Economia e Gestione delle Imprese - PDF

Summary

Questo documento fornisce un riassunto dei concetti chiave riguardanti l'economia e la gestione delle imprese, in particolare i modelli di impresa e le tematiche di corporate governance. L'analisi si concentra sull'evoluzione dell'attività imprenditoriale negli ultimi decenni, sulla crisi economico-finanziaria e sulle nuove tecnologie. Il testo presenta i principali modelli di impresa (anglosassone, renano, italiano).

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ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE – RIASSUNTO CAPITOLO 1 – MODELLO D’IMPRESA E REGOLE DI GOVERNO L’attività imprenditoriale ha subito un’ampia evoluzione nel tempo sotto vari punti di vista; in particolar modo l’evoluzione si è concentrata a partire dagli anni 80 fino ai giorni nostri. Si è passato...

ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE – RIASSUNTO CAPITOLO 1 – MODELLO D’IMPRESA E REGOLE DI GOVERNO L’attività imprenditoriale ha subito un’ampia evoluzione nel tempo sotto vari punti di vista; in particolar modo l’evoluzione si è concentrata a partire dagli anni 80 fino ai giorni nostri. Si è passato da un ottimismo crescente sviluppatosi in Europa ad un quadro pessimistico dovuto anche al fronte politico-istituzionale trovatosi in condizioni di incertezza che ha portato ad una fase di recessione nel Medio Oriente. Susseguono poi eventi più recenti come lo scoppio della bolla speculativa della “New Economy e dot.com” (quotazione in borsa Netscape primi anni 2000 + sviluppo dei servizi internet) o l’attentato alle Torri Gemelle (New York, 11 settembre 2001) cui ha avuto una notevole ripercussione sui mercati finanziari contribuendo ad una stagnazione dei consumi e un aumento della pressione concorrenziale. Attualmente, l’economia mondiale risente gli effetti della crisi economico—finanziaria nel 2007 che ha colpito maggiormente banche statunitensi cui concedevano i c.d. mutui sub-prime ovvero prestiti di denaro a soggetti non affidabili; questo fenomeno diffusosi a catena ha causato un crollo nel mercato edilizio, uno dei più strategici nell’economia di un paese. Gli effetti di questo crollo hanno avuto notevoli ripercussioni anche nel mercato europeo e sull’economia globale. Le imprese di fronte a questo tipo di situazioni tendono ad investire in nuove tecnologie per produrre beni e servizi più sofisticati. Le nuove tecnologie nascono da soluzioni innovative fornite attraverso il progresso tecnologico e scientifico non solo per i grandi gruppi ma anche per le piccole medie imprese. La crescita di un’impresa deve essere favorita anche da una forte interazione con la ricerca ed un ambiente istituzionale favorevole. L’evoluzione tecnologica ha assunto tale rilevanza non sono nel campo dell’industria ma a tutto il settore imprenditoriale. L’investimento nelle nuove tecnologie è considerato uno dei principi delle economie di scala poiché esso porta alle imprese non solo maggiore flessibilità ma anche capacità di adattarsi alle imprevedibili mutevolezze del mercato. Come è noto, si ottengono economie di scala ogni volta che all’aumentare della dimensione dell’impresa si ottiene una riduzione dei costi medi unitari (in particolare dei costi fissi di gestione). Esse si distinguono dalle economie di scopo che si raggiungono attraverso il risparmio derivante dalla produzione congiunta di prodotti diversi o attraverso il perseguimento di obbiettivi diversi con i medesimi fattori produttivi (stesse risorse, stessi impianti, stesso know-how). L’attività economica consiste nella produzione e nello scambio di beni e servizi per il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi. La parola “azienda” identifica beni e persone, nelle più varie forme, che svolgono un’attività economica: in particolare quella dell’impresa. Quest’ultima rappresenta l’azienda cui produzione è destinata prevalentemente al mercato, ovvero alla cessione di terzi mediante atto di scambio; tutto per soddisfare diversi obbiettivi tra i quali la produzione del profitto, la creazione del valore, l’equa distribuzione della ricchezza prodotta, la soddisfazione del consumatore e così via; infine l’ultimo fine dell’impresa è uno tra i più importanti: la sopravvivenza del lungo periodo. 1 Gli attuali approcci sistemici allo studio dell’impresa identificano la stessa appunto come un insieme di elementi diversi, interrelati e interdipendenti rispetto ad un obbiettivo comune che è quello di generare valore allo stesso tempo: ECONOMICO: finalizzato cioè a soddisfare bisogni attraverso l’impiego di risorse limitate APERTO: perché in costante rapporto di scambio con l’ambiente esterno (in particolare i mercati di acquisto e di sbocco) DINAMICO: in quanto il proprio equilibrio è sistematicamente in evoluzioni con i mutamenti del contesto competitivo VITALE: ossia capace di reagire e autoregolarsi al fine della sopravvivenza In Italia abbiamo l’APPROCCIO SISTEMICO VITALE (ASV) che nasce all’interno degli studi di economia e gestione delle imprese, con l’intento di analizzare l’impresa nella sua interezza concentrando l’attenzione nel punto di vista e nella prospettiva che ha della stessa l’organo di governo e quindi il management aziendale. Un’impresa sistemica, è quell’impresa che non solo implementa al proprio interno l’approccio considerato, ma che abbia la finalità di sopravvivere. Questa semplicistica definizione in realtà richiede una spiegazione assai complessa ed articolata. Anzitutto definire l’impresa sistema vitale significa concepirla come un sistema aperto in grado di scambiare informazioni, creare e trasferire conoscenza e intessere relazioni con l’ambiente circostante e con quello che rappresenta il suo contesto di riferimento ossia quella porzione di ambiente notevolmente rilevante, poi come la rappresentazione del complesso di competenze che emergono dalla struttura. Ulteriore approccio è la considerazione dell’impresa quale una scatola aperta all’interno della quale si possono individuare due elementi essenziali: l’organi di governo (OG) e la struttura operativa (SO). Il primo elemento corrisponde all’area decisionale dell’impresa; la struttura operativa, invece, come suggerisce il termine stesso, è l’area dell’azione, dell’agire. Indubbiamente, tali aree funzionali sono tra loro connesse, poiché non esisterebbero se fossero disgiunte e incompatibili. In capo all’organo di governo grava la responsabilità decisionale: è compito dei decisori guardare avanti e operare delle scelte sostenibili e valide al conseguimento delle finalità originanti dell’attività imprenditoriale; è compito di chi governa, in altri termini, guardare al passato, al bilancio, e poi immediatamente rivolgersi al futuro, gestendo opportunamente l’impresa stessa. 2 I sistemi, oltre a presentare le costanti inerenti gli elementi, i rapporti e le finalità, possono inoltre essere concepiti per due proprietà chiave: l’isomorfismo (il possesso d’una medesima forma) e la ricorsività: i sistemi, difatti, a qualunque livello, si presentano nella stessa forma, possedendo un organo di governo e una struttura operativa. Peraltro, un sistema ricorre e può ricorrere a più livelli, ovvero possono osservarsi dei subsistemi e dei sovra-sistemi a qualunque livello ci si trovi. Un esempio può essere un gruppo bancario, il quale possiede un OG e una SO e le sue filiali, che sono subsistemi, possiederanno similmente un OG e una SO; a livello superiore, essendo il gruppo bancario inserito in un sistema bancario, esso è assoggettato ad un sistema ancor più ampio, ad esempio la Banca d’Italia, anch’essa dipendente dalla Banca Centrale Europea, e via discorrendo. Si dimostrano, in tal senso, l’isomorfismo e la ricorsività dei sistemi. Tali connotazioni sistemiche dell’impresa portano a configurare l’azienda attraverso molteplici assetti istituzionali ciascuno dei quali si contraddistingue per uno specifico sistema di CORPORATE GOVERNANCE. Si parla di CORPORATE GOVERNANCE l’insieme di regole che condizionano la struttura e la dinamica di un’impresa ponendola in grado o meno di conseguire le condizioni di equilibrio che portano l’impresa all’assunzione di un particolare modello d’impresa. Possiamo oggi distinguere tre modelli di struttura proprietaria cui sono collegati i principali modelli di impresa sviluppatesi in ambito economico. Abbiamo: − MODELLO A STRUTTURA PROPRIETARIA CHIUSA, per tale intendendosi un modello padronale o familiare, caratterizzato per la concentrazione della proprietà e del controllo in poche mani, spesso quelle dell’imprenditore. Tali imprese possono essere di piccole-medie dimensioni ed hanno una scarsa diffusione dei capitali in borsa; − MODELLO A STRUTTURA PROPRIETARIA RISTRETTA, ovvero un modello consociativo, per tale intendendosi un’impresa nella quale la compagine azionaria è articolata e mutevole, ma caratterizzata da una certa stabilità nel tempo. Il capitale è detenuto da un numero ristretto di azionisti di riferimento (spesso e volentieri banche); ne derivano medio-grandi imprese; − MODELLO A STRUTTURA PROPRIETARIA DIFFUSA, per tale intendendosi un’impresa che segue il modello della public company, in cui l’azionariato non si identifica con l’impresa, concepita come semplice opportunità di investimento. Si assiste ad una divisione della proprietà tra una pluralità di azionisti, nessuno dei quali riesce ad assumere posizioni di controllo. Si tratta di società di grandi dimensioni quotate in Borsa, spesso condotte da forti manager. 3 I tre principali modelli di impresa sono: modello anglosassone, modello renano, modello italiano Il MODELLO ANGLOSASSONE è fondato sul liberismo e sulla grande dimensione e si trova quotidianamente a fronteggiare un’ampia competizione dovuta alla quotazione che tali imprese hanno in Borsa. Il governo dell’impresa è affidato al CDA (consiglio di amministrazione) eletto dall’assemblea degli azionisti, ovvero composto da coloro i quali dispongono delle azioni dell’impresa in questione. All’interno del CDA possono essere distinti soggetti esecutivi e soggetti non esecutivi: tra i primi, che assolvono alle funzioni manageriali, è nominato l’equivalente dell’Amministratore delegato; tra i soggetti non esecutivi, invece, riconosciamo coloro che hanno il controllo sull’amministrazione nell’interesse degli stakeholders esterni. Tale modello, tipico delle aree britanniche o statunitensi, varia a seconda del Paese in cui è diffuso, ed è basato sulle ‘public companies’ ad azionariato diffuso, in un mercato borsistico ampio. Le public companies sono modelli d’impresa nei quali l’impresa è partecipata diffusamente dal grande pubblico (da cui il nome di ‘compagnie pubbliche’); chi governa, indubbiamente, è il manager dell’impresa, che conferisce a tali modelli l’ulteriore nome di ‘modello manageriale’. L’orizzonte temporale nel quale opera una public company è assai breve, poiché si mira a remunerare gli azionisti che, in media, posseggono azioni per due anni. Inoltre, il management mira ad ottenere maggior potere, prestigio e retribuzione rispetto agli azionisti, e per tal motivo è privilegiata un’ottica di breve periodo che permetta di soddisfare gli interessi di entrambi gli operatori. Tipico degli Stati Uniti è l’investimento nel marketing e nella finanza, con un’ottica di sviluppo di breve termine. L’obiettivo, difatti, è quello di cogliere ogni possibile opportunità di crescita che non richieda troppo tempo. Inoltre, tali imprese sono contendibili, poiché vi è la quotazione in borsa: non a caso gli Stati Uniti sono la patria della Borsa. Inoltre, la quotazione in Borsa permette il