitando la produzione di prestazioni assistenziali. In questo modello, lo Stato partecipa attivamente alla pianificazione strategica, al monitoraggio e alla promozione di una governance locale, senza però deresponsabilizzarsi. Superamento dell’Assistenzialismo e Valorizzazione delle Capacità Individuali Il welfare generativo rappresenta un modo per superare l’assistenzialismo, evitando il rischio di abbandono o di privatizzazione dei servizi. La sua forza sta nel responsabilizzare i beneficiari, incoraggiandoli a contribuire al benessere proprio e della comunità, valorizzando le proprie capacità. In questo modo, si rigenerano le risorse investite, creando benefici per tutti, e si promuovono valori di solidarietà, uguaglianza e responsabilità, fondamentali per la realizzazione del bene comune. Riferimenti normativi a sostegno del lavoro di comunità La trasformazione del community work in Italia è legata principalmente alla legislazione che ha promosso il decentramento e la partecipazione comunitaria a partire dagli anni Settanta. La riforma dello Stato e delle politiche sociali e sanitarie, come la Legge 833/1978 per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e il DPR 616/1977, ha riconosciuto la dimensione territoriale dell’intervento sociale, promuovendo l’autonomia locale e la partecipazione della comunità. Con la Legge 285/1997 e la Legge 328/2000, è stato ulteriormente enfatizzato il ritorno alla comunità come attore principale nelle politiche sociali, rafforzando l’idea che la comunità possa partecipare attivamente alla costruzione delle politiche che la riguardano. Il concetto di partecipazione è ora centrale, affrontando una vasta gamma di temi, tra cui la riqualificazione urbana, l’inclusione sociale e la sicurezza nelle città. Agenda 21 e il ruolo delle comunità locali A livello internazionale, uno dei principali riferimenti normativi che ispira il lavoro di comunità è il programma “Agenda 21”, adottato dalla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED) nel 1992. Agenda 21 promuove un approccio partecipativo per affrontare problemi socioeconomici e ambientali, con un focus specifico sul ruolo delle amministrazioni locali nel supportare lo sviluppo sostenibile. Il capitolo 28, in particolare, sottolinea l’importanza del dialogo con i cittadini e le organizzazioni locali per sviluppare strategie efficaci attraverso la consultazione e la costruzione del consenso. Legge 328/2000: Promozione della comunità e partecipazione In Italia, la Legge 328/2000, che istituisce il sistema integrato di interventi e servizi sociali, contiene numerosi riferimenti al lavoro di comunità. La legge enfatizza l’ottica promozionale, la mobilitazione delle risorse comunitarie e la partecipazione attiva nella governance territoriale. Tra le finalità della legge, si trova la promozione di interventi che garantiscano la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, che sono principi alla base del lavoro di comunità. L’approccio partecipativo e la concertazione tra i vari attori locali, inclusi i cittadini, sono visti come strumenti essenziali per affrontare le disuguaglianze e migliorare il benessere sociale. Mobilitazione delle risorse della comunità e principi normativi La Legge 328/2000 stabilisce il principio di sussidiarietà, che richiede alle istituzioni (Stato, Regioni, Province, Comuni) di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini per attività di interesse generale. In questo contesto, i Comuni hanno il compito di mobilitare le risorse locali, mantenendo un ruolo di coordinamento nella rete di servizi e interventi. La legge, infatti, stabilisce che la programmazione e l’organizzazione dei servizi sociali spetti agli enti locali, alle Regioni e allo Stato, in base ai principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia e responsabilità. Concertazione e partnership Un altro principio cardine della legge riguarda la concertazione e la partnership, che sono alla base della costruzione di un sistema integrato di servizi. La legge prevede che alla gestione e offerta dei servizi partecipino soggetti pubblici e privati, come organismi non lucrativi, cooperative, associazioni di volontariato, e fondazioni. La cooperazione tra questi attori è fondamentale per il buon funzionamento dei servizi sociali, come indicato negli articoli 1 e 3 della legge. Valutazione partecipata e trasparenza La valutazione partecipata è un altro concetto chiave, contenuto nell’articolo 6 della legge, che stabilisce il diritto dei cittadini a partecipare al controllo della qualità dei servizi, secondo le modalità definite negli statuti comunali. Inoltre, la Carta dei