Storia del Processo Penale PDF
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Paolo Rondini
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Questo documento fornisce un'introduzione alla storia del diritto e del processo penale, esaminando i diversi modelli processuali utilizzati nel corso della storia, con particolare attenzione ai modelli accusatorio, inquisitorio e misto. L'autore, il professor Paolo Rondini, illustra le caratteristiche dei diversi sistemi e il loro ruolo nell'evoluzione della giustizia penale nel tempo.
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STORIA DEL DIRITTO E DEL PROCESSO PENALE Prof. Paolo Rondini È VIETATA QUALSIASI FORMA DI RIPRODUZIONE E DIFFUSIONE NON AUTORIZZATA INTRODUZIONE 1) Garantire o punire? La storia del diritto penale non è so...
STORIA DEL DIRITTO E DEL PROCESSO PENALE Prof. Paolo Rondini È VIETATA QUALSIASI FORMA DI RIPRODUZIONE E DIFFUSIONE NON AUTORIZZATA INTRODUZIONE 1) Garantire o punire? La storia del diritto penale non è solo storia della legislazione (cioè della produzione del diritto) o storia della giustizia penale (cioè dell’applicazione del diritto nelle aule dei tribunali), ma è anche storia politica e costituzionale. Questo perché i rapporti tra Stato da una parte e individui dall’altra sono cambiati nel corso dei secoli in relazione alla gestione della giustizia penale, perché con il passare del tempo sono cambiati gli strumenti utilizzati per tutelare i diritti dei cittadini che chiedevano giustizia, mentre al contempo cambiava anche l’approccio al problema di come salvaguardare chi era accusato di aver commesso un reato e veniva sottoposto a un processo penale. Le diverse modalità di amministrazione della giustizia penale – cioè i diversi modi di celebrare i processi penali – sono espressione del livello di civiltà giuridica di un popolo. In questo caso il diritto penale costituisce un banco di prova per verificare la reale volontà di uno Stato di tutelare i diritti e gli interessi degli uomini. Il diritto penale è, infatti, in primo luogo uno strumento a disposizione dello Stato, che rivendica e assume piena titolarità di poteri in un campo ritenuto fondamentale per il buon funzionamento della cosa pubblica, per la conservazione della pace interna e della civile convivenza, per il controllo dei singoli e delle strutture sociali. Ma allo stesso tempo, il sistema del diritto penale deve essere sempre assicurare alcune fondamentali garanzie agli imputati e tutelare le vittime dei reati, nell’eterna polarità tra difesa dei diritti individuali e protezione dell’ordine sociale. Garantire o punire? Il dibattito sull’argomento tiene occupate in ogni epoca la legislazione, la giurisprudenza e la dottrina, facendo pendere i piatti della bilancia ora verso la difesa del singolo ora verso quella della società a seconda del contesto (storico, politico, sociale) di riferimento. In genere, nella logica dei regimi autoritari – più inclini a privilegiare la sicurezza dello Stato e gli interessi pubblici a discapito della tutela dei diritti individuali – il diritto penale e del processo penale è sempre stato concepito come uno strumento di controllo e di stabilità sociale, destinato a essere usato come arma di repressione dei reati, cioè di tutte le condotte considerate pericolose, perché oltre a danneggiare i singoli individui nella loro persona, nei loro affetti o nei loro beni possono altresì risultare estremamente lesive di interessi pubblici meritevoli di tutela (per esempio, infrangendo la pace sociale e violando l’ordine pubblico, creando il desiderio di vendetta nelle vittime, dando origine a violenze e disordini di vario tipo). Nelle forme di governo autoritarie l’interesse dello Stato a una rapida ed efficace ricostituzione dell’ordine giuridico violato prevale sulla tutela dei diritti individuali: per esempio, si punisce l’omicida per aver portato la violenza in seno alla società, per aver creato paure e risentimenti nei famigliari della vittima e negli altri consociati, per aver privato la società di un individuo produttivo, per essersi arrogato il diritto di togliere la vita a qualcuno (cosa che al limite può fare solo lo Stato), per dissuadere altri dal compiere simili atti e, solo come considerazione ulteriore e finale, per il fatto di aver ucciso un essere umano e per “compensare” in qualche modo della perdita i famigliari della vittima, dissuadendoli dal ricorrere alla vendetta privata. Viceversa, laddove prevale una concezione democratica dello Stato – di tipo più liberale e più attenta ai diritti dei singoli individui, quindi dove la persona con le sue prerogative e i suoi 1 interessi è al centro del sistema giuridico – la disciplina del diritto e del processo penale si evolve verso tipologie che riconoscono all’imputato alcuni diritti fondamentali, che gli assicurano la legalità e l’equità del trattamento (come, per esempio, un processo celebrato in forma pubblica e non segreta, potendo avvalersi dell’assistenza di un difensore...). 2) I 3 modelli processuali: accusatorio, inquisitorio, misto Nella storia del processo penale sono stati adottati tre diversi tipi di modelli processuali, a seconda degli specifici fini che si volevano perseguire servendosi dell’amministrazione della giustizia penale: - il rito “accusatorio”, - il sistema “inquisitorio” - il modello “misto e bifasico”, che assommava in sé alcune caratteristiche di quello accusatorio e altri aspetti di quello inquisitorio. Per descrivere sinteticamente le caratteristiche di questi 3 diversi modelli processuali, pensiamo a come si svolgono oggi i processi in Italia e in molto paesi del mondo. Immaginiamo di essere in un’aula di tribunale italiana, mentre viene celebrato un processo. Davanti a noi, in fondo all’aula in posizione centrale e rialzata, vedremmo un magistrato ‘monocratico’ oppure un collegio giudicante formato da più magistrati, cioè giudici di professione. In alcuni casi, poi, quelli dei reati più