Summary

Questo documento fornisce una panoramica sull'ergonomia applicata, definendo i concetti chiave come prodotto, esigenze, requisito e contesto d'uso. Esplora le tre aree di specializzazione dell'ergonomia: fisica, cognitiva e organizzativa. Inoltre, evidenzia il ruolo del design nell'ergonomia e l'evoluzione storica del termine.

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Piccole definizioni prodotto-> risultato dell’attività umana; nel caso dei prodotti industriali è il risultato di un processo di progettazione e produzione finalizzato a rispondere a uno specifico bisogno. esigenze-> ciò che è necessario per lo svolgimento di qualcosa, ci si riferisce all’insieme de...

Piccole definizioni prodotto-> risultato dell’attività umana; nel caso dei prodotti industriali è il risultato di un processo di progettazione e produzione finalizzato a rispondere a uno specifico bisogno. esigenze-> ciò che è necessario per lo svolgimento di qualcosa, ci si riferisce all’insieme dei bisogni, delle necessità, delle aspettative e dei desideri che le persone esprimono rispetto all’uso o al rapporto con un prodotto o un sistema. requisito-> trasposizione a livello tecnico delle esigenze degli utenti. contesto d’uso-> Il contesto d’uso è definito dagli utenti, dalle attività, dalle attrezzature e dagli ambienti fisici e sociali nei quali viene utilizzato un prodotto. Il contesto d’uso è definito come sistema complesso nel quale ogni elemento interagisce con gli altri, e del quale fanno parte integrante gli utenti diretti e indiretti, i compiti, il prodotto considerato, l’ambiente fisico sociale e tecnologico. ERGONOMIA L’IEA, l’ente di riferimento dell’ergonomia, definisce l’ergonomia, anche nota come human factors, la disciplina scientifica che studia l’interazione tra le persone e gli altri elementi di un sistema, e la professione che applica i principi teorici, i dati e i metodi dell’ergonomia con l’obiettivo di ottimizzare il benessere delle persone e la performance complessiva del sistema. Tale ottimizzazione è connessa alla possibilità di esplicitare e controllare le qualità del sistema che lo rendono adeguato alle esigenze dei suoi specifici utilizzatori Al centro dell’attenzione è quindi l’interazione che le persone stabiliscono o possono stabilire con gli altri elementi del sistema nel quale e con il quale svolgono le proprie attività di lavoro e di vita quotidiana. Ogni elemento del sistema condiziona e modifica gli altri e le persone con le loro caratteristiche, capacità, esigenze e aspettative fanno parte del sistema stesso. L’obiettivo dell’ergonomia è ottimizzare sia il benessere delle persone che la performance complessiva del sistema, attraverso interventi di valutazione e progettazione finalizzati a rendere compatibili sistemi e ambienti con i bisogni, le capacità e le limitazioni delle persone. La peculiarità dell’approccio ergonomico risiede nella capacità di sintetizzare conoscenze proprie di settori disciplinari tradizionalmente distanti e utilizzare metodi di raccolta e di valutazione dei bisogni e delle aspettative delle persone, con l’obiettivo di realizzare ambienti, prodotti e servizi in grado di garantire condizioni di sicurezza, di usabilità e di benessere a coloro che li utilizzano o che vi entrano in relazione per le loro attività di lavoro e di vita quotidiana. Questo approccio presuppone la valutazione e l’interpretazione della molteplicità di variabili che definiscono l’interazione tra le persone e i prodotti/sistemi che utilizzano, identificando e interpretando le esigenze che le persone esprimono o possono esprimere rispetto a tale interazione, i loro livelli di priorità, i loro reciproci condizionamenti, la loro modificazione nel tempo. L’adeguatezza è uno dei fondamenti dell’ergonomia ed è un concetto relativo perché dipende dal contesto, dalle persone. I due presupposti dai quali l’ergonomia trae le sue basi teoriche e metodologiche sono costituiti dalla multidisciplinarità (aspetto distintivo dell’ergonomia), ossia l’integrazione di conoscenze e metodi di valutazione delle caratteristiche e delle capacità fisiche, sensoriali e psico-percettive dell’uomo, e dalla centralità della persona. La IEA individua tre aree di specializzazione dell’ergonomia: 1. ergonomia fisica: si occupa dell’anatomia umana, dell'antropometria, delle caratteristiche fisiologiche e biomeccaniche dell’uomo e del rapporto tra queste e l’attività fisica. I contenuti rilevanti dell’ergonomia fisica includono le posture di lavoro, la movimentazione dei materiali, i movimenti ripetitivi, i disagi muscolo-scheletrici correlati alle attività di lavoro, il layout dei luoghi di lavoro, la salute e la sicurezza. 2. ergonomia cognitiva: si occupa dei processi mentali, come la percezione, la memoria, il ragionamento e la risposta motoria, in rapporto a come questi condizionano l’interazione tra le persone e gli altri elementi di un sistema. I contenuti rilevanti dell’ergonomia cognitiva includono il lavoro mentale, i processi decisionali, le prestazioni qualificate, l’interazione uomo-computer, l’affidabilità umana, lo stress da lavoro e come questi possono riguardare la progettazione dell’interazione uomo-sistema. 3. ergonomia organizzativa: si occupa dell’ottimizzazione dei sistemi socio-tecnici, includendo le loro strutture organizzative, le politiche e i processi. I contenuti rilevanti dell’ergonomia organizzativa includono la comunicazione, la gestione delle risorse, la progettazione delle attività di lavoro, la progettazione dei tempi di lavoro, il lavoro di gruppo, la progettazione partecipata, la community ergonomics, il lavoro in cooperazione, i paradigmi dei nuovi lavori, le organizzazioni virtuali, il telelavoro, la gestione della qualità. L’ergonomia si applica a tutti i contesti, perché è una lente attraverso cui leggi e progetti la realtà. L’ergonomia è caratterizzata da 3 aspetti complementari che interagiscono tra loro: 1. aspetti fisici: aspetti fisici dell’interazione della persona con il sistema durante l’uso. Ad esempio fattori anatomici e antropometrici, fattori fisiologici e biomeccanici, dell’interazione dell’uomo con i sistemi e in relazione alle componenti prevalentemente fisiche delle attività. Aspetti fisici dell’interazione che incidono sulla qualità d’uso dell’artefatto da progettare (dati utili e ricadute sul progetto) come la compatibilità dimensionale, la postura, i movimenti, gli sforzi, le prese, la prensibilità, le manipolazioni, gli spazi operativi, il layout, la raggiungibilità la visibilità, le qualità bariche e tattilo-aptiche. 2. aspetti cognitivi: aspetti percettivi e cognitivi dell’interazione della persona con il sistema durante l’uso. Ad esempio la percezione degli stimoli, l’elaborazione delle informazioni, la memoria, l’attivazione delle risposte motorie nell’interazione fra l’uomo ed il sistema. Aspetti cognitivi dell’interazione che incidono sulla qualità d’uso dell’artefatto da progettare come la comprensibilità del sistema, l'affordance, i vincoli d’uso, il mapping, le cromie, le consistenze materiche, le forme, i significanti visuali, i segni e i simboli. 3. aspetti organizzativi: aspetti sociali dell’interazione della persona con il sistema in rapporto all’uso. Ad esempio le regole d’uso, i tempi d’uso, le relazioni sociali connesse all’uso, i contesti ambientali d’uso, la frequenza d’uso, le motivazioni d’uso e le aspettative d’uso. Aspetti sociali e organizzativi dell’interazione che incidono sulla qualità d’uso dell’artefatto da progettare come le forme, le dimensioni, i pesi, i colori, il layout, il mapping e i feedback. I primi due sono estremamente collegati, mentre quelli organizzativi si riferiscono a un ambiente sociale/relazionale. Gli aspetti organizzativi riguardano la macro-ergonomia, guardiamo l’attività in un contesto più ampio, sistema di regole. Esempio Attività: prendere un caffè Analizziamo il problema sui 3 aspetti. Aspetti fisici: quali sono le parti del corpo che interagiscono direttamente con la tazzina. Aspetti cognitivi: riconoscimento dello stimolo (autoesplicatività dell’oggetto) Aspetti organizzativi: prendere ad esempio il caffè camminando implica una forma diversa della tazzina. Il ruolo del design Il design viene definito in primo luogo come attività di intervento progettuale basata sulla capacità di innovazione e come capacità di sintesi creativa basata sulla capacità di immaginare e rendere realizzabili soluzioni progettuali innovative e svilupparle in un prodotto finito. Le innovazioni possono configurarsi come salti nella performance di prodotto resi possibili da tecnologie di frontiera, e miglioramenti di prodotto suggeriti da una più efficace analisi dei bisogni dei clienti. Le prima è il dominio dell’innovazione radicale spinta dalla tecnologia (technology-push), la seconda dell’innovazione incrementale tirata dal mercato (market-pull). Un secondo aspetto da sottolineare è il ruolo del design come fattore di connessione tra differenti competenze e specificità disciplinari e professionali. Il design come disciplina si insedia a metà strada tra quattro sistemi di conoscenze tra loro tradizionalmente difficilmente dialoganti: le humanities e la tecnologie/ingegneria su un asse, e l’arte/creatività e l’economia e la gestione su un altro asse perpendicolare al primo. Il design ha diverse caratteristiche invarianti: focus sull'approccio user-centred problem solving: il design è visto come un modo di identificare e risolvere i problemi degli utenti attraverso lo studio degli utenti e/o il loro coinvolgimento attraverso tecniche di visualizzazione e di design partecipativo come la co-creation. il design come attività di innovazione multidisciplinare e cross-functional: il designer facilita i processi di innovazione interdisciplinari e le interazioni. il design come attività olistica e strategica: le valutazioni del design permeano il processo di innovazione. Il design è un elemento fondamentale della strategia aziendale e aiuta a visualizzare i possibili scenari per supportare un processo decisionale strategico. E’ quindi richiesto come strumento di innovazione, sia per quanto riguarda la capacità di intervento progettuale, sia per quanto riguarda i metodi di intervento con i quali il design può agire all’interno e in rapporto a tale sistema. Il design si avvicina progressivamente all’ergonomia, che rende disponibili proprio quelle conoscenze e quei metodi di intervento in grado di guidare l’intero processo di formazione e sviluppo del prodotto a partire dai bisogni e dalle aspettative delle persone e, parallelamente, l’ergonomia si avvicina al design come depositario della capacità di intervento progettuale, capace di dare forma al prodotto sintetizzando nel progetto i contributi e le conoscenze sulle attuali e possibili aspettative delle persone. L’approccio ergonomico ha come punto di partenza la descrizione e la comprensione di tutte le variabili che definiscono il contesto d’uso, ossia di tutti i fattori che determinano le condizioni e le modalità con le quali alcune persone interagiscono con un dato prodotto o sistema. Si deve rendere chiaro e comprensibile il quadro di riferimento secondo le 5W della migliore tradizione giornalistica anglosassone, a cui aggiungere “come? in quale modo?”