Servizi Sociali (art. 13) deve fornire criteri per l’accesso e la valutazione dei servizi, tutelando i diritti degli utenti e permettendo loro di presentare ricorsi. Responsabilizzazione della comunità La Legge 328/2000 promuove anche l’aumento della partecipazione e responsabilizzazione della comunità nel miglioramento della qualità e dell’efficienza degli interventi. Articoli come il 1 (comma 5 e 6) e il 16 (comma 1) evidenziano il ruolo attivo delle famiglie e delle organizzazioni sociali nel co-creare e monitorare i servizi, assicurando che la comunità stessa sia protagonista nella definizione e valutazione delle politiche sociali. Progettazione e implementazione territoriale La legge sottolinea l’importanza di radicare i servizi sociali nel territorio, indicando il livello locale come il luogo ideale per la progettazione e l’implementazione delle politiche sociali. L’approccio è orientato a una maggiore partecipazione, con l’utilizzo del Piano di zona come strumento di progettazione. In questo modo, si riconosce che i problemi sociali sono strettamente legati ai contesti territoriali e devono essere affrontati tenendo conto delle specificità dei luoghi e delle persone che li abitano. La Regionalizzazione delle Politiche Sociali Nonostante il tentativo di unificare i Servizi socioassistenziali attraverso la Legge 328/2000, la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 ha portato a una regionalizzazione delle politiche sociali. L’assistenza sociale è diventata materia di potestà legislativa esclusiva delle Regioni, con l’eccezione dei livelli essenziali delle prestazioni legate ai diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale dallo Stato. Questo ha provocato una differenziazione tra i sistemi di welfare regionali, creando disparità di trattamento tra gli utenti. Il Principio di Sussidiarietà Orizzontale La riforma costituzionale ha introdotto l’art. 118, che stabilisce il principio di sussidiarietà orizzontale, secondo cui la società e lo Stato devono collaborare per il conseguimento dell’interesse generale. I cittadini vengono attribuiti come risorse sussidiarie per l’amministrazione, potenziando l’efficacia nella risoluzione dei problemi collettivi e favorendo il senso civico e la partecipazione. Questo principio sottolinea il ruolo attivo dei cittadini nelle questioni di interesse comune. Il Libro Verde e Libro Bianco del 2008-2009 Nel 2008, il Ministero del Lavoro ha pubblicato il “Libro verde”, una consultazione pubblica sul futuro del modello sociale italiano, che nel 2009 è stato seguito dal “Libro bianco”. Quest’ultimo ha introdotto esplicitamente il concetto di welfare comunitario, visto come una rete di persone, famiglie, imprese e organizzazioni, che alimenta la responsabilità civile, la fiducia e la solidarietà reciproca. Questo approccio pone il territorio come il luogo ideale per la realizzazione di politiche sociali integrate, in grado di rispondere ai bisogni delle persone. Obiettivi della Riforma Proposta dal Libro Bianco Il Libro bianco del 2009 ha proposto quattro obiettivi principali per la riforma del welfare: Responsabilità individuale: stimolare la responsabilità dei singoli cittadini. Sistema a più pilastri: sviluppare un sistema che integri diversi pilastri, anche nella sanità e nell’assistenza sociosanitaria. Valorizzazione del dono e della solidarietà: rafforzare gli strumenti di sostegno dello Stato per promuovere il valore del dono e della solidarietà. Superamento della distinzione pubblico/privato: ridimensionare il settore pubblico e riscatto il privato per un welfare delle opportunità. Il Welfare delle Opportunità Il welfare delle opportunità è concepito per rispondere in anticipo ai bisogni, promuovendo politiche personalizzate e differenziate, stimolando comportamenti responsabili che sono utili sia per l’individuo che per la collettività. Questo modello si rivolge alla persona nella sua integralità, potenziando le sue capacità e intervenendo in modo preventivo per prevenire la creazione di necessità sociali urgenti. Il Ruolo del Territorio nel Nuovo Welfare Nel Libro bianco è ribadita l’importanza del territorio come ambito privilegiato per realizzare politiche sociali integrate. Il territorio è visto come il luogo in cui si sviluppano politiche per l’occupabilità, la prevenzione della povertà, l’integrazione degli immigrati, e dove si realizzano servizi sociosanitari e di supporto alla natalità e alla famiglia. Inoltre, è in questo contesto che si possono concretizzare iniziative di solidarietà come il volontariato e le nuove forme di cooperazione industriale. Il Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA) Nel 