finanziamento del capitale di rischio e da ciò deriva la diminuzione dei debiti e la possibilità di frazionare il rischio di impresa tra tutti gli azionisti che, quotidianamente, finanziano la società acquisendo azioni della stessa. MODELLO ANGLOSASSONE STATUNITENSE MODELLO ANGLOSASSONE BRITANNICO ASSEMBLEA DEGLI AZIONISTI ASSEMBLEA DEGLI AZIONISTI nomina nomina CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE nomina nomina DIRETTORI NON ESECUTIVI DIRETTORI AMMINISTRATORE NON AMMINISTRATORE COMITATO DI DELEGATO ESECUTIVI DELEGATO CONTROLLO 4 Il MODELLO RENANO è fondato sull’economia sociale di mercato ed è di origine giapponese, pur possedendo affinità con il modello tedesco. Tale modello è caratterizzato da una comunità di intenti ed una continuità di rapporti tra aziende e dipendenti, e tra aziende e fornitori, nonché dall’intervento della banca nel capitale, con partecipazioni azionarie incrociate, anche per ovviare al divieto imposto dagli occupanti USA, al termine della guerra mondiale, di creare holdings. L’impostazione tedesca, però, è differente da quella giapponese. In Germania, infatti, un forte potere è detenuto dal sistema bancario e, inoltre, vi è un marcato orientamento dell’economia alla questione sociale. Banche e lavoratori costituiscono il fulcro del sistema tedesco. Difatti, assieme alle banche, un ulteriore pilastro è costituito dai lavoratori, organizzati in ‘consigli di lavoratori’, i quali arrivano ad avere voce in capitolo nelle scelte di carattere manageriale. Il secondo Paese all’interno del quale si è sviluppato e diffuso il modello renano è il Giappone, dove si sono formate le grandi Keiretsu, ovvero raggruppamenti di imprese, operanti in settori diversi, collegate tra loro da partecipazioni incrociate. Si tratta di un fenomeno pressoché unico al mondo. In esse le banche, a differenza del modello tedesco, ricoprono un ruolo fortemente limitato, non potendo oltrepassare una soglia di partecipazione superiore al 5%. I Keiretsu sono delle reti di imprese legate tra loro e consapevoli di costituire una realtà economia e sociale unitaria. I giapponesi, così come i tedeschi, investono in ciò che è interno all’impresa, mirando alla produzione di valore e investendo in tecnologia, sviluppo e crescita logistica e produttiva. Guardando alla produzione ed allo sviluppo nel tempo, creano relazioni stabili e di lungo termine. 5 Il MODELLO ITALIANO è caratterizzato per la presenza di un azionista di controllo, per i forti legami tra le imprese e lo scarso ruolo del mercato dei capitali. In particolare, l’esperienza italiana si connota per un’accentuata compresenza di tre tipologie di imprese: − Innanzitutto, le PMI, ossia imprese di piccole o medie dimensioni la cui crescita è limitata dal controllo familiare e dalle relative risorse. In passato si asseriva che “piccolo è bello”, ma oggi, al contrario, proprio le piccole dimensioni, in un mondo di grandi o grandissime imprese, le rende poco competitive. Le PMI, per far fronte alle problematiche da cui sono afflitte, spesso si riuniscono in consorzi, per unire le forze e ridurre i costi di approvvigionamento, per penetrare i mercati o organizzare canali di distribuzione, per avviare ricerche e per formare il personale. − Un modello ulteriormente diffuso è quello cooperativo, realizzato da un gruppo di soggetti che costituiscono e gestiscono in comune un’impresa che si prefigge lo scopo di fornire prevalentemente ai soci quei beni e servizi per il conseguimento dei quali i soci stessi si sono riuniti in società: in sostanza, la mutualità è l’elemento caratterizzante di una società cooperativa. Esempi di società cooperative sono le banche popolari. − Terzo ed ultimo modello di impresa presente, soprattutto in passato, è quello della società a controllo pubblico, sviluppatasi a causa della crisi delle grandi imprese nel periodo tra le due guerre mondiali. Essa ha avuto grande importanza negli anni del boom economico, ovvero gli anni ’50, ’60, ’70, ed è proprio in questi anni che si diffonde l’idea di uno Stato-imprenditore, nella quale il sistema delle partecipazioni statali svolge un ruolo importante ai fini del miracolo industriale ed economico italiano. Tuttavia, l’esperienza dello Stato- imprenditore ha subito profondi cambiamenti dalla metà degli anni ’70 fino agli anni ’90: il prevalere di politiche gestionali di tipo burocratico-amministrativo sugli aspetti di economicità e di efficienza, l’inevitabile ‘politicizzazione’ della gestione, l’assenza di reali stimoli alla crescita (dovuti al regime di monopolio), hanno portato le imprese pubbliche a una condizione di inadeguatezza. A partire dagli anni ’80 tali sintomi di insostenibilità politica ma anche finanziaria del sistema dell’impresa pubblica e delle partecipazioni statali hanno portato il governo ad attivare alcuni interventi di smobilizzo, e cioè di vendita a privati di società pubbliche. Si tratta del processo di privatizzazione che può realizzarsi in vari modi: FORMALE, quando si ha la semplice trasformazione di enti pubblici o di aziende autonome statali in soggetti giuridici sottoposti alla disciplina del diritto privato, ma sempre sotto il controllo pubblico; SOSTANZIALE, nel caso di cambiamento della natura proprietaria della società da pubblica a privata, attraverso soluzioni che vanno dalla partecipazione minoritaria del capitale privato nella proprietà alla partecipazione maggioritaria o totale del capitale privato, con conseguente cambiamento del soggetto economico o imprenditoriale; FUNZIONALE, in caso di trasferimento a soggetti privati di compiti di gestione e/o di realizzazione di opere o attività rispetto alle quali i pubblici poteri mantengono la titolarità dei poteri di indirizzo e di controllo strategico; INDIRETTA, se si ha l’introduzione di logiche e di principi di gestione manageriale negli organismi pubblici, nonché di vincoli e caratteristiche di operatività tipiche della nozione di azienda. 6 È bene sottolineare come la riforma del Diritto societario abbia impresso una svolta in tema di autonomia statutaria, offrendo flessibilità ai modelli di governo societario sia per la conformazione e composizione degli organi sia per la definizione delle funzioni e delle relative responsabilità. Il codice prevede tre principali opzioni: − Sistema ordinario, che identifica la cosiddetta norma di default, operante se lo statuto non dispone diversamente. Esso continua a basarsi sulla distinzione tra un organo di gestione e un organo di controllo; − Sistema dualistico, mutuato dal modello renano, secondo il quale il controllo contabile continua ad essere affidato ad un revisore o ad una società di revisione, ma rispetto al sistema ordinario non è previsto il collegio sindacale, essendo le sue funzioni attribuite ad un organo intermedio tra proprietà e management (il consiglio di sorveglianza); − Sistema monistico, mutuato dal modello anglosassone, che si caratterizza per la concentrazione all’interno di un unico organo sia dell’amministrazione sia del controllo. Il dibattito sul tema della Corporate governance, cioè dei rapporti del management con gli azionisti e gli stakeholders (i portatori di interessi legati a un’impresa) ha assunto attualità anche in Italia sia per la crescente attenzione alla responsabilità sociale di impresa, cioè alla capacità non solo di creare ricchezza per gli azionisti ma anche uno sviluppo sostenibile sul piano ambientale e sociale, sia per la spinta che si vuole dare ad alcune delle numerose piccole e medie imprese. Ciò per favorire sia la crescita, attraverso un allargamento della platea degli azionisti, sia il ricambio generazionale, sempre pieno di difficoltà e di conflittualità interne più o meno latenti, dal fondatore ai suoi successori. Peraltro, il mercato finanziario ha condizionato molto il mondo produttivo e ne sono testimonianze le elevate ed irrealistiche quotazioni raggiunte a cavallo del 2000 da società della cosiddetta “new economy” (basate specialmente su internet), a scapito delle imprese consolidate ritenute della “old economy”. Anche nella seconda metà degli anni ’80, a causa dei tassi di interesse reali elevati si sono avuti risvolti negativi per l’apparato manifatturiero reale, specie se visto in confronto con la concorrenza crescente dei produttori insediati nei Paesi emergenti dell’Estremo Oriente che, oltre a godere di minori costi di manodopera, sono stati sostenuti da politiche economiche favorevoli alla loro crescita. La crisi finanziaria globale innescata, da ultimo, dai mutui sub prime segue la lunga serie di crisi apparse già dagli anni ’80 e intensificatesi negli anni ’90. L’eccesso di ottimismo, che ha accompagnato l’avvento della New Economy, è stato seguito infatti da una riduzione dei tassi di interesse e da una intensa fase di deregolamentazione che, assieme, hanno spinto imprese e privati ad incrementare la domanda di credito. Le conseguenti crescite dei consumi e dell’indebitamento hanno surriscaldato l’economica, rendendo sempre più fragili le aspettative precedenti e, soprattutto, le basi su cui era stata eretta la “nuova economia”, fondata su errate valutazioni e forti speculazioni. Così, le crisi finanziarie si sono via via manifestate, accumulate e aggravate, colpendo dapprima la periferia per poi spostarsi al centro del sistema finanziario. Nel contesto delineato, la crescente interdipendenza dei sistemi finanziari di diversi Paesi ha sì favorito miglioramenti sotto il profilo della distribuzione del rischio, ma ha generato un accrescimento delle difficoltà di valutazione e conseguenze di eventuali squilibri del sistema. 7 Nello scenario di ampia complessità prima delineato si avverte sempre più forte l’esigenza della statuizione di regole che costituiscono uno strumento per rendere più efficienti i processi gestionali e decisionali delle imprese, all’interno dei quali si instaurano i conflitti tra azionisti, manager e stakeholders. Nell’attuale contesto aziendale, caratterizzato da una sempre più frequente separazione tra proprietà e controllo di impresa, e dove il legame tra azionisti e manager diventa sempre più fragile, i diversi modelli di governo mettono in luce quali siano le caratteristiche soggettive e oggettive, quali i diversi interessi strategici e operativi che confluiscono e convivono nell’impresa. Tuttavia, il processo di globalizzazione sta portando alla nascita di modelli ibridi, dati dall’unione dei tre stereotipi di impresa dominanti (tradizionale, monistico e dualistico). Se poi si tiene conto del fatto che l’OCSE, alla luce degli avvenimenti recenti ha provveduto all’emanazione di regole comuni, è possibile immaginare come la corporate governance sia destinata a divenire sempre più un fenomeno di interesse globale. Regole e supervisione, però, non sono le uniche leve in grado di riportare ordine ed equilibrio all’interno del sistema di impresa e, quindi, nel sistema economico internazionale. Il crollo dei mercati ha fatto emergere la fragilità dei sistemi di controllo aziendali, tra cui quelli bancari, rivelatisi incapaci di tenere sotto controllo la propensione al rischio ed i conseguenti atteggiamenti di azzardo morali mostrati da alcuni manager. Il risk management ha rappresentato e rappresenta sempre più una componente cruciale di ogni strategia, specie se orientata alla creazione. Da un punto di vista esterno, il prevalere del sistema fondato sul mercato aperto in regime di concorrenza, della proprietà privata, della libertà individuale nei confronti del sistema collettivistico, sta evidenziando negli ultimi anni i rapidi progressi sul piano del sapere tecnologico, ma anche gli arretramenti sul piano morale di chi lo produce e lo usa: l’uomo. Ciò crea un nuovo bisogno di principi etici, di sani valori e di limpide relazioni economico-sociali. È alta la responsabilità non solo nei confronti degli stakeholders ma anche dell’ambiente e dell’intera società da parte di chi si trova a condurre le imprese in questa epoca in cui vanno riaffermati i principi di correttezza (fairness), trasparenza (disclosure) e solidarietà: la creazione del valore nell’impresa deve avvenire applicando un codice di condotta ispirato all’etica degli affari. CAPITOLO 2 – ASPETTI ORGANIZZATIVI E STRATEGICI DEL GOVERNO DELLE IMPRESE Per poter predisporre gli obbiettivi di un’azienda occorre attuare una strategia che consente di affrontare le complessità della condizione azienda-ambiente. Esistono tre tipi di strategie: 1. STRATEGIE CORPORATE: con essa si definiscono gli orientamenti da seguire nelle scelte, guidandone la realizzazione, coordinando e controllando le varie funzioni dell’impresa in modo che gli obbiettivi di ciascuna siano coerenti con gli obbiettivi generali dell’impresa. Per far sì che esse siano efficaci le imprese di grandi dimensioni devono essere suddivise in più parti, dette STRATEGIC BUSINESS UNIT o AREE STRATEGICHE D’AFFARI. Una strategia corporate affronta le seguenti scelte: a) definizione della mission dell’impresa e delle modalità di gestione dei rapporti con i vari stakeholders b) definizione degli obbiettivi che si intendono raggiungere c) definizione dei settori nei quali operare e definire l’allocazione delle risorse tra le varie attività dell’impresa d) coordinare il portafoglio dell’impresa tra le singole attività e la ricerca di sinergie. 