gravi, ci sarebbe essere un collegio giudicante formato da magistrati e giudici popolari (le cosiddette Corti d’Assise). Ai lati dell’aula ci sarebbero i banchi dell’accusa e della difesa. Nel caso dei paesi anglo-sassoni ci sarebbe anche la giuria, cioè un organo composto in genere da 12 cittadini selezionati con un complesso meccanismo, il cui compito sarebbe quello di pronunciarsi emettendo il ‘verdetto’ in merito all’innocenza o alla colpevolezza del reo (cioè giudicando sul ‘merito’ della causa), lasciando al magistrato (o a un collegio di magistrati) il compito di vigilare sul corretto svolgimento del processo, cioè sul rispetto da parte dell’accusa e della difesa delle norme che regolano lo svolgimento del processo. Inoltre, il magistrato (o il collegio) avrebbe il compito di individuare la pena da applicare (motivo per cui si dice che il magistrato decide sul ‘diritto’ della causa). In Italia, in Europa continentale e laddove non esiste la giuria popolare è il giudice di professione – oppure il collegio giudicante – che alla fine del processo decide se l’imputato è colpevole oppure no, per poi individuare la pena applicabile (in questo caso cioè lo stesso organo decide sia sul ‘merito’ che in ‘diritto’). Nel caso poi dei reati più gravi e puniti con pene più severe, nei sistemi continentali può capitare che a giudicare siano le Corti di Assise formate da magistrati e da giudici popolari, che deliberano insieme in merito alla colpevolezza/innocenza degli imputati e alle pene da infliggere. Ebbene, sia il modello continentale che quello anglo-sassone oggi in uso si basano su uno schema che si potrebbe definire “a 3 parti” (triadico): - c’è la pubblica accusa (il Pubblico Ministero) che enuncia le accuse rivolte all’imputato; - c’è la difesa che cerca di dimostrare l’innocenza dell’imputato; - ci sono i giudici che decidono sulla sorte dell’imputato (con la divisione di compiti nei paesi anglo-sassoni fra giuria popolare e giudici di professione). Questa è una delle principali caratteristiche del cosiddetto modello processuale “accusatorio”, un sistema che dovrebbe garantire un’amministrazione imparziale della giustizia. perché i giudici sono al di sopra delle parti: i giudici sono dei soggetti “terzi”, sono cioè la terza parte che partecipa al processo, autonomi e separati sia dall’accusa sia dalla difesa. Dopo aver ascoltato le ragioni dell’accusa e della difesa, i giudici devono emanare una sentenza di innocenza o colpevolezza, che proprio perché proviene da un giudice “terzo”, indipendente e autonomo dalle parti, ha un carattere di decisione imparziale e giusta. 2 Nei modelli processuali di tipo “accusatorio” l’organo titolare del potere di esercitare l’accusa, di inquisire l'imputato e di andare alla ricerca delle prove a suo carico o in suo favore è un soggetto distinto e diverso dal giudice che deve emettere la sentenza: si tratta di un pubblico accusatore (nel nostro ordinamento il PM) che avanza una pretesa punitiva nei confronti dell'imputato e che, per ottenere il riconoscimento di tale pretesa, si rivolge ai dei giudici “terzi” chiedendo di accertarne e dichiararne la fondatezza e poi applicare la conseguente sanzione penale. Se però guardiamo al passato, possiamo scoprire che questo modello processuale “a 3” parti e di natura “accusatoria” non è stato l’unico ad essere stato usato. In alcune epoche e in alcuni Stati si è fatto ricorso a modelli processuali diversi, e in particolare a un modello a “2 parti” (diadico) e dalla natura “inquisitoria”. Immaginiamo allora un sistema processuale in cui c’è un giudice inquirente (chiamato ‘giudice istruttore’) che - una volta ricevuta la notizia che è stato commesso un reato - inizia a indagare e a cercare le prove che possano dimostrare l’effettiva avvenuta consumazione di un reato e chi lo abbia commesso. Tutto si svolge nella massima segretezza: nessuno sa su cosa stia indagando il giudice istruttore, chi siano i sospettati, quali siano le prove esistenti e raccolte dal giudice. Nemmeno l’indagato sa di essere sospettato di aver commesso il reato in questione e, se anche lo si convoca per interrogarlo, il giudice procede in modo da tenerlo all’oscuro di tutto. Una volta individuato il sospetto autore del crimine, il giudice istruttore deve cercare tutte le prove, sia quelle che possono effettivamente esistere a carico dell’indagato sia quelle che possono deporre in suo favore. In altre parole, il giudice deve cercare sia le prove della colpevolezza che quelle dell’innocenza dell’indagato: il giudice non deve mai dare per scontato che il presunto colpevole sia effettivamente tale, ma deve cercare sempre di restare imparziale il più possibile, deve chiedersi sempre se quello che gli sembra essere il colpevole sia effettivamente l’autore del crimine, oppure se non sia possibile che il reato sia stato commesso da altri. Soprattutto però - ed è questa la cosa più importante, il vero motivo per cui si parla di processo a “2 parti” - lo stesso giudice istruttore che ha svolto le indagini e formulato l’accusa prende poi parte alla deliberazione della decisone finale da parte di un collegio di magistrati: in altre parole, il giudice istruttore partecipa alla pronuncia della sentenza e manca, quindi, una chiara e precisa distinzione fra organo d’accusa e organo giudicante. Certo, a garanzia dell’imputato - a compensare cioè la mancanza di un giudice terzo, inteso come un organo giudicante autonomo dall’accusa e in posizione sovraordinata rispetto alle due parti dell’accusa e della difesa - dovrebbe pesare il fatto che il giudice inquirente deve anche cercare le prove dell’innocenza dell’imputato. Ma è facile comprendere come questo sistema possa funzionare solo se il giudice in questione non ha pregiudizi di alcun tipo verso l’indagato, se è preparato e diligente nello svolgere le sue funzioni, se non si lascia corrompere. Altrimenti, c’è il rischio di una deriva autoritaria, di decisioni frutto di errori, di