2016 è stato introdotto il Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA), una misura per contrastare la povertà che prevede la creazione di progetti personalizzati di inclusione sociale e lavorativa. I beneficiari devono sottoscrivere un piano di attivazione sociale che coinvolge i Servizi Sociali, i Centri per l’impiego, i Servizi sanitari e il Terzo Settore. Il SIA integra l’approccio di comunità, utilizzando risorse locali formali e informali per sostenere le famiglie vulnerabili. Le Linee Guida del SIA e l’Approccio di Comunità Le Linee guida per l’attuazione del SIA evidenziano la necessità di identificare le risorse della comunità, siano esse formali o informali, per supportare i progetti di inclusione. Questo approccio di comunità prevede l’attivazione di reti locali, che includono servizi di prossimità, gruppi di auto-aiuto, e supporto da parte di famiglie di appoggio. Si pone l’accento sulla valorizzazione delle risorse locali per affrontare i bisogni e stimolare l’integrazione sociale. Il Lavoro di Comunità nella Normativa Italiana L’attuale quadro normativo italiano invita a un lavoro di comunità sempre più centralizzato. Gli operatori dei Servizi Sociali non sono più solo chiamati a gestire i bisogni individuali, ma anche a promuovere e valorizzare le risorse e le competenze delle comunità locali. Questo cambiamento implica un ampliamento delle competenze degli operatori, che devono affrontare nuove sfide sociali e coinvolgere attivamente le comunità nel processo di welfare. CAPITOLO 3: FONDAMENTI TEORICI E METODOLOGICI DEL SERVIZIO SOCIALE DI COMUNITÀ Il servizio sociale di comunità: sviluppo e fondamenti teorici 1. Da una cultura del bisogno a una delle risorse Il Servizio Sociale di Comunità segna un cambiamento nella concezione dell’intervento sociale: non più centrato sul bisogno, ma sulle risorse e capacità delle comunità. Questo approccio considera la comunità come soggetto collettivo, promuovendo la partecipazione dei cittadini al benessere sociale. 2. Prospettiva teorico-metodologica Dal punto di vista teorico-metodologico, il Servizio Sociale di Comunità si basa su due concetti fondamentali: il metodo unitario e la tridimensionalità. Il metodo unitario, nato in Italia dopo il distacco dalla tradizione anglosassone, implica un approccio integrato e coordinato, mentre la tridimensionalità considera simultaneamente l’individuo, il contesto sociale e l’istituzione. 3. Approccio sistemico-relazionale e di rete Il Servizio Sociale di Comunità si fonda su approcci teorici come il sistemico-relazionale e il di rete. Il primo si basa sulla teoria dei sistemi, dove l’individuo è visto come parte di un sistema più ampio di relazioni. L’approccio di rete, invece, enfatizza la rete di risorse disponibili sul territorio per rispondere ai bisogni sociali, promuovendo un cambiamento attraverso le interazioni tra le varie entità. 4. Il paradigma relazionale A partire dagli anni ‘90, il paradigma relazionale ha iniziato a prevalere nel Servizio Sociale, contrastando l’approccio tecnico-specialistico. La centralità della relazione sociale e il coinvolgimento attivo degli utenti nelle soluzioni dei loro problemi sono elementi chiave di questa prospettiva, che favorisce l’autonomia e la competenza individuale. Prospettiva Etico-Politica 1. I problemi individuali come problemi sociali Il Servizio Sociale di Comunità considera i problemi individuali come questioni collettive. Questo approccio sposta l’attenzione dal livello individuale a quello sociale, in cui si intrecciano etica, relazione e politica. 2. Pratiche etico-politiche Le pratiche etico-politiche includono la pratica anti oppressiva, che mira a contrastare le disuguaglianze di potere, l’advocacy, che dà voce agli oppressi per garantire il riconoscimento dei loro diritti, e la policy practice, che si concentra sullo sviluppo e la modifica delle politiche sociali. Modelli Tecnico-Operativi 1. Modelli di intervento Esistono diversi modelli di intervento nella comunità, che variano a seconda dell’obiettivo dell’intervento e degli interlocutori coinvolti. Questi modelli spaziano dalla relazione con i residenti e l’offerta dei servizi, alla pianificazione collettiva degli interventi, promuovendo la partecipazione attiva della comunità. CAPITOLO 4: NUOVO SERVIZIO SOCIALE DI COMUNITÀ: IL RUOLO DELL'ASSISTENTE SOCIALE COME PROMOTORE DI RISORSE DELLA E NELLA COMUNITÀ Contraddizioni tra Normativa e Pratica Professionale Nel quadro legislativo attuale, che comprende la Legge 328/2000, la riforma del Titolo V della Costituzione, il Libro bianco sul futuro del modello sociale e le Linee guida del SIA, si osservano inviti