2. STRATEGIE BUSINESS: si intende per tali l’insieme delle scelte che un’impresa fa all’interno del proprio mercato nei confronti dei concorrenti; spetta ad una specifica area strategica d’affari determinare come competere e come ottenere il c.d. VANTAGGIO COMPETITIVO DUREVOLE; senza vantaggi competitivi sostenibili nel lungo periodo nessuna strategia può resistere 8 3. STRATEGIE FUNZIONALI: esse rappresentano l’elaborazione e l’implementazione delle strategie business coordinate dal top management; le si distinguono dalle strategie business in quanto il raggio d’azine e l’orizzonte temporale sono più limitate. Nell’adozione delle strategie sopracitate si identificano in questo modo le capacità dell’impresa che variano anche in base alle risorse disponibili. Il tutto ovviamente sta anche nel coordinare i vari plessi del nostro sistema. Un’azienda che possiede capacità limitate può essere molto efficiente ma poco flessibile e quindi vulnerabile di fronte a nuove situazioni, soprattutto se si tratta di settori soggetti ad un rapido cambiamento tecnologico; se si tratta invece di un’impresa appena costituita essa è sempre pronta a cogliere nuove opportunità. L’interazione risorse/capacità crea la redditività d’azienda in funzione della difendibilità del vantaggio competitivo e della possibilità di realizzare un surplus una volta remunerate le risorse. Quando il mercato è più trasparente, più efficiente il vantaggio competitivo è scarso o assente; la specializzazione di un’impresa comporta l’impiego di risorse non liquidabili facilmente, il che apporta vantaggi più o meno duraturi qualora l’impiego venisse ottimizzato. Se tutte le imprese presenti nel mercato adottassero questa strategia, allora il vantaggio competitivo della prima impresa potrebbe durare poco. Inoltre, quando un’impresa detiene una risorsa “decisiva”, dovrà avere la liquidità necessaria per remunerarla; è il caso per esempio del “manager superpagato” o dei tecnici, operai altamente qualificati scarsamente disponibili sul mercato il quale si appropria di una parte consistente del maggior reddito conseguito dalla strategia. Ma concentrarsi soltanto su una risorsa può avere altrettanto effetti negativi; per aumentare la quota di utili che rimane nell’azienda occorre che le capacità siano il risultato di un impegno e di un contributo quanto più omogeneo possibile delle varie risorse, le cui potenzialità vanno sviluppate evitando fenomeni di monopolizzazione. La strategia deve essere, quindi, frutto di specifiche elaborazioni di volta in volta pensate, che mirano a introdurre in modo ponderato le innovazioni, tra cui quelle di tipo organizzativo ed informatico, non trascurandone nessuna. La flessibilità, dunque, occorre anche nella formulazione e nel perseguimento di disegni strategici con dedizione e creatività innovativa. Il disegno e l’attuazione di un processo di sviluppo strutturale, volto al perseguimento di obiettivi di efficienza, efficacia e redditività, può sintetizzarsi nel concetto di “governo” dell’impresa. Esso comprende l’orientamento di fondo, la guida e il coordinamento nonché l’adattamento alle situazioni contingenti in un ambiente mutevole e perturbato. Ciò che rende più complesso è l’introduzione della tecnologia nel fissare le strategie aziendali, poiché essa è in grado di produrre una successione continua di soluzioni innovative cui vengono già prese in considerazione dagli imprenditori più aggressivi i quali attuano delle strategie mirate in funzione dell’evoluzione del mercato e della loro posizione. Si parla di “Management per risposta flessibile/rapida” quando vi sono in palio grosse sfide che si sviluppano troppo rapidamente per essere affrontate con una tempestiva anticipazione. Questo concetto lo possiamo collegare alla distinzione tra la STRATEGIA DELIBERATA e la STRATEGIA EMERGENTE: la prima dettagliatamente pianificata ed estesa a tutti gli attori, la seconda sarebbe l’esatto opposto. Ciò comporta che in un ambiente perturbato ed instabile è preferibile maggior flessibilità da parte del management cui consente di adattare gli schemi deliberati alle realtà emergenti. Il cambiamento va affrontato valutando costi, rischi e benefici tenendo in considerazione la turbolenza ambientale e il dinamismo tecnologico affinché si possa configurare uno sviluppo armonioso. Un aspetto che non viene spesso sottolineato è che la strategia, una volta definita va attuata; coinvolgendo in modo più ampio possibile tutti i settori/soggetti che fanno parte dell’azienda. L’efficacia di una strategia si misura in funzione della capacità della struttura operativa di eseguirla. Le granfi aziende si pongono anche problemi di decentramento produttivo all’interno e all’esterno dei gruppi; le aziende minori cercano sempre nuovi spazi al fine di affermare le proprie capacità e la propria autonomia. 9 Una tendenza emergente è quella di una crescente globalizzazione di rapporti tra imprese, grazie alla possibilità offerta dalla tecnologia informatica di realizzare sistemi-prodotti complessi basati su una rete di imprese autonome, che consente di ottimizzare interi cicli produttivi, mediante il trasferimento e la connessione dell’innovazione tecnologica, il frazionamento degli investimenti tra più imprese e la trasformazione di alcuni costi fissi in costi variabili. Si può descrivere, così, una strategia di specializzazione flessibile, in continuo adattamento al cambiamento, fondata su impianti flessibili e manodopera specializzata, attuabile in una comunità industriale, che incentiva forme di competizione e favorisce l’innovazione. Essa è caratterizzata da una o più imprese-guida al centro e da confini col mondo esterno sfumati, definiti di volta in volta in funzione delle opportunità contingenti con una forte influenza esercitata dalla diffusione delle nuove tecnologie. Appare, così, per le aziende, la possibilità sia di poter attuare strategie di rilancio (il cosiddetto turnaround), laddove fossero state interessate dalla crisi, sia di assumere comportamenti strategici e di collocarsi sul mercato in modi diversificati, secondo varie combinazioni interne e relazioni con altre imprese. Le turbolenze di mercato, le continue innovazioni tecnologiche e organizzative, gli squilibri finanziari possono condizionare l’andamento aziendale rallentandone la crescita o ingenerandone situazioni di crisi che richiedono interventi appropriati per un riadattamento o un necessario risanamento onde evitare una malaugurata chiusura. Ci sono state negli ultimi decenni problematiche di ogni tipo, basti pensare dall’introduzione dell’euro e la sua rivalutazione nei confronti del dollaro americano; il terrorismo internazionale, l’invasione del mercato da parte della Cina e dell’India… emerge dunque che le nostre imprese si trovano in elevata competizione, affrontata però con scarse risorse finanziarie, manageriali e tecnologiche. Altro fattori che vanno considerati sono le banche, il marketing, la ricerca e lo sviluppo le quali hanno in comune il passaggio da un modello concorrenziale ad un modello consortivo, basato sullo scambio di idee e nell’aiutarsi a vicenda nei modelli di crisi, ciò va interpretato sia nella concessione del credito, sia nella gestione delle risorse. Per avere un forte processo di cambiamento nel medio-lungo termine occorre innanzitutto superare le resistenze anche emotive al cambiamento da parte dell’organo di governo, dei sindacati ecc. che costituiscono una forte barriera psicologica; è fondamentale anche diagnosticare tempestivamente le ragioni della crisi, studiando poi eventuali modelli di risanamento. Quando la crisi influisce grandi imprese o interi settori di mercato, interviene lo Stato con una politica che faciliti la ristrutturazione e la riorganizzazione industriale accollandone in capo alla collettività i costi relativi. Gli inconvenienti che sono emersi dalle grandi o grandissime dimensioni delle fabbriche hanno, a seconda dei casi, ridotto, annullato o superato i benefici di efficienza produttiva e hanno condotto a una più articolata considerazione delle economie di scala in funzione delle varie fasi di lavorazione di un prodotto. Si è andata diffondendo, perciò, la tendenza a un diverso dimensionamento degli impianti e dei processi produttivi che ha portato a decentrare particolari fasi o linee della produzione in più stabilimenti della stessa impresa, oppure ad affidare vere e proprie fasi di lavorazione ad aziende esterne, in genere di modeste dimensioni. Il fenomeno del decentramento produttivo non è peculiare al nostro sistema, essendo una pratica ormai consolidata, a livello internazionale, nelle grandi multinazionali, instaurata anche dalle aziende giapponesi. Il fenomeno del decentramento è attribuibile anche alla volontà di superare vincoli istituzionali, allo scopo di rendere meno rigido l’utilizzo della forza lavoro e di recuperare produttività. A partire dalla seconda metà degli anni ’80, si è assistito, con l’ausilio dell’elettronica, ad una maggiore flessibilità del processo produttivo per ampliare l’offerta come richiesto da una domanda sempre più 10 frammentata. Ciò ha dato luogo a una ripresa della crescita della grande impresa (“Big is better”), unitamente alla progressiva internalizzazione dei sistemi economici. La crisi, subentrata ed estesasi negli anni ’90, ha comportato delle ulteriori modifiche a tale quadro, con il ricorso alla formula del franchising e ad altre pratiche con cui la grande azienda ha cercato di assumere un maggior controllo sulle reti distributive, e quindi, sul mercato, a costi contenuti. Negli ultimi anni si è assistito ad una ulteriore ristrutturazione dei processi produttivi e della gamma di prodotti indotta dalla situazione economica interna e internazionale con la necessità di recupero di produttività, di sistematico contenimento dei costi e di ulteriore abbassamento del punto di pareggio, frutto di