Comunicazione Politica PDF

Document Details

ProactiveEinstein1038

Uploaded by ProactiveEinstein1038

University of Ferrara

Patrizia Milesi e Patrizia Catellani

Tags

comunicazione politica politica scienze sociali

Summary

Questo capitolo tratta della comunicazione politica, analizzando gli obiettivi, i vincoli e le caratteristiche di questa forma di comunicazione. Vengono descritte le strategie adottate dai politici per ottenere il consenso e costruire il proprio messaggio. Il capitolo si concentra sulla teoria e sul contesto delle interazioni politiche.

Full Transcript

capitolo 11 Comunicazione politica Il capitolo si apre delineando obiettivi, vincoli e caratteristiche della comunicazione politica. Poiché uno degli obiettivi centrali dei politici è quello di acquisire il consenso dei cittadini, nel capitolo ci si soffermerà sull’ampio spazio che i politici de...

capitolo 11 Comunicazione politica Il capitolo si apre delineando obiettivi, vincoli e caratteristiche della comunicazione politica. Poiché uno degli obiettivi centrali dei politici è quello di acquisire il consenso dei cittadini, nel capitolo ci si soffermerà sull’ampio spazio che i politici dedicano sia ad attaccare l’immagine degli avversari sia a difendere la propria. Le pagine successive saranno dedicate alla costruzione discorsiva delle categorie sociali: dalla contrapposizione dicotomica tra «ingroup» e «outgroup», alla definizione strategica di gruppi di maggioranza, di minoranza oppure inclusivi, le cui caratteristiche vengono calibrate in funzione dei progetti politici del parlante. 1. OBIETTIVI, VINCOLI E CARATTERISTICHE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA La comunicazione politica è guidata da alcuni obiettivi fondamentali, che si possono sostanzialmente ricondurre a tre. 1. Conquistare il consenso delle persone e mobilitarle all’azione nelle varie forme in cui questa si può presentare, dal voto alla partecipa- zione a manifestazioni collettive. I politici costruiscono la comunica- zione in modo tale da poter raggiungere un numero di persone il più ampio possibile, per convincerle della validità della propria posizione e del proprio programma. 2. Rappresentare un partito o una coalizione e promuoverne gli inte- ressi e i progetti. Quando parlano in pubblico, i politici rappresen- tano sempre un gruppo e parlano a nome di quel gruppo. In linea di Questo capitolo è di Patrizia Milesi e Patrizia Catellani. 186 Capitolo 11 massima, le loro dichiarazioni non sono tanto funzionali a perseguire i loro obiettivi e interessi quanto quelli della loro parte politica. Se qualche volta i politici si trovano a parlare a titolo personale, lo sot- tolineano esplicitamente. Inoltre, anche quando questo accade, cer- cano di non contraddire le posizioni e la linea politica del partito che rappresentano. 3. Marcare la differenza e la contrapposizione tra la propria parte po- litica e gli avversari. Nei loro discorsi, i politici spesso si contrappon- gono a gruppi avversari e concorrenti. La dimensione argomentativa intrinseca al linguaggio risulta quindi esaltata nella comunicazione po- litica: ogni dichiarazione, anche quella apparentemente più neutrale, presuppone (o si attende) il confronto e la contrapposizione rispetto a dichiarazioni differenti o contrastanti. Oltre che dagli obiettivi dei politici, la comunicazione politica è condizionata da vincoli che derivano principalmente dal contesto mediatizzato in cui questa comunicazione spesso avviene. In primo luogo, la comunicazione politica, proprio in quanto mediatizzata, non prevede nella maggior parte dei casi un’interazione diretta con i suoi destinatari ultimi, cioè con i cittadini. Negli ultimi anni questo vincolo si è parzialmente allentato, in quanto gli strumenti di comunicazione messi a disposizione dal web 2.0 sembrano permettere un’interazione diretta tra i politici e i cittadini. Va tuttavia considerato che è oggettivamente difficile stabilire un’interazione effettiva con migliaia di cittadini e soprattutto che una parte consistente della popolazione ancora non impiega questi mezzi di comunicazione. Per tutti costoro la comunicazione politica continua a essere quasi esclusivamente mediata. In secondo luogo, la comunicazione politica ha una natura pubblica, nel senso che è intesa per essere ricevuta da un pubblico. Ciò condiziona quello che può essere detto e quello che, invece, non si può dire, così come il modo in cui lo si dice. Per esempio, nel corso delle interviste politiche televisive i politici non possono rifiutarsi di rispondere a domande «scomode» o minacciose, a meno di correre il rischio di «perdere la faccia» davanti al pubblico e anche davanti alla propria parte politica. In terzo luogo, la comunicazione politica si presenta spesso in forma di con- versazione. Attraverso i media viene diffusa in ambienti domestici e quotidiani ed è all’interno di questi contesti che è chiamata a circolare e a perseguire i suoi effetti. Ne consegue che questa comunicazione si conforma sempre più spesso al registro delle conversazioni ordinarie e informali piuttosto che ai canoni della comunicazione ufficiale. In quarto luogo, nonostante il processo di conversazionalizzazione di cui si è detto, la comunicazione politica continua a essere una comunicazione regolata, nella quale sia i turni di parola sia la distribuzione dei ruoli sono assegnati a priori. Per esempio, se si tratta di una comunicazione rilasciata durante un’intervista, essa deve rispettare i vincoli posti dalla distribuzione dei turni Comunicazione politica 187 di parola: se è vero che l’intervista a un leader politico viene ad assomigliare sempre più a una chiacchierata informale, è altrettanto vero che di fatto si differenzia da questa, per il fatto che l’unico autorizzato a porre le domande è il giornalista e dal politico ci si attende che comunque risponda, anche se la domanda posta lo mette in difficoltà. La mediatizzazione della comunicazione politica le assicura una vasta e immediata diffusione. Tuttavia, per alcune sue caratteristiche, non favorisce un’elaborazione approfondita e sistematica delle informazioni, quanto piut- tosto un’elaborazione semplificata ed euristica. Anzitutto la comunicazione politica mediatizzata, soprattutto quella televisiva, è appunto molto sempli- ficata. La necessità di contenere i tempi e accelerare il ritmo di diffusione delle notizie insieme alle esigenze di spettacolarizzazione e di intrattenimento trasformano il dibattito politico su temi complessi in contese tra personaggi in competizione. Per questa operazione vengono utilizzati tutti gli elementi tipici di una narrazione: un conflitto tra le parti o un problema da risolvere, le azioni dei protagonisti, la risoluzione finale [Comstock e Scharrer 2005]. Ne deriva che raramente vengono sollevate questioni inerenti i rapporti di potere o le forze economiche in gioco e difficilmente vengono evidenziate le interconnessioni tra vicende diverse [Bennet 1983]. La comunicazione politica si presenta inoltre come molto frammentaria, costituita da brevi frasi ad effetto (sound bite) e facili slogan da memorizzare, e il dibattito viene personalizzato. L’attenzione cioè si focalizza sui protagonisti umani delle vicende più che sui temi. In primo piano compaiono gli attori in conflitto, mentre passa sullo sfondo il merito su cui verte la controversia o il problema [Klandermans e Goslinga 1996]. In questo modo si dà più spazio alle immagini dei leader e alle loro caratteristiche individuali piuttosto che a un approfondimento della loro linea politica o della loro posizione. Coerentemente con la ricerca di spettacolarizzazione, poi, la competizione tra gli attori politici viene accen- tuata: per esempio, le campagne elettorali vengono spesso rappresentate nei termini agonistici di vere e proprie gare sportive. La comunicazione politica appare così anche fortemente drammatizzata, con la probabile conseguenza di distogliere l’attenzione dagli aspetti centrali del dibattito e di convogliarla su aspetti periferici [Patterson 1993]. Da ultimo, con l’obiettivo di attirare l’attenzione del pubblico, i media tendono a diffondere soprattutto una comu- nicazione negativa sui leader politici (errori, gaffes, scandali) e a far circolare i messaggi negativi che i leader politici si scambiano l’un l’altro. 