espliciti a valorizzare le risorse delle comunità locali. Tuttavia, queste indicazioni non sempre si traducono in pratiche concrete all’interno dei Servizi Sociali. Nonostante l’importanza crescente del concetto di comunità locale, gli assistenti sociali continuano a concentrarsi principalmente sull’approccio individuale, a causa della maggiore attenzione data al lavoro sui casi e alle crescenti pressioni burocratiche e amministrative. L’Approccio Individuale vs. Lavoro di Comunità L’approccio individuale è prevalente nel lavoro degli assistenti sociali, che, oberati dalle urgenze quotidiane, dedicano la maggior parte del loro tempo al lavoro sui casi. In base a un’indagine condotta dal Ministero dell’Istruzione, solo il 15% del tempo degli assistenti sociali è destinato al lavoro di rete e comunitario, mentre il 40% è impiegato nell’intervento diretto con gli utenti. Questo squilibrio è stato riconosciuto dal CNOAS, che nel 2010 ha proposto una formazione nazionale per promuovere il lavoro di comunità all’interno della professione. Tuttavia, l’intervento comunitario rimane marginale rispetto all’urgenza di rispondere alle richieste individuali. Ostacoli Burocratici e Politiche Contraddittorie Il lavoro degli assistenti sociali è ulteriormente ostacolato da un sistema burocratico che frena l’efficacia dell’intervento professionale. Nonostante le riforme istituzionali, la valorizzazione delle autonomie locali e il coinvolgimento delle comunità sono stati fermati da difficoltà politiche, scarso supporto tecnologico e risorse insufficienti. Questo ha portato a una frammentazione della professionalità degli assistenti sociali, in cui prevale l’iperspecializzazione a scapito di un approccio preventivo e comunitario. Le Criticità del Servizio Sociale Contemporaneo Il Servizio Sociale attuale deve affrontare numerose difficoltà, in particolare quelle derivanti dalla globalizzazione, che ha avuto impatti significativi sul livello locale. La globalizzazione ha cambiato il panorama sociale delle città, portando a una crescita della povertà, della multietnicità e dell’emarginazione. Le aree urbane richiedono interventi sociali più ampi, che non si limitano a interventi scolastici, assistenziali o sanitari isolati, ma che devono essere parte di progetti comunitari integrati, con il supporto di un Servizio Sociale professionale. Effetti della Crisi e delle Politiche Neoliberiste Il Servizio Sociale è fortemente influenzato dalle politiche neoliberiste e dal processo di globalizzazione, che ha portato a una crescente precarietà lavorativa e disoccupazione. L’approccio managerialista e la standardizzazione dei processi amministrativi hanno ridotto lo spazio per interventi sociali promozionali. Questo ha generato due tipologie di assistente sociale: quello “burocrate”, che si limita a eseguire compiti amministrativi, e quello “bancomat”, che eroga esclusivamente benefit economici. Frammentazione delle Politiche Sociali Il processo di decentralizzazione delle politiche sociali, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, ha contribuito alla frammentazione delle politiche a livello regionale. Inoltre, i tagli al welfare, le manovre finanziarie e l’incapacità dei Comuni di raccogliere nuove risorse hanno portato a un impoverimento del sistema dei servizi sociali. L’esternalizzazione dei servizi pubblici ha ulteriormente depauperato competenze e risorse finanziarie. Resistenze Interni ed Esterni alla Pratica del Servizio Sociale di Comunità Il Servizio Sociale di Comunità incontra numerose resistenze, sia interne che esterne alla professione. Le resistenze interne sono legate alla natura del lavoro di comunità, che comporta un setting meno rassicurante rispetto al lavoro sul caso individuale. L’assistente sociale, infatti, è chiamato a operare sul territorio, interagendo con tutti gli abitanti di una comunità. Questo richiede di uscire dalla propria comfort zone, abbandonando la “scrivania” e imparando a guardare non solo le mancanze, ma anche le risorse presenti nella comunità. Inoltre, la professione si trova ad affrontare una crisi strutturale, con una crescente difficoltà nel conciliare i mandati sociale, professionale e istituzionale. Le resistenze esterne riguardano due principali fattori. Primo, la diffidenza degli amministratori verso progetti di interesse collettivo, che spesso vengono visti con scetticismo. Secondo, l’orientamento delle politiche sociali neoliberiste, che privilegiano l’intervento individuale, richiedendo agli assistenti sociali di rispondere a domande di aiuto individuali piuttosto che promuovere il benessere collettivo. Il Cambiamento della Prospettiva