sentenze dettate da inimicizie personali o da motivi diversi dal voler conseguire la giustizia: c’è il rischio che siano prese decisioni arbitrarie che non garantiscono i diritti dei cittadini. Ricapitolando, nel rito processuale di tipo “accusatorio” - la pubblicità della procedura prevale sulla segretezza; - c’è un magistrato che svolge il compito di pubblico accusatore distinto dal giudice che deve emettere la sentenza operando con imparzialità e indipendenza di giudizio rispetto alla pubblica accusa; - questo pubblico accusatore agisce in condizioni di parità con l'accusato, che ha il diritto di farsi assistere da un difensore di fiducia nella ricerca degli elementi di prova da offrire alla valutazione del giudice; 3 - fra accusa e difesa si svolge un contraddittorio in forma pubblica e orale, cioè un confronto incrociato delle rispettive tesi accusatorie e difensive nonché delle prove a sfavore e a favore dell’imputato: accusatore e accusato si affrontano in una sorta di duello orale, che si svolge di fronte al giudice “terzo” e imparziale, incaricato di risolvere la contesa; questo confronto avviene nell’ambito di udienze pubbliche e di un dibattimento in cui le 2 parti – accusa e difesa – possono interrogare e contro-interrogare i testi, i periti, l’imputato stesso, oppure dibattere in merito all’autenticità di un documento e alla sua rilevanza, ecc; Il modello processuale “inquisitorio” presenta invece i seguenti caratteri: 1) confusione nello stesso soggetto dei ruoli di pubblico accusatore e di organo giudicante; 2) attribuzione al giudice istruttore e accusatore pubblico del compito di ricercare tutte le fonti di prova, anche quelle a favore dell’imputato; 3) impossibilità per l'accusato di partecipare all'attività di individuazione ed acquisizione delle fonti di prova, che avviene nel massimo segreto; 4) mancato riconoscimento del diritto alla difesa in senso tecnico; 4) adozione del metodo della scrittura nell'acquisizione delle prove, per cui ogni atto concernente la confessione dell’imputato o le deposizioni dei testimoni o le dichiarazioni di periti deve essere attentamente verbalizzato, di modo che poi i giudici per deliberare le loro sentenze si limitano a leggere le carte processuali (i giudici non assistono a un dibattimento- scontro fra accusa e difesa). A partire dalla fine del Settecento inizia poi a essere applicato in alcuni paesi anche un sistema processuale detto “misto” e “bifasico”: a) il processo inizia con una prima fase di indagini dalla natura “inquisitoria”, che si svolge quindi nella massima segretezza e in forma scritta. Questa prima fase si conclude davanti a una giuria popolare oppure davanti a un collegio di magistrati di professione (alcuni Stati adottano le giurie popolari, altri no), che devono decidere se vi siano effettivamente le prove che sia stato consumato un crimine e se di tale reato si possa accusare una persona: in caso negativo, viene disposto il “non luogo a procedere” e il processo si arresta; in caso affermativo, viene disposto il “rinvio a giudizio” e si passa alla seconda fase del processo. b) a questo punto si apre la seconda fase del processo, quella “accusatoria”, in cui l’indagato diventa ufficialmente l’imputato e nell’ambito della quale si svolge il dibattimento con il contraddittorio fra accusa e difesa. Si tratta di una fase processuale che si svolge in forma pubblica e orale, in cui si procede all’acquisizione delle prove a carico e a favore dell’imputato, e al termine della quale un’altra giuria o un collegio di magistrati dovranno pronunciarsi sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato. 3) Le forme di giustizia privata Lo Stato non ha sempre esercitato in via esclusiva la funzione giurisdizionale, cioè il compito di reprimere e di sanzionare le condotte illecite, indicando quali condotte costituissero un reato, con quali sanzioni dovessero essere punite, come si dovesse accertare l’effettiva consumazione di un reato e la responsabilità penale del suo autore. Noi oggi siamo abituati a vedere fra gli attori del processo tutta una serie di organi dello Stato (la Polizia, il Pubblico Ministero, i Giudici). Per noi è ovvio che sia compito del PM iniziare le indagini una volta ricevuta la notizia che è stato commesso un crimine, tenendo conto che le cosiddette “notizie di reato” sono la querela della vittima, o la denuncia di un qualche cittadino che abbia assistito al suddetto crimine, oppure - in assenza di una segnalazione da parte di un privato cittadino come appunto una querela o una denuncia - una lettera anonima o una segnalazione della polizia o di un altro organo statale, ecc. 4 Ci sembra, poi, naturale anche che ci sia sempre un accusatore pubblico al servizio dello Stato cui si contrappone la difesa. Ma in realtà non è sempre stato così! In età medievale – specialmente nei primi secoli del Medio-evo, dal V al XI secolo – erano assai diffuse e applicate forme di giustizia privata: - la faida, cioè la vendetta privata da parte della vittima di un reato (o dei suoi familiari) sul corpo o sui beni del reo (o dei familiari di quest’ultimo) - le composizioni pecuniarie, cioè gli accordi privati fra reo e vittima con cui il colpevole riconosceva la sua colpa e prometteva alla vittima di pagare una somma di denaro proporzionata alla natura e all’entità del danno commesso (un tot per il furto di bestiame, distinguendo fra i vari tipi di animali; un tot per le ferite arrecate, distinguendo in base all’organo leso e al tipo di danno; un tot per l’omicidio, distinguendo dal rango sociale della vittima; ecc.). Inoltre, gli organi dello Stato potevano intervenire e celebrare un processo solo su iniziativa della parte lesa e non d’ufficio, dovevano cioè attendere di ricevere una querela della vittima e non potevano attivarsi in assenza di una tale querela. Il processo di emersione e di affermazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di repressione dei crimini si è manifestato