2. GLI ATTACCHI AI POLITICI E I LORO EFFETTI Si è detto che uno degli obiettivi centrali dei politici è quello di acquisire il consenso dei cittadini. Un’importante condizione perché ciò avvenga è che la fonte di questa comunicazione, ossia il politico, sia ritenuta una fonte credibile, degna di fiducia, e più in generale sia valutata positivamente dagli elettori. Eppure questa condizione non è facile da mantenere, non solo per 188 Capitolo 11 le doti effettive del politico, ma anche perché il politico è spesso al centro di un flusso di comunicazione che tende ad accentuare gli aspetti conflittuali, drammatici e personali della vita politica, diffondendo spesso informazioni di tipo negativo sui suoi protagonisti. Non vi è dunque da stupirsi del fatto che i politici dedichino ampio spazio a promuovere e a difendere la propria immagine, e nemmeno del fatto che un certo spazio venga anche dedicato a sferrare attacchi all’immagine dei loro avversari [Bull 2003]. Poniamoci quindi anzitutto una domanda. È meglio parlare bene di sé o parlare male dei propri avversari? I messaggi positivi sono quelli in cui un candidato politico promuove la sua immagine presso gli elettori e sostiene la validità delle sue posizioni politiche. Al contrario, i messaggi negativi sono quelli in cui un candidato politico attacca l’immagine dell’avversario e evidenzia la debolezza delle sue posizioni politiche. Negli ultimi decenni si è assistito a un aumento notevole dei messaggi negativi nella comunicazione politica. Ciò è stato in parte ricondotto al ruolo preponderante svolto dalla televisione nella diffusione dei messaggi politici: in funzione delle esigenze di spettacolarizzazione e di intrattenimento cui si è già accennato, il mezzo televisivo indurrebbe chi lo usa a far leva più su messaggi negativi che su messaggi positivi. Il massiccio impiego di messaggi negativi ha le sue radici anche nella dif- fusa convinzione che gli atteggiamenti negativi siano più determinanti per il comportamento politico (e soprattutto per la scelta di voto) rispetto agli atteggiamenti positivi. In effetti, un cittadino che definisce la propria posi- zione politica come «contraria» a quella di un certo candidato, piuttosto che «a favore» del candidato preferito, si trova in una condizione di particolare resistenza ai tentativi di persuasione della controparte [Bizer e Petty 2005]. Si tratta però di capire se i messaggi negativi abbiano effettivamente una maggiore efficacia persuasiva rispetto ai messaggi positivi. In una ricerca di laboratorio è stato confrontato l’impatto persuasivo di messaggi positivi piuttosto che negativi, inviati da un candidato politico fittizio e fondati su argomentazioni forti (ossia dettagliate e ben articolate) piuttosto che su argomentazioni deboli [Marks, Manning e Ajzen 2012]. Si è visto così che mentre un messaggio positivo risulta più efficace nell’influenzare la valutazione nei confronti della fonte del messaggio quando si basa su argomentazioni forti piuttosto che deboli, questa differenza in funzione della forza delle argomentazioni non si osserva per i messaggi negativi. Questi ultimi infatti risultano ugualmente persuasivi indipendentemente dalla forza delle argomentazioni che conten- gono, sia per quanto riguarda la valutazione della fonte del messaggio che per quanto riguarda la valutazione del candidato preso di mira. I messaggi positivi sarebbero dunque elaborati approfonditamente dai destinatari, che vagliano la solidità delle argomentazioni presentate e si lasciano persuadere solo in presenza di argomentazioni valide. Al contrario, i messaggi negativi riceverebbero un’elaborazione più superficiale: i destinatari risultano persuasi da un messaggio negativo indipendentemente dalla forza delle argomentazioni su cui si basa. Quindi, in assenza di argomentazioni forti con cui sostenere Comunicazione politica 189 la propria posizione, sembrerebbe relativamente più vantaggioso per un candidato diffondere messaggi negativi a danno dell’avversario, qualsiasi sia la loro fondatezza. La tendenza a prestare attenzione alle informazioni negative più che a quelle positive (effetto di negatività) [Skowronski e Carlston 1989] è stata ricon- dotta a due ragioni principali, una di matrice cognitiva e l’altra di matrice motivazionale. Da un lato, le informazioni negative sono in contrasto con un’aspettativa di base che le persone in genere hanno, quella di vivere in un contesto favorevole nel quale le altre persone si comportano in modo positivo. A causa di un fenomeno cognitivo del tipo «figura-sfondo», le infor- mazioni negative balzerebbero quindi all’attenzione delle persone più delle informazioni positive. Dall’altro lato, la tendenza a focalizzare l’attenzione sulle informazioni negative più che su quelle positive avrebbe un cruciale valore adattivo. Saper riconoscere le intenzioni negative di un’altra persona o la pericolosità di un elemento ambientale è infatti più importante per la sopravvivenza che saper riconoscere le intenzioni favorevoli degli altri o l’innocuità dell’ambiente. Applicata alla selezione dei messaggi politici, la tendenza a focalizzarsi sulle informazioni negative più che su quelle positive trova una convalida, ad esempio, nel fatto che le persone selezionano con maggior probabilità titoli giornalistici che contengono informazioni negative sui candidati a un’elezione piuttosto che informazioni positive [Donsbach 1991]. Que- sta tendenza a dedicare particolare attenzione alle informazioni negative contribuisce anche a spiegare come mai gli attacchi incrociati fra candidati durante le campagne elettorali attirino l’attenzione del pubblico e come mai i programmi che mettono in scena violente contrapposizioni tra leader politici facciano registrare elevati livelli di audience. Tutto ciò non fa che confermare la radicata convinzione che diffondere messaggi negativi sia un valido strumento di campagna elettorale. Nel valutare l’impatto persuasivo dei messaggi negativi bisogna considerare anche la possibilità che questi messaggi si ritorcano contro coloro che li hanno formulati, che suscitino cioè un giudizio negativo nei confronti della fonte del messaggio piuttosto che di colui che ne è oggetto (effetto boomerang) [Matthews e Dietz-Uhler 1998]. In ambito politico si è visto a questo pro- posito che chi attacca un avversario a livello personale ha più probabilità di essere giudicato negativamente rispetto a chi lo attacca sui programmi o sulle posizioni ideologiche [Carraro e Castelli 2010]. Tuttavia, si è visto anche che se l’attacco è indiretto (ad esempio, «Non ha mantenuto le sue promesse sul tema delle tasse») invece che diretto (ad esempio, «Se lei avesse mantenuto le sue promesse sul tema delle tasse, oggi le cose andrebbero meglio») l’effetto boomerang non si manifesta e il messaggio negativo coglie nel segno, nel senso che inficia effettivamente l’immagine della persona attaccata [Catellani e Bertolotti in stampa]. Non solo. Anche se il candidato che attacca l’altro viene giudicato negativamente a livello esplicito, a livello implicito (quindi inconsapevole) può divenire un’àncora rispetto alla quale la persona regola il 190 Capitolo 11 proprio giudizio [Carraro e Castelli 2010]. Questo accadrebbe per il fatto che attaccare l’avversario verrebbe interpretato come indizio di forza e compe- tenza. Quindi, se a parole le persone disapprovano l’impiego di messaggi ne- gativi e lo considerano una forma di imbarbarimento della politica, a livello di processi associativi questo