Professionale Di fronte all’emergere di nuovi bisogni e alla crisi del welfare, gli assistenti sociali devono ripensare il loro ruolo e le modalità di intervento. La professione si trova di fronte a una sfida cruciale: superare l’approccio riparativo per passare a una dimensione più preventiva, promozionale e inclusiva. Questo cambiamento implica un focus non solo sull’aiuto individuale, ma anche sulla comunità intera. Gli assistenti sociali sono chiamati a lavorare sul territorio, attivando e sostenendo processi sociali all’interno della comunità, affrontando i problemi collettivamente. È necessario, quindi, sviluppare relazioni tra gli abitanti e favorire l’integrazione con le amministrazioni locali. Nuovo Servizio Sociale di Comunità: Innovazione e Rilettura Il lavoro di comunità ha bisogno di essere ripensato, alla luce delle esperienze passate e dei cambiamenti socio-politici. In un contesto di crisi economica, è fondamentale guardare non solo alla solidarietà istituzionale, ma anche alla solidarietà comunitaria. Le Fondazioni di Comunità sono un esempio di come si possano attivare risorse locali, mettendo insieme attori pubblici e privati per finanziare progetti di utilità sociale e promuovere il secondo welfare. Le FdC rappresentano una buona pratica di protezione e intervento sociale a finanziamento non pubblico, con forte ancoraggio territoriale. L’Assistente Sociale come Promotore di Risorse L’assistente sociale deve essere visto come un attivatore di processi relazionali finalizzati alla soluzione condivisa di problemi. Non si limita a intervenire sulla singola persona, ma lavora all’interno di una rete di relazioni, individuando le risorse che emergono dalla dinamica collettiva. Secondo l’approccio relazionale, il ruolo dell’assistente sociale è quello di guidare e orientare le risorse che già esistono all’interno della comunità, favorendo una reciproca influenza tra la rete di supporto (ad esempio, la famiglia) e l’operatore. Il suo intervento consiste nel dare un orientamento alle dinamiche sociali in corso, in modo che la soluzione al problema emerga dalla rete stessa. Questo approccio, che promuove una visione più collettiva e integrata dell’intervento sociale, rappresenta una rinnovata visione del Servizio Sociale di Comunità, che va oltre il tradizionale “lavoro sul caso” per abbracciare una dimensione più ampia e inclusiva. Ruolo dell’Assistente Sociale nella Comunità L’assistente sociale, nel contesto del Servizio Sociale di Comunità, riveste il ruolo di facilitatori di comunicazione e catalizzatori di risorse e relazioni all’interno della comunità. La sua funzione non si limita all’intervento individuale, ma si estende alla promozione delle risorse presenti nel contesto sociale e territoriale, mettendo in atto azioni che coinvolgono direttamente la comunità locale. Compiti dell’Assistente Sociale secondo il Codice Deontologico Il Codice Deontologico dell’assistente sociale riconosce e legittima questa funzione di promozione sociale e politica, indicando compiti specifici che definiscono l’approccio professionale nel lavoro di comunità. In particolare, il Titolo IV del Codice stabilisce le “Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della società,” individuando tre compiti chiave che caratterizzano il nuovo Servizio Sociale di Comunità: conoscenza, promozione e advocacy. 1. Conoscenza Il primo compito riguarda la conoscenza della realtà sociale e territoriale in cui l’assistente sociale opera. Questo implica: Conoscere il contesto socioculturale e i soggetti attivi nel campo sociale (articoli 35 e 38 del Codice). Far conoscere i diritti e doveri degli utenti e fornire informazioni corrette sui servizi sociali disponibili (articoli 34 e 39). In pratica, l’assistente sociale deve conoscere le domande e i bisogni, sia individuali che collettivi, manifestati dalla popolazione, non limitandosi a osservare dalla “scrivania” ma impegnandosi attivamente sul territorio. Deve individuare e raccordarsi con i soggetti già operativi localmente e comprendere il tessuto sociale per affrontare le criticità emergenti. 2. Promozione Il secondo compito è la promozione delle politiche sociali integrate. L’assistente sociale è chiamato a: Favorire la partecipazione attiva della comunità. Contribuire allo sviluppo di politiche sociali che mirano all’emancipazione e responsabilizzazione dei gruppi marginali (articolo 36). L’assistente sociale deve impegnarsi nella progettazione e gestione dei servizi a livello locale, rispondendo a situazioni di bisogno e disagio. È coinvolto nella programmazione locale, come nei piani di zona, e nella definizione di protocolli di intesa tra i vari attori del territorio, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita della comunità attraverso azioni concrete e inclusive. 