lentamente e progressivamente a partire dall’Età medievale e nel corso dei secoli successivi mediante trasformazioni lente e graduali. I Longobardi e l’Editto di Ròtari Nel 643 il re longobardo Ròtari pubblicò la prima legge scritta longobarda, l’Editto di Ròtari, con l’intento di mettere per iscritto i principi consuetudinari della tradizione longobarda, ma che allo stesso tempo conteneva regole che erano ispirate anche ai principi del diritto romano e a quelli del diritto di altre popolazioni barbariche, come i Burgundi o i Visigoti. La promulgazione dell’Editto avvenne anche perchè Rotari sentiva la necessità di rinsaldare i legami fra la monarchia longobarda e i suoi sudditi, aggiungendo i vincoli giuridici ai tradizionali legami di stirpe e clan. Ecco perchè i “reati politici” - a cominciare dall’attentato alla vita del re o dei suoi funzionari - figurano in testa alla legge. Buona parte del contenuto di questo Editto si presenta quale strumento voluto dalla monarchia a tutela della propria esistenza e del corretto funzionamento dello Stato: si pensi alla dichiarazione di non colpevolezza di chi commette un reato (anche un omicidio) per ordine del re o alla destinazione al re di metà delle multe inflitte ai privati che dovessero commettere un atto illecito. Ragioni di controllo politico stanno anche alla base della norma che subordina le migrazioni interne all’autorizzazione regia, o di quella che prescrive che i duchi longobardi (gli alti funzionari del regno) debbano chiedere il consenso del re per sposarsi. La materia dell’Editto è poi per lo più di tipo penale, nel senso che contempla – oltre ai reati politici - anche quelli commessi contro la persona, reati contro le cose ecc. Ma non mancano, comunque, disposizioni in tema di diritto di famiglia e di diritto processuale penale e civile. Il diritto penale Come tutti i popoli barbarici, i Longobardi facevano ampio ricorso alla faida cioè alla vendetta privata: essi rispondevano alle offese e alle lesioni subite reagendo direttamente, vendicandosi personalmente dell’offesa o del torto subito senza ricorrere alla mediazione di un tribunale. L’offesa creava uno stato di inimicizia tra le famiglie coinvolte, che poteva condurre allo scontro violento e alla vendetta privata, non solo fra autore e vittima del reato, ma anche fra i membri delle loro famiglie (per esempio, nel caso di omicidio, quando erano i parenti del moto a vendicarsi). D’altra parte, era possibile che nel vendicarsi dell’offesa subita la vittima esagerasse nel compiere la faida, come nel caso in cui la vittima di una lesione personale si fosse vendicata uccidendo il suo aggressore: questo provocava l’ulteriore vendetta dei parenti del morto, dando così il via a episodi di vendette a catena che provocavano disordini sociali. Ecco perché in alternativa alla faida, le parti potevano anche decidere ricorrere a una negoziazione, al termine della quale il danneggiato o la sua famiglia accettavano una somma di denaro a soddisfazione dell’offesa ricevuta (composizione pecuniaria), raggiungendo così il duplice scopo di ottenere una pace privata e garantire la pace pubblica. L’Editto di Ròtari non interviene giungendo al punto di abolire la faida, ma cerca di regolamentarne l’impiego, valutando con attenzione i casi in cui permetterla o vietarla. Per esempio, si vieta di ricorrere alla faida in caso di lesioni personali o di omicidio. Allo stesso tempo, l’editto fissa in misura più precisa rispetto alle consuetudini longobarde del passato l’entità delle singole composizioni pecuniarie da versare nel caso dei vari reati. Il principio adottato da Ròtari, infatti, è che il corpo di ogni persona abbia un proprio e preciso valore economico, e che tale valore sia quantificabile in termini patrimoniali. Il prezzo – ad esempio – che l’editto assegnava alla vita di ogni uomo era definito guidrigildo, una sorta di valutazione socio-economica dell’individuo che aumentava o diminuiva a seconda della condizione sociale dell’individuo e al suo ruolo all’interno dell’ordinamento dello Stato (re, familiari del re, nobili, ufficiali dell’esercito, soldati, semplici cittadini). La donna godeva di un guidrigildo altissimo in quanto assicurava la continuità della stirpe e la sua morte era considerata un depauperamento per la società intera. Se nel caso di omicidio occorreva che l’omicida versasse l’intero prezzo della vittima (il guidrigildo), nell’ipotesi di lesioni personali si seguiva un sistema “tariffario”, che faceva corrispondere a ogni singola parte del corpo violato un preciso prezzo. Un pugno, lo schiaffo, la ferita sul capo, la rottura delle ossa del cranio, l’occhio strappato, il naso troncato, il labbro tagliato, la rottura dei denti (con una composizione diversa a seconda del tipo di dente), la ferita ad un orecchio, il braccio ferito, l’asportazione di un dito della mano o del piede, ecc.: per tutte queste diverse violenze arrecate alla vittima era previsto l’obbligo a carico del colpevole di versare una specifica somma di denaro diversa da caso a caso. Pur non essendo la sola e unica sanzione penale conosciuta e usata dai Longobardi, la composizione pecuniaria era senz’altro il tipo di pena più ricorrente nei loro editti, a dimostrazione del fatto che il diritto longobardo era ancora un diritto penale imperniato sulla soddisfazione economica, come spesso accadeva presso i popoli barbarici. Le altre pene non potevano essere applicate personalmente dalle vittime di un reato, poiché – a differenza di quanto avveniva con la faida e la composizione pecuniaria - era necessario che si svolgessero prima i processi rivolti ad accertare la colpevolezza del presunto reo. La pena di morte (cui era connessa la confisca generale dei beni) era prevista solo per determinati reati politici o per gravi reati contro la famiglia (come nel caso del servo che avesse ucciso il padrone o della moglie che avesse ucciso il marito). A seconda dei casi, poi, si potevano