una razionalizzazione dei processi stessi. A tale riorganizzazione ha contribuito la spinta alla privatizzazione delle imprese pubbliche, con l’uso di strutture organizzative e di forme societarie previste dal Codice Civile. Dunque, il decentramento, motivato anche dalla variabilità e instabilità del mercato, che spinge a ridurre i rischi, trasformando i costi fissi di struttura in costi variabili di acquisto all’esterno, tende a configurarsi sempre di più nell’ambito di un quadro organizzativo volto a sviluppare e razionalizzare le sinergie esterne costituite in gran parte da risorse e competenze di altre imprese, non solo nel settore produttivo, ma anche della ricerca e del marketing che trasforma il rapporto con il fornitore e con il cliente in una vera e propria partnership che configura la rete (network) di imprese. Esistono vari tipi di reti di impresa, quali l’impresa a rete naturale, caratterizzata dall’assenza di identità giuridica e di struttura gerarchica; l’impresa a rete governata, quale risultato di un sistema di imprese selezionate in riferimento sia alle risorse di cui dispongono, sia agli obiettivi che perseguono; reti proprietarie, in cui il collegamento tra le imprese del network è garantito dal possesso di azioni (a questa categoria appartengono le holding e le joint ventures); reti non proprietarie, in cui il collegamento con le altre imprese del network avviene tramite accordi di natura contrattuale oppure di natura informale; e ancora reti convergenti, indipendenti e così via. Si parla di spin-off quando le aziende incentivano alcuni dipendenti dotati di spirito imprenditoriale a creare una propria attività stipulando contratti di fornitura, di assistenza, ecc per un periodo non breve; ciò allo scopo di alleggerire la struttura aziendale di costi fissi e di non privarsi della collaborazione di personale valido al quale viene offerto un sostegno nella fase di avvio. Tale operazione non va confusa con l’MBO (Management Buy-Out), che si realizza quando i dirigenti, che credono ancora nel valore di un’impresa in crisi, ne rilevano il capitale azionario, con il sostegno finanziario di una banca d’affari, allo scopo di ristrutturarla e rilanciarla sul mercato. Il marketing è una disciplina che studia la pianificazione, la realizzazione e il controllo di attività riguardanti lo scambio di beni e servizi, avvalendosi anch’esso dei nuovi strumenti informativi e telematici che per mettono di micronizzare il mercato, ossia ridurlo tramite uno scambio interattivo di informazioni immagazzinate in una grande base di dati, ciò è stato permesso soprattutto grazie all’avvento di Internet e dei social network. Un concetto legato a questo fenomeno è quello del CUSTOMER RELATIONSHIP MANAGEMENT (CRM), l’insieme delle tecniche e degli strumenti organizzati in modo da consentire all’azienda di perseguire e raggiungere la soddisfazione del cliente e di conseguenza la sua fidelizzazione in un’ottica di creazione di valore sia per il cliente sia per l’impresa. 11 Il CRM si distingue in 3 tipologie: 1. CRM OPERATIVO: comprende soluzioni metodologiche e tecnologiche per automizzare i processi di business che prevedono il contatto diretto con il cliente 2. CRM ANALITICO: comprende procedure e strumenti per migliorare la conoscenza del cliente attraverso l’estrazione dei dati dal CRM operativo, la loro analisi e lo studio revisionale del comportamento dei clienti stessi 3. CRM COLLABORATIVO: comprendente metodologie e tecnologie integrate con gli strumenti di comunicazioni per gestire il contatto con il cliente. In questo modo, un’azienda crea valore mediante il seguente processo: CREAZIONE DELLA RELAZIONE riducendo i costi di acquisizione del cliente mediante l’ottimizzazione della propria offerta, in modo da indurre la percezione di una qualità superiore da parte dei clienti potenziali e favorirne così la transazione verso un ruolo di cliente effettivo. SVILUPPO DELLA RELAZIONE: l’azienda individua ed elimina eventuali aree di insoddisfazione dei clienti e aumenta la comunicazione di vantaggi sui beni e la vendita di prodotti a clienti esistenti, stimolando il consumatore ad aumentare la propria quota di spesa (c.d. cross selling) MANTENIMENTO DELLA RELAZIONE: attraverso l’analisi dei dati è possibile identificare i segmenti dei clienti più propensi alla defezione permettendo di intraprendere azioni preventive per ridurre il rischio di abbandono Le aziende possono effettuare un’ulteriore analisi, l’analisi SWOT che evidenzia i punti di forza e di debolezza dell’intero sistema tenendo in considerazione anche le minacce e le opportunità ambientali È importante inoltre coinvolgere le risorse umane nella necessità del cambiamento per rispondere alle pressioni della concorrenza; un capitale umano in continuo miglioramento consente di perseguire valide strategie basate sulle proprie capacità innovative e produttive le quali possono portare anche ad un eventuale espansione dell’attività, acquisendo così nuovi clienti. Lo scopo finale di quanto suddetto sta nel decentrare e coordinare nel modo più opportuno le attività di ricerca e sviluppo, di produzione e di marketing in modo da ampliare le opportunità offerte dallo scambio di esperienze e competenze generando così un flusso di informazioni che producono vantaggio competitivo; tutto possibile grazie al progresso tecnologico. 12 Il progresso tecnologico però sta rendendo obsolete alcune capacità lavorative difficilmente convertibili alle nuove attività ed è qui che nasce la “resistenza al cambiamento” sebbene a volte, il numero degli addetti cala grazie all’ingresso di nuovi macchinari in fabbrica mentre la produzione tende ad aumentare. Tuttavia, questa resistenza ha evidenziato la necessità di una nuova ed elastica organizzazione del lavoro che renda diosincratici i rapporti tra uomo e macchina. L’impresa, ormai “computerizzata” necessita della figura del KNOWLEDGE WORKER, dotato di intelligenza creativa e competenza professionale, frutto di esperienza e aggiornamento continuo di conoscenze permeate di ragionamento e informazione. La vera e propria difficoltà sta nella transizione dalla produzione tradizionale a quella automatizzata affinché si riesca a garantire flessibilità nel lavoro. Si delinea un modello innovativo di produzione antropocentrica, che sottintende una concezione della fabbrica come learning organization, nella quale la nuova tecnologia, flessibile, si adatta al lavoratore e all’organizzazione. Elementi di tale concezione sono la delega nel processo decisionale, l’appiattimento delle gerarchie e l’ingegneria simultanea, tecnica che prevede lo svolgimento in parallelo di attività di progettazione e di ingegnerizzazione anziché in maniera sequenziale come nel passato. Si richiede, allora, al lavoratore capacità di apprendimento, senso di responsabilità e capacità di lavorare in gruppo. Anche la funzione del management sta modificando in parte il suo contenuto: le tecnologie informatiche arricchiscono la sua dotazione di supporti decisionali e di controllo gestionale; dalla massa dei dati disponibili va selezionata quella parte in grado di fornire informazioni tempestive e accurate sull’andamento produttivo, sulla qualità dei prodotti, sulle scorte, ecc. Il cambiamento del ruolo del manager pone l’enfasi sul processo innovativo, che è agevolato dalle nuove tecnologie. Di rilievo è anche il possesso di doti di apprendimento e di capacità di adattamento a situazioni nuove. Inoltre, si richiede una maggiore capacità di scambio e di integrazione con gli altri responsabili aziendali delle aree connesse al fine di creare reti di comunicazioni, supportate dai nuovi sistemi informativi, e realizzare l’approccio sistemico nelle decisioni: è l’ottica della leadership condivisa. Peraltro, la presenza sempre più immanente e diffusa dell’elettronica nella gestione fa scemare il rilievo che tradizionalmente assumeva il connotato tipico della piccola impresa: la maggior capacità di adattamento alle perturbazioni del mercato, grazie alle doti di intuito del classico imprenditore che può agire con maggiore elasticità. La spinta informatizzazione e la riconosciuta flessibilità conseguente consentono alla grande impresa di recuperare in tale campo, mentre per alcune piccole imprese il passaggio verso le nuove tecnologie può introdurre gradi di rigidità cui non erano abituate. 13 CAPITOLO 3 – EQUILIBRIO D’IMPRESA, AMBIENTE-MERCATO, ANALISI DI SETTORE L’impresa, come abbiamo già accennato, è costituita da due macroambienti: ORGANO DI GOVERNO e STRUTTURA OPERATIVA. Esse, come nei sistemi socio-economici hanno bisogno di una guida che consenta di operare perseguendo stabilite finalità. Vediamo i due macroambienti nel dettaglio. Il governo presuppone un’attività di conoscenza dei fenomeni e le interpretazioni delle condizioni migliori per la realizzazione delle finalità dell’impresa. La gestione si occupa del complesso delle decisioni inerenti i processi qualificandone la struttura. Le decisioni di gestione, rispetto a quelle di governo possono far ricorso ad esperienze precedenti. Tutto nasce dalla conoscenza che agevola il c.d. processo decisionale cui consente la previsione di determinate condizioni del contesto e dell’impresa secondo l’adozione di schemi logici. Sia il governo, sia la gestione necessitano dell’esistenza di un supporto informativo che garantisca la circolazione delle informazioni grazie a processi di input e di feedback. Sarà fondamentale anche un’attività di controllo che miri a verificare la rispondenza del comportamento della struttura operativa alle impostazioni stabilite dall’organo di governo. Per controllo di gestione si intende un insieme organico, composto di strumenti e funzioni di ausilio al processo decisionale. Esso deve essere anche in grado di monitorare il c.d. “sistema azienda” in tutte le varie fasi. 14 Il controllo gestionale assume diverse funzioni, aventi un’interconnessione rappresentata dal fluire delle informazioni cui sarò agevolato grazie alla presenza di un supporto informatico. Queste informazioni costituiscono il presupposto informativo per le decisioni inerenti all’assetto futuro che l’impresa adotta nel BUDGET che costituisce la guida dell’operatività dell’impresa. La fase di controllo consisterà in un confronto tra i dati previsti e i dati effettivi. Un’altra funzione importante dell’organo di governo è quella di affermare il successo dell’impresa attraverso il raggiungimento degli obbiettivi, stabiliti dal management. Primo fra tutti è il conseguimento del profitto ma ciò non basta, sicché l’obbiettivo citato è una “condizione necessaria per la sopravvivenza”; un’impresa per potersi ritenere di successo deve anche soddisfare gli interessi dei stakeholders, portatori di interessi che possono essere fornitori, azionisti, clienti ecc. Il profitto rappresenta anche lo strumento utile a perseguire i miglioramenti di efficienza e di produttività prevenendo eventuali sprechi di risorse o possibili comportamenti opportunistici ed illegali del management finalizzati a ripristinare migliori livelli di redditività. L’impresa va governata realizzando il coinvolgimento degli stakeholder nel perseguimento della missione produttiva della stessa impresa, attraverso una impostazione relazionale fondata sulla trasparenza e disponibilità al dialogo. Si parla di EQUILIBRIO D’IMPRESA quando si cerca di un sistema finalizzato alla competitività duratura nel tempo. Per competitività si intende adeguata definizione del proprio business, inteso come interrelazione tra i bisogni da soddisfare, i clienti a cui si intende rivolgere ed i