comportamento viene collegato alla capacità di un candidato di perseguire efficacemente i suoi obiettivi. La strada che conduce da una simile associazione automatica al sostegno del candidato attraverso il proprio voto è naturalmente lunga, ma non bisogna trascurare il fatto che tali valutazioni embrionali condizionano la selezione e l’interpretazione delle informazioni, arrivando con il tempo a dar forma ad atteggiamenti espliciti coerenti con quelli impliciti iniziali. Se dunque i messaggi negativi hanno una certa probabilità di cogliere nel segno, anche se vengono rifiutati a livello esplicito, e a seconda di come sono formulati, l’efficacia persuasiva di questi messaggi dipende anche, e fortemente, dalle caratteristiche di chi ascolta l’attacco, in primo luogo dalle convinzioni che questa persona aveva già precedentemente sia su chi attacca sia sulla persona attaccata. Anzitutto, nella percezione di candidati politici, così come nella percezione delle persone in generale, gioca un ruolo importante il cosiddetto effetto di conferma, ossia la tendenza a focalizzarsi sulle informazioni che confermano le proprie preferenze già formate [Jonas et al. 2001]. Questa tendenza deriva dalla forte motivazione che le persone hanno a perseguire e mantenere coerenza tra le proprie cognizioni, e anche tra le proprie cognizioni, e i propri comporta- menti. L’effetto di conferma condiziona fortemente i processi di esposizione, elaborazione e ricordo delle informazioni. Nel contesto dell’esposizione a messaggi sui candidati a un’elezione si traduce nella tendenza a ricercare informazioni positive circa il proprio candidato preferito e informazioni negative circa il candidato della parte opposta. Tuttavia, non sempre capita di potersi esporre esclusivamente a informazioni coerenti con il proprio punto di vista. Oltretutto, le informazioni sul proprio candidato preferito, anche quelle negative, tendono a essere ricordate meglio di quelle relative ad altri candidati (effetto del candidato) [Redlawask 2002], a causa della rilevanza soggettiva che rivestono le informazioni riguardanti se stessi e il proprio gruppo. Quando accade di essere esposti a un’infor- mazione incoerente con le proprie preferenze già formate, la motivazione a ripristinare coerenza tra le proprie cognizioni, e quindi a difendere il proprio punto di vista, spinge le persone a dedicare più tempo e più risorse cognitive all’elaborazione di tale informazione: tempo e risorse cognitive che sono impiegati nella produzione di controargomentazioni a sostegno della propria posizione [Meffert et al. 2006]. L’effetto di conferma contribuisce così a spiegare che non è sufficiente essere esposti a un messaggio negativo per esserne persuasi. Qualora un messaggio attacchi il candidato preferito da colui che ascolta il messaggio, è probabile che quest’ultimo si impegni in un’elaborazione motivata del messaggio stesso con l’obiettivo di confutarlo, producendo una varietà di argomentazioni atte a smontare l’attacco. Presso Comunicazione politica 191 alcuni destinatari, dunque, gli attacchi sferrati contro un candidato non sor- tiscono l’effetto desiderato: nei sostenitori convinti del candidato attaccato l’effetto finale del messaggio può essere addirittura quello di rafforzare la valutazione positiva del candidato stesso. In conclusione, l’azione congiunta dell’effetto di negatività, dell’effetto di conferma e dell’effetto del candidato può avere risvolti paradossali. Nel corso di una campagna elettorale, infatti, le persone sono portate a soffermarsi con particolare attenzione sui messaggi negativi che attaccano il loro candidato preferito; l’esito, tuttavia, può non essere quello di una revisione della propria preferenza, bensì quello di un suo ulteriore rafforzamento e di una sua polarizzazione. La capacità di resistere e controargomentare ai tentativi persuasivi dei mes- saggi negativi è connessa a un’altra caratteristica di coloro che sono esposti a questi messaggi, una caratteristica di natura più prettamente cognitiva che motivazionale, ossia il loro livello di competenza politica. La competenza politica riguarda la quantità di informazione politica posseduta, il modo in cui questa informazione è organizzata nella memoria e l’uso che ne viene fatto. Le persone politicamente competenti sono più interessate, più infor- mate sul funzionamento del sistema politico e più aggiornate sui fatti della politica rispetto a quelle meno competenti. Queste persone, inoltre, sanno distinguere meglio i vari aspetti di un problema politico e sanno integrare più efficacemente le varie informazioni politiche tra loro. Chi ha un alto livello di competenza politica dispone infatti di una rete mentale nella quale vi sono numerosi e forti legami che collegano tra loro non solo cognizioni ma anche emozioni positive o negative relative ai vari oggetti sociopolitici [Zaller 1992]. Le persone competenti non ragionano quindi in termini più neutri e imparziali rispetto alle persone meno competenti. Al contrario, la fitta e salda rete di informazioni propria delle persone politicamente competenti implica che esse abbiano una gran varietà di mezzi per difendere le loro preferenze consolidate e che li sappiano mettere in campo con abilità. In particolare, queste persone generano con facilità una serie di controargomentazioni volte a confutare eventuali informazioni incoerenti con il loro punto di vista [Taber, Cann e Kucsova 2009]. La reazione a messaggi negativi relativi a candidati politici può dipendere non solo da convinzioni già formate che riguardano le loro doti come poli- tici o la loro appartenenza ideologica, ma anche da attese stereotipiche che riguardano la loro appartenenza a certe categorie sociali (legate al genere, alla razza, all’età ecc.). Si è visto, ad esempio, che gli stereotipi di genere possono condizionare il modo in cui viene recepito un attacco a un candidato [Fridkin, Kenney e Woodall 2009]. In virtù di questi stereotipi, ci si attende che le candidate donne siano più sensibili, emotive, cooperative e pronte ad aiutare gli altri rispetto ai candidati uomini, mentre ci si aspetta che i candidati uomini siano più assertivi, competitivi, aggressivi e indipendenti. È dunque possibile che certi attacchi sferrati contro un candidato donna possano ap- parire più ingiustificati e indesiderabili, in quanto si ritiene che una donna difficilmente li avrebbe provocati e difficilmente saprebbe rispondere con 192 Capitolo 11 altrettanta aggressività. I medesimi attacchi, invece, se diretti contro un can- didato uomo farebbero parte del «gioco duro» a cui gli uomini sono avvezzi e al quale sanno rispondere ad armi pari. Effettivamente, i medesimi messaggi negativi sono risultati avere una diversa efficacia persuasiva in funzione del genere del leader attaccato. Se infatti in linea generale i messaggi negativi che attaccano la vita privata di un candidato risultano meno efficaci nel dan- neggiare la valutazione nei suoi confronti rispetto ai messaggi negativi che ne attaccano le posizioni politiche, essi risultano addirittura controproducenti se diretti contro un candidato donna. In altre parole, lungi dal danneggiare la valutazione della candidata attaccata, addirittura la migliorano. La considerazione delle caratteristiche di stile e di contenuto degli attacchi, così come delle caratteristiche di coloro che sono esposti a tali attacchi e delle loro percezioni di chi attacca e di chi viene attaccato, ha consentito di fare luce su molti degli effetti della comunicazione negativa in politica. Uno sviluppo ulteriore di queste ricerche potrebbe includere la considerazione di alcuni fattori legati al contesto nel quale gli attacchi vengono sferrati, ad esempio il fatto che questo avvenga o meno in campagna elettorale oppure nella fase iniziale piuttosto che in quella finale della campagna. Anche i canali utilizzati per gli attacchi potrebbero essere presi in esame dalla ricerca, in quanto po- trebbero influire sulla loro efficacia. Per esempio, il grado di aggressività dei messaggi ritenuto accettabile sul web 2.0 potrebbe essere maggiore rispetto a quello ritenuto accettabile su altri canali di comunicazione, come la televi- sione o la stampa. Con questi ulteriori approfondimenti si potrebbe arrivare a spiegare in modo ancora più esauriente come mai in determinate circostanze o su determinati pubblici gli attacchi colgono nel segno, e ottengono gli effetti intesi da chi li diffonde, mentre in altre circostanze e su altri pubblici risultano inefficaci o addirittura controproducenti. 