. Tradurre queste domande in chiave progettuale significa aggiungere la loro declinazione al condizionale e al futuro, aprendo l’attenzione non solo alla situazione attuale e oggettiva ma anche alla sua possibile evoluzione. EVOLUZIONE DELL’ERGONOMIA Il termine ergonomia è formato dai due sostantivi greci ergon e nomos, rispettivamente lavoro e legge naturale, il cui significato letterale è legge naturale del lavoro. Ergon/lavoro inteso come attività. L’uomo in quanto tale è un soggetto attivo, inteso come soggetto che fa cose. Dunque l’ergonomia è una disciplina che regola le attività. Per svolgere attività dobbiamo agire con cose (strumenti, ambienti). Un sistema è un supporto per l’attività dell’utente, quindi devo analizzare sia le persone che l’attività. Dal punto di vista formale l’ergonomia risale al 1949 in Gran Bretagna. L’introduzione del termine ergonomia è attribuita a Hywel Murrel e viene fatta coincidere con la fondazione della ergonomics research society. Il termine era in realtà già stato utilizzato dal naturalista polacco Wojciech Jastrzebski che introdusse il termine ergonomics in letteratura nel 1871. Però nel 1987 con la scoperta dell'australopiteco capiamo che già in quell’epoca l’uomo adattava gli attrezzi per migliorare l’attività umana. Nel 2015 la rivista Science conferma che la struttura del pollice dell’Australopiteco Africano consentiva l’energica opposizione del pollice contro le altre dita, in modo tale da permettere l’impugnatura di strumenti in pietra. Si è iniziato a studiare l’attività per massimizzare l’attività senza tener conto del benessere “dell’operaio”. Le componenti emozionali e razionali sono state dimenticate dal 1857 al 1970 perchè agli inizi l’ergonomia si è focalizzata sulle componenti fisiche. Nel 1900 l’attività ripetitiva dell’operaio nella catena di montaggio rallenta la produzione e quindi l’ergonomia nasce per non far fare male agli operai in modo da non rallentare la produzione. Da qui nasce la macchina che si adatta all’attività umana. Durante la seconda guerra mondiale si unisce un gruppo che ha il compito di migliorare gli strumenti di guerra: dovevano mettere la persona in condizione tale da essere efficiente. Inizia quindi uno studio dell'efficienza e della sicurezza delle attrezzature militari che erano diventate molto sofisticate -dai radar ai sistemi antiaerei - il cui funzionamento poteva essere compromesso da una loro progettazione inappropriata rispetto alle capacità fisiche e cognitive dei soldati. L'omissione di questi aspetti avrebbe provocato perdite significative di personale e attrezzature. Si studia quindi l’interazione uomo-macchina, progettazione ergonomica, errore umano. Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 si studiano le attività degli operai nelle fabbriche, in particolare gli aspetti fisici con l’avvio dell’automazione si tengono in conto anche gli aspetti cognitivi e l’ambiente di ricerca si sposta in ufficio. Infatti a partire dagli anni ‘80 l'interesse dell’ergonomia si estende agli aspetti ambientali e organizzativi dei luoghi di lavoro, che comprendono ora tutte le aree produttive e il lavoro d’ufficio. In questi anni si ha una forte espansione degli interventi ergonomici condotti sul sistema uomo-calcolatore. L’attenzione si sposta prevalentemente sul terziario e sul lavoro d'ufficio. Dapprima gli studi vertono sui parametri fisici delle interfacce hardware, poi sempre più sulle interfacce di presentazione delle informazioni e sullo sviluppo di modelli di rappresentazione della conoscenza e di supporto alle attività di lavoro.Tra il 1990 e il 2000 si sviluppa la macro-ergonomia che si occupa di progettazione di sistemi di lavoro complessivi (WS) fornendo le conoscenze e i metodi necessari per il miglioramento dei sistemi di lavoro e, quindi, sviluppando l'efficacia e le prestazioni delle aziende. L’ergonomia è orientata verso lo studio del comportamento umano all’interno dei sistemi, semplici o complessi, dei quali l’uomo non è più considerato utilizzatore esterno, ma parte integrante. Tra il 2010 e il 2020 si guarda alla connessione tra sistemi fisici e digitali, all’utilizzo di macchine intelligenti , interconnesse e collegate alla rete internet. Si parla quindi di digital ergonomics. L’EVOLUZIONE DELL’USER-CENTRED DESIGN Lo user-centred design (UCD) è un approccio progettuale nato nel campo dell’informatica negli anni ‘70-’80, e successivamente adottato e applicato nel campo del design. L’obiettivo di tale approccio è stato quello di orientare il processo di sviluppo di un prodotto-servizio affinché possano essere garantiti elevati livelli di usabilità. Il cambiamento più significativo ha riguardato il ruolo dell’utente nel processo di progettazione. L’evoluzione dell’approccio UCD è stata dettata dall’aumento dei livelli di complessità degli oggetti quotidiani e dall’innovazione tecnologica che ha modificato in modo significativo la natura dell’interazione utente-prodotto-sistema o servizio. Il movimento beyond usability e la user experience hanno rappresentato la spinta propulsiva della rielaborazione dell’approccio e dei metodi dell’UCD. L’evoluzione dell’approccio all’interno del settore del design ha riguardato in primo luogo le modalità di coinvolgimento degli utenti finali nel processo progettuale. Gli utenti assumono un ruolo sempre più attivo, sono considerati come portatori di esperienze, da coinvolgere in modo attivo e iterativo durante tutte le fasi di sviluppo progettuale. Negli anni 2000 si è andata definendo una nuova dimensione, quella di una progettualità diffusa di co-creazione tra i designer e gli utenti: il Co-Design. Se l’obiettivo iniziale dell’UCD era rivolto alla valutazione dell’usabilità, questo si è voluto verso un’azione progettuale che sin dalle sue prime fasi affronta l’intera esperienza utente e nella quale l’utente assume un ruolo strategico in tutte le fasi dello sviluppo progettuale. APPROCCIO HUMAN-CENTRED L’ergonomia e design si basano su un doppio spostamento di prospettiva: dalla valutazione e dal progetto del prodotto in sé, alla valutazione e al progetto dell’interazione tra le persone e quel prodotto; dalla valutazione della realtà oggettiva nella quale interviene, alla proiezione nel futuro della realtà dell’interazione e al progetto delle soluzioni più idonee a rispondere ai possibili bisogni e desideri delle persone. Alla base del rapporto tra ergonomia e design è la definizione di Human Centred Design (HCD). L’HCD descrive un approccio alla progettazione finalizzato alla qualità dell’interazione tra le persone e i sistemi, con i quali entrano in rapporto, che si basa sulla raccolta e l’elaborazione delle informazioni essenziali alla comprensione delle esigenze e delle persone attraverso i metodi di indagine e valutazione strutturali e verificabili. L’HCD rappresenta non solo una filosofia di intervento che pone l’utente al centro del processo di progettazione e realizzazione dei prodotti, ma anche e soprattutto le tecniche, i processi, i metodi e le procedure necessarie a verificare e progettare l’usabilità dei prodotti e dei sistemi. Questa definizione si deve estendere alla globalità dei rapporti che le persone possono stabilire con il prodotto ed al suo intero ciclo di vita. In definitiva l’HCD è un approccio alla progettazione che pone la persona come punto di partenza e obiettivo centrale di qualsiasi intervento. I contenuti dell’ergonomia e del design si muovono su due piani non separabili. Il primo è costituito dai metodi di valutazione e interpretazione dell’usabilità e dell’esperienza d’uso, in grado di valutare e individuare le esigenze e le aspettative delle persone. Il secondo è costituito dalle conoscenze interdisciplinari di base relative alle caratteristiche dell’uomo. Il suo valore innovativo risiede nell’organicità dei due piani conoscitivi che costituiscono sia gli strumenti metodologici ed operativi in grado di orientare l’intero processo di formazione e sviluppo dei prodotti, sia una componente essenziale della formazione richiesta al progettista. Le dimensioni dell’approccio ergometrico/ i principi dell’HCD: 1. dimensioni empirica: relazionarsi con uno specifico contesto. Approccio specifico/sperimentale. Questa dimensione si studia tramite delle tecniche come analisi etnografica. L’approccio ergonomico empirico si basa su due elementi in particolare: interviste di qualità e osservazione diretta. In poche parole questo approccio si basa sulla ricerca sul campo. L’osservazione partecipata implica che io osservo ma mi faccio coinvolgere. Il processo di progettazione si basa su dati concreti riguardanti il contesto e le caratteristiche fisiche e mentali degli esseri umani, il loro comportamento osservato e le loro esperienze riportate. 2. dimensione iterativa: abbiamo continua necessità di verificare e ricevere feedback. La fase di ricerca basata su osservazioni empiriche è seguita da una fase ideativa in cui si generano soluzioni a loro volta valutabili empiricamente. Il processo di input-output rimanda ad un continuo feedback tra ipotesi, modellazione e verifiche sul campo. 3. dimensione partecipativa: coinvolgere e lavorare con le persone implica mettere in gioco la loro esperienza personale/soggettiva (fondamento nella progettazione). L'utente finale è un partecipante attivo del processo di progettazione. Gli aspetti soggettivi dell'interazione uomo-sistema sono evidenziati e interpretati sia come input progettuali che come feedback di verifica 4. dimensione non-procustiana: (deriva da Procuste) gli oggetti devono essere adatti alle persone e non il contrario. Considera le persone per come effettivamente sono, e non sono come potrebbero o dovrebbero essere. Mira ad adattare il sistema da progettare alle peculiarità dell’utente e non viceversa. Non considera comportamenti stereotipati e codici di condotta fissi. Sono rilevate e valorizzate abitudini, adattamenti spontanei e infrazioni alle regole, legate a bisogni e obiettivi effettivi degli utenti nello svolgimento delle loro attività. 5. dimensione inclusiva: dobbiamo basarci sulla variabilità e la diversità umana. La variabilità può essere sia interindividuale che riguarda soggetti diversi e una intraindividuale che riguarda la variabilità di una sola persona. Considera la variabilità e diversità umana, mira a pervenire alla soluzione più usabile, confortevole e sicura per il maggior numero possibile di persone in considerazione delle diverse condizioni e situazioni. Le differenze culturali, sociali, fisiche degli utenti sono enfatizzate e non standardizzate. Il progetto tiene conto degli estremi della norma e non dello standard: quindi si basa sui dati percentili. 6. dimensione human-activity oriented: l’utente che compiti deve sviluppare? il sistema a cosa gli serve? Tiene debitamente conto del compito dell'utente. Riconosce che la corrispondenza tra il sistema e l'utente dipende dalle specificità dell’attività che l’utente deve svolgere e verso cui il sistema è finalizzato. 7. dimensione system oriented: considera che l'interazione tra prodotto e utente avviene nel contesto di un sistema socio-tecnico più ampio, che a sua volta opera nel contesto dei sistemi economici e politici, dell'ecosistema ambientale e così via tiene conto che il sistema cambia e modifica il suo stato e le interazioni al suo interno alla luce delle circostanze e degli eventi. 8. dimensione pragmatica: riconosce che possono esserci dei limiti a ciò che è ragionevolmente realizzabile Gli obiettivi dell’HCD delineati da J. Rubin si possono sintetizzare in tre principi base: la capacità di focalizzare immediatamente l’attenzione sull’utente e sul compito. Ciò significa identificare e categorizzare l’utente, reale o potenziale. E’ quindi necessario un approccio sistematico e strutturato alla raccolta delle informazioni da e sull’utenza. la misurazione empirica delle modalità d’uso del prodotto. la progettazione iterativa attraverso la quale il prodotto è ciclicamente progettato, modificato e testato. Lo studio dell’errore umano introduce la valutazione del comportamento degli individui in rapporto alle informazioni che il prodotto è in grado di fornire sulla sua funzione, sul suo funzionamento e sull’effetto del prodotto dalle azioni che l’utente può svolgere con il prodotto. Il concetto di qualità del prodotto/sistema coincide con la qualità dell’interazione che le persone stabiliscono o possono stabilire con quel prodotto, e può essere definita in termini di compatibilità tra le caratteristiche e le capacità dell’individuo e le caratteristiche del prodotto in funzione delle differenti condizioni di impiego, di rispondenza alle esigenze delle persone che realmente utilizzano quel prodotto e infine di valore, che può essere attribuito al rapporto con il prodotto e all’esperienza che ne deriva. Una volta identificata la necessità di sviluppare un sistema, prodotto, o servizio, ci sono quattro passi essenziali che dovrebbero essere intrapresi al fine di integrare i requisiti dell’usabilità nel processo di sviluppo del prodotto-sistema: comprendere e definire il contesto d’uso, definire i requisiti dell’utente, produrre soluzioni progettuali, verificare le soluzioni progettuali. Le prime due fasi rientrano nella cosiddetta user research dedicata a comprendere e specificare il contesto d’uso, ossia definire i profili degli utenti, il contesto reale e potenziale della loro interazione con il nuovo prodotto, le esigenze e implicite degli utenti, e a definire i requisiti del progetto. Quindi la seconda fase di definizione dei requisiti è l’output della user research. Con la terza fase di produzione delle soluzioni progettuali passiamo alla vera e propria progettazione di soluzioni basate sui requisiti. Nella quarta fase, finalizzata a verificare le soluzioni progettuali, saranno presi in esame sia gli aspetti tecnico-funzionali che quelli relativi alla user experience, attraverso un processo di valutazione iterativa delle soluzioni progettuali prodotte e la loro eventuale modifica. La fase di valutazione include due attività: verifica e validità. La prima consiste nel controllare che il prodotto sia congruente con quanto espresso nei documenti di specifica dei requisiti, mentre il secondo consiste nel controllare che il prodotto soddisfi effettivamente le esigenze per le quali è stato concepito. Ci sono sei principi fondamentali per seguire l’approccio HCD: 1. il progetto si basa su una comprensione esplicita di utenti, le attività e gli ambienti 2. gli utenti sono coinvolti nella fase di progettazione e sviluppo 3. il progresso è guidato e raffinato dalla valutazione human-centred 4. il processo è iterativo 5. il processo si rivolge all’intera user-experience 6. il team di progettazione comprende le competenze e prospettive multidisciplinari Sintesi dei principali metodi di indagine per lo human-centred La selezione dei metodi di valutazione dipende da cinque fattori: accuratezza dei metodi; aspetti da valutare; accettabilità e appropriatezza dei metodi; abilità dei progettisti coinvolti nel processo; analisi di costi-benefici di ciascun metodo. In campo progettuale vengono utilizzati metodi di indagine finalizzati alla specificità del processo di progettazione e produzione industriale e che consentono di prendere in esame sia la complessità dell’interazione tra l’utente e il prodotto, il sistema o il servizio, sia la molteplicità di vincoli propria dei processi produttivi. Alcune tipologie di metodi. Task Analysis La task analysis si basa sulla scomposizione delle attività che un utente deve effettuare per raggiungere l’obiettivo identificabile come lo svolgimento di un compito. I compiti da portare a termine vengono indicati dagli esperti che progettano la prova in relazione ad una loro prima valutazione. Essa viene strutturata in cinque passaggi fondamentali: 1. raccolta di informazioni e dati; 2. descrizione delle attività; 3. selezione delle attività; 4. scomposizione delle attività per identificare e descrivere compiti, obiettivi e scopi finali; 5. fare una gerarchia delle attività. La prova si svolge con alcuni utenti, reali o potenziali e coerenti con il target, che sono convocati e invitati a svolgere alcuni compiti tipici della fruizione del prodotto. Membri dell’equipe assistono agli utenti, interpretandone il linguaggio verbale e non verbale, individuando le criticità e i punti di forza del prodotto. A conclusione delle vari fasi di analisi si svolge l’attività di debriefing grazie alla quale si capiscono le nuove caratteristiche mancanti, le caratteristiche inutili e le caratteristiche critiche. Ci sono due macrocategorie di tecniche per la task analysis: action oriented techniques e cognitive approach techniques. Quella che usiamo noi è la prima ed è quella che si focalizza sulle azioni. Chi fa la valutazione decide a che scala lavorare, ossia sceglie che tipo di azioni sono sotto analisi. Nella prima fase (data gathering) si individuano gli obiettivi d’uso del sistema che vogliamo analizzare. Gli obiettivi d’uso possono essere diretti (se si prende in considerazione ad esempio il forno possono essere i livelli di cottura) e indiretti (sempre nello stesso esempio sono ad esempio la sicurezza dei bambini). Non bisogna confondere l’obiettivo con il compito che è l’uso del prodotto, il quale è solo un mezzo per il raggiungimento dell’obiettivo. Hierarchical task analysis- HTA L’HTA si basa sulla suddivisione di attività, obiettivi e piani, nella sequenza, o gerarchia, di compiti e sotto-compiti che questi richiedono. La HTA permette di strutturare una sequenza gerarchica dei compiti che devono essere svolti per portare a termine l’azione richiesta e di prendere in esame le logiche funzionali e cognitive che determinano o meno il raggiungimento degli obiettivi. Si inizia definendo l’obiettivo principale di un compito di una specifica attività. Man mano che si addentra nella descrizione dell’attività si aggiungono progressivamente sotto-attività fino all’ottenimento di un insieme di tasks organizzati in sequenza, comprensivi di tutti i passaggi necessari per raggiungere l’obiettivo. Link Analysis La link analysis rappresenta la sequenza in cui le componenti del prodotto vengono usate in un dato scenario e secondo operazioni indicate. La sequenza indica i links tra gli elementi e l’interfaccia del prodotto. Il link dei dati potrebbe essere usato per valutare un range di alternative prima che il progetto considerato migliore possa essere accettato. L’obiettivo di questo metodo è quello di verificare se sussiste o meno una conseguenza logica nella disposizione dei tasti e dei loro collegamenti, rispetto alle funzioni eseguibili. I collegamenti indicano il percorso che lo sguardo o le mani dell’utente compiono al fine di svolgere le diverse operazioni utili per il corretto funzionamento del prodotto. Layout Analysis La layout analysis basa la sua operatività sull’analisi di interfacce grafiche e display, utilizzando criteri funzionali sull’importanza dei contenuti, sulle sequenze e sulla frequenza d’uso. Euristiche Questo metodo chiede al ricercatore di sedersi e valutare in base alla propria capacità ed esperienza se un prodotto è usabile, se induce all'errore, se è sicuro e ben progettato. Checklists Le checklist sono una serie di punti predefiniti con i quali il ricercatore può verificare un prodotto o un progetto. Tale metodo è utilizzato per identificare l’effettiva usabilità e i problemi ad essa correlati controllando anche i potenziali errori che l’utilizzatore ha commesso o che potrebbe commettere. Questionari I questionari rappresentano un efficace strumento di raccolta dati che può essere utilizzato per rilevare le opinioni degli utenti quando utilizzano determinati prodotti. Una tecnica molto utilizzata è la cosiddetta scala di Likert. Il questionario è composto da una serie di domande e/o affermazioni, per ciascuna delle quali sono possibili cinque risposte, associate ad una scala di valore da 1 a 5. Interviste L’intervista individuale permette al ricercatore di intervistare un utente analizzando in profondità ciascun aspetto critico. Il risultato positivo del test dipende molto dall’esperienza e dall’empatia del valutatore. Per garantire l’affidabilità dell’intervista è opportuno scegliere con calma e attenzione il campione di utenti da analizzare. Le fasi di applicazione prevedono interviste più o meno strutturate variabili a seconda dei casi. L’intervista non strutturata si compone di domande aperte e libere tra il ricercatore e l’intervistato; mentre l’intervista strutturata è simile al questionario con domande predefinite. Osservazioni Questa tecnica è utile per la valutazione dei compiti fisici e per la valutazione dell’usabilità, in quanto non sempre gli utenti sono in grado di spiegare dettagliatamente le modalità d’uso con il prodotto. Attualmente esistono varie tipologie di tecniche di osservazione: diretta, indiretta e partecipata. La fase di osservazione inizia con uno scenario. Il ricercatore fornisce un prodotto ad un utente stabilendo i compiti che deve eseguire. Il ricercatore si siede osservando l’utente mentre interagisce con il prodotto. Alcuni parametri di osservazioni possono essere di errori di utilizzo e il tempo impiegato per svolgere prestabilite attività. Thinking Aloud Durante l’utilizzo del thinking aloud, pensare ad alta voce, il ricercatore chiede ad un utente di esprimere a voce alta ciò che sta facendo e ciò che pensa mentre svolge determinati compiti. Il ricercatore avrà il compito di annotare le dichiarazioni importanti espresse durante l’esecuzione di un compito, le difficoltà sperimentate, le incertezze e gli errori commessi. Il ricercatore che affianca l’utente durante l’attività ha il compito di portare alcune domande per approfondire le scelte e le azioni compiute dall’utente stesso. I quesiti proposti devono essere semplici, chiari e aperti; questo perché essi hanno l’obiettivo di esplorare le azioni dell’utente e comprendere il processo cognitivo in atto. Scenario d’uso Questo metodo descrive in maniera realistica, in genere per immagini, la sequenza di azioni che una persona compie utilizzando un prodotto/sistema o servizio in uno o più determinato/i conteso/i d’uso. USER EXPERIENCE L’esperienza dell’utente è la sommatoria delle emozioni, delle percezioni e delle reazioni che una persona prova quando si interfaccia con un prodotto o un servizio. In altre parole equivale al grado di aderenza soggettiva tra aspettative e soddisfazione nell’interazione con il sistema, sia esso fisico o digitale. Tra le più autorevoli definizioni di UX troviamo quella di Dewey: l’esperienza è la totalità irriducibile delle persone che agiscono, percepiscono, pensano, sentono e producono senso, compresa la loro percezione e sensazione del manufatto nel contesto. La valutazione dell’UX espande la sua attenzione dalla fase d’uso e si interessa di aspetti quali ad esempio: l'anticipazione, la memoria, l’attribuzione di significati, i desideri, la costruzione dell’identità individuale e collettiva. La differenza tra usabilità e user experience è che con il termine usabilità ci riferiamo agli aspetti pragmatici e non emotivi di ciò che l’utente sperimenta nell’uso. Quando usiamo il termine user experience ci riferiamo a ciò che l’utente sente internamente, inclusi gli effetti dell’usabilità, dell’utilità e dell’impatto emotivo. Modello di Garrett Il modello dell’esperienza di Garrett si è affermato all’interno del settore del web-design. E’ un modello pragmatico rivolto a chi sviluppa tecnologie e piattaforme web, e illustra come un prodotto tecnologico possa essere progettato in funzione dell’esperienza dell’utente e come lo sviluppo progettuale di tali sistemi preveda di passare dallo sviluppo di soluzioni molto astratte a fasi di sviluppo concrete. Superficie: riguarda l’estetica e le esperienze sensoriali immediate che l’utente prova a livello superficiale. In questa fase il designer deve prendere in esame tutti gli aspetti cognitivi e sensoriali dell’utente. Il piano scheletrico: aspetti progettuali tra i quali il design