processi attraverso i quali si intende realizzare beni o servizi; sviluppo delle proprie competenze distintive, cioè capacità di far leva sulle risorse-chiave che rappresentano il proprio patrimonio di conoscenze e consentono un’adeguata posizione di mercato. L’equilibrio viene classificato come: 15 Per poter misurare l’EQUILIBRIO ECONOMICO si utilizzano degli indici: ROE (Return on Equity): dato dal rapporto tra risultato economico netto e capitale proprio, considera le capacità reddituali del capitale di rischio. ROI (Return on Investment): rapporto fra il reddito operativo e il totale del capitale investito, misura la capciatà della gestione caratteristica di generare ritorni reddituali. Questi due indicatori vanno confrontati in quanto possono far capire all’imprenditore se fare ricorso all’indebitamento o meno per finanziare determinati progetti. Si parla di EFFETTO LEVA ed identifica quella situazione per cui con un ROI superiore al costo del capitale di credito, la maggior disponibilità delle risorse agisce come moltiplicatore della reddittività del capitale proprio (aumento del ROE). L’EQUILIBRIO PATRIMONIALE si basa sulla seguente equivalenza: ATTIVO = PASSIVO + NETTO cui ultimo elemento costituisce la differenza dei valori attivi e dei valori passivi i quali variano per via degli effetti della gestione. L’EQUILIBRIO FINAZIARIO si misura anch’esso su una formulazione semplice: Fabbisogno totale (F) = Fabbisogno fisso (Ff) + Fabbisogno variabile (Fv). Quest’ultima grandezza è costituita dal fabbisogno iniziale remunerato per il tasso di rinnovo del capitale. Le tre tipologie di equilibrio dell’impresa sono tra loro interconnesse. Una ridotta disponibilità finanziaria impedisce di attuare politiche di investimento cui si ripercuoteranno sulla capacità reddituale dell’impresa. Il sistema impresa dunque, per la sua connotazione sociale e per il suo inserimento nell’ambiente è in continua evoluzione e richiede un costante adeguamento della struttura e quindi del suo libro. L’esigenza di garantire tale condizione, impone che la struttura operativa sia elastica tale che il sistema risulti efficiente al mutare dell’ambiente. Si ritiene dunque precisare la natura dei costi; si parla dei costi: si parla di COSTI FISSI quegli oneri che non mutano al variare delle quantità prodotte; in caso contrario si parlerà di COSTI VARIABILI. Questi ultimi sono sensibili al mutare dei volumi di acquisto in maniera più che proporzionale (COSTI PROGRESSIVI) o meno che proporzionali (COSTI REGRESSIVI). Per misurare il perseguimento dell’efficienza si calcola il punto di equilibrio, denominato anche BREAK EVEN POINT cui strumento possiamo determinare la quantità di equilibrio per conseguire il pareggio tra costi e ricavi. 16 Tornando all’ORGANO DI GOVERNO; abbiamo notato quanto è fondamentale conoscere lo spazio del nostro sistema impresa in 3 dimensioni: ambiente, contesto, settore. Nell’approccio sistemico vitale ciò che risulta determinante ai fini delle decisioni è lo studio dei fenomeni che si manifestano nell’ambiente. La scelta dei fenomeni definisce il contesto cui appare vincolato alle decisioni assunte dall’O.G. Il settore invece è una dimensione che attiene l’ambito e il confine. La naturale coesistenza del sistema impresa con le altre entità dell’ambiente comporta un interscambio di flussi (informazioni, beni, denaro, ecc.), perciò, il motivo per cui l’impresa è un sistema “parzialmente aperto”, va rintracciato nell’esigenza di regolare tali flussi. Tale compito spetta all’organo di governo che dovrà continuamente determinare il grado di apertura con sovra-sistemi di riferimento. In questa prospettiva, deve osservarsi il ruolo dello Stato nell’economia, che, anche in condizioni di libero mercato, interviene quando debbano perseguirsi obiettivi di pubblica utilità e di salvaguardia del singolo; e ciò in quanto alcuni elementi e componenti del sistema economico possono o devono essere coordinati e controllati, attraverso l’emanazione di norme. Lo Stato assume così i connotati propri di un sovra- sistema rilevante per l’impresa. Esiste, dunque, un rapporto biunivoco tra l’impresa e l’ambiente, poiché la prima, venendo quotidianamente in contatto diretto con l’ambiente ne recepisce le tendenze, le quali condizioneranno il suo atteggiamento. Parimenti, le imprese, con le loro scelte e decisioni, possono determinare innovazioni e mutamenti nell’assetto dell’ambiente. 17 Le relazioni tra impresa e ambiente non sono facilmente prevedibili e la causa di questa difficoltà risiede nella stessa indole dell’impresa, la quale ha connaturato il carattere dell’innovazione. In questa prospettiva può interpretarsi la teoria di Schumpeter secondo il quale esistono tre momenti nel processo innovativo: l’idea, l’innovazione, la diffusione dell’innovazione. Quando un’idea ha i connotati di un’utilità economica viene applicata in campo aziendale, diventando così innovazione. Quest’ultima comporta una modifica più o meno decisiva nel mercato poiché essa modifica i precedenti comportamenti impedendo ai competitors la sua adozione, determinando così il terzo momento, ovvero la diffusione dell’innovazione. Il citato economista definiva l’innovazione come un processo di “distruzione creatrice”, poiché essa annulla il precedente stato e crea nuove condizioni operative. La dotazione di un modello concettuale, volto alla comprensione del contesto e dei fenomeni che in esso si manifestano, è un imperativo essenziale per l’organo di governo. La conoscenza riduce la numerosità degli elementi ignoti presenti in un determinato fenomeno ed identificabili come quegli eventi che l’organo di governo non è in grado di percepire e prevedere. Un’altra categoria è quella degli elementi noti che l’organo di governo o è in grado solo di cogliere, nel qual caso saranno “non comprensibili”, o anche di interpretare le loro dinamiche passando così alla categoria dei fenomeni noti e “comprensibili”. La conoscenza, dunque, agevola il percorso decisionale, poiché consente all’organo di governo di scegliere il percorso meno difficoltoso. La previsione degli eventi dannosi per l’impresa consente all’organo di governo la predisposizione di azioni preventive volte a ridurre i risvolti economicamente negativi da essi rilevanti. Si ha, quindi, che: maggiore conoscenza = minori rischi = sopravvivenza del sistema. Dalla classificazione degli eventi e dalla precedente relazione discendono anche alcune considerazioni in merito al concetto di rischio. Se il rischio è la condizione cui è sottoposta l’impresa e deriva dal manifestarsi di fenomeni interni ed esterni ad essa, allora la conoscenza del fenomeno può limitare il verificarsi di un dato rischio o comunque può agevolare il contenimento dei danni che esso cagiona. Seguendo questa impostazione possono distinguersi i: − rischi aleatori, che l’organo di governo è in grado di prevedere conoscendo il fenomeno generatore; − rischi di non conoscenza, che derivano da fenomeni assolutamente ignorati, per carenza informativa, durante il processo decisionale attuato dall’organo di governo. Vi sono tre condizioni che influiscono sulla comprensione e sul conseguente comportamento dell’impresa, ovvero la tipologia del fenomeno, il livello di conoscenza e le caratteristiche dell’impresa. Nel momento in cui si manifesta un fenomeno nuovo, l’impresa avrà un elevato grado di non conoscenza; essa è cioè priva di qualsiasi bagaglio di esperienza e di cognizione utile a delineare i contorni del fenomeno che così appare non comprensibile. Da questo momento in poi è possibile classificare i sistemi, rispetto al loro atteggiamento, in tre categorie: − IMPRESE CHIUSE, il cui organo di governo non si attiva per comprendere il fenomeno. Queste imprese appaiono incapaci di essere correttamente inserite nel contesto di riferimento; − IMPRESE IMITATRICI, le quali assumono un atteggiamento di attesa, poiché, pur nella consapevolezza di essere dinanzi ad un fenomeno nuovo con connotati difficilmente comprensibili, aspettano lo studio e l’intervento di altre imprese sulla cui scia si inseriranno per le decisioni e l’operatività; 18 − IMPRESE INNOVATRICI, che si impegnano nella ricerca di comprensione del fenomeno. Tali imprese ricercano nell’innovazione il loro percorso strategico poiché convinte del fondamentale ruolo ricoperto da tale risorsa anche in termini di barriere all’ingresso per gli altri competitors. Sulla base di tale rappresentazione è possibile effettuare una sostanziale differenza tra un’impresa leader (che può trovarsi nella capacità di riconoscere per prima i fattori di cambiamento e di guidare la struttura verso lo sviluppo e la sopravvivenza) e le altre. Alla base di tutto diventa fondamentale un supporto informativo, inteso non solo come infrastruttura informatica, ma come organico impianto volto alla circolazione dei flussi informativi interni ed esterni. Con il termine settore si suole identificare quella parte dell’ambiente economico in cui si manifestano le dinamiche competitive tra imprese legate da vincoli di omogeneità. L’economia manageriale, nell’ambito della ricerca che mira ad indagare la sostituibilità dell’offerta e della domanda e l’interdipendenza degli operatori, considera alcuni postulati necessari quali: la disomogeneità delle imprese, che complica il perseguimento di equilibri di mercato; la necessità di considerare contestualmente le variabili interne ed esterne al sistema aziendale; l’importanza della conoscenza empirica del mercato e delle imprese che lo compongono; la concezione sistemica dell’impresa e del suo ambiente di riferimento, per la quale ogni azione genera una reazione talvolta imprevedibile. La dottrina economico-manageriale, muovendo da tali presupposti, definisce analisi settoriale l’esame di un insieme omogeneo di unità produttive, finalizzato al raggiungimento di una visione scientifica e quanto più realistica possibile delle condizioni di vita delle imprese, nonché dei rapporti tra le unità predette. L’originalità di questo approccio di ricerca consiste nel considerare l’impresa non come un soggetto autonomo, ma inserito in un ambiente di riferimento nel quale si ritrovano alcuni elementi di comunanza con gli altri operatori. In quest’ottica, opera, cresce e si sviluppa l’impresa che rimane un soggetto economico unico e irripetibile, in quanto essa risente dei condizionamenti propri della componente umana, che la guida spesso in maniera originale. In linea di principio generale, allora, è necessario procedere all’osservazione dei fenomeni seguendo una logica di creazione di insiemi omogenei, dai quali poter astrarre una teoria che si possa tenere relativamente valida. L’analisi di settore diventa un supporto informativo utile per ridurre la complessità ambientale poiché consente il monitoraggio di quella parte dell’ambiente che risulta influente per il raggiungimento delle finalità del sistema impresa. Nell’impostazione dei modelli di analisi di settore, risulta indispensabile ridurre il numero dei fenomeni da osservare attraverso la ricerca di un denominatore comune che consenta di classificare un’intera area competitiva. 19 Alcuni modelli di analisi settoriale: MODELLO STRUTTRA-CONDOTTA-PERFORMANCE: Alla base dell’impostazione di questo paradigma vi è lo studio della composizione del settore, ovvero della struttura, che viene realizzata in base alle sue barrire all’ingresso, alla concentrazione e alla differenziazione dei prodotti. Il modello presupponeva che queste variabili condizionassero i comportamenti delle imprese e quindi i loro risultati ma i cambiamenti di mercato e le crescenti ricerche di miglioramento gestionale hanno determinato la ricerca di comportamenti strategici (condotte) che in alcuni casi prescindono dal ristretto ambito settoriale, per abbracciare una dimensione estremamente allargata. 