usare anche pene corporali: taglio della mano, bastonate, fustigazione, marchio a fuoco, ecc. Di rado si privava qualcuno della sua libertà: il carcere era previsto per i furti commessi dai recidivi; mentre la riduzione in schiavitù era usata in caso d’insolvenza, per esempio nei confronti di chi non avesse pagato il guidrigildo per l’omicidio, o per le composizioni pecuniarie nei casi di furto, di adulterio, lesioni personali, ecc. La confisca generale dei beni del condannato diventò – insieme al pagamento del guidrigildo – la sanzione prevista per i casi di omicidio durante il regno di Liutprando, che la introdusse per tutti i casi di omicidio esclusi quelli commessi per legittima difesa. I beni confiscati andavano in parte ai parenti e in parte al re. d. Il processo La disciplina del processo presso i Longobardi era identica nelle cause civili e penali: non c’erano quindi regole diverse di procedura civile e penale. Il processo iniziava sempre e solo su iniziativa della vittima o dei suoi familiari, che dovevano rivolgere un’accusa formale a carico di qualcuno, il quale era accusato di aver commesso un illecito penale (omicidio, lesione, furto, ecc.) oppure civile (mancato adempimento di un accordo, come ad esempio la mancata consegna di una mucca dopo aver ricevuto la somma pattuita per l’acquisto della stessa). Il processo non poteva quindi mai iniziare d’ufficio, cioè per iniziativa dei giudici che avessero ricevuto una segnalazione relativa all’avvenuta commissione di un illecito da parte delle autorità di polizia o in forma anonima. Il processo longobardo poi non mirava all’accertamento della verità di un fatto da compiersi con l’ausilio dei mezzi di prova usati dai Romani, come la confessione, le testimonianze, i documenti, gli indizi: il giudice doveva solo controllare che i litiganti che fossero ricorsi a lui si affrontassero evitando la faida (la vendetta personale). Dopodiché, per decidere in giudizio chi avesse torto e chi ragione, cioè se le accuse fossero fondate o meno, i Longobardi potevano ricorrere a due strumenti alternativi fra loro: il giuramento e il duello. Erano due strani strumenti di prova, che venivano utilizzati per stabilire chi avesse ragione senza ricorrere come in passato alla faida: in entrambi i casi si ricorreva al cosiddetto “giudizio di Dio”, poiché si ricorreva a delle procedure che implicavano l’intervento divino, volto a indicare se l’accusato fosse effettivamente colpevole di ciò di cui veniva accusato. Il risultato del ricorso a simili prove segnava automaticamente la fine della causa, comportando in ogni caso e senza possibilità di ulteriori discussioni o una condanna o un’assoluzione. Se l’accusato accettava di sottoporsi al giuramento o al duello e ne usciva indenne, allora si diceva che si era “purgato”, cioè liberato, dalle accuse e il giudizio era chiuso definitivamente, senza possibilità di presentare appello in un secondo grado di giudizio. Se invece l’accusato non accettava di sottoporsi al giuramento o al duello, allora era considerato colpevole e condannato. Ma vediamo di spiegare meglio cosa fossero il giuramento e il duello Il giuramento era considerato il mezzo ordinario di decisione di una lite. Si trattava di un giuramento collettivo, fatto dall’accusato insieme ad un numero variabile di soggetti detti congiuratori che giuravano sul Vangelo: ad esempio, per le cause di valore superiore ai 20 soldi 5 congiuratori erano scelti dall’accusato (più l’accusato=6) e 6 erano scelti dall’accusatore. L’accusato giurava di essere innocente. A questo punto i suoi “congiuratori” giuravano sull’affidabilità e sull’onestà dell’accusato come persona, ma non deponevano e non giuravano su come fossero avvenuti realmente i fatti, poichè potevano non aver assistito a nulla e non sapere nulla. Di conseguenza, essi giuravano solo sul grado di stima e di attendibilità goduta dall’accusato nell’ambiente sociale di cui faceva parte, mostrando così il consenso che egli riscuoteva, la sua serietà e la affidabilità delle sue dichiarazioni. Seguiva il giuramento delle persone indicate dall’accusatore, anche esse chiamate a giurare sull’attendibilità dell’accusato. Ovviamente, l’accusato rifiutava di giurare, sarebbe stato condannato. Vinceva la causa chi avesse portato più congiuratori che avessero giurato a suo favore. Lo spergiuro delle parti – sia dell’accusato che dei congiuratori – era considerato come un grave peccato commesso davanti a Dio, motivo per cui i longobardi – che erano molto credenti, fino al fanatismo – tendevano a non spergiurare per non rischiare di perdere la salvezza della propria anima. Inoltre, lo spergiuro era severamente punito dall’Editto: in caso di spergiuro, si perdeva la causa e si doveva pagare il guidrigildo dello spergiurante a favore dell’avversario. L’alternativa al giuramento era il duello. Le parti della lite si sfidavano e il vincitore sarebbe stato colui che, guidato dalla mano di Dio, avrebbe visto trionfare le sue ragioni. Però, non era detto che le parti dovessero affrontare la prova scendendo in campo personalmente: potevano farsi sostituire da professionisti della lotta armata, cioè da dei “campioni”, accettando poi l’esito finale di tale lotta fra esperti d’arme. Ròtari cercò di limitare il ricorso al duello, mostrandosi consapevole della sua inaffidabilità: preferiva ricorrere piuttosto al giuramento, che riteneva più efficace perché se ne poteva almeno ricavare che il vincente aveva il favore dell’opinione pubblica, mentre dietro alla vittoria in un duello si sospettava ormai da tempo che vi fosse soltanto la forza e non tanto l’intervento di Dio. Ad ogni modo, non si arrivò fino al punto di vietare il duello, anche se in alcuni casi il duello era assolutamente proibito. Si trattava di ipotesi in cui si voleva evitare di introdurre la violenza nella compagine familiare, per esempio non si poteva ricorrere al duello quando lo status di figlio legittimo di una persona fosse negato e