3. Advocacy Il terzo compito riguarda l’advocacy, che prevede che l’assistente sociale agisca come sentinella sociale. Secondo l’articolo 37 del Codice: L’assistente sociale deve segnalare alle istituzioni e all’opinione pubblica le situazioni di deprivazione, disagio non tutelato, e iniquità, portando alla luce disuguaglianze e mancanze di protezione adeguata. DIZIONARIO DI SERVIZIO SOCIALE COMMUNITY CARE (C.C.) Maria Luisa Raineri Definizione Il termine Community Care (C.C.) si riferisce a un orientamento delle politiche sociali moderne, adottato da tutti gli Stati di welfare occidentali, che promuove l’assistenza alle categorie sociali più vulnerabili (come anziani non autosufficienti, disabili e persone con difficoltà mentali) dentro il contesto della comunità locale. Il principio di base è la “normalizzazione” di Wolfensberger (1972), che sottolinea l’importanza di far vivere queste persone nella propria comunità anziché in grandi istituzioni residenziali. La C.C. punta a forme di assistenza che siano non residenziali, che si sviluppano dentro la comunità stessa. Cenni storici Le forme di assistenza comunitaria possono essere divise in tre concezioni principali: 1. Statutaria (formale): l’assistenza viene erogata da enti pubblici o privati, con prestazioni professionali standardizzate presso il domicilio della persona. 2. Comunitaria (spontanea): gli aiuti emergono dalla stessa comunità, specialmente dalle famiglie, e in particolare dalle donne. 3. Mista (intrecciata): questa concezione sostiene che le cure debbano essere una combinazione delle precedenti due, dove l’assistenza professionale si integra con l’aiuto informale proveniente dalla comunità. Bayley (1973) ha diviso la C.C. in due modalità: “care in the community” (aiuti professionali organizzati nel contesto della vita quotidiana) e “care by the community” (aiuti emergenti dalla comunità stessa). Modelli liberisti Nei modelli liberisti, come quello introdotto in Gran Bretagna negli anni ‘90 con il Health and Community Care Act (1990), l’assistenza sociale si sposta dalla gestione statale a una forma di mercato assistenziale, dove l’iniziativa viene lasciata ai cittadini e alle imprese. Questo modello promuove la libertà di scelta delle prestazioni sociali e incoraggia le dinamiche di scambio nelle comunità, sostenendo una forma di empowerment basata sulla reciprocità. Aspetti critici Nonostante la C.C. sembri ideale, ci sono delle difficoltà pratiche: Lo Stato deve mantenere un ruolo attivo nell’organizzazione dei servizi assistenziali, evitando un disimpegno, ma senza gravare troppo sulla spesa pubblica. Le prestazioni informali, come quelle familiari, sono difficili da organizzare su larga scala e tendono a concentrarsi su reti familiari ristrette. La C.C. può risultare complessa da gestire, soprattutto se i bisogni assistenziali sono difficili da soddisfare attraverso le soluzioni disponibili nel mercato sociale, e l’accesso alle informazioni spesso è limitato. Il concetto di sussidiarietà è centrale, dove gli aiuti formali entrano in gioco quando le persone non riescono a gestire il proprio benessere in modo autonomo. Questo implica che ci sia una combinazione di interventi differenti, motivati e liberi, che si intrecciano per offrire soluzioni più complete. La metodologia di rete La metodologia di rete (Raineri, 2004; Folgheraiter, 2011) è un approccio che riflette l’interconnessione tra vari attori (professionisti, istituzioni pubbliche e private) per garantire un sistema di cura integrato. Questo approccio valorizza l’iniziativa libera dei cittadini e l’orientamento professionale, integrando la guida delle istituzioni di welfare. EMPOWERMENT SOCIALE Patrizia Sartori Definizione L’empowerment sociale (e.s.) è un concetto che si è sviluppato principalmente nella psicologia di comunità, ma che ha trovato applicazione anche in politica, medicina, psicoterapia, sociologia dell’organizzazione, management e pedagogia. Il termine si riferisce sia al risultato, ovvero lo stato di empowerment del soggetto o della collettività, sia al processo che facilita tale raggiungimento. È un concetto complesso, applicabile a livello individuale, organizzativo e comunitario, e implica un cambiamento dalla cultura della dipendenza a quella della possibilità e dell’autoefficacia, riconoscendo competenze e risorse nel contesto sociale. Basi Teoriche Il concetto di empowerment si distingue per la sua attenzione alla promozione di un ruolo attivo degli individui nelle loro relazioni