20 MODELLO PORTER: Un altro importante contributo teorico, finalizzato all’analisi dei comportamenti aziendali inquadrandoli nel settore di riferimento dell’impresa, è quello definito dell’approccio strategico, proposto da Porter. Con tale modello si pone in risalto la capacità dell’impresa di modificare il proprio ambiente competitivo ed esso ha rappresentato un’innovazione poiché, oltre ad elevare l’importanza del ruolo dei clienti e dei fornitori, ha incluso elementi in precedenza non considerati nelle indagini aziendali (i potenziali nuovi entranti ed i prodotti sostitutivi). 21 MODELLO GINI: Un parametro utile ad esaminare il settore è quello volto ad individuare il “LIVELLO DI CONCENTRAZIONE” (ove per concentrazione s’intende la presenza numerica delle imprese operanti e il loro potere di mercato) dato dal rapporto tra il fatturato delle imprese maggiormente rappresentative e le vendite complessive del settore. La concentrazione aumenta al crescere della quota di mercato di poche imprese, poiché detta crescita segnala la capacità di influenzare tanto la domanda quanto l’offerta. Una misurazione del livello di concentrazione può effettuarsi per mezzo della curva di Lorenz, che utilizza il calcolo dell’indice di concentrazione basato sul numero totale delle imprese del settore focalizzato. Il massimo grado di concentrazione si verifica in situazioni di monopolio dove un’unica impresa controlla l’intera domanda ed offerta. Una situazione più attenuata della precedente, è l’oligopolio che esprime il caso di poche imprese che controllano tutto il mercato. L’indice di concentrazione complessiva, o coefficiente di Gini, è dato dal rapporto tra l’area di concentrazione e l’area sottostante la retta di equidistribuzione. Esso varia tra 0 (concorrenza) e 1 (monopolio). 22 CAPITOLO 4 – LA GESTIONE DEI RISCHI D’IMPRESA: TECNICHE DI COPERTURA E STRUTTURA OPERATIVA Le decisioni dell’impresa, poiché riguardano situazioni future implicano incertezza, ovvero un certo grado di rischio. Non vi è rischio senza incertezza. Si parla di RISCHI DI NON CONOSCENZA quelle situazioni ambientali del tutto ignote all’organo di governo, ove è possibile individuare i RISCHI ALEATORI, allorché l’osservatore si sposti dall’area della non conoscenza all’area della complicazione, riconducendo l’indeterminatezza dei fenomeni alla loro comprensibile varietà. Il rischio piò essere associato alle previsioni implicite in una decisione e denota l’eventualità di scarti più o meno forti e probabili dei risultati delle aspettative; gli eventi di rischio si distinguono rispetto: a) Alle cause naturali, economico-sociali, contrattuali etc., che li determinano b) Al carattere unilaterale o bilaterale dei loro effetti c) Alla conoscenza che ne hanno gli operatori, consistente o in una generica consapevolezza della possibilità di danno, il cui effettivo manifestarsi è però ignoto (RISCHIO IN SENSO STRETTO), ovvero in piena cognizione di eventi che non sono noti nella sussistenza, ma ignoti nella entità dei rispettivi effetti. Le problematiche dei rischi d’impresa sono riconducibili sia alla gestione delle negoziazioni commerciali sia all’utilizzo della LEVA OPERATIVA e della LEVA FINANZIARIA. La gestione d’impresa fronteggia costantemente assumendo internamente o trasferendo all’esterno differenti gradi di rischio generati dalla propria interazione con i mercati e con il contesto ambientale. L’azione di governo in questo caso si configura come un’evoluzione della struttura operativa cui rappresenta l’effetto delle decisioni di investimento dell’O.G. le quali sono normalmente identificabili nello stato patrimoniale. La funzione di governo attua le politiche di finanziamento integrando con il sovra-sistema finanziario e determinando la composizione delle relative fonti di capitale. Ne deriva che la dimensione patrimoniale dell’impresa è il risultato di tali decisioni di finanziamento, intese essenzialmente sia come scelta tra il capitale di terzi e il capitale di rischio, sia come composizione degli stessi: le risorse finanziarie possono pervenire all’azienda da diverse fonti e possono essere vincolate in forme molto varie. La problematica del rischio è affrontata nell’Approccio Sistemico Vitale cui porta ad arricchire la portata delle interpretazioni passate e ad aggiungere una pregnante valenza normativa che è entrata nel sistema economico. L’ASV riconosce due tipi di rischi a) RISCHIO ALEATORIO: conseguenza di eventi che l’impresa è capace di collocare nel campo della varietà grazie alle proprie capacità di lettura attraverso gli strumenti di calcolo finanziario. Ad oggi l’organo di governo può identificare gli eventi futuri, stabilire la probabilità di manifestazione e quindi valutare razionalmente le possibili conseguenze del loro verificarsi. b) RISCHIO DI NON CONOSCENZA: imputabile a quegli eventi che sono ignoti all’impresa o che il suo organo di governo non ritiene considerare in quanto non riesce a valutare la probabilità del manifestarsi e le eventuali conseguenze sui risultati attesi. 23 La rischiosità viene collegata alla possibilità che il risultato economico effettivo possa presentare scostamenti rispetto a quello atteso. Tale possibilità viene a sua volta ricondotta al rischio di non conoscenza e/o all’insufficiente capacità di valutare il rischio aleatori. Se le informazioni sono ricche ma la comunicazione interna all’azienda è scarsa, abbiamo la conoscenza del rischio futuro ma non siamo in grado di attuare un programma di gestione dello stesso. LIVELLO DI INFORMAZIONI, CONOSCENZE, KNOW-HOW ELEVATE Opportunità e pericoli noti, Opportunità e pericoli con assenza di programmi tempestivamente di azione identificati e gestiti proattivamente SCARSE Opportunità e pericoli Opportunità e pericoli ignorati valutati male RIDOTTA SIGNIFICATIVA LIVELLO DI COMUNICAZIONE Di conseguenza le strategie di governo del rischio in ottica sistemica possono essere ricondotte al trasferimento contrattuale ovvero alla RITENZIONE. La ritenzione può estrinsecarsi nelle forme di autoassicurazione o nelle capacità dell’impresa specifica atte a proteggersi dal possibile verificarsi di eventi di rischio. Lo sviluppo di una profonda cultura del rischio rappresenta un’impostazione qualificata nell’organo di governo tanto da divenire un aspetto fondante della vitalità del sistema impresa. Il rischio è stato concepito principalmente quale fenomeno prevalentemente correlato all’incertezza degli eventi macroeconomici ed alle inadempienze delle controparti nelle operazioni transattive riconducibili ai rapporti tra l’impresa e i suoi principali interlocutori, collocati in un contesto ben preciso. L’impresa in generale fronteggia le seguenti situazioni di rischio: RISCHIO DI MERCATO: derivante dall’anticipata acquisizione dei fattori della produzione sulla base di previsioni di vendita fatture RISCHIO DI ESERCIZIO derivante dall’anticipata acquisizione di commesse cui processo di produzione e relativa acquisizione dei fattori produttivi si realizzerà nel futuro. L’impresa si relazione sia nella fase di approvvigionamento sia nella fase distributiva con operatori esterni cui rischi possono essere classificati in questa maniera: a) DELIMITAZIONE DI LATIDUTIDINI CONTRATTUALI: le clausole che stabiliscono gli adempimenti cui ciascuna parte è tenuta e che ne delimitano le facoltà la espongono all’incertezza di determinazione connessa alle modalità di esecuzione della controparte b) ATTRIBUZIONE DEI RISCHI IN SENSO STRETTO: le clausole possono disciplinare le conseguenze sulle parti di eventi fortuiti derogando alle regole generali sul passaggio della proprietà e dei rischi previsti per la compravendita. c) DISCIPLINA DEI CASI DI INADEMPIMENTO: le clausole regolamentano le ipotesi di inadempimento, rendendole non convenienti mediante clausole penali caparre confirmatorie. 24 La COMPRAVENDITA costituisce il rapporto fondamentale di scambio dei beni economici e comporta il trasferimento della proprietà degli stessi. Pertanto la necessità di risolvere le asimmetrie connaturate all’incontro tra domanda ed offerta impongono il riscorso agli INTERMEDIARI ED AUSILIARI DEL COMMERCIO determinandone l’utilità dei mercati organizzati. Generalmente accade che: − La merce sia disponibile e debba essere consegnata dal venditore in un momento differente da quelli in cui l’acquirente possa riceverla, rendendo necessario il deposito della stessa presso terzi; − La merce sia disponibile e debba essere consegnata dal venditore in un luogo differente da quello in cui l’acquirente possa riceverla, rendendo necessario il trasporto da parte di terzi, anche tra Paesi differenti con transiti presso le dogane; − La merce sia depositata o traportata, essendo esposta a rischi, che è opportuno siano coperti da assicurazione; − La merce sia pagata al venditore, al quale il compratore deve far pervenire i fondi nei modi e nei tempi concordati, utilizzando i servizi offerti dagli istituti di credito; − La merce possa non essere immediatamente pagata dall’acquirente al venditore, il quale può farsi anticipare finanziariamente il credito, cedendolo alle aziende di factoring. I mercati organizzati presentano il carattere di svolgersi in un luogo determinato, fisso o virtuale che sia, in cui gli operatori commerciali si riuniscono per la trattazione degli affari. Tale luogo assume forme idonee alle necessità del mercato, appositi regolamenti che disciplinano l’ammissione nei luoghi ed alle contrattazioni, i tipi di contrattazioni con le relative modalità e condizioni di vendita, la concessione di garanzie per i contratti in essi stipulati e la procedura arbitrale per la rapida risoluzione delle controversie. Tra le diverse funzioni svolte dai mercati organizzati, va evidenziata l’importanza dell’utilità nella copertura dei rischi degli operatori. In particolare, gli operatori del mercato possono attuare tecniche di copertura dei rischi operando sul mercato a termine e realizzando operazioni coordinate di hedging. Un operatore commerciale che si impegnasse contrattualmente a consegnare (ritirare) una determinata merce tra sei mesi si espone al rischio connesso agli eventuali possibili rialzi (ribasso) di prezzo della stessa. Allora, lo stesso operatore provvede a gestire tale rischio, decidendo di attuare diverse possibili strategie: − assumendosi tale rischio, senza alcune copertura, confidando nella possibilità di avvantaggiarsi dei possibili ribassi (rialzi) del mercato; − trasferendo totalmente il rischio, coprendosi interamente sul mercato a termine, concludendo una operazione simmetrica opposta di pari entità; − trasferendo parzialmente il rischio, coprendosi in parte sul mercato a termine, concludendo una operazione simmetrica opposta di entità ridotta. 25 Inoltre, gli operatori che assumono posizioni commerciali rischiose possono ricorrere all’acquisto di opzioni, ovvero alla conclusione di contratti a premio, con i quali acquisiscono oggi la facoltà di poter esercitare alla scadenza una operazione di acquisto (call option), oppure di vendita (put option) al prezzo prefissato, detto prezzo di esercizio. Il rischio dell’impresa è determinato nell’ambito della dimensione reale, da azioni commerciali di marketing, di approvvigionamento, di magazzinaggio ecc. che hanno essenzialmente origine commerciale ed operativa che vengono tradotti in termini finanziari numerici. Ciò richiede la necessità che un sistema decisionale effettui delle previsioni al fine di quantificare non solo il rendimento atteso dell’attività dell’impresa ma anche il grado di rischio della stessa. RENDIMENTO e RISCHIO sono i riferimenti guida delle decisioni dell’organo di governo dell’impresa e del sovra-sistema finanziario con cui la stessa interagisce. Se ci trovassimo di fronte a situazioni di incertezza dobbiamo individuare le variabili significativamente influenti sul progetto da realizzare e fare delle ipotesi circa la loro evoluzione. Il tutto quantificabile mediante due strumenti: la MEDIA, misuratore sintetico del fenomeno e lo SCARTO QUADRATICO MEDIO il quale misura la dispersione del fenomeno intorno al valore medio. La misura del rischio è data dalla dispersione dei diversi probabili risultati: un business risulta tanto rischio quanto più i possibili risultati che da esso conseguono sono dispersi intorno al valore atteso; si parla di VOLATILITA’. Nell’impostazione classica l’AVVERSIONE AL RISCHIO indica il rapporto di scambio tra rendimento atteso e livello di rischio (espresso dallo s.q.m.); la relazione è la seguente: U = E ( R ) – A σ2.. Altro misuratore è la VARIANZA data dalla sommatoria dei prodotti dei quadrati degli scostamenti dei singoli risultati dalla media e delle corrispondenti probabilità. È il quadrato dello s.q.m. Da esso si determina la variabilità, che rappresenta l’effetto dell’esposizione al rischio rendendo ampio il concetto di rischio in quanto si indicano le cause e le conseguenze; le tolleranze intese come capacità di assorbimento degli effetti negativi; le reattività intese come capacità di attivare un processo decisionale in tempi ridotti. Le decisioni dell’organo di governo richiedono considerazioni ed analisi dei rischi riconducibili alla natura dei costi della struttura operativa impiegata per la realizzazione del progetto di business, anche al fine di individuare il “punto di pareggio” (Break-Even Analysis). È possibile distinguere i costi di struttura ed i costi di utilizzo della struttura, considerando che tali categorie possono essere relazionate a quelle tradizionali dei costi fissi e dei costi variabili. Il modello di analisi del punto di pareggio consente di individuare il livello di produzione da realizzare e vendere, nel quale i ricavi uguagliano i costi totali. Esso viene quantificato come rapporto tra costi fissi e margine di contribuzione unitario [Cf/(p[Cv)], nell’ipotesi di andamento lineare delle funzioni dei costi variabili e dei ricavi di vendita. A parità di prezzo del prodotto/servizio finale, l’impresa strutturata con una tecnologia ad elevati costi fissi e bassi costi variabili, avrà una maggiore leva operativa, ovvero un margine di contribuzione superiore a quello dell’impresa caratterizzata da una tecnologia a bassi costi fissi ed elevati costi variabili. Ovviamente il management sceglierà la struttura operativa sulla base del grado di certezza di superamento del punto di pareggio. 26 Alcune imprese si caratterizzano per una elevata incidenza dei costi di struttura, rispetto a quelli connessi all’utilizzo della stessa, ed un elevato livello di leva operativa. Infatti, la ricerca dell’efficienza ed efficacia gestionale, può sollecitare l’organo di governo a propendere verso forme di struttura operativa caratterizzate dalla prevalenza dei costi di struttura con una capacità produttiva significativa, idonea a generare un consistente flusso di prodotti e servizi finalizzato al raggiungimento di una dimensione minimale critica. La struttura operativa basata su elevati costi fissi generalmente incrementa il livello di attività in cui si raggiunge il punto di pareggio; ed inoltre, il superamento dello stesso genera rilevanti utili per l’impresa, mentre al contrario il suo mancato raggiungimento determina consistenti effetti negativi sul risultato economico. In generale, può affermarsi che le imprese con elevati costi di struttura, puntano alla massima espansione, per poter superare il punto di pareggio e riuscire a conseguire i consistenti margini di profitto, assicurati dalla significativa leva operativa. Non sempre il superamento del punto di pareggio può essere conseguito agevolmente: a volte esso richiede accorte politiche commerciali di promozione delle vendite con riduzione dei prezzi, necessarie ad espandere ed incrementare le quantità domandate nei casi in cui si riscontrano livelli più elevati di elasticità della domanda rispetto al prezzo: queste politiche possono esporre l’impresa al pericolo di intraprendere sentieri viziosi di espansione, caratterizzati dalla riduzione del margine di contribuzione, con conseguente significativo peggioramento dei margini di profitto, come testimoniato dall’operato di alcune Internet company. CAPITOLO 5 – LE DECISIONI DI INVESTIMENTO E FINANZIAMENTO. Il governo e la gestione di impresa sono un sistema di decisioni ciascuna delle quali è vincolata dalle precedenti e vincola le future. Queste decisioni si risolvono sia sul piano esecutivo, sia sul piano indicativo. L’insieme delle attività realizzate dall’impresa è rutto di un processo decisionale che implica scelte di breve, medio, lungo termine con la finalità di creare VALORE ECONOMICO. Le decisioni di lungo periodo costituiscono le DECISIONI DI INVESTIMENTO, fondamentali per la determinazione del successo o del fallimento dell’impresa. Esse comportano un esborso monetario iniziale per profitti che sono realizzati in futuro. Le scelte di investimento effettuate dall’impresa rappresentano gli impieghi cui sono stati destinati i finanziamenti raccolti, ma sono anche riscontrabili valori non emergenti dalla contabilità. Riguardo l’organizzazione decisionale, le imprese realizzano il PROCESSO MANAGERIALE DI PIANIFICAZIONE STRATEGICA cui si completa con la sua attuazione. Una efficiente gestione d’investimento richiede un valido organo decisionale in grado di produrre proposte di investimento; quantificare i flussi di cassa derivanti da ogni proposta, valutando successivamente i flussi di cassa stessi; selezionare le proposte sulla base di un criterio di accettazione e una volta accettato l’investimento, riesaminare continuamente i suoi progetti. Gli investimenti possono essere di natura materiale o immateriale. 27 La quantificazione dei flussi di cassa è uno degli aspetti più delicati del CAPITAL BUDGETING, processo di formazione di un preventivo di raccolta e di gestione dei fondi per il finanziamento degli investimenti, dato che la bontà delle previsioni e la precisione delle stime influenza in modo determinante la correttezza dei risultati finali. Di ogni proposta di investimento si dovrà, quindi, ottenere un prospetto temporale dei flussi di cassi incrementali netti attesi. Il metodo è del tutto finanziario, e non reddituale, poiché saranno quantificate le entrate al netto delle uscite, e non i ricavi al netto dei costi di competenza; ed inoltre, i flussi di cassa saranno considerati solo in termini di variazioni, considerando irrilevanti i costi passati, ma computando i costi opportunità, cioè quelli derivanti dalla rinuncia ad alternative di investimento. Saranno ricomprese nelle stime le imposte, mentre non lo saranno gli oneri finanziari, che dipendono dal costo delle fonti di finanziamento dell’impresa, costituito sia dal costo del debito considerato al netto del risparmio di imposte conseguente alla deducibilità fiscale degli stessi oneri finanziari, sia dal costo implicito del capitale proprio. La valutazione dei flussi di cassa dei progetti di investimento può essere effettuata secondo criteri che impiegano la tecnica dell’attualizzazione (il valore attuale netto e il tasso interno di rendimento), o che non la impiegano (il periodo di reintegrazione e la redditività media dell’investimento). Il periodo di reintegrazione è definito come il numero di anni entro i quali ci si aspetta di poter recuperare gli esborsi iniziali. La regola del periodo di reintegrazione per l’effettuazione delle decisioni di investimento prevede che, fissato un particolare tempo limite, siano accettati tutti i progetti con un tempo di recupero inferiore e siano respinti tutti i progetti con un tempo di recupero superiore. Il criterio del periodo di reintegrazione è una sorta di break-even temporale che misura, approssimativamente, sia l’arco temporale di impiego dei fondi investiti, sia il grado di liquidità del progetto, inteso come capacità di rimborsare velocemente il capitale investito. Esso presenta i limiti di non tenere in alcuna considerazione né la dimensione dei flussi di cassa disponibili dopo il rientro dell’investimento iniziale, né la scansione temporale dei flussi di cassa all’interno del periodo di recupero. Il criterio del periodo di reintegrazione è indicato per la valutazione di progetti di investimento da realizzarsi all’estero in regioni con elevata incertezza politica o con considerevole rischio Paese, poiché è proprio in tali contesti che assume particolare importanza la velocità di recupero del capitale investito. Il ROI è facilmente determinabile come rapporto tra la media dei flussi di cassa annui al netto dell’esborso iniziale e lo stesso esborso iniziale. Considerando due progetti A e B, se l’investimento B presenta una redditività media superiore a quella del progetto A, allora esso sarà preferito, sebbene A presenti flussi di cassa più elevati in determinati anni. È evidente che tali criterio presenti dei limiti, nella misura in cui non tiene conto del momento in cui i flussi di cassa si realizzano, dando lo stesso peso a flussi di cassa vicini o lontani nel tempo. Tuttavia, tale sistema è abbastanza utilizzato per la sua semplicità. 28 Un più efficace criterio di valutazione è quello del valore attuale netto, che quantifica il valore della sommatoria algebrica dei flussi di cassa netti dell’investimento, attualizzati ad un congruo tasso, procedendo secondo tre fasi: − Individuazione del valore attuale di ciascun flusso di cassa in entrata o in uscita, scontato ad un tasso pari al costo del capitale necessario a finanziare il progetto di investimento; − Effettuazione della sommatoria algebrica dei flussi di cassa attualizzati, definita valore attuale netto (VAN); − Accettazione del progetto se il VAN risulta positivo e rifiuto del progetto se il VAN risulta negativo, ovvero preferenza per i progetti di investimento a più elevato valore attuale netto. Il VAN è dato dalla sommatoria dei flussi di capitali attualizzati. Qualora si volesse ragionare esclusivamente in termini di flussi di cassa in entrata, si quantificherebbe il valore attuale (VA), considerato al lordo dell’esborso iniziale, come sommatoria dei flussi di cassa positivi dell’investimento, attualizzati ad un congruo tasso, procedendo, quindi, secondo tre fasi: − Individuazione del valore attuale di ciascun flusso di cassa in entrata, scontato ad un tasso pari al costo del capitale necessario a finanziare il progetto di investimento; − Effettuazione della sommatoria algebrica dei flussi di cassa positivi attualizzati, definita valore attuale (VA); − Accettazione del progetto se il VA risulta maggiore dell’esborso iniziale e rifiuto del progetto se il VA risulta inferiore all’esborso, ovvero preferenza, a parità di esborso iniziale, per i progetti a più elevato valore attuale. Si definisce “TASSO INTERNO DI RENDIMENTO” il tasso di attualizzazione (r) che uguaglia a zero la differenza tra il valore attuale della sommatoria dei flussi di cassa netti in entrata generati dal progetto ed il valore attuale della sommatoria dei flussi di cassa netti in uscita, ovvero il tasso di