3. LE DIFESE DEI POLITICI E I LORO EFFETTI Se certi attacchi possono danneggiare l’immagine dei politici più di altri, anche certe difese possono contribuire a mantenere o a recuperare un’immagine positiva dei politici più di altre. Il successo di un leader è spesso legato in modo cruciale alla sua capacità di districarsi dalle polemiche e saper difendere in modo efficace la propria immagine dagli attacchi che gli vengono rivolti. È stata proposta una tipologia delle difese politiche che si basa su due fattori: a) il grado di negatività attribuita all’evento del quale il politico sta rendendo conto; b) il livello di responsabilità che il politico riconosce per quell’evento [McGraw 2001]. In base a questa tipologia, si possono identificare quattro principali difese. La prima è la negazione, nella quale il politico non riconosce la negatività dell’evento e non ammette di esservi coinvolto. La seconda è la concessione, che è opposta alla negazione in quanto il politico riconosce sia la negatività dell’evento sia la sua responsabilità al riguardo (non si tratta in effetti di una difesa vera e propria). Le altre due difese sono intermedie rispetto alla Comunicazione politica 193 negazione e alla concessione, e sono la scusa e la giustificazione, entrambe ampiamente utilizzate dai politici. Quando fa ricorso a una scusa, un politico ammette la negatività di un evento, ma nega di esserne l’unico o il totale responsabile. Questo può avvenire in vari modi. Una possibilità è quella di evocare circostanze del passato o del presente che costituirebbero delle «attenuanti» rispetto a quanto è accaduto: per esempio, un politico contestato per i pesanti tagli che ha deciso di imporre alla spesa pubblica potrebbe ricondurre questa decisione alla situazione disastrosa del debito pubblico ereditato dall’amministrazione precedente, o ancora potrebbe difendere una riforma pensionistica facendo riferimento all’invecchiamento complessivo della popolazione. Un’altra possibilità per evitare di essere ritenuti responsabili di una situazione negativa contestata è quella di diffondere all’esterno tale responsabilità. Così, un politico po- trebbe estendere la responsabilità di una sua decisione impopolare ad altri attori politici: per esempio, l’aumento della pressione fiscale potrebbe essere presentato come coerente con le valutazioni espresse da una commissione ministeriale di esperti economisti. Oppure, il politico potrebbe estendere la responsabilità di una situazione negativa «in verticale», chiamando in causa cioè istituzioni politiche di ordine sovraordinato: per esempio, la realizza- zione di un’opera pubblica osteggiata dalla popolazione locale potrebbe essere ricondotta alle direttive dell’Unione Europea. Un’altra possibilità per evitare di essere ritenuti responsabili di una situazione negativa è l’ammis- sione di ignoranza, ossia la dichiarazione che si era all’oscuro dell’esistenza di alcuni elementi decisivi che poi hanno condotto all’esito indesiderabile. Per esempio, un leader contestato per non aver decretato una politica di sostegno economico a una certa fascia della popolazione, promessa invece durante la campagna elettorale, potrebbe rispondere che al momento di quella promessa non era al corrente dell’esiguità delle risorse pubbliche a disposizione per le politiche sociali. Nel caso della giustificazione il politico attaccato accetta di essere il responsabile dell’evento contestato, ma ne confuta la negatività. A questo scopo, il politico si impegna in un’attività comunicativa di reinquadramento (reframing) dell’e- vento stesso in modo da ridurne la negatività percepita. Una simile operazione può essere realizzata prospettando i benefici futuri che l’azione oggetto di di- battito potrà portare nel lungo termine oppure sottolineando gli effetti positivi che già nel presente tale azione genera e che sono invece passati sotto silenzio. Per esempio, la decisione di non realizzare lavori di potenziamento di una certa infrastruttura potrebbe essere reinterpretata richiamando la necessità di accumulare maggiori risorse in vista di interventi futuri più imponenti e radi- cali, oppure sottolineando la necessità di indirizzare tutte le risorse disponibili su altri interventi ancora più urgenti, come gli aiuti a un’area colpita da una calamità naturale. Un’altra strategia di reinquadramento consiste nello stabilire dei confronti con circostanze del passato analoghe ma più negative rispetto a quelle presenti, oppure nell’effettuare dei confronti con altri paesi che si trovano in condizioni peggiori rispetto al proprio. Per esempio, la decisione 194 Capitolo 11 di implementare gravi misure di austerità economica può essere ridimensio- nata se paragonata con la decisione presa dall’amministrazione precedente di adottare misure di austerità ancora più severe, oppure se confrontata con misure ancora più restrittive adottate da paesi che si trovano in situazioni analoghe. Strettamente legata alle precedenti è una strategia che consiste nell’affermare che si sarebbero potute adottare misure anche più sfavorevoli e pesanti di quelle effettivamente adottate, e invece non lo si è fatto. Un ultimo modo di reinquadrare positivamente una decisione impopolare è quello di fare riferimento a principi morali o alla propria coscienza personale. Per esempio, una decisione inerente la redistribuzione del carico fiscale potrebbe essere reinterpretata da un politico facendo riferimento all’importanza di tutelare le fasce della popolazione più deboli e già in grande sofferenza, oppure al proprio impegno nei confronti del bene collettivo del paese. Quali sono le difese più efficaci? Gli studi che hanno indagato gli effetti delle diverse strategie difensive utilizzate dai politici non sono stati finora numerosi. Sembra comunque che le negazioni siano una strategia di difesa meno efficace rispetto alle scuse e soprattutto alle giustificazioni [McGraw, Timpone e Bruck 1993]. È difficile che le negazioni o le scuse riescano a dissolvere completamente la responsabilità che viene attribuita a un politico per l’esito negativo contestato. Le giustificazioni, invece, evitano di sollevare la spinosa questione dell’attribuzione di responsabilità, dandola per scontata, e mirano direttamente a ristrutturare il modo in cui i cittadini percepiscono una certa decisione, mettendone in campo le ragioni e le conseguenze meno ovvie e palesi. Così, se le scuse rischiano di essere percepite come delle difese a oltranza di se stessi, le giustificazioni possono essere interpretate come un invito a considerare la situazione sotto un altro punto di vista e ad avere una visione più completa di tutti gli elementi in gioco. Grazie a un’operazione di reinquadramento della propria decisione, è così possibile che un leader politico non solo riesca a difendersi dagli attacchi che gli vengono mossi ma che riesca anche a guadagnare credito presso i cittadini. Come nel caso degli attacchi, anche nel caso delle difese la competenza politica di chi è esposto ai messaggi condiziona la loro efficacia. Si è visto a questo proposito che le persone meno competenti politicamente sono più inclini ad accettare come buona una difesa [McGraw, Hasecke e Conger 2003] e si è visto anche che questo accade in modo particolare se chi si difende utilizza la giustificazione basata sul «confronto verso il basso», se cioè dice che le cose potevano andare peggio di come sono andate [Catellani e Bertolotti in stampa]. 