sociali, enfatizzando la valorizzazione delle risorse personali e ambientali. Gli studi sull’empowerment psicologico hanno sottolineato l’importanza delle connessioni tra individuo e contesto di vita, evitando una visione puramente centrata sull’individuo. In sociologia e gestione, l’empowerment organizzativo esplora come le strutture organizzative possano favorire azioni cooperative e un cambiamento positivo. La psicologia di comunità vede l’e.s. come un obiettivo e un campo di intervento per lo sviluppo di una comunità competente, con attenzione ai contesti storici, politici e culturali. Politiche Sociali e Workfare Nell’ambito delle politiche sociali, l’empowerment è alla base di programmi come il workfare, che legano l’erogazione di benefici economici alla partecipazione a attività formative e lavorative, con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dal welfare. Tuttavia, studi recenti hanno evidenziato le contraddizioni e l’inefficacia di tali programmi, mostrando che talvolta possono avere effetti contrari a quelli auspicati, con rischi di esclusione per chi non soddisfa determinati criteri. Implicazioni nel Servizio Sociale L’approccio relazionale, influenzato dall’empowerment, si concentra sul potenziamento delle capacità di azione degli individui, con il supporto delle reti sociali, all’interno di un welfare mix. Questo approccio supera la visione riparativa e terapeutica tradizionale, proponendo una visione multidimensionale e reticolare della realtà sociale, che integra diverse forme di supporto. Aspetti Critici Nonostante la sua rilevanza, l’empowerment sociale è un concetto complesso e ambivalente. La sua applicazione può portare a un’attenzione eccessiva all’individuo, rischiando di confondere la percezione di potere con il potere effettivo. Inoltre, le questioni etiche e politiche legate al potere sono centrali, con il rischio che l’empowerment non sia sempre un processo equo. Alcuni teorici rispondono a questa criticità concependo il potere come un fenomeno relazionale e intersoggettivo, in cui il potere dei singoli contribuisce a rafforzare il potere collettivo. PROGETTO Silvana Tonon Giraldo Definizione Il termine “progetto” assume diverse accezioni a seconda del contesto disciplinare. Nella linguistica comune è spesso associato all’ambito urbanistico e architettonico, dove definisce l’ideazione e la proposta per l’esecuzione di un lavoro, come la costruzione di un palazzo o di un ponte. In questo contesto, “progettare” implica un’idea anticipatoria e produttiva, orientata verso l’esecuzione concreta. Cacciari (1981) sottolinea che il progetto è intrinsecamente legato alla produzione e all’anticipazione della realizzazione di qualcosa. Anche Orsenigo (1999) lo definisce come un’anticipazione del processo per raggiungere un obiettivo definito. La progettazione è quindi un pensiero anticipatore volto a risolvere situazioni complesse attraverso soluzioni innovative. Cenni Storici In ambito politico ed economico, il termine “progetto” ha acquisito una rilevanza simbolica, come nel “Progetto 80”, un documento preliminare al programma economico nazionale 1971/75. Successivamente, i partiti di sinistra italiani hanno sviluppato progetti di ampio respiro, come quelli del PCI e del PSI, che si concentravano su soluzioni politiche per il Paese. In ambito sociale, a partire dagli anni Settanta, il termine “progetto” ha acquisito una nuova connotazione, soprattutto nelle politiche sociali, dove si parla di “progetti pilota” o “progetti obiettivo”, che si prefiggono di rispondere a problematiche specifiche con risorse mirate e soluzioni innovative. Modelli Teorici di Progettazione Nel campo sociale, esistono diversi modelli teorici di progettazione. Il modello sinottico-razionale, derivato dalla pianificazione, mira a una conoscenza esauriente dei fenomeni e a soluzioni ottimali con il minimo costo. Tuttavia, questo approccio semplifica la realtà, trascurando la complessità delle situazioni sociali. Al contrario, il modello della razionalità limitata riconosce le difficoltà pratiche nel prendere decisioni in condizioni di incertezza, optando per soluzioni soddisfacenti piuttosto che ottimali. Un altro approccio è quello partecipativo, che coinvolge diversi attori nel processo progettuale, riconoscendo l’importanza della comunicazione e della collaborazione per il successo del progetto. Il Progetto nel Servizio Sociale Nel servizio sociale, il progetto ha assunto una valenza significativa, soprattutto per affrontare problemi individuali (anziani, disabili, minori) e sociali. Esistono modelli di intervento che prevedono la progettazione sia a livello individuale che