attualizzazione che annulla il VAN dei flussi di cassa dell’investimento. In simboli Conoscendo il valore di ciascun flusso di cassa ed uguagliando a zero la sommatoria, l’incognita da ricercare è il tasso r, il cui valore è definito TIR. Il limite di questo criterio consiste nell’ipotesi implicita che i flussi di cassa ottenibili dal progetto siano reinvestiti a rendimenti pari allo stesso TIR, ipotesi verosimile solo per livelli di TIR non molto elevati o per disponibilità continua di opportunità di investimento della medesima qualità del progetto in valutazione. L’EVA è un criterio misto di valutazione che misura la ricchezza creata dall’impresa, intesa come valore attuale della differenza tra il reddito operativo dopo le tasse, monetariamente disponibile per i finanziatori dell’impresa e la redditività normale del capitale, pari al WACC. L’EVA corrisponde, quindi, alla maggiore remunerazione, rispetto a quella “normale”, generata dagli investimenti. Tale maggiore remunerazione determina l’eccedenza del valore di mercato degli assets dell’impresa (MVA, market value added), rispetto al loro valore contabile rettificato (VCR) con l’aggiunta dei fondi di ammortamento e delle riserve latenti. Vassets = VCR + MVA MVA = Σ [NOPAT-(WACC*VCR)] / (1+WACC)t 29 Il NOPAT (net operating profit after taxes) è il reddito operativo netto d’impresa calcolato anno per anno, rettificato con l’aggiunta delle risorse finanziare effettivamente generate dalla gestione. I problemi applicativi di tale metodologia derivano essenzialmente dalle difficoltà di determinazione di un congruo WACC. Le imprese in grado di creare ricchezza intraprendono, dunque, progetti di investimento idonei a determinare valori positivi di MVA che, se correttamente stimati da mercati finanziari efficienti, incrementano il valore di mercato delle imprese stesse. Al contrario, le imprese che non sono in grado di esprimere valori positivi di MVA, distruggono valore e sono penalizzate nella valutazione dei mercati finanziari. L’EVA è, quindi, uno strumento di misurazione della performance operativa e finanziaria dell’impresa che ben si presta ad orientare la gestione aziendale value-based management verso l’obiettivo dell’incremento del valore economico dell’impresa, come un qualsivoglia investimento. Sebbene la teoria finanziaria aziendale non abbia raggiunto una chiara posizione rispetto all’individuazione di un modello idoneo a spiegare come sia possibile definire un rapporto di indebitamento in corrispondenza del quale si riconosca un’ottima struttura finanziaria, le decisioni di finanziamento, che determinano la struttura finanziaria d’impresa, sono generalmente riconducibili al profilo rischio/rendimento inteso quale ponte tra sovra[sistema finanziario e sistema impresa. Tra le diverse tesi elaborate, si ritiene utile evidenziarne sinteticamente le principali, le cui conclusioni sono correlate all’analisi dei concetti di rischio, di condizioni di incertezza, di asimmetria informativa e di equilibrio tra gli stakeholders. Il grado di indebitamento o leva finanziaria, è rappresentato dal rapporto tra il capitale di credito (D) e capitale di rischio (S). Si dimostra che all’aumentare del grado di indebitamento, aumenta il tasso di rendimento richiesto sul capitale di rischio. ROE = ROI + (D/S) (ROI-i) La teoria della finanza aziendale ha dimostrato che l’indebitamento può generare vantaggi fiscali oppure svantaggi. Con il passare del tempo si sono sviluppate le spiegazioni del leverage finanziario che evidenziano alcuni svantaggi connessi con l’indebitamento e contrapposti ai vantaggi fiscali dello stesso. Gli effetti negativi di un elevato indebitamento sono i costi di fallimento, i costi di agenzia e la minore probabilità di utilizzare interamente il vantaggio della deducibilità di altri costi quali gli ammortamenti. Esisterebbe, quindi, un trade-off tra svantaggi e vantaggi del debito. Alla considerazione dei costi di fallimento possono essere ricondotte due affermazioni relative alle scelte finanziarie: − Le imprese che realizzano piani di business più rischiosi dovrebbero indebitarsi di meno per ridurre le probabilità di incorrere in situazioni di crisi finanziarie; − Le imprese, il cui attivo è costituito essenzialmente da immobilizzazioni materiali facilmente cedibili sul mercato dell’usato dovrebbero indebitarsi più delle imprese con gran parte degli impieghi in attività immateriali, legate all’impresa e difficilmente cedibili in caso di liquidazione. Il leverage finanziario dell’impresa può, così, essere pensato come determinato dal trade-off di costi e benefici derivanti dall’indebitamento, fermi restando i piani di investimento e la composizione delle attività dell’impresa. L’impresa viene vista continuamente impegnata a 30 bilanciare i vantaggi fiscali della deducibilità degli oneri finanziari dal redito imponibile, con i costi relativi alla leva finanziaria. CAPITOLO 6 – NUOVE TENCOLOGIE E PRODUZIONE Grazie all’ingente rivoluzione tecnologica degli ultimi anni si ha la necessita di creare uno schema organizzativo il cui permette una funzione armonica e coordinata delle risorse di un’impresa, che siano umane o tecniche, al fine di raggiungere gli obbiettivi prefissati. Un fenomeno particolare è la SPECIALIZZAZIONE DELLE MANSIONI che pone come obbiettivi la riduzione degli errori e l’incremento della produttività; che hanno portato poi allo sviluppo della PRODUZIONE DI MASSA. Questo modello implica una costante riduzione dei costi unitari medi attraverso l’aumento dei volumi produttivi; si pensi all’organizzazione scientifica di Taylor, applicato nell’azienda automobilistica Ford, gli elementi essenziali del taylorismo possono riconoscersi nella: - STANDARDIZZAZIONE, ossia creazione di prodotti aventi tutte le stesse caratteristiche - SUDDIVISIONE DEL LAVORO, ogni operaio deve compiere poche attività nell’ambito di un processo che si sviluppa in sequenze - SPECIALIZZAZIONE DELLE FUNZIONI - MISURAZIONE dei tempi, dei costi e della produttività. Questo modello gestionale richiedeva però alcune condizioni: investimenti elevati, grandi dimensioni aziendali, rilevanti volumi produttivi. Il problema principale dell’impresa fu quello di cercare di soddisfare quella domanda che non aveva connotati particolari ma si caratterizzava per una marcata presenza di omogeneità la quale, considerata la modesta concorrenza, richiedeva alle imprese una loro differenziazione da ricercare soltanto attraverso la leva del prezzo. La produzione di massa, dunque, trova nella standardizzazione la sua maggiore espressione. In definitiva, nell’orientamento alla produzione risulta difficile riconoscere una concreta valenza delle politiche di marketing intese nella piena e condivisa accettazione; ciò in quanto le imprese erano attente in via esclusiva al contenimento dei costi, perché essi erano considerati la variabile centrale per la fissazione del prezzo di vendita che avveniva senza valutare opportunamente il valore percepito dal consumatore. Il rinnovamento di questa tendenza fu determinato dalle trasformazioni del mercato degli anni ’20 dello scorso secolo. La crescente competitività ed una tendenziale riduzione della domanda, richiesero alle imprese una revisione della loro impostazione; ciò in quanto la ricerca della leadership di prezzo e la conservazione del know-how tecnologico non erano più in grado di garantire la sopravvivenza. Si avvertì, così, l’esigenza di rivedere l’assetto organizzativo e tecnico produttivo al fine di rinnovare la capacità di offerta, avvicinandola ai mutevoli andamenti della domanda. Il mercato divenne un’area competitiva difficilmente governabile dalle imprese le quali, per raggiungere le proprie finalità, riconobbero nell’innovazione una nuova alternativa alla precedente impostazione strategica. 31 L’economista Schumpeter teorizzò l’esistenza di tre concetti collegati tra loro ma aventi autonome connotazioni: − l’invenzione, considerata come una manifestazione della conoscenza; − l’innovazione, intesa come capacità di realizzare nuove tecniche produttive; − la diffusione dell’innovazione, generata dalla capacità di imitazione dei concorrenti che riduce il vantaggio competitivo dell’imprenditore innovatore. Congiuntamente alla tecnologia, si considerano, quali elementi generanti lo sviluppo economico, i beni immateriali, in special modo la conoscenza e, quindi, il capitale umano, il cui ruolo in azienda è sempre più rivalutato sia come capacità manageriale di indirizzo e guida, sia come organizzazione ed esecuzione delle fasi operative. In verità, la conoscenza è sempre stata determinante nel sistema economico. L’impresa, infatti, riesce ad operare ed a progredire proprio per la sua capacità di apprendimento che rende possibile l’attuazione di processi di adattamento e sviluppo. In passato, gli elementi immateriali avevano un peso minore rispetto a quello attuale. L’ambito competitivo si è oggi spostato dalla capacità produttiva alla ricerca di differenziazione e di innovazione, condizioni che si possono ottenere non solo tramite la tecnica ma soprattutto attraverso la conoscenza, quindi, attraverso la valorizzazione del capitale umano che oggi assume nuovi connotati nell’ambito dell’organizzazione del lavoro. L’impiego informatico, in costante evoluzione ha consentito di conseguire elevati livelli di flessibilità nella programmazione della produzione. Infatti le nuove tecnologie informatiche sono state considerate come un FATTORE PRODUTTIVO CHIAVE perché rendono compatibili degli obbiettivi che sino ad ora erano considerati contrastanti: si pensi alla flessibilità delle economie di scala, qualità a basso costo, obbiettivi che hanno inciso nella struttura organizzativa e nel management. L’impiego informatico è caratterizzato per il suo basso costo di acquisizione; l’obbiettivo attraverso le nuove tecnologie non è solo di avere informazioni in tempo reale ma anche esternalizzare interi cicli produttivi (c.d. OUTSOURCING). Si è soliti fare riferimento a schemi di classificazione che collegano le tipologie dei sistemi produttivi agli obbiettivi strategici che si prestano a conseguire, in virtù dei seguenti elementi: grado di semplicità o complessità della struttura del prodotto; varietà e numerosità di prodotti realizzati; modalità di manifestazione della domanda da soddisfare il grado di standardizzazione e la consistenza del volume di produzione collocato sul mercato il processo di realizzazione adottato in relazione alle caratteristiche del volume di produzione collocato sul mercato il processo di realizzazione adottato in relazione alle caratteristiche intrinsiche del prodotto il grado di specializzazione o rigidità rispetto al grado di genericità o flessibilità delle componenti strutturali del sistema produttivo. 32 Possiamo ricondurre tutto a diversi modelli di produzione. Si parla di PRODUZIONE DI PROCESSO (o di PROCESSO CONTINUO) quel ciclo di produzione cui obbiettivo è la realizzazione di un dato flusso, cioè una quantità determinata da ottenere nell’unità di tempo, riducendo i rischi della produzione. Tutto ciò è possibile grazie alle tecnologie microelettroniche ed informatiche che consentono la modifica e il controllo del processo medesimo e una migliore tutela ambientale. Attraverso l’informatica distribuita si è trovato il modo di collegare il controllo sui vari impianti con l’operatore all’interfaccia video. Con il processo continuo si può passare dalla produzione di massa alla produzione specialistica, ovvero creazione di prodotti dotati di elevato valore aggiunto, o

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