4. DIFENDERSI IN CASO DI SCANDALO In alcuni casi l’attacco dal quale il politico si deve difendere è particolarmente forte, nel senso che l’evento al quale si riferisce è grave o almeno viene presentato come tale dai media, che dedicano ad esso una larga attenzione. In questo caso Comunicazione politica 195 il politico si trova ad essere coinvolto in un vero e proprio scandalo, che può riguardare la sua vita pubblica (ad esempio, nel caso di un episodio di corru- zione), ma anche la sua vita privata (ad esempio, nel caso di un comportamento sessuale trasgressivo). Per un politico infatti, soprattutto se ricopre cariche istituzionali, sfera pubblica e sfera privata spesso sono difficili da distinguere, nel senso che anche i comportamenti tenuti nella sfera privata possono avere dei riflessi sulla sua credibilità e affidabilità a livello pubblico. Ad esempio, un politico che ha relazioni extraconiugali può essere criticato non solo sul piano della moralità, ma anche perché il suo comportamento può renderlo ricatta- bile, e quindi esposto a influenze esterne che riducono la sua indipendenza di giudizio e libertà d’azione. Anche a causa dell’elevata copertura mediatica, gli scandali politici attirano fortemente l’attenzione dei cittadini, così come le dichiarazioni che i politici coinvolti fanno a loro discolpa. Un esempio delle strategie di difesa che un politico può utilizzare quando è coinvolto in uno scandalo lo si può trovare analizzando la deposizione che il presidente americano Bill Clinton rilasciò davanti al Grand Jury nel 1998, dopo essere stato accusato di aver tenuto comportamenti sessuali inappropriati con la giovane stagista Monica Lewinsky. La difesa di Clinton appare funzionale a raggiungere due obiettivi distinti ma collegati tra loro: da un lato un obiettivo più circoscritto, quello di difendersi dall’accusa di avere sfruttato a fini sessuali la sua posizione di potere; dall’altro un obiettivo più allargato, altrettanto se non più importante rispetto al primo: quello di mostrarsi credibile agli ame- ricani e di rivendicare la sua adeguatezza come presidente degli Stati Uniti. Tre sono le principali strategie di difesa adottate da Clinton in questa circo- stanza e vale la pena prenderle in esame perché sono esemplificative delle difese che politici coinvolti in scandali anche di altro tipo possono utilizzare [Locke e Edwards 2003]. Una prima strategia consiste nel fare appello a una conoscenza o a una memoria dei fatti limitata. Si tratta di una strategia am- piamente utilizzata dai politici quando sono chiamati a fornire un resoconto accurato di eventi «scomodi». Il presidente Clinton applica efficacemente questa strategia in quanto distingue con precisione che cosa ricorda e che cosa non ricorda dei suoi rapporti con la Lewinsky. Il suo resoconto così risulta per la maggior parte preciso e dettagliato, a tratti più lacunoso, ma mai reticente («Non ricordo se le parlai o meno al telefono prima che venisse in visita. Non sto negando di averlo fatto. Semplicemente non me lo ricordo»). In questo modo, Clinton ottiene verosimilmente l’obiettivo di mostrarsi sincero e collaborativo nella sua testimonianza, anche se – come è facile immaginare – l’omissione di alcuni dettagli cruciali gioca spesso a suo favore. Una seconda strategia impiegata dal presidente Clinton è quella di presentare i comportamenti e gli eventi contestati come «normali». Questa strategia è dovuta al fatto che sono i comportamenti o gli eventi eccezionali a richiedere una spiegazione; invece, i comportamenti o gli eventi che si collocano all’in- terno di una consuetudine socialmente condivisa non richiedono spiegazioni particolari. Per esempio, a un certo punto della sua testimonianza Clinton ammette un incontro con la Lewinsky, ma riconduce questa occasione a un 196 Capitolo 11 rituale ampiamente diffuso, e cioè allo scambio di doni nell’imminenza delle festività natalizie. In questo modo, il comportamento del presidente non as- sume più il significato di un evento speciale che necessita di essere spiegato; al contrario, viene presentato come un comportamento assolutamente normale. Una terza strategia consiste nel presentare se stesso come una persona razionale, il cui comportamento appare perfettamente sensato, e nel presentare invece le altre persone coinvolte come dominate dalle passioni, il cui comportamento risulta dunque incoerente e spesso inspiegabile. Il presidente descrive se stesso come una persona corretta ed equilibrata: dopo aver posto responsabilmente fine alla relazione con la giovane stagista, egli non avrebbe abbandonato a se stessa la ragazza, ma si sarebbe mostrato sinceramente preoccupato per lei e avrebbe cercato di aiutarla. Clinton presenta invece la Lewinsky come una persona impulsiva e irrazionale, poco equilibrata dal punto di vista emotivo e incapace di accettare la fine della sua relazione con lui. Analisi del tipo di quella appena citata potrebbero essere utilmente estese anche ad altri casi di politici coinvolti in scandali. In questo modo, si po- trebbe confrontare la comunicazione difensiva che viene utilizzata in seguito al coinvolgimento in scandali relativi a sfere diverse (ad esempio, la sfera pubblica o quella privata confrontando casi di corruzione e casi di condotte sessuali trasgressive), verificando se vi sono differenze sia nelle strategie difensive utilizzate sia negli effetti che queste hanno sulle valutazioni che i cittadini danno del politico coinvolto nello scandalo. Sarebbe opportuno anche effettuare studi in contesti politici e culturali diversi, per verificare se ci sono differenze relativamente alla soglia oltre la quale il comportamento del politico è considerato «scandaloso», così come se ci sono differenze nella facilità con la quale un politico, attraverso la comunicazione difensiva, può indurre un cittadino a pensare che un certo comportamento si possa definire «normale» e quindi non degno di riprovazione. 5. LA COSTRUZIONE DELL’«INGROUP» I politici non si propongono soltanto l’obiettivo di difendere la propria im- magine districandosi all’interno di un complicato gioco di attacchi e difese. Come si è detto all’inizio, intendono anche presentarsi come portavoce di un gruppo, il loro gruppo politico ma anche una porzione di cittadini la più ampia possibile, fino a includere l’intera nazione. Con la loro comunicazione i politici tendono quindi a innescare nei cittadini processi di identificazione sociale. I politici sono stati definiti come dei veri e propri «imprenditori di identità» [Reicher et al. 2006], nel senso che dedicano ampio spazio nei loro discorsi alla creazione di un senso del «noi» (un ingroup) condiviso con chi li ascolta. In funzione del contesto in cui il discorso viene pronunciato e/o del contesto a cui esso si riferisce, il «noi» che il politico intende costruire può coincidere con gruppi di volta in volta diversi per ampiezza e caratteristiche. Il politico infatti modula strategicamente confini e caratteristiche del «noi», Comunicazione politica 197 ossia modifica chi è incluso nel «noi» e chi no, come «noi» siamo e in quali valori «noi» crediamo. Per quanto riguarda la modulazione dei confini del «noi», consideriamo a titolo di esempio alcuni passaggi del discorso tenuto da Barack Obama a Charlotte (North Carolina) alla Convention del Partito democratico il 6 settembre 2012, giorno in cui accetta la nomination alla candidatura per la presidenza nelle elezioni statunitensi del 2012. Su ogni tema, la scelta che avete davanti non sarà soltanto tra due candidati o partiti. Sarà una scelta tra due diverse strade per l’America. Una scelta tra due visioni fondamentalmente diverse per il nostro futuro. La nostra è una battaglia per riportare in auge i valori che hanno dato vita alla