contestato da parte di un suo parente, oppure nel caso in cui un uomo fosse stato accusato di uxoricidio. In tutti gli altri casi il ricorso al duello o era imposto direttamente dalle consuetudini oppure il suo uso era lasciato alla scelta dell’accusato. Dalla lettura dell’Editto emerge che i Longobardi non nutrivano particolare fiducia negli strumenti di prova più “logici e razionali” (perché non implicavano il ricorso alla forza del duello o alla presunzione dell’intervento divino) usati dai Romani o da altri popoli barbarici, come per esempio la testimonianza di chi avesse assistito alla consumazione del reato: a differenza di altri popoli barbarici che diedero alla testimonianza lo stesso valore che essa aveva per i Romani, cioè quello di un fondamentale mezzo di accertamento della verità, i Longobardi temevano che i testimoni potessero dire il falso, perché potevano essere corrotti o minacciati. Quanto alle prove scritte come i documenti, essi avevano scarsa rilevanza a causa dell’analfabetismo della maggior parte della popolazione e per l’ovvio timore delle falsificazioni. IL PROCESSO PENALE NEL DIRITTO CANONICO MEDIEVALE La Chiesa cattolica e un nuovo modo di intendere il diritto penale 1) In età altomedievale, nel campo del diritto penale è la Chiesa a insegnare che – come facevano gli antichi romani – si devono valutare le condotte umane illecite distinguendo gli atti dalle mere intenzioni degli autori, prendendo in considerazione non solo le specifiche condotte illecite poste in essere, ma anche le circostanze soggettive e oggettive in cui tali reati sono stati commessi, superando la mentalità barbarica per cui il mero fatto di reato conta più dell’elemento soggettivo. Nel diritto penale barbarico, infatti, di solito non si faceva distinzione fra dolo e colpa, oppure fra tentativo di delinquere e reato consumato. 2) La Chiesa sviluppa, inoltre, un proprio modo di concepire l’amministrazione della giustizia penale, ispirata a quattro principî derivati dall’interpretazione delle Sacre Scritture: - ricerca della verità dei fatti per mezzo di mezzi di prova logici e razionali (confessione, testimonianze, documenti, ecc.) e rigetto delle ordalie usate dai barbari come il duello; - accertamento della verità da eseguire nel fedele rispetto della legge umana e divina; - imparzialità dei giudici; - misericordia nell’assumere le decisioni. La necessità di procedere a un accurato accertamento dei fatti allegati dalle parti nella lite, ricercando e valutando le prove, viene sostenuta – ad esempio – da Papi come Gregorio Magno sulla base di un passo del Libro della Genesi (Gen. 18.20), in cui si afferma che Dio, prima di condannare alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, è sceso «a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me». Secondo Gregorio Magno il giudice ha, poi, anche la facoltà di temperare in determinati casi il rigore di una norma, appellandosi alla misericordia e alla carità, quali virtù del buon cristiano. La giustizia cristiana autorizza il giudice a superare l’astrattezza della norma, per tenere in considerazione i fatti concreti. Emerge anche la preoccupazione di affermare il principio secondo cui il processo penale non è soltanto un momento di affermazione della legalità, ma anche uno strumento per giungere alla vera giustizia, quella divina e non degli uomini. 3) Nell’ambito del diritto canonico medievale viene delineato un modello processuale (detto ordo iudiciarius) tecnicamente più evoluto di quello usato dai barbari sotto il profilo dell’equità delle decisioni prese dai giudici e delle garanzie di tutela dei diritti delle parti. Il procedimento giudiziario canonico si basa, infatti, sul ricorso alle seguenti prove a) testimonianza b) giuramento “purgatorio” c) confessione In particolare, tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, fu sempre Gregorio Magno a occuparsi delle prove, indicando una serie di attività che il giudice doveva svolgere: verificare se ci fossero accusatori e testimoni (che dovevano essere persone “distinte”, cioè tante e tutte degne di fede); se avessero deposto sotto giuramento; se avessero rilasciato le loro dichiarazioni di fronte all’accusato; di che condizione fossero gli accusatori e i testimoni e quali fossero le loro opinioni; se avessero qualche motivo personale di inimicizia verso l’accusato; se avessero riferito cose apprese da altri o per aver avuto una conoscenza diretta dei fatti. Gregorio Magno riteneva che lo scopo del processo fosse la ricerca della verità e che quella per testimoni fosse la ‘regina’ delle prove. Peraltro, non escludeva il ricorso al giuramento purgatorio dell’accusato, cioè al giuramento dell’accusato di essere innocente, reso giurando sui Vangeli e in Chiesa davanti a dei testimoni, a cui si poteva ricorrere solo quando l’esame delle altre prove a carico dell’accusato (e cioè le testimonianze) non fosse sufficienti a giustificare la condanna. Lo scopo di questo “giuramento 1 di purgazione” era quello di eliminare ogni possibile dubbio o sospetto che potesse intaccare l’onorabilità e la buona fama degli accusati. Dalle riflessioni di Gregorio Magno emergeva, poi, la scarsa considerazione in cui era tenuta la confessione, per il timore che fosse estorta con violenza o altri mezzi. 