collettivo. Il progetto individuale si concentra sulla persona, considerando le sue specifiche necessità e risorse, mentre il progetto collettivo affronta problemi che coinvolgono gruppi di persone, promuovendo soluzioni innovative attraverso il coinvolgimento di più attori e risorse. La progettazione sociale, che coinvolge interazioni tra professionisti e cittadini, deve essere flessibile e adattabile ai cambiamenti del contesto. Conclusioni e Prospettive L’approccio progettuale nel lavoro sociale ha incontrato diverse difficoltà, tra cui la prevalenza di un’ottica di adempimento burocratico che riduce il valore trasformativo dei progetti. La collaborazione interprofessionale e l’integrazione di diverse competenze rimangono una sfida, così come l’adeguamento dei tempi per la progettazione e la verifica. Tuttavia, l’adozione di piani di zona, previsti dalla legge 328/2000, ha consentito di strutturare progetti sociali mirati, contribuendo alla concretezza delle soluzioni proposte. Nonostante ciò, alcune esperienze progettuali sono risultate più orientate a soluzioni preconfezionate piuttosto che ai reali bisogni sociali. SERVIZIO SOCIALE DI COMUNITÀ Elena Allegri Definizione Il termine “comunità” deriva dal latino communitas, ed è caratterizzato da una pluralità di significati, che includono gruppi di persone con valori e interessi comuni, territori condivisi o gruppi virtuali. La comunità è un concetto fondamentale in sociologia, poiché rappresenta il legame tra individuo e collettività e il modo in cui le persone si organizzano socialmente, affrontano conflitti e collaborano. Il dibattito sulla comunità locale e sullo sviluppo locale si concentra sull’importanza dei legami sociali, della partecipazione civica e delle risorse locali non valorizzate, che possono essere impiegate per migliorare il benessere collettivo. Definizione del Servizio Sociale di Comunità (S.S. di Comunità) Il servizio sociale di comunità è un approccio complesso che utilizza le conoscenze, il metodo e gli strumenti del servizio sociale per promuovere lo sviluppo delle comunità locali. Attraverso l’analisi, la ricerca, la progettazione e la valutazione, il S.S. di comunità favorisce l’interazione tra persone e gruppi per risolvere problemi collettivi, affrontare conflitti e sviluppare un senso di appartenenza. Il suo obiettivo è trasformare una cultura incentrata sul bisogno in una focalizzata sulle risorse e capacità locali, in linea con un approccio ecologico-sistemico che considera l’interdipendenza tra individuo e ambiente. Cenni Storici Il servizio sociale di comunità ha radici nel lavoro comunitario ispirato ai metodi anglosassoni, come il community work, il casework e il groupwork. Già dal 1946, con il Convegno di Tremezzo, il servizio sociale di comunità si è orientato verso lo sviluppo dei processi democratici e la responsabilizzazione dei cittadini nella gestione dei loro problemi locali. Negli anni ’50 e ‘60, progetti significativi, come il Progetto Pilota Sardegna e il Progetto Pilota per l’Abruzzo, hanno contribuito allo sviluppo di tecniche innovative per la promozione delle comunità locali. Negli anni ‘70 e ‘80, l’istituzione dei servizi sociali territoriali ha ampliato l’approccio alla comunità, promuovendo la partecipazione attiva dei cittadini nella programmazione e gestione delle politiche sociali. Basi Teoriche e Metodologiche Il servizio sociale di comunità si fonda su approcci teorici come l’empowerment di comunità, che unisce conoscenza e impegno sociale, e il concetto di rete sociale, che promuove la partecipazione e la responsabilizzazione collettiva. Questi approcci facilitano lo sviluppo di competenze e relazioni sociali, sempre con un’attenzione etica alla socializzazione tra i cittadini. In questo contesto, il metodo del servizio sociale di comunità si propone di affrontare i problemi locali mediante la collaborazione e la partecipazione attiva dei membri della comunità. Aspetti Critici e Dibattito Attuale Gli aspetti critici del servizio sociale di comunità riflettono le difficoltà legate alla riduzione dei diritti di cittadinanza, al managerialismo, alla specializzazione dei servizi e alla delegittimazione del servizio pubblico. Tuttavia, la discussione si concentra anche sul rilancio del servizio sociale di comunità come strumento per la costruzione di legami sociali significativi e per la rigenerazione urbana. Un altro tema importante riguarda la formazione degli assistenti sociali, che devono essere preparati a operare non solo a livello individuale, ma anche per mobilitare risorse collettive e rispondere alle sfide sociali e territoriali, soprattutto in periodi di crisi.