più ampia classe media e alla più forte economia che il mondo abbia mai conosciuto. […] Ma sappi questo, America: i nostri problemi possono essere risolti. Le nostre sfide possono essere superate. La strada che noi offriamo può essere più difficile, ma conduce a un posto migliore. In questo passaggio del suo discorso Obama sposta rapidamente e insensibil- mente i confini del «noi» in modo da includervi prima il Partito democratico, poi tutti gli Stati Uniti, poi di nuovo il Partito democratico. Infatti, se la «no- stra battaglia» è la battaglia del Partito democratico, i «nostri problemi» e le «nostre sfide» sono quelli di tutti gli Stati Uniti («sappi questo, America»); d’altro canto al termine del brano «la strada che noi offriamo» è, di nuovo, quella indicata dal Partito democratico. I leader politici calibrano anche le caratteristiche associate al «noi». Tali caratteristiche possono consistere nel possesso di una determinata lingua o cultura, di competenze o abilità, di valori o principi morali. Far parte del «noi» può così significare, di volta in volta, varie cose: padroneggiare una certa lingua, rispettare certe tradizioni, condividere un medesimo patrimonio cul- turale, possedere un determinato livello di sviluppo scientifico o tecnologico, credere in certi valori o difendere certi principi morali. Chi parla presenta tali caratteristiche come attributi criteriali dell’«ingroup», ossia come carat- teristiche che contraddistinguono chi fa parte del «noi» e che costituiscono una condizione necessaria dell’appartenenza al gruppo. In realtà, la connotazione del «noi» tramite queste caratteristiche è, in larga parte, frutto di una scelta del parlante. L’arbitrarietà di questa scelta emerge quando si tratta di ammettere all’interno del «noi» nuovi membri. Per esempio, quando si devono stabilire i criteri in base ai quali includere nuovi Stati nell’Unione Europea, il dibattito verte proprio sugli attributi criteriali dell’ingroup: che cosa significa essere europei e, quindi, quali caratteristiche è necessario che una nazione possieda per poter essere ammessa all’interno dell’Unione Europea? Come si può facilmente immaginare, la scelta di associare all’ingroup certe caratteristiche piuttosto che altre è strategica, ossia funzionale agli obiettivi che il politico in quel momento persegue. Per esempio, nel discorso di aper- tura del secondo mandato presidenziale (21 gennaio 2013), Barack Obama a 198 Capitolo 11 più riprese associa al popolo americano alcuni valori e dall’adesione a questi valori fa discendere la necessità di portare avanti alcune politiche che sono proprie del Partito democratico. Così dice, tra l’altro: Noi, il popolo americano, crediamo che ogni cittadino meriti una quota base di sicurezza e di dignità. Noi dobbiamo fare scelte difficili per ridurre il costo del servizio sanitario e ridurre l’ampiezza del nostro deficit […]. Noi, il popolo americano, ancora crediamo di avere dei doveri, come americani, non solo verso noi stessi, ma anche verso i nostri posteri. Noi reagiremo alla minaccia del cambiamento climatico, sapendo che, se fallissimo in questo, tradiremmo i nostri figli e le generazioni future. In questo modo, i progetti politici del presidente Obama vengono presentati come una necessaria conseguenza di quello che gli americani sono e di ciò in cui credono. La costruzione dell’ingroup è un’operazione impegnativa e mai scontata per un leader politico. In primo luogo, si tratta di un’operazione che non è condotta nel vuoto sociale, bensì in un contesto di contrapposizione con gli avversari. Di conseguenza, il «noi» prospettato da un politico può essere messo in discussione da altri politici, che competono per proiettare anch’essi sugli ascoltatori il «noi» più attraente e vasto possibile e per proporsi come i migliori rappresentanti di quel «noi». In secondo luogo, la costruzione del «noi» può risultare difficile quando quel «noi» è molto inclusivo e comprende al suo interno dei sottogruppi abbastanza differenziati, che magari sono stati per lungo tempo distinti. La costruzione di un «noi» ampiamente inclusivo comporta l’individuazione di somiglianze e, simultaneamente, il riconoscimento di differenze tra i diversi sottogruppi che lo compongono [Hornsey e Hogg 2000]. La difficoltà di un’operazione di questo tipo emerge con evidenza, ad esempio, quando i politici si trovano a dover stabilire delle coalizioni (elettorali o di governo) con partiti fino a poco tempo prima in concorrenza con il loro. In questi casi, uno dei rischi che può compromettere il processo di identificazione con il nuovo «noi» inclusivo è la tendenza a proiettare su quel «noi» le caratteristiche peculiari del «noi» sottoordinato a cui il parlante appartiene [Wenzel et al. 2003]. Questo può accadere, ad esempio, se il leader presenta come punto chiave del programma della coalizione quello che è stato per lungo tempo un cavallo di battaglia solo del proprio partito. In terzo luogo, la costruzione del «noi» presenta degli ostacoli quando a quel «noi» sono associate non solo caratteristiche positive ma anche, inelu- dibilmente, alcune caratteristiche negative. Coerentemente con la generale tendenza a connotare favorevolmente il proprio gruppo [Tajfel 1982], nella maggior parte dei casi i politici nei loro discorsi ascrivono al «noi» una serie di caratteristiche positive. Così, per esempio, quando ricostruiscono la storia dell’ingroup tendono a celebrarlo, rievocandone un passato glorioso ed eroico, e associandolo a valori ritenuti universalmente validi (come la libertà). Ci sono Comunicazione politica 199 alcuni contesti, tuttavia, in cui è inevitabile per un leader soffermarsi anche su episodi storici negativi. Ciò accade, ad esempio, nelle cerimonie commemora- tive, quando vengono ricordate le vittime di una dittatura, di una guerra o di una persecuzione. In questi casi, una strategia retorica comunemente utilizzata è quella della «lezione appresa da un passato amaro» [Forchtner e Kølvraa 2012]. L’obiettivo di questa strategia è riuscire a veicolare un’immagine co- munque positiva dell’ingroup, stabilendo un legame peculiare tra l’ingroup e alcune caratteristiche o valori positivi. Così, per associare saldamente l’Europa ai valori di democrazia, pace e tolleranza, è possibile fare riferimento alla lezione che essa ha dolorosamente appreso dalla sua storia: proprio perché l’Europa ha conosciuto l’oppressione di regimi autoritari, ora promuove la democrazia; proprio perché ha sofferto le lacerazioni di guerre intestine, ora difende la pace; proprio perché ha vissuto le persecuzioni in nome di diffe- renze etniche, culturali e religiose, ora sostiene la tolleranza. In base a questa strategia retorica, la tragica lezione che la storia ha impartito all’Europa la pone ora in una posizione di relativa superiorità morale rispetto agli altri Stati/continenti extraeuropei. Viene così raggiunto l’obiettivo di ricostruire un’immagine positiva del «noi» europeo a partire da premesse negative. La costruzione discorsiva del «noi» costituisce un processo che è pienamente efficace per la leadership politica nella misura in cui i politici, dopo aver forgiato un «noi», riescono anche a presentare se stessi come i migliori e i più legittimi rappresentanti di quel «noi». La capacità di presentare se stessi come membri prototipici del «noi» è funzionale all’ottenimento del consenso grazie ai processi di identificazione su cui fa leva, e ben si adatta all’accre- sciuta personalizzazione della politica che contraddistingue le democrazie occidentali. Allo scopo di presentarsi come «uno di noi», il politico può far leva su elementi della propria biografia, su caratteristiche personali, o su valori condivisi, come emerge dallo stralcio che segue, tratto ancora dal discorso con cui Barack Obama inaugura il suo secondo mandato presidenziale nel 2013. La campagna elettorale è ormai alle spalle e il presidente, forte della vittoria, ribadisce la legittimità della sua leadership sottolineando la basilare somiglianza tra l’impegno da lui assunto e quello assunto da tutti gli americani: Ma le parole che ho pronunciato oggi non sono così diverse dal giuramento che si presta ogni volta che un soldato accetta di prendere servizio oppure un immigrato realizza il suo sogno. Il mio giuramento non è così diverso dalla promessa che tutti noi facciamo alla bandiera che sventola qui sopra e che riempie i nostri cuori di orgoglio. Concludendo, la leadership politica può essere considerata come un processo discorsivo che comprende: a) la creazione nei propri ascoltatori di un senso condiviso del «noi», inclusivo di tutti coloro che si vogliono portare dalla propria parte; b) la connotazione di quel «noi» attraverso caratteristiche che siano coerenti con i propri progetti politici; c) la presentazione di se stessi come i migliori rappresentanti di quel «noi». 200 Capitolo 11 6. LA COSTRUZIONE DELL’«OUTGROUP» L’appartenenza al «noi» assume il suo pieno significato in funzione della contrapposizione a un gruppo differente, un «loro» (l’outgroup), al quale non si appartiene ma con il quale ci si paragona [Tajfel 1982; Turner et al. 1987]. Poiché l’attività politica comporta il confronto, e spesso lo scontro, tra posizioni differenti o addirittura contrapposte, la contrapposizione «noi- loro» (o ingroup-outgroup) è di fatto soggiacente a ogni discorso politico. I leader elaborano tale contrapposizione in modo variabile, agendo sui confini e sulle caratteristiche dell’outgroup, parallelamente al modo in cui costruiscono confini e caratteristiche dell’ingroup. Quando marcare una netta contrapposizione con l’outgroup è funzionale agli obiettivi perseguiti da chi parla, i confini dell’«ingroup» e dell’«outgroup» vengono spostati in modo da creare due ampi blocchi contrapposti. Per esem- pio, nei discorsi di legittimazione di un intervento bellico, frequentemente ingroup e outgroup vengono ampliati in modo da includervi, rispettivamente, tutti i potenziali alleati da una parte e tutti i nemici dall’altra. Consideriamo, ad esempio, i discorsi che i presidenti degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt e George Bush Jr. hanno tenuto per giustificare l’intervento militare degli Stati Uniti rispettivamente nella Seconda guerra mondiale (discorsi del 27 ottobre e del 9 dicembre 1941) e in Afghanistan e Iraq (20 settembre 2001 e 7 ottobre 2002) [Leudar, Marsland e Nekvapil 2004; Oddo 2011]. In entrambi i discorsi i presidenti hanno ampliato il «noi» fino a includervi tutti «i popoli civilizzati». Parallelamente, hanno esteso i confini dell’outgroup, quindi il «loro», al di là del gruppo che materialmente ha attaccato l’ingroup, fino a includervi tutti gli Stati che fiancheggiano quel gruppo e che, anche se non sono esplicitamente nemici nel presente, potrebbero diventarlo nell’imme- diato futuro. Come l’ingroup («noi»), anche l’outgroup («loro») finisce così per assumere dimensioni globali (per esempio Bush parla di «terroristi che si nascondono in più di 60 paesi»). La contrapposizione ingroup-outgroup si gioca poi sull’associare all’outgroup caratteristiche differenti da quelle ascritte all’ingroup [Tajfel 1982; Turner et al. 1987]. In funzione di quanto i leader politici intendono calcare la con- trapposizione «noi-loro», essi possono sottolineare differenze più o meno incolmabili tra le «nostre» e le «loro» caratteristiche, oppure attribuire a «loro» caratteristiche esplicitamente negative che «noi» non abbiamo. Come si è visto per la connotazione dell’ingroup, anche per quanto riguarda la connotazione dell’outgroup le caratteristiche citate possono essere varie e riguardare lingua, cultura, competenze, abilità, valori o principi morali. Come in altri contesti comunicativi, anche nel contesto politico la costruzione della contrapposizione «noi-loro» si caratterizza dunque per l’associazione di ca- ratteristiche positive all’«ingroup» e di caratteristiche negative all’«outgroup». Tuttavia nel discorso politico, più che in altri contesti, soggiacente a questa contrapposizione è spesso anche un obiettivo di mobilitazione collettiva. Comunicazione politica 201 Quando i politici intendono impiegare la contrapposizione tra ingroup e outgroup come strumento di mobilitazione collettiva, una delle strategie discorsive che utilizzano in maniera più ricorrente consiste nel rappresentare la contrapposizione «ingroup-outgroup» in termini di valori. L’outgroup viene dipinto come portatore di valori radicalmente diversi da quelli dell’ingroup, valori che l’outgroup è pronto a perseguire in modo radicale e fanatico, col- locandosi così al di fuori dell’ordine politico e morale che l’ingroup rispetta. Per esempio, nei discorsi di legittimazione dell’intervento bellico statunitense cui si è fatto già cenno si è osservato che il lessico impiegato per designare le future azioni belliche degli Stati Uniti è connotato positivamente dal punto di vista morale (vengono utilizzate spesso parole come «coraggio», «libertà» e «giustizia»), il che contribuisce a oscurare la violenza e la brutalità insita in tali azioni. Invece, il lessico utilizzato per caratterizzare le azioni del nemico è connotato negativamente (con parole come «assassinio», «oppressione», «tirannia»). Le azioni dell’ingroup risultano così deprivate della loro carica distruttiva, mentre le azioni dell’outgroup emergono per la loro atroce violenza e per il loro carattere profondamente immorale. Funzionale alla comunicazione di una netta contrapposizione «noi-loro», e di una «nostra» mobilitazione contro di «loro», è anche la ricostruzione del passato e del futuro operata dai politici. Attraverso un’accorta selezione degli eventi storici e, talvolta, attraverso una loro distorta ricostruzione, i politici elaborano la «nostra» storia come una serie di battaglie vinte grazie alle «nostre» elevate capacità e alla «nostra» incrollabile integrità morale. Una simile storia passata induce a prevedere un futuro in cui «noi» affronteremo con successo le sfide che il paese pone. Al contrario, la «loro» storia è rap- presentata in termini negativi, segnata da sconfitte e fallimenti riconducibili alla «loro» basilare incompetenza e mancanza di integrità morale, il che getta un’ombra oscura su un eventuale futuro in cui «loro» potrebbero essere al potere. Per esempio, sempre nei discorsi di legittimazione dell’intervento militare americano fatti da Roosevelt e da Bush e citati in precedenza, la storia degli Stati Uniti viene confezionata in modo epico: i due presidenti rievocano un passato costellato di sfide impegnative affrontate con successo e di episodi di grande eroismo, un passato che impegna l’America ad affron- tare con pari decisione ed eroismo la sfida del presente. Coerentemente, la vittoria degli Stati Uniti, in realtà lontana e incerta, viene presentata come vicina e garantita. Le difficoltà e le incognite, quando vengono riconosciute, sono spinte rapidamente sullo sfondo, quali ostacoli facilmente superabili lungo una strada che indubitabilmente porterà alla vittoria. La storia pas- sata dell’outgroup, invece, viene dipinta come un susseguirsi di aggressioni ingiustificate perpetrate ai danni dell’ingroup, lasciando presagire un futuro gravido di temibili minacce. Come si è già osservato nel paragrafo precedente, tuttavia, può accadere che i leader politici, nel delineare la contrapposizione «noi-loro», debbano fare i conti con caratteristiche o comportamenti negativi o discutibili del «noi» e con situazioni in cui «loro» sono stati oggettivamente più la vittima che gli esecutori 202 Capitolo 11 di atti negativi. In questi casi, i leader politici utilizzano frequentemente la tecnica della nominalizzazione, impiegano cioè, invece della classica costruzione sintattica «soggetto-predicato verbale-oggetto», un unico sostantivo astratto. Ciò risponde all’obiettivo di oscurare gli agenti e le circostanze dell’azione negativa, diffondendo così la responsabilità di un «nostro» comportamento negativo anche su di «loro» che, in realtà, l’hanno solo subito. Per esempio, durante il secondo conflitto mondiale, prima dell’entrata in guerra ufficiale degli Stati Uniti, alcuni cacciatorpedinieri sganciarono bombe di profondità su sommergibili tedeschi: questi ultimi, dopo essere rimasti alcune ore inattivi, risposero attaccando a loro volta le navi americane e uccidendo alcuni soldati. Nel discorso successivo a questo episodio, tenuto il 27 ottobre 1941 (Navy Day Radio Address), il presidente Roosevelt utilizza spesso i termini «scontri a fuoco» o «fuoco incrociato»: grazie a queste nominalizzazioni, egli oscura la responsabilità che gli Stati Uniti avevano avuto nell’innescare il conflitto e rappresenta lo scontro come un fenomeno sorto indipendentemente dalla volontà degli americani. 7. LA COSTRUZIONE DELLE MINORANZE Il modo in cui le minoranze (etniche, religiose, di genere ecc.) sono rappre- sentate nel discorso politico varia molto. Possono essere rappresentate come un sottogruppo interno all’«ingroup» oppure come un vero e proprio «outgroup». In altre parole, i leader politici possono spostare i confini del «noi» fino a includervi il gruppo di minoranza oppure possono restringerli in modo da escluderlo. Inoltre, possono associare al gruppo di minoranza caratteristiche positive e simili a quelle della maggioranza; oppure possono connotare il gruppo di minoranza con caratteristiche negative o comunque diverse da quelle della maggioranza [Reicher et al. 2006]. La variabilità della costruzione discorsiva delle minoranze emerge quando si confronta il modo in cui una medesima minoranza è rappresentata da leader politici che hanno posizioni differenti circa le politiche da attuare nei loro confronti. Sono emblematici a questo riguardo i discorsi tenuti da due leader australiani a proposito delle cosiddette «Generazioni rubate». Questo termine fa riferimento ai bambini aborigeni che furono sottratti con la forza alle loro famiglie tra il 1910 e il 1970 nell’ambito di una politica assimilazionista che mirava a realizzare un’«Australia bianca». Il 13 febbraio 2008 il leader del Partito laburista Kevin Rudd, immediatamente a ridosso della sua vittoria elettorale, chiede ufficialmente perdono alle «Generazioni rubate» davanti a tutto il Parlamento australiano e a una delegazione di rappresentanti di queste generazioni. Nel suo discorso Rudd persegue due obiettivi, uno di più ampio raggio e uno più strettamente legato al contesto in cui il discorso viene pronunciato: l’obiettivo più ampio è mostrare l’opportunità di politiche egualitarie volte all’integrazione degli aborigeni; l’obiettivo invece più legato al contesto è Comunicazione politica 203 effettuare una pubblica richiesta di perdono alla comunità aborigena [Hastie 2009; Augoustinos, Hastie e Wright 2011]. In funzione del primo obiettivo, in vari passi del suo discorso Rudd sposta i confini del «noi» fino a costruirlo come una categoria sovraordinata che include sia gli australiani aborigeni sia gli australiani non aborigeni. L’inclusione del gruppo di minoranza in questo «noi» sovraordinato è favorito dall’evocazione di emozioni. Nel suo discorso Rudd infatti inserisce racconti vividi e toccanti di persone, ora anziane, che in età infantile vennero sottratte alle loro famiglie forzatamente: il leader politico mette in scena madri e bambini aborigeni indifesi di fronte al brutale intervento degli «uomini dell’assistenza sociale». Esplicitamente, Rudd fa leva sulle emozioni empatiche di angoscia e di tristezza di chi lo ascolta per indurre una vasta categorizzazione sovraordinata che comprende tutti gli australiani, aborigeni e non: Le Generazioni rubate non sono una curiosità intellettuale. Sono esseri umani […] Chiedo agli australiani non aborigeni di immaginare per un momento se questo fosse capitato a voi. Chiedo agli onorevoli membri del Parlamento qui presenti: immaginate se questo fosse capitato a noi? Riconoscere di provare tutti le medesime emozioni di fronte a simili episodi discende dalla comune appartenenza a un «noi» che include tanto gli austra- liani aborigeni quanto gli australiani non aborigeni. In questo modo, il leader laborista riesce a mobilitare un «noi» nazionale riunificato, ricostruito a partire dal riconoscimento empatico delle sofferenze degli aborigeni e volto ad agire nello spirito della riconciliazione in vista di un futuro migliore. Anche in funzione del secondo obiettivo, ossia la realizzazione di una pubblica richiesta di perdono, Rudd lavora sui confini dei gruppi coinvolti in questo atto. In questo caso Rudd estende il «noi», quale categoria dei mittenti della richiesta di perdono, dal Partito laburista a tutti gli australiani non aborigeni. Così rappresenta la richiesta di perdono come proveniente da una comunità nazionale unanimemente concorde in questa intenzione. Parallelamente, il leader del Partito laburista allarga i confini della categoria dei destinatari della richiesta di perdono: si rivolge infatti a una comunità aborigena che va al di là delle «Generazioni rubate» e che include, oltre ai bambini sottratti ai loro genitori, ormai molto avanti con gli anni, anche i loro discendenti e le loro comunità. Nel contesto in cui viene pronunciato questo discorso, l’amplia- mento della categoria di minoranza assume il significato di un riconoscimento delle conseguenze negative a lungo termine che le politiche assimilazioniste hanno avuto per la comunità aborigena. Nella stessa occasione, il leader dell’opposizione, il conservatore Brendan Nelson, pronuncia un altro e ben diverso discorso in merito alle «Generazioni rubate». Il principale obiettivo del discorso di Nelson è quello di attenuare il biasimo diretto contro il Partito conservatore per l’allontanamento forzato dei bambini dalle loro famiglie. A questo scopo, egli impiega una strategia discorsiva ampiamente utilizzata quando un leader politico vuole stornare da 204 Capitolo 11 sè l’accusa di razzismo: quella di invocare «le buone intenzioni» che sarebbero state all’origine degli interventi assimilazionisti sulle comunità aborigene. Le conseguenze negative patite dai bambini allontanati dalle loro famiglie ven- gono spinte sullo sfondo, ridimensionate nella loro portata e rappresentate come imprevedibili. Invece, l’attenzione è attirata sulle «buone intenzioni» degli «australiani per bene», che avrebbero agito esclusivamente con l’obiet- tivo di aiutare quei bambini. Il leader conservatore si spinge fino ad affermare che la rimozione dei bambini aborigeni dalle loro famiglie fu persino accettata volontariamente da alcuni aborigeni e che ebbe nella maggior parte dei casi un esito positivo: tale provvedimento, infatti, avrebbe consentito a quei bam- bini di accedere a opportunità di crescita e di istruzione che non avrebbero mai avuto se fossero rimasti nello «squallore» delle loro comunità di origine. Così, grazie alla manipolazione strategica dei confini intergruppi, delle ca- ratteristiche e delle intenzioni associate al gruppo di minoranza e a quello di maggioranza, i politici perseguono l’obiettivo di presentare le loro politiche relative alle minoranze come giustificate e necessarie. I promotori di politiche egualitarie e dirette a favorire l’integrazione delle minoranze rappresentano le minoranze come un sottogruppo incluso in un’ampia categoria sovraordi- nata, di cui fanno parte, a pari titolo, insieme alla comunità di maggioranza. A questo scopo sottolineano le somiglianze (per lingua, cultura, valori ecc.) tra il gruppo di minoranza e quello di maggioranza. Invece, i leader politici che sostengono l’opportunità di una separazione delle comunità di minoranza mantengono i confini intergruppi tra minoranza e maggioranza e sottolineano le incolmabili differenze tra le due comunità.

Use Quizgecko on...
Browser
Browser