4) Nello stesso periodo la Chiesa conduce una lunga battaglia contro le ordalie o prove ordaliche (prova del duello, prova dell’acqua, prova del fuoco, ecc.), con cui si chiedeva l’intervento di Dio per stabilire chi fosse colpevole o innocente. Nella società altomedievale l’ordalia è difficile da sradicare dalla mentalità comune: è accettata perché identificata con il giudizio divino; perché spesso è complicato trovare le classiche prove di un reato, come una confessione o la prova testimoniale; perché si raggiunge rapidamente il risultato di individuare e punire il presunto colpevole di un reato. Questo nonostante i difetti e i problemi sorti nell’utilizzo delle ordalie, visto che: - numerosi erano i tentativi di superare in modo fraudolento la prova (per esempio, proteggendosi in qualche modo le mani prima di afferrare il ferro rovente, controllando la respirazione nel caso dell’ordalia dell’acqua, ecc); - nel caso del duello, poi, la possibilità di far duellare un altro – un campione spesso profumatamente pagato – mal si conciliava con l’idea che Dio sarebbe intervenuto in aiuto di colui che avesse avuto ragione; - spesso le ordalie non portavano affatto a una decisione giusta e all’accertamento della verità (perché, per esempio, si assolveva colui che si era già dichiarato colpevole, ma che poi avesse superato l’ordalia); - la soggettività e l’intervento umano potevano influenzare gli esiti e incidere in modo decisivo sul risultato di un espediente che in teoria doveva fornire un risultato oggettivo (per esempio, nella valutazione della temperatura del ferro, nella decisione di legare o meno il soggetto prima di gettarlo in acqua, nell’interpretazione del risultato della prova); - alcuni contestavano i fondamenti etico-religiosi del ricorso alle ordalie, poiché si faceva riferimento al carattere di mezzi di soluzione delle controversie basati sulla superstizione e sul fatto che si sollecitasse l’intervento di Dio - nella Bibbia non si faceva riferimento alle prove ordaliche ma a mezzi di prova più razionali, basati sulle indagini condotte dagli uomini, sul ragionamento, sull’ascolto di testimonianze, sull’esame di documenti scritti, come nei casi del processo a Susanna o di quelli celebrati dal re Salomone Susanna è la sposa devota di Joachim, un ricco ebreo, che abita in un palazzo circondato da un parco dove invita spesso i suoi concittadini. Tra questi ci sono due anziani magistrati che si sono invaghiti di Susanna. Un pomeriggio Susanna vuole fare un bagno e si spoglia senza rendersi conto che i due vecchi si sono nascosti per spiarla. La ricattano, dicendole che se non si concede a loro l’accuseranno di essersi appartata con un giovane. Pur di non tradire il marito, Susanna urla per far accorrere i servi, cadendo così nella trappola dei due, che la accusano di adulterio, punito per legge con la morte per lapidazione. Durante il processo entra però in scena il profeta Daniele, conosciuto per la sua saggezza. Convinto dell’innocenza di Susanna, chiede di interrogare separatamente i due vecchi e a entrambi rivolge la stessa domanda: dove si trovavano Susanna e il giovane? Uno risponde sotto un lentisco e l’altro sotto un leccio: la contraddizione svela la loro menzogna. Due donne che vivono nella stessa casa hanno partorito un figlio a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. Una notte uno dei due bambini muore e sua madre scambia il figlio morto con quello vivo. Salomone, dopo aver ascoltato le due donne, ordina che il bambino vivente sia 2 tagliato a metà per darne una parte a ciascuna di esse. Allora una delle due lo supplica di consegnare il bimbo all’altra donna, pur di salvarlo. Salomone capisce così qual è la vera madre e le restituisce il bambino. - infine, diversi concilii della Chiesa e molti pontefici affermarono il principio secondo cui uccidere un altro uomo in un duello era equivalente a compiere un omicidio, mentre chi accettava di duellare e soccombeva morendo era considerato alla stregua di un suicida. D’altra parte, va rilevato che malgrado queste critiche molti religiosi tolleravano e persino ricorrevano al duello. Celebre in proposito è il processo di un caso di furto celebrato a Genova e risolto davanti a una corte laica, in cui l’accusatore – un sacerdote – non avendo testimoni a suo favore chiese di ricorrere al duello e di usare un “campione” (i religiosi non potevano duellare personalmente); morto il convenuto – un laico – per le ferite riportate, arrivò la condanna papale per quanto successo, che fu considerato come un caso di vero e proprio omicidio. Fu nel 1215, durante il IV Concilio lateranense, che Innocenzo III proibì solennemente il duello e vietò ai chierici di partecipare alle ordalie. Eppure, ancora nel secolo successivo diversi concilii dovettero colpire con la scomunica tutti coloro che continuavano a prendere parte ai giudizi di Dio. Infine, è interessante notare come le ordalie continuarono a essere utilizzate dai tribunali laici, cioè dalle corti dei vari Stati europei. E in alcuni casi eccezionali persino con l’avallo della stessa Chiesa, come nei casi della caccia alle streghe e degli eretici condotta da tribunali laici proprio con il ricorso alle ordalie (del fuoco, dell’acqua, ecc.). Fu una persistenza giustificata dai sentimenti di paura e odio che ispiravano non solo la stregoneria o i movimenti eretici, ma più in generale i comportamenti che la società avvertiva come pericolosi perché posti in essere dai cosiddetti “diversi”, da persone che vivevano ai margini della società e ne contestavano o rifiutavano l’organizzazione e il modus vivendi. I COMUNI: DIRITTO PENALE E STATUTI COMUNALI I Comuni italiani furono fra le prime autorità politiche in Europa a decidere di usare in modo sempre più diffuso lo strumento del diritto penale e dell’amministrazione pubblica della giustizia penale, allo scopo di prevenire le vendette private fra cittadini o gli scontri fra gruppi familiari (si pensi agli scontri fra Capuleti e Montecchi nel Romeo e Giulietta, oppure agli scontri fra guelfi papali e ghibellini imperiali). In altre parole, i Comuni italiani furono fra le prime autorità di governo pubblico a dare l’esempio in Europa di come fosse utile per lo Stato favorire massicciamente il passaggio da forme di giustizia privata a una forma di giustizia amministrata in modo sempre più vasto e pervasivo dallo Stato. Ecco perché con il passare del tempo le norme penali contenute negli Statuti comunali si fecero sempre più numerose e dettagliate, arrivando a sanzionare un numero sempre più grande di reati, a prevedere un sistema di sanzioni sempre più articolato, a regolare