dell'informazione, design delle interfacce e design della navigazione. A questi livello corrisponde lo sviluppo progettuale delle informazioni ottenute nei primi tre livelli. Il piano della struttura: a questo livello corrisponde la fase di sviluppo dell’architettura delle informazioni, ma include anche le specifiche del design di interazione. L’obiettivo è sviluppare un chiaro modello concettuale e simulare i livelli di interazione cognitiva utente-prodotto. Il piano degli scopi: fase che interessa l’individuazione delle funzionalità tecniche e dei contenuti che saranno necessari alla realizzazione del prodotto (content requirement) Il piano strategico: riguarda la comprensione dell’obiettivo generale dell’intervento progettuale. Strategie centrate su due aspetti: i bisogni reali e la brand identity dell’azienda. L’obiettivo è comprendere cosa gli utenti desiderano e si aspettano di ottenere dal prodotto. Il modello di Morville Per comprendere la dimensione soggettiva dell’esperienza d’uso e la sua dimensione operativa ci riferiamo al modello sviluppato da Morville, noto come diagramma a nido d’ape. In esso vengono illustrati quali fattori dovrebbero stimolare le fasi di valutazione e quelle di progetto. Questi due modelli presentati sono nati sulla base dell’avvento di nuove tecnologie e del web design, e denotano come il settore della human interaction computer (HCI) sia stato chiamato a rivedere il proprio apparato operativo e teorico. Il pioniere di tale evoluzione è stato Donald Norman che espone l’urgenza di spostare l’attenzione del mondo dell’HCI dagli aspetti pratici a quelli emotivi e soggettivi, distinguendo tre livelli di elaborazione da parte delle persone che usano un oggetto: viscerale, comportamentale e riflessivo. il livello viscerale è la reazione automatica all’apparenza di un oggetto. E’ un livello di reazione largamente automatico, emozionale e viscerale il livello comportamentale ha una componente di efficacia, ma anche di piacere nell’uso efficace dell’oggetto il livello riflessivo ha implicazioni non riconducibili all’efficacia e dà luogo a ricordi, mette in gioco l’immagine di sé e un diverso concetto di soddisfazione, come appagamento e realizzazione personale. Hassenzahl è stato fra i primi a porsi il problema di definire meglio quali sono gli aspetti dell’esperienza non strettamente legati agli ambiti produttivi, e a ipotizzare dei modi di quantificarli. In particolare distingue tra obiettivi pragmatici e obiettivi edonici nell’uso di un prodotto. I primi riguardano un desiderio di fare, i secondi soddisfano il bisogno di essere. Se i primi si possono valutare con tradizionali metriche di efficacia ed efficienza, accompagnate da valutazioni di soddisfazione e facilità percepita, i secondi hanno bisogno di una definizione teorica nuova. L’autore identifica tre tipi di obiettivi edonici: 1. stimolazione: ha che fare con il desiderio di crescita personale, di migliorare le proprie conoscenze e capacità 2. identificazione: ha a che fare con il desiderio di auto-espressione e di interazione/relazione con altri significati 3. evocazione: ha a che fare con il mantenimento del sé e con la costruzione di ricordi e di senso. La soddisfazione è composta da varie sotto-categorie: usefulness (utilità intesa come soddisfazione cognitiva): legata alla facilità d’uso nel raggiungimento dei fini pratici pleasure (soddisfazione emozionale): il grado in cui un utente è soddisfatto dal raggiungimento percepito ai fini edonici di stimolazione comfort (soddisfazione fisica): il grado in cui un utente è soddisfatto dal benessere fisico derivato dall’interazione trust (soddisfazione relativa alla sicurezza): il grado in cui un utente è soddisfatto e ritiene che il prodotto si comporti come previsto e generi conseguenze percepite come accettabili e affidabili. Elementi chiave dell’UX per Nathan Shedroff: l’identità: è necessario un senso di autenticità per l’identità e l'espressione del sé stesso l’adattabilità: ha a che fare con il cambiamento e la personalizzazione la narrativa: ha a che fare con una buona storia, con personaggi convincenti, trama e suspense l’immersione: è la sensazione di essere interamente coinvolti in qualcosa il flusso: è il senso di movimento fluido. DESIGN THINKING L’obiettivo del design thinking è essere uno strumento flessibile per poter rispondere alle esigenze sul territorio di aziende di piccole o grandi dimensioni o enti pubblici con obiettivi e configurazioni molto differenti. La creatività è la produzione di idee nuove e utili in termini di prodotti, servizi, processi che diventano innovazione una volta che vengono adottate, integrate e condivise dall’azienda e dalla collettività. L’obiettivo è riuscire a sviluppare il potenziale creativo attivando il pensiero laterale di ciascuno. La creatività non è un’abilità innata e può essere stimolata, ampliata e canalizzata su temi specifici. L’innovazione è guidata dalla creatività umana, ossia quell’atto spontaneo e spesso fortemente spinto da motivazioni intrinseche, attraverso il quale l’individuo migliora sé stesso e il suo mondo. L’impulso creativo è l’unico agente in grado di intervenire nella soluzione di problemi in modo efficace ed efficiente, e capace di conferire all’organizzazione caratteri di flessibilità e apertura, necessari al raggiungimento del vantaggio competitivo. Gli psicologi Guilford e Bono suddividono il pensiero in convergente e divergente (Guilford) o in verticale e laterale (Bono), identificati dalle modalità con cui si affronta un problema. Il primo tipo di pensiero, convergente o verticale, procede per sequenze lineari: cause ed effetti. Il secondo tipo di pensiero, divergente o laterale, procede in modo non sequenziale ma per somiglianze, analogie e differenze, simmetrie e asimmetrie. Il pensiero laterale si basa sull’idea di esplorare nuove traiettorie di pensiero. Il design thinking è un nuovo modo di pensare caratterizzato da un approccio logico-creativo orientato alla soluzione di problemi human-centred, volto a generare un processo d’innovazione. David Kelley e Tim Brown, fondatori dello studio di IDEO, adattano il design thinking in campi come la business innovation decretandone la diffusione. Non è solo un processo cognitivo o un atteggiamento mentale, ma uno strumento che favorisce una maggior democratizzazione dell’innovazione all’interno dell’organismo aziendale, connettendo l’approccio creativo tipico del design al pensiero tradizionale del business. Integra i fattori umani, di business e tecnologiche in problem folding, problem solving, e design. Questo metodo nasce per gli economisti e sono gli economisti a inventarlo osservando il metodo di progettazione dei designer, metodo che è spontaneo. Ci sono quattro regole del design thinking: 1. the human rule: natura sociale; 2. the ambiguity rule: conservare l’ambiguità; 3. the re-design rule; 4. the tangibility rule: rendere tangibili le idee facilita la comunicazione. Si può sintetizzare il design thinking mettendo in evidenza alcune delle principali caratteristiche distintive della metodologia: lo human-centred approach, la multidisciplinarietà e la collaborazione, la creatività e la propensione per le wild ideas che permettono di andare oltre i limiti della conoscenza. Il punto di partenza è essere empatici, cercare di capire a che cosa la gente dia veramente valore, questo descrive sostanzialmente la parte più profonda e di valore di questa metodologia. Il design thinking è un ambito ibrido intermedio tra ricerca e professione. Ibrido perché alcuni metodi/sistemi della ricerca vengono applicati alla professione. La ricerca può essere di diversi tipi: attraverso il design: si basa sul progetto; sul design: ricerca di tipo storico/speculativo. La speculazione è un’area di sperimentazione che si basa sulla teoria, viene progettato per far riflettere su certi temi e per questo viene spesso associato all’arte contemporanea; per il design: ricerca che sviluppa metodi La DRS è la società dei ricercatori di design, mentre la SID è l’equivalente della DRS sulla scena italiana. Il soggetto di riferimento del design thinking sono le personas, persone immaginarie che sono sfumate e non ben definite che hanno una serie di caratteristiche. Questo processo inizia con l’osservazione e la comprensione di cultura e contesto. Esplora le dimensioni strategiche in cui il prodotto si colloca e utilizza strumenti e tecniche che integrano immaginazione, creatività e intuizione logica, analisi e pianificazione. Partendo dall’indagine sulle persone si affronta un percorso suddiviso in diverse fasi. La suddivisione e la rispettiva visualizzazione delle diverse fasi dipendono dal paradigma che utilizziamo. Ci sono diversi modelli che usano l’approccio del design thinking. Di seguito sono descritti diversi modelli. Il modello delle 3 I Nel 2015 IDEO ha lanciato una nuova evoluzione del toolkit HCD, la Field Guide to Human-centred design. Il modello inserito in questo design kit è così chiamato per le fasi del processo: inspiration: si impara come capire meglio le persone, osservando le loro vite, ascoltando le loro speranze e desideri e ci si focalizza sulla sfida individuando l’opportunità di progetto; ideation: prevede di dare un senso tutto ciò che si è ascoltato, generare numerosissime idee, identificare le opportunità di progetto più promettenti, testare e perfezionare le tue soluzioni; implementation: è la fase progettuale che porta a dare vita alla soluzione, a considerare l’idea in relazione al mercato e significa costruire risorse e modelli finanziari che assicurino che la soluzione sia implementata nel miglior modo possibile e possa essere sostenibile per lungo tempo. L’implementazione è un processo iterativo. Questo modello è stato sviluppato con l’idea che adottare un approccio human-centred significhi credere che tutti i problemi siano risolvibili e che le persone siano quelle che detengono la chiave della loro risposta. Il modello d.school E’ un programma di ricerca che ha lo scopo di comprendere l’approccio dei designer trasformandolo in un metodo scientifico. Il processo di design thinking è visualizzato in cinque step che sono connessi tra di loro: 1. empatizzare: l’empatia è il fulcro di un processo di progettazione human-centred. E’ la fase in cui capire i bisogni fisici ed emotivi delle persone nel contesto della sfida progettuale. 2. definizione: la definizione si basa sulla chiarezza e attenzione allo spazio di progettazione con lo sviluppo di un punto di vista costruito sui risultati della fase empatica. Bisogna definire la sfida che si sta affrontando, in base a quanto appreso sull’utente e sul contesto, dando un senso alle informazioni raccolte. L’obiettivo è definire i problemi che si vogliono risolvere e le opportunità da cogliere, in modo significativo e attuabile. 3. ideazione: è la modalità del processo di progettazione che si concentra sulla generazione di idee. L’ideazione restituisce il materiale di partenza per realizzare prototipi e ottenere soluzioni innovative. 4. prototipazione: è la generazione iterativa di artefatti destinati a rispondere a domande che avvicinano alla soluzione finale. I prototipi devono essere in scala reale perché dobbiamo capire le funzionalità del prodotto. 5. test: la fase test è orientata ad ottenere feedback per perfezionare prototipi e soluzioni, e conoscere meglio l'utente. Si prova l’efficacia delle idee attraverso il feedback delle persone coinvolte. Il metodo IDEActivity Il gruppo di ricerca di IDEActivity del Politecnico di Milano ha sviluppato una propria metodologia che si configura a partire dalle esigenze del contesto nazionale. In questo l’utente è visto come partner durante l’intero processo di creazione. Utilizza la sensibilità e i metodi del design per trovare soluzioni che soddisfino i bisogni delle persone in modo tecnologicamente fattibile e commercialmente valido. Il metodo è progettato per essere uno strumento fluido e flessibile. Si caratterizza da un parte fondamentale di play con l’accezione di mettersi in gioco, fare squadra e guardare le cose da un altro punto di vista con l’aiuto degli altri. Il processo su cui si fonda propone un approccio partecipativo, il co-design, basato sul coinvolgimento attivo di potenziali utenti, e si struttura sullo sviluppo di un apposito toolkit che offre tecniche e metodi per guidare i partecipanti attraverso il processo che guida alla creazione e al raggiungimento di nuove soluzioni. Il toolkit è stato ideato per rendere disponibili gli strumenti e le linee guida per stimolare la creatività e consentire di individuare sia la sfida di progettazione sia gli obiettivi finali. Gli strumenti sono suddivisi in funzione di tre fasi che costituiscono il metodo IDEActivity: explore, generate e trasversalmente quella di set-up. Il processo creativo si distingue in due grandi momenti: generate e explore. Prima di condurre una sessione creativa è necessario prendere in considerazione l’obiettivo da raggiungere, il gruppo a disposizione, il luogo in cui si svolgerà la sessione scegliendo le tecniche da utilizzare in funzione di tutti questi elementi; è per questo che al centro del processo troviamo la fase di set-up. Explore La fase explore favorisce e facilita l’analisi del contesto, del mercato e delle persone, ridefinendo un obiettivo chiaro e costruendo scenari di progetto che fanno intravedere nuove opportunità. E’ estremamente importante definire il proprio obiettivo e definirlo in modo preciso dedicandosi alla fase del clarify goals. Nella fase di define opportunity sono solo gli aspetti dell’obiettivo che sembrano promettenti ad evidenziarsi come possibili opportunità di progetto. Generate La fase generate ha lo scopo di rendere le idee tangibili generando soluzioni adeguate in linea con il contesto e gli obiettivi del progetto. Una volta discusse le basi per una buona progettazione si passa alla fase di idea, momento di generazione e scelta di idee. Infine dallo stato di astrazione si passa a quello fisico con la fase prototype. Ognuna delle fasi del metodo è sempre costituita da una prima fase di divergenza alla quale segue una classificazione e infine la convergenza per arrivare alla definizione del problema o una soluzione. L’idea è di trasferire, attraverso il learning by doing, quelle capacità di approccio al progetto tali da rompere i vecchi schemi e intraprendere nuove strade strategiche in termini di prodotto, servizio e/o sistema, che siano replicabili a diverse esigenze di innovazione. L’esperienza ci consente di cambiare. E’ ciò che si impara e si apprende da ogni evento ed è anche il risultato della percezione soggettiva, si basa sulla conoscenza accumulata e memorizzata. La conoscenza ci permette di provare un’emozione per quella determinata esperienza. CO-DESIGN Co-design è un nuovo approccio che vede l’utente diventare co-progettista e il designer diventare facilitatore. Il termine co-design è utilizzato per indicare un’attività creativa condivisa tra designer e utenti finali che lavorano insieme, alla pari, durante il processo di generazione e di concepimento delle idee e nelle successive fasi progettuali. Nel co-design la persona che sarà interessata dal processo di progettazione è data la posizione di esperto della propria esperienza e di svolgere un ruolo importante nello sviluppo della conoscenza, nella generazione di idee e nello sviluppo del concept. Il designer svolge un ruolo di facilitatore fornendo strumenti per l’ideazione e l’espressione e dando forma alle idee. Sanders sostiene che nella vita delle persone si possono individuare quattro livelli di creatività: fare, adattare, costruire e creare. Senders evidenzia che, mano mano che i progettisti si avvicinano agli utenti futuri di ciò che progettano, cresce l'enfasi posta nella fase iniziale del processo di progettazione, nota come front-end, ovvero l’insieme delle numerose attività che si svolgono al fine di informare e ispirare l’esplorazione di domande aperte. Il front-end è spesso definito sfocato (fuzzy) a causa dell’ambiguità e della natura caotica che lo caratterizza. L’obiettivo delle esplorazioni del front-end è quello di determinare ciò che deve essere progettato. Il fuzzy front-end è poi seguito dal tradizionale processo di progettazione. Cultural probes Le cultural probes sono uno dei metodi più innovativi messi a punto per generare idee in un processo di progettazione con il coinvolgimento attivo degli utenti. Le probes sono state sviluppate dal design per l’esperienza che partendo dall’elaborazione dei metodi propri dell’user centred design, quali l’osservazione partecipata e la raccolta di storie, ha generato uno strumento per raccogliere e registrare in tempo reale dati ispiratori sulla vita, i valori e i pensieri delle persone. Le probes sono dei piccoli kit che possono includere qualsiasi tipo di artefatto che vengono progettati dal team di design e dati ai partecipanti al processo di design, per consentire loro di registrare specifici eventi, sentimenti o interazioni. L’obiettivo è quello di raccogliere dati e informazioni dalle persone, al fine di comprendere meglio la loro cultura, i loro pensieri e valori, e quindi stimolare l’immaginazione del progettista. Le probes sono una sorta di esercizi che il team di progettisti assegna ai partecipanti e possono avere almeno tre funzioni diverse: guidare l’utente nella registrazioni di prove sulle sue esperienze; stimolare l’utente nella visualizzazione di pensieri, concetti e idee; evidenziare possibilità non esistenti allo stato attuale ma possibili nello stato futuro. Ci sono quattro possibili applicazioni delle probes: 1. a scopo ispirazionale: le probes sono uno strumento per ispirare e guidare il design verso nuove situazioni sperimentali e per immaginare nuove ipotesi e nuovi utenti futuri; 2. a scopo informativo: le probes possono contenere la descrizione di una situazione presente nella vita delle persone e stimolare l’utente ad analizzare e interpretare la propria esperienza; 3. a scopo partecipativo: le probes possono essere utilizzate per stimolare la partecipazione attiva dell’utente nel provare nuovi strumenti e attrezzature; 4. a scopo di dialogo: in questo caso le probes diventano uno strumento per gli utenti per comunicare le proprie emozioni e le proprie esperienze e per i designer per attivare un processo di empatia, mettendosi nei panni dell’utente. DESIGN FOR ALL Il design for all come il design per la diversità umana, l’inclusione sociale e l’uguaglianza. Questo approccio olistico ed innovativo costituisce una sfida creativa ed etica di ogni designer, progettista, imprenditore, amministratore pubblico e leader politico. Lo scopo del design for all è facilitare per tutti le pari opportunità di partecipazione in ogni aspetto della società. Con il design for all l’attenzione si sposta definitivamente da un approccio di marcata specializzazione a un approccio compiutamente inclusivo, che, partendo da esigenze di specifici gruppi di utenza, è finalizzato alla realizzazione di prodotti la cui immagine, le cui funzioni, le cui modalità di impiego possano essere rivolte alla totalità della popolazione. E’ il concetto di fruibilità, intesa come possibilità di godere interamente del bene a segnare il passaggio da una progettazione rivolta a garantire la sola accessibilità, fisica o percettiva, dei luoghi e degli oggetti, ad una concezione pienamente inclusiva dell’azione progettuale, finalizzata a garantire l’effettivo benessere delle persone indipendentemente dal loro livello di abilità. L’ICF, international classification of functioning, disability and health, delinea una classificazione del livello di abilità: menomazione: qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica; disabilità: la limitazione o la perdita, conseguente alla menomazione, della capacità di compiere un’attività nel modo e nell’ampiezza dei parametri considerati normali per un essere umano; handicap: la discrepanza tra l’efficienza e lo stato del soggetto e le aspettative di efficienza e di stato provenienti dall’ambiente e dal soggetto stesso. E’ quindi una limitazione dell’abilità che si manifesta nella relazione con l’ambiente nel quale la persona vive. Per individuare e comprendere le esigenze delle persone a cui si rivolge il progetto per l’inclusione è necessario in primo luogo porre l’attenzione su cosa si intenda con le definizioni di invecchiamento della popolazione e di disabilità, e quali siano più in generale le situazioni di disagio e di fragilità rispetto all’ambiente fisico e sociale. Con la definizione di invecchiamento della popolazione si intende il fenomeno di innalzamento dell’età media provocato dalla crescita delle aspettative di vita e dalla parallela riduzione delle nascite. La crescita della popolazione anziana e la riduzione delle nascite hanno portato profondi cambiamenti nella composizione familiare, con importanti implicazioni legate alle necessità di cure e assistenza ai familiari anziani e la presenza di un numero sempre più ridotto di figli piccoli o in età giovanile. Con il temine di disabilità viene definita qualsiasi limitazione della capacità di agire, conseguente ad uno stato di minorazione/menomazione a cui fa seguito una condizione di svantaggio o handicap vissuto dalla persona rispetto alle azioni, alle attività, ai comportamenti o alla capacità di attenzione-reazione richiesti dell’ambiente fisico e sociale in cui vive. Le condizioni di inadeguatezza dell’individuo nei rapporti con l’ambiente fisico e sociale possono presentarsi separatamente o essere l’una la conseguenza dell’altra. Progettare prodotti sicuri e facili da usare significa rispondere ai bisogni imprescindibili per le categorie di utenza più svantaggiate. La forte esigenza di utilizzare un approccio di design for all è dovuta anche all’aumento dell’aspettativa di vita, alla multiculturalità e a una maggiore sensibilità sociale. Oggi c’è maggiore possibilità di sopravvivere a malattie e traumi e ciò implica che molte più persone si trovano a convivere con disabilità più o meno invalidanti e più o meno temporanee. Il design for all ha lo scopo di consentire a tutte le persone di avere pari opportunità di partecipazione in ogni aspetto della società. Per raggiungere l’obiettivo, l’ambiente costruito, gli oggetti quotidiani, i servizi, la cultura e le informazioni deve essere accessibile e conveniente per tutti nella società da utilizzare e deve rispondere all’evoluzione umana. La pratica del design for all fa uso cosciente dell'analisi dei bisogni e delle aspirazioni umane e richiede il coinvolgimento degli utenti finali in ogni fase del processo di progettazione. Quindi gli obiettivi del design for all sono: driver di innovazione, fruizione autonoma, benessere e gradevolezza, affordance e sicurezza, abbattimento di barriere fisiche, cognitive, linguistiche, culturali… Il design for all è quindi un contributo creativo e non discriminante nel rispetto delle norme per la sicurezza e la disabilità. Un processo di progettazione che studia i gesti (anche latenti) e il comportamento degli individui evitando accuratamente le varie forme di codici ghettizzanti. L’approccio design for all consente di spostare l’attenzione dalla specificità dei profili di utenza a un approccio al progetto basato sull’identificazione di profili di esigenze, intese come necessità ma anche come insieme di aspettative, attitudini e desideri riferibili al rapporto con un determinato prodotto o sistema. Universal design practices Integrazioni tipologiche Unire tipologie (e persone), fondere funzioni, nascondere i codici ghettizzanti, garantire discrezione. Adattabilità dimensionali Essere flessibili, accogliere dinamicamente le persone e bisogni diversi, presentare diverse possibilità metriche/dimensionali, trasformarsi, evolvere, aderire, andare incontro all’utente. L’adattabilità dei prodotti e dei sistemi rappresenta un ulteriore e centrale aspetto della progettazione inclusiva. Una strada percorribile è la progettazione di prodotti che garantiscano il massimo livello di fruibilità al massimo numero di persone possibile, e che prevedano la possibilità di inserire ausili, accessori e/o sistemi di regolazione che permettano di adattare il prodotto nel corso del tempo al mutare delle capacità fisiche della persona, oppure di adeguarlo caso per caso alle esigenze dei diversi utilizzatori o alle diverse condizioni d’uso. Si tratta di definire i limiti della risposta progettuale. Usabilità ambientale Lo faccio con più facilità, con meno sforzo (fisico o mentale), con una sola mano, a occhi chiusi, in piedi come da seduto, con più precisione, con più efficienza, in condizioni di maggior sicurezza/comfort, in maniera indipendente. L’usabilità è diversa dall’accessibilità, in quanto l’accessibilità è la capacità di prodotti, sistemi, servizi, ambienti e strutture di poter essere utilizzati da persone di una popolazione con la più ampia gamma di esigenze, caratteristiche e capacità. Nuove desiderabilità Cambiare prospettiva, trasformare la percezione dell’oggetto ghettizzante, allargare l’utenza di prodotti che nascono specifici, aderire a desideri, aspettative, conferire dignità. Bisogna focalizzarsi su nuovi modelli. La sfida culturale per la definizione della differenza come carattere di unicità e ricchezza, valore positivo e irrinunciabile. Aggiornamento di modelli orientato all’inclusività, all’integrazione e all’accettazione sociale della variabilità umana. PROGETTARE PER LE PERSONE: I RIFERIMENTI DEL PROGETTO Il punto di partenza di ogni intervento di progettazione è la descrizione e l’interpretazione della complessità di variabili che definiscono il contesto dell’interazione persona/sistema e della complessità delle esigenze che le persone esprimono rispetto al rapporto con il sistema. Per far questo si deve partire dall’identificazione del gruppo di persone che realmente entrano in rapporto con il prodotto; del tipo di utilizzazione a cui il prodotto è destinato e del contesto nel quale le persone entrano in rapporto con il prodotto. L’identificazione delle esigenze e delle aspettative delle persone costituisce un elemento essenziale del brief di progetto nel quale vengono definiti gli obiettivi e le basi di partenza del processo di sviluppo del prodotto. Quando si progetta si devono quindi tenere in considerazione le caratteristiche degli individui, che si possono dividere in base alla scala a cui si riferiscono. Ci sono: le caratteristiche comuni a tutta l’umanità: ad esempio la capacità di percepire visivamente gli oggetti e di percepire certe lunghezze d’onda. le caratteristiche appartenenti a grandi fasce di popolazione: aspetti legati all’età anagrafica, all'appartenenza geografica o ad abilità molto diffuse. le caratteristiche appartenenti a segmenti di utenza precisamente identificati: ad esempio il peso, l’altezza per particolari categorie di sportivi. le caratteristiche individuali: possono essere di tipo fisico, percettivo, cognitivo, culturale, generazionale e connotano l’individuo in quanto tale. A questa classificazione di caratteristiche degli individui corrisponde rispettivamente una classificazione delle esigenze. Inoltre le esigenze possono suddividersi in: primarie: sono le esigenze alla base della motivazione all’uso o all’acquisto. di funzionalità e di sicurezza estetiche e simboliche I tre livelli di bisogni e aspettative non si presentano in modo separato, ma si presentano secondo una scala di priorità. P.W. Jordan propone una classificazione dei bisogni dell’utente che si basa sulla scala dei bisogni di Maslow. Questo modello vede l’essere umano come un animale che vuole e che raramente raggiunge uno stato di completa soddisfazione. Il principio si può riassumere nel fatto che quando una persona ha soddisfatto i bisogni, che appartengono a un determinato livello della scala, è spinta dal desiderio di soddisfare quelli del livello superiore. La competenza d’uso riguarda il tipo e il livello di conoscenza che la persona possiede per utilizzare un prodotto e può essere definita: normale: è l’insieme di conoscenze che si ritengono possedute da almeno il 90% delle persone. Possono essere comuni a tutta l’umanità, ossia innate o sviluppate durante lo sviluppo degli esseri umani, o caratteristiche di grandi gruppi di popolazione. specifica: ossia specificamente attinente all’uso del prodotto. Conoscenze acquisite con un breve apprendimento. specializzata: sono le conoscenze acquisite attraverso un addestramento mirato. La scarsa attenzione al livello di competenza richiesto alle persone a cui il progetto è destinato porta a un immediato disagio da parte di chi è costretto a utilizzare quotidianamente prodotti dei quali non riesce a comprendere le funzioni, il risultato è quello di provocare una crescente sensazione di frustrazione e di inadeguatezza delle proprie capacità personali. La competenza e l’esperienza nell’uso di un prodotto si traducono nella facilità o nella difficoltà con la quale la persona sarà in grado di portare a termine un determinato compito. Esiste una competenza d’uso anche per i prodotti, che possono essere suddivisi in: facili da usare: prodotti di uso quotidiano per il cui uso sono richieste competenze ritenute normali. utilizzabili con istruzioni: sono i prodotti che richiedono la lettura e/o l’apprendimento di brevi istruzioni d’uso. utilizzabili dopo un periodo di training: sono prodotti che richiedono un addestramento complesso e più o meno prolungato. Inoltre i prodotti possono essere classificati anche in base alle caratteristiche e alle capacità fisiche, sensoriali e cognitive delle persone: prodotti barrier-free: sono i prodotti che tengono conto delle esigenze di utenti con limitata capacità di movimento o di percezione, e sono utilizzabili da tutti gli individui. prodotti per l’utente medio: sono utilizzabili della popolazione con caratteristiche medie. prodotti speciali: sono rivolti a persone con particolari abilità o inabilità. Le persone entrano in rapporto con i prodotti, gli ambienti e i sistemi per un uso specifico. Il tipo di attività svolta dipende dal tipo di utilizzo, dal ruolo ricoperto dalla persona e dai suoi obiettivi. Le persone utilizzano i prodotti in quattro modi principali: 1. utenti generici: sono coloro che interagiscono con prodotti di uso comune nell’ambito delle proprie attività quotidiane senza che per questo venga richiesta una specifica preparazione. 2. operatori: sono coloro che utilizzano macchine e dispositivi complessi che richiedono una specifica preparazione professionale. La differenza tra utenti generici e operatori risiede nel livello di competenza. 3. tecnici addetti al montaggio e/o alla manutenzione: sono coloro che riparano e mantengono in buono stato di funzionamento prodotti, macchine e dispositivi. 4. montatori o manutentori generici: sono spesso gli stessi utenti del prodotto che montano o riparano un prodotto senza essere in possesso di alcuna competenza specifica né di sufficienti istruzioni. Ad esempio montare un mobile, cambiare una cartuccia di inchiostro. Un ulteriore criterio di classificazione dei prodotti riguarda le modalità d’uso per il quale il prodotto è stato progettato, che dipendono sia dalle funzioni alle quali il prodotto è destinato, sia dalla frequenza con la quale può essere utilizzato. La frequenza d’uso permette di classificare i prodotti in base all’uso frequente, l’uso periodico e l’uso occasionale. IL PROGETTO DEI REQUISITI ERGONOMICI Funzionalità Il termine funzionalità di un prodotto o di un sistema significa rispondere alla funzione a cui è destinato. Per garantire la sua funzionalità il prodotto deve essere adatto all’uso, ossia essere compatibile con le caratteristiche e capacità di chi dovrà o potrà utilizzarlo, e con le caratteristiche del contesto nel quale potrà essere utilizzato. Sicurezza La sicurezza è l’insieme di condizioni relative all’incolumità degli utenti, nonché alla difesa e prevenzione di danni in dipendenza da fattori accidentali. Le condizioni di sicurezza prevedono l’assenza di fonti di pericolo e zone pericolose. Le condizioni di sicurezza prevedono la predisposizione di ripari ossia di barriere o vincoli di protezione sia fisici, o controlli previsti nei diversi stadi di una procedura di lavoro e/o uso di prodotti e sistemi. Un aspetto essenziale è la previsione delle possibili modalità d’uso ossia dei modi nei quali uno stesso prodotto, ambiente o sistema può essere utilizzato per diversi scopi e/o con diversi livelli di competenza e capacità. Le raccomandazioni sono rivolte a prevedere le possibili condizioni di rischio connesse a possibili carenze o lacune nelle procedure di lavoro e/o di impiego di prodotti, ambienti o sistemi, i possibili comportamenti a rischio non intenzionali e/o i comportamenti scorretti, che possono derivare da stanchezza, distrazione, trascuratezza, da reazioni istintive durante l’uso, o dalla ridotta capacità di percezione e/o di controllo del rischio. Se il comportamento a rischio è non intenzionale può essere provocato dalla mancata comprensione delle funzioni o del funzionamento del prodotto, da istruzioni insufficienti o inadeguate, dalla difficoltà di esecuzione delle operazioni richieste e dall’assenza o dall'inadeguatezza delle informazioni relative all’esito prodotto dalle nostre azioni. L’usabilità rappresenta il requisito essenziale per garantire condizioni di impiego effettivamente sicure. Il progettista deve partire dal presupposto che secondo la nota legge di Murphy, se una cosa può andare male lo farà, da cui deriva che se un errore è possibile, qualcuno prima o poi lo farà. Il progetto deve essere impostato in modo da ridurre al minimo e non solo le possibilità di errore, ma anche i possibili effetti dell’errore una volta che questo si è verificato, ossia gli errori devono essere facili da individuare, devono avere conseguenze minime e, se possibile, i loro effetti devono essere reversibili. Se invece il comportamento a rischio è intenzionale può essere originato dalla necessità di svolgere la procedura richiesta in tempi più brevi, dalla necessità di rispondere a troppe richieste nello stesso momento, dalla pressione esterna e così via. Infine vanno considerati i comportamenti a rischio intenzionali originati dalla deliberata volontà di provocare dei danni. Sono i cosiddetti comportamenti vandalici. Il problema che si pone è l’effettiva percezione del rischio da parte delle persone e l’effettiva consapevolezza delle possibili conseguenze delle proprie azioni. Analogamente, numerosi e sottovalutati sono i comportamenti a rischio che possono derivare da una mancata o errata comprensione della funzione o del funzionamento di un manufatto. La sicurezza in uso è strettamente legata all’accessibilità dei prodotti e degli ambienti. Accessibilità L’accessibilità è definita come la possibilità anche per persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale, di raggiungere l’edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia e vuol dire garantire a chiunque il diritto alla piena e sicura fruibilità dello spazio in cui vive e in particolare alla sicurezza di impiego degli ambienti e dei prodotti. Usabilità La definizione di usabilità ha subito numerose trasformazioni. Tra le più interessanti quella di Queensbury che identifica i seguenti elementi come obiettivi fondamentali dell’usabilità: efficacia, efficienza, tolleranza degli errori, facilità di apprendimento ed engagement. In particolare l’engagement pone l’attenzione sull’importanza del coinvolgimento emotivo all’interno del processo di funzionamento e di interazione di oggetti e sistemi; provare un’esperienza positiva o negativa può trasformare in modo considerevole l’esperienza d’uso. Il termine usabilità significa adoperabilità e utilizzabilità di un oggetto ed è inteso nel linguaggio comune anche come l’idoneità di un oggetto all’uso per il quale è stato progettato e realizzato e la facilità con la quale le persone possono adoperarlo. E’ riconosciuta come il requisito base e riguarda la qualità dell’interazione tra le persone e il prodotto. E’ l'estensione con la quale un prodotto può essere utilizzato da specifici utenti in un determinato contesto d’uso. Dove: l’efficacia è l’accuratezza e la completezza con cui gli utenti raggiungono determinati obiettivi; l’efficienza rappresenta le risorse spese in relazione all’accuratezza e alla completezza con cui gli utenti raggiungono gli obiettivi. Le risorse possono includere lo sforzo fisico e mentale, il tempo, i materiali e l’impegno economico necessari a raggiungere gli obiettivi richiesti. la soddisfazione è la libertà dal disagio e l’adorazione di atteggiamenti positivi verso l’uso del prodotto. Al prodotto non può essere attribuita un’usabilità intrinseca ma questa dipende dal contesto nel quale viene utilizzato e/o per il quale viene progettato. Sul piano concettuale il requisito di usabilità può essere definito in termini di come le persone compiono le proprie attività per raggiungere gli obiettivi personali e di cosa il prodotto deve garantire per permettere che tali obiettivi siano raggiunti e che le attività siano sicure, confortevoli e soddisfacenti per l’utente. Sul piano operativo include: 1. utilità: riguarda il livello con il quale un prodotto permette all’utente di raggiungere il suo obiettivo. 2. facilità d’uso: si riferisce alla possibilità per un determinato gruppo di utenti di svolgere un determinato compito portandolo a buon fine. E’ usualmente definita in senso quantitativo come velocità nell’esecuzione di un compito o assenza di errori. 3. apprendibilità: il prodotto o il sistema dovrebbero permettere all’utente di raggiungere un accettabile livello di performance entro tempi accettabili e definiti. 4. attitudine: si riferisce a come l’utente percepisce e giudica il prodotto. Gli utenti tendono a utilizzare meglio un prodotto che ritengono utile e soddisfacente 5. flessibilità: il prodotto dovrebbe consentire di svolgere una gamma di compiti più ampia di quelli principali e dovrebbe prevedere modalità d’uso anche diverse da quelle strettamente corrette. 6. memorabilità: il sistema dovrebbe essere facile da ricordare I test di usabilità I test di usabilità si basano sulla raccolta di informazioni relative alle modalità con le quali si svolge l’interazione utente-prodotto all’interno di un determinato contesto d’uso, e consentono di individuare e analizzare il comportamento delle persone, le loro esigenze, e infine il tipo di frequenza degli errori che le persone possono compiere durante l’esecuzione dei compiti richiesti. Secondo Wilson i test di usabilità possono essere suddivisi in metodi di valutazione diretta e metodi di valutazione indiretta. I metodi di osservazione diretta si basano su tecniche di osservazione e valutazione del comportamento degli utenti durante l’interazione con un prodotto. Vengono definiti anche come metodi obiettivi, in quanto sono in grado di fornire informazioni oggettive e consistono nella raccolta di dati sulla performance degli utenti. I metodi di osservazione indiretta consentono di raccogliere le informazioni relative all’interpretazione che gli utenti danno di ciò che stanno facendo. I metodi di osservazione indiretta sono anche definiti come metodi soggettivi e riguardano la realizzazione di rapporti sulle attitudini e il comportamento degli utenti. La loro soggettività si riferisce al fatto che le informazioni prodotte sono filtrate dalla valutazione dell’osservatore. User experience La user experience si definisce come l’insieme delle percezioni e delle risposte della persona che risultano dall’uso e/o dall’uso previsto di un prodotto, sistema o servizio. La user experience include tutte le emozioni, le credenze, le preferenze, le percezioni degli utenti, le risposte fisiche e psicologiche, i comportamenti e le realizzazioni che si verificano prima, durante e dopo l’uso, ossia considera l’interazione con il sistema nella sua globalità. Rendere comprensibile il rapporto con i prodotti e i sistemi significa garantire la facilità d’uso e la sicurezza alle persone che potranno entrare in rapporto con il prodotto. Quindi la visibilità delle parti o dei componenti dell’oggetto di interesse, da cui dipende la possibilità di riconoscerne la funzione. Progettare la visibilità significa rendere evidenti le informazioni relative al funzionamento di un oggetto. Norman chiama segnali naturali l’insieme di informazioni che possono essere interpretate immediatamente senza la necessità di istruzioni o di richiami. Sono le informazioni che utilizzano codici consolidati all’interno di un determinato gruppo di persone e le informazioni che utilizzano una correlazione logico-spaziale tra la forma e l’azione che deve essere svolta. L’interpretazione della correlazione tra comando e azione, ossia il mapping, consente di stabilire una relazione immediata tra le parti di un oggetto e ciò che consentono di fare. Le informazioni che l’ambiente o il prodotto possono fornirci riguardano inoltre quali sono le azioni che ragionevolmente possiamo compiere con quel prodotto o all’interno di quell’ambiente, e l’effetto che le nostre azioni hanno prodotto o stanno producendo. Nel primo caso le informazioni derivano dall’affordance del prodotto, nel secondo caso dal feedback delle informazioni che fanno seguito alle nostre azioni. Si definisce errore umano qualsiasi deviazione dal comportamento appropriato. Ci sono i lapsus che nascono da un comportamento che ci porta a fare una cosa quando in realtà se ne voleva fare un’altra (lapsus d’azione), oppure dimenticarsi di svolgere un’azione (lapsus di memoria). I lapsus si manifestano nelle azioni che svolgiamo abitualmente e con maggiore competenza. Poi ci sono gli errori propriamente detti, o errori cognitivi, che nascono da decisioni consapevoli. Si dividono in tre tipi: regola sbagliata, quando la diagnosi è giusta ma si segue un corso di azione inadeguato; conoscenza sbagliata, a essere sbagliata è la diagnosi; dimenticanza, ci si dimentica di qualche passaggio. I vincoli limitano le possibilità di azione e impediscono le azioni errate. Si possono suddividere in: vincoli fisici: sono le limitazioni fisiche che circoscrivono il numero delle operazioni possibili in modo tale che, per far funzionare in oggetto, non è necessario disporre di istruzioni o di addestramento in quanto l’oggetto può essere utilizzato solo in quel determinato modo. vincoli semantici: sono i vincoli che si affidano al significato della situazione per circoscrivere l’insieme delle azioni possibili, e quindi si affidano alla conoscenza dell’utente di tale situazioni. vincoli culturali: sono i vincoli che fanno capo a convenzioni culturali accettate. vincoli logici: sono i vincoli legati all’unica opzione logicamente possibile. La qualità percettiva ed emozionale del prodotto Gli aspetti percettivi ed emozionali dell’interazione tra le persone e i prodotti si riferiscono al complesso di sensazioni e di emozioni che le qualità estetiche e sensoriali dei prodotti provocano all’individuo. Si possono descrivere tre aspetti del design: viscerale, comportamentale e riflessivo. Il design viscerale coinvolge le persone attraverso la forma e gli aspetti simbolici del prodotto. Il design comportamentale riguarda l’uso del prodotto, la sua efficacia, il piacere di utilizzarlo. Il design riflessivo riguarda il giudizio complessivo sul prodotto. La piacevolezza all’uso, definita come la dimensione di andare oltre l’usabilità e di rispondere alle esigenze soggettive dell’utente, raggiunge quella sfera di bisogni che non derivano solo dall’uso del prodotto ma dal significato che ognuno gli attribuisce. La gradevolezza come l’insieme di sensazioni che derivano dal rapporto con il prodotto, la sua forma, la sua superficie, la sua consistenza. ASPETTI COGNITIVI: DALLA PERCEZIONE ALL’AZIONE I processi percettivi partono dagli stimoli fisici, ma non sono solo una registrazione fotografica di eventi. Piuttosto, l’attività percettiva produce delle rappresentazioni, e cioè delle organizzazioni della realtà, delle strutturazioni del mondo secondo il punto di vista dell’osservatore. Siamo in un’interazione circolare col mondo che sulla base della comprensione degli oggetti, dell'identificazione di quello che sono e degli ambienti in cui questi si collocano, porta gli esseri umani a formulare intenzioni che guidano le loro azioni. Ma le intenzioni d’azione non discendono esclusivamente e direttamente da quello che percepiamo. I nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre competenze, possono portarci a percepire alcune cose invece di altre, a illuminare la presenza di alcuni oggetti attorno a noi e a nasconderne completamente altri. Nel corso dell’interazione con un ambiente assumiamo delle prospettive interpretative personali anche sulla base di alcuni fattori quali le nostre abilità, le nostre conoscenze pregresse, i nostri scopi, il fatto che dobbiamo operare da soli oppure in collaborazione con qualcuno o con un artefatto. Così facendo l’individuo seleziona, tra tutte quelle disponibili, solo le informazioni che vengono presentate come utili al raggiungimento dei propri obiettivi, vale a dire quelle che riesce a percepire, comprendere e dotare di significati. Questo insieme di processi complessi è finalizzato all’elaborazione di modelli mentali che rappresentano la realtà e rendono possibile lo svolgimento ottimale delle proprie attività. Oggi si tende a pensare che i vari sensi cooperino per portare ad esperienze relazionali col mondo che possiamo definire unitarie. Anche se consideriamo più affidabile e più importante la percezione visiva. Essa ha inizio con la registrazione delle immagini che si formano sulle nostre retine. Possiamo pensare alla retina come a una superficie sulla quale si proietta il mondo, ma nel passaggio dalla 3 alla 2 dimensione l’informazione sulla distanza tra le corse va in buona sostanza perduta. Per risolvere questi problemi e fornirci le conoscenze di cui abbiamo bisogno, il sistema visivo sfrutta le conoscenze pregresse che sono state sviluppate sia nel corso dello sviluppo individuale che in quello della specie. Grazie a queste conoscenze è possibile usare le relazioni spaziali e temporali, tra i punti delle immagini come indizi per ricostruire lo stato del mondo. Queste inferenze sono inconsce, ed i processi che a livello neurale le realizzano si configurano come una serie di stadi di elaborazione che rendono espliciti aspetti progressivamente più oggettivi del mondo che ci circonda. Il sistema visivo per giungere a delle conclusioni altamente probabili sullo stato del mondo, sfrutta degli indizi particolari e utilizza delle regole proprie. Tale regole sono dette leggi dell’organizzazione percettive e fanno parte di una filosofia chiamata Gestalt. Sono delle strategie interpretative ottimali, anche se non sempre corrette, basate su assunzioni sulla struttura tipica del mondo. Sono state identificate diverse leggi finalizzate al raggruppamento visivo. Le principali sono la vicinanza, la somiglianza, la buona continuazione, la chiusura, il movimento comune e la pregnanza. Sfruttando i principi strutturanti della percezione secondo le leggi della Gestalt il progettista ha a disposizione diverse strategie per organizzare le informazioni in maniera tale da far fluire l’attività dell’utente nella giusta direzione. Tra queste, quelle maggiormente studiate e sfruttate sono il mapping e l'affordance. Mapping Il mapping è la proprietà che stabilisce la relazione tra la possibilità di controllo che si ha di un sistema e gli effetti che otterremo in conseguenza alle nostre azioni. La strutturazione degli elementi di un sistema deve corrispondere alla rappresentazione mentale necessaria a interagire proficuamente con essi. Affordance Si parla di affordance in riferimento alla relazione tra le possibilità d’uso offerte dall'ambiente e quelle date dalle caratteristiche delle persone che interagiscono con quell’ambiente. Si tratta della possibilità che l’ambiente ha di indicare direttamente all’utente le sue molteplicità d’uso. Inizialmente è stato introdotto da James J. Gibson che è ricorso al termine affordance per descrivere la capacità dell’ambiente di suggerire direttamente all’osservatore le azioni che sono permesse all’interno del contesto di riferimento. Secondo Gibson l’affordance è dipendente dalla nostra percezione, esiste in relazione delle nostre azioni e non cambia al variare dei nostri obiettivi. In seguito questa definizione è stata ampliata. E’ possibile individuare vari tipi di affordance in considerazione delle diverse funzioni che sostengono: 1. affordance fisiche: che aiutano l’utente nelle sue attività fisiche. Ad esempio la dimensione di un tasto invita al fatto che questo possa essere premuto. 2. affordance cognitive: che aiutano l’utente nelle sue attività cognitive, come le icone metaforiche o etichette linguistiche che facilitano la comprensione del significato di un bottone in un’interfaccia. 3. affordance sensoriali: che aiutano l’utente nelle azioni di percezione. Ad esempio la presenza di una parola in corsivo all’interno di un testo assume una rilevanza particolare e può contribuire ad aumentarne la leggibilità. 4. affordance funzionali: relative all’uso e all’utilità di un sistema, di un artefatto, di un ambiente. Come la possibilità di organizzare i documenti di una cartella per data o per nome. Modelli mentali Le rappresentazioni mentali sono lo strumento cognitivo che permette agli esseri umani di stabilire delle relazioni con la realtà. La conoscenza di un dato sistema è una personale rielaborazione di un insieme di stimoli che però sono filtrati dal punto di vista dell’utente. Così facendo elaboriamo dei modelli mentali adatti allo svolgimento ottimale delle nostre azioni. E questo avrà come conseguenza positiva un alleggerimento del carico di lavoro cognitivo o la possibilità di rendere interpretabile e quasi noto l’insieme dei dati contestuali che non si integrano facilmente con le nostre conoscenze pregresse. Possiamo assumere, secondo Dennett, tre diversi livelli esplicativi nell’interazione con la realtà. Ad un primo livello di astrazione (physical stance) le spiegazioni sono essenzialmente fisiche, vale a dire che utilizziamo le conoscenze della fisica, della chimica, le proprietà materiali delle cose per interpretare e prevedere il comportamento dei sistemi con i quali interagiamo. Ad un secondo livello assumiamo una prospettiva progettuale (design stance) cioè interpretiamo il comportamento dei sistemi in riferimento alle intenzione che ne hanno guidato il progetto. L’ultimo livello di astrazione (intentional stance) riguarda l’attribuzione di caratteristiche mentali ai sistemi. Dennett ha affermato che naturalmente tendiamo verso una prospettiva intenzionale e quindi il progetto dovrebbe tenere conto del nostro approccio sociale con la realtà, come se questa fosse in grado di stabilire una relazione con l’ambiente adeguata da un punto di vista funzionale, cognitivo, relazionale e affettivo. L’ambiente dovrebbe risultare migliorato dagli interventi del progettista e continuamente ridefinito dalle azioni dell’utente che con esso interagisce instaurando una relazione reciprocamente evolutiva. Oltre a tener conto dei mapping naturale e delle affordance ci si può riferire anche: alla visibilità, rendere visibili parti del sistema o informazioni importanti; ai feedback, fornire informazioni di ritorno che evidenziano il risultato che è stato ottenuto in seguito ad un’azione; al minimizzare il carico di lavoro della memoria; alla gestione adeguata dell’errore; e al creare strutture dotate di senso, favorire la creazione di categorie, raggruppando visivamente gli elementi di una stessa categoria, strutturare le informazioni seguendo un’organizzazione dei contenuti in modo da facilitarne il ricordo. Dalla percezione all’azione Quasi tutte le azioni sono eseguite dopo che è stata formulata un’intenzione. Per spiegare cosa succede quando usiamo un piano di azione è stato formulato il modello dell’azione intenzionale (modello d’azione di Norman). In tale modello l’azione viene rappresentata su due percorsi: quello dell’esecuzione e quello della valutazione. Il primo è relativo al momento in cui un’azione viene compiuta e il secondo è quello che riguarda la verifica finalizzata a stabilire se gli effetti di tale azione hanno raggiunto lo scopo desiderato. Norman descrive 7 stadi dell’azione: 1. elaborazione dello scopo Percorso relativo all’esecuzione. 2. formulare l’intenzione: stabiliamo se, dato un certo obiettivo, intendiamo intraprendere una qualche azione. 3. specificare un’azione: decidiamo che piano di azioni seguire. 4. eseguire un’azione: diamo corso al piano di azioni che è stato formulato. Percorso relativo alla valutazione. 5. percezione dello stato del mondo: cogliamo nell’ambiente gli stimoli che abbiamo prodotto in conseguenza al nostro agire. 6. interpretazione dello stato del mondo: rendiamo significati gli stimoli selezionati all’interno di un quadro interpretativo del mondo. 7. valutazione dello stato del mondo: stabiliamo se lo stato del mondo prodotto in conseguenza del nostro agire coincide con gli obiettivi che ci eravamo prefissati. Le difficoltà insite nei percorsi dell’esecuzione e della valutazione sono rappresentate come delle distanze tra l’inizio e la conclusione dei processi relativi e sono chiamate, rispettivamente, golfo dell’esecuzione e golfo della valutazione. Questo modello non tiene conto della possibilità che un obiettivo possa essere modificato durante l’attività. Occorre prevedere la possibilità in cui l’utente non possa raggiungere l’obiettivo prefissato e che si possa verificare un suo slittamento. La distanza tra due obiettivi mediata da un’azione o una valutazione di un risultato, è definita distanza dello scenario. Questo tipo di distanza si riferisce allo sforzo che occorre all’utente per capire che un dato obiettivo non può essere raggiunto e che è necessario spostare l’attenzione su un obiettivo che in quel momento risulta più adeguato allo scopo. ASPETTI COGNITIVI: DALLA PERCEZIONE ALLE EMOZIONI La valida comprensione del modo e degli oggetti non è di per sé sufficiente alla messa in atto di conseguenti scelte d’uso: motore di ogni comportamento è l’intenzione. La formulazione di un’intenzione è passo irrinunciabile in qualunque presa di decisione e comportamento; essa è il risultato di un processo di valutazione preventiva sull’azione stessa. Un ulteriore elemento che interviene nella nostra decisione di adottare un determinato comportamento è la valutazione che ciascun soggetto fa della propria capacità di controllo sul comportamento stesso, in quella determinata situazione. Un’esperienza d’uso che comporti il raggiungimento dei propri obiettivi in modo piacevole e regali al soggetto un senso di autoefficacia influirà positivamente sulla possibilità che l’oggetto venga utilizzato ancora. Secondo la teoria dell’azione ragionata (TRA) il comportamento è influenzato dall'atteggiamento che il soggetto ha verso una particolare azione e verso l’esito che ne seguirà; l’atteggiamento viene a sua volta definito come la predisposizione nei confronti di un oggetto, una persona o una situazione formata sulla base di conoscenze generali ed esperienze pregresse. Le persone subiscono poi l’influenza delle norme soggettive, legate cioè alle aspettative sociali su quel determinato comportamento. Il modello è molto generale e assume che le persone si comportino in maniera razionale, sulla base di intenzioni ragionate sulla base di una stima più o meno accurata degli effetti potenziali del loro comportamento sul mondo e sugli altri. In una versione più analitica di tale modello vengono introdotte variabili più specifiche che costituiscono i due principali determinanti: vengono considerate le credenze, ossia la possibilità che un comportamento possa generare determinati risultati e produrre specifici esiti, e la valutazione che il singolo soggetto attribuisce allo specifico esito. Riguardo le norme soggettive si prendono in considerazione da un lato le convinzioni normative dall’altro la disponibilità che il singolo individuo ha nell’adattare i propri comportamenti alle aspettative dei propri referenti. La teoria del comportamento pianificato (TPB) completa il quadro teoretico della precedente in modo più organico, aggiungendo fra i fattori determinanti la percezione del controllo comportamentale, cioè la percezione che un soggetto ha di poter mettere in atto il comportamento voluto. Si parla di control belief che influenzano la percezione nel controllo comportamentale; queste credenze riguardano i possibili ostacoli che un soggetto ritiene di poter incontrare nella specifica situazione in cui si attuerebbe il comportamento e la percezione soggettiva che l'individuo ha di poter superare con successo i precedenti ostacoli. Quest’ultimo concetto corrisponde a quello di self- efficacy, definita come la percezione che abbiamo della nostra competenza relativamente ad un compito e alla conseguente aspettativa di ottenere un esito positivo. La spinta motivazionale viene definita come il complesso processo delle forze che attivano, dirigono e sostengono il comportamento nel tempo, caratterizzata da tre dimensioni: la direzione, che riguarda l’orientamento di strategie ed azioni messe in atto funzionalmente al conseguimento dei propri scopi; l’intensità, ovvero l’entità della forza, quanta energia in quel momento si riesce a produrre per sostenere il proprio comportamento; infine la persistenza, cioè la durevolezza dell’energia. Un aspetto rilevante della motivazione riguarda la sua origine, interna o esterna all’individuo; si definisce intrinseca la spinta ad attuare un comportamento per il piacere di farlo bene, in modo soddisfacente per sé stessi. Al contrario, sollecitazioni e ricompense esterne che inducono i soggetti all’espletamento di compiti al fine di ottenere benefici o evitare circostanze negative identificano una motivazione estrinseca. La differenza sostanziale fra queste due tipologie di motivazioni sta nella ricerca di un tipo di gratificazione che sia definibile in termini di autostima, riconoscimento sociale, utilità, che rispondono a bisogni di autorealizzazione da un lato e di stima dall’altro. Ogni comportamento umano è legato ad un processo di ancoraggio e aggiustamento, definito da variabili individuali e situazionali come controllo, motivazione ed emozione/gratificazione. Il modello Technology Acceptance Model (TAM) riprende i costrutti del TPB e li reinterpreta suggerendo due misure dell’accettazione tecnologica e della disposizione dei soggetti ad utilizzare tecnologie. Il design degli artefatti deve tenere in considerazione i diversi aspetti dell’esperienza che l’utilizzo degli stessi produrrà: le cara

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