in modo sempre più dettagliato lo svolgimento dei processi. Anche se il principio di farsi giustizia da sé persistette a lungo e non fu mai del tutto eliminato, i Comuni gradualmente rivendicarono l’esclusivo diritto-dovere di esercitare la giustizia punitiva, riuscendo a imporre il rispetto delle regole contenute negli Statuti e rivolte in modo specifico alla tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza interna e della pace, togliendo agli atti criminosi il carattere di affari privati e facendo scaturire l’irrogazione della pena esclusivamente dalla violazione della legge statale. Il reato diventò, così, sinonimo di violazione di un precetto posto dalla legge, mentre il reo divenne un soggetto sottoposto alla legge e punito da un organo pubblico. La pena – a sua volta – assunse sempre più natura pubblica non solo perché era comminata nell’interesse dell’intera società, ma anche perché l’irrogazione della sanzione avveniva al termine di un processo celebrato dagli organi dell’ordinamento comunale deputati all’esercizio della funzione giurisdizionale. Peraltro, le norme degli Statuti non erano ancora molto dettagliate nel prevedere la repressione di ogni tipo di reato, né tanto meno erano scientificamente evolute, come dimostrava la mancanza di una netta distinzione tra dolo e colpa, e così come erano spesso ancora incerte le regole che indicavano come procedere a una precisa valutazione del reato e all’irrogazione della pena. Non risultando il più delle volte neppure indicati i limiti della potestà punitiva, al singolo magistrato era lasciata ampia discrezionalità, che il più delle volte si trasformava in abuso e dava luogo non solo a ingiustizie nel decidere se condannare o meno, ma anche all’applicazione di pene sproporzionate rispetto al reato commesso. L’arma del terrore era usata largamente, in particolare nei confronti del popolo e alcune volte – a causa della contumacia del presunto autore del crimine - venivano colpiti i suoi parenti più prossimi, così come venivano imbastiti processi solo sulla base di denunce anonime o si faceva ampio ricorso allo strumento della tortura. Iniziò, infine, a farsi strada la distinzione tra reati pubblici e ordinari (ritenuti più gravi) e reati privati e straordinari. Nella prima categoria dei reati pubblici/ordinari rientravano i reati sanzionati con una pena grave e specificamente determinata dalla legge (potevano essere sia crimini “capitali”, cioè puniti con la pena di morte o misure ritenute equivalenti come l’esilio o i lavori forzati, sia crimini non capitali ma gravi e quindi puniti con pene gravi sul piano corporale o pecuniario). Nella seconda categoria dei reati privati/straordinari rientravano, invece, i reati per i quali la pena non era fissata dalla legge ma era determinata di volta in volta dal giudice in base all’accertamento delle modalità dell’azione criminosa e all’esame delle condizioni oggettive e soggettive che avevano portato alla commissione del reato (con il conseguente rischio di decisioni arbitrarie da parte dei giudici). a) i giudici Dalla fine del XII secolo l’organo comunale designato a svolgere la funzione punitiva fu il tribunale consolare. Nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie i consoli – che non erano tecnici del diritto – erano assistiti da esperti giuristi (detti causidici o consiliarii), la cui presenza era resa necessaria proprio perché non sempre i consoli conoscevano il diritto. Tra il XII e il XIII secolo – con il passaggio al comune podestarile - l’ordinamento giudiziario diventò più complesso e articolato: aumentò il numero dei giudici, distinti per competenza, e fu creato un ordine gerarchico che vedeva al vertice il podestà. Egli era essenzialmente un uomo d’armi che, al momento dell’assunzione della carica, portava con sé persone esperte di diritto cui assegnava in sua vece la funzione di giudici (assessori o consoli di giustizia). A volte, però, gli Statuti potevano prevedere che i giudici che aiutavano il podestà fossero eletti dal popolo o estratti a sorte tra gli iscritti al collegio cittadino dei giuristi. Questi magistrati restavano in carica un anno, come il podestà, ed erano sottoposti alla fine del loro mandato a un “giudizio di sindacato”, che comportava un controllo del loro operato da parte della magistratura dei “sindacatori”, abilitata a comminare sanzioni in caso di irregolarità. Quanto ai requisiti che gli assessori/consoli di giustizia dovevano possedere, era caldeggiata la conoscenza del diritto, benché non fosse facile avere dei giudici istruiti, anche perché il ruolo di giudice era temporaneo e poco retribuito, quindi poco ambito dai giuristi laureati. Pertanto, spesso la carica non era ricoperta da veri professionisti del diritto, ma da persone scelte semplicemente per la loro buona reputazione. Per ovviare a tale inconveniente gli Statuti dei diversi Comuni introdussero a partire dal Duecento la facoltà, e talvolta l’obbligo, per il giudice di chiedere un parere a dei giuristi laureati: si trattava del consilium sapientis iudiciale (il parere giudiziale del dotto). Il giudice era sempre autorizzato a chiedere il consilium di sua spontanea iniziativa, mentre era obbligato a chiederlo in caso di sua ignoranza del diritto (imperitia) o di richiesta delle parti. In entrambi i casi il magistrato aveva l’obbligo di rispettare nella sentenza il parere ricevuto, a meno che così facendo non si fosse giunti a una soluzione palesemente ingiusta e iniqua. L’avvento delle Signorie comportò altri cambiamenti. La principale novità era legata al fatto che nel territorio delle signorie erano ricompresi più Comuni. Di conseguenza, dove risiedeva il Signore, cioè nella città dominante, aveva sede un Tribunale centrale che era di livello superiore a quelli esistenti nelle altre città. Nel corso del Trecento si formò così un ordinamento giudiziario su più livelli. I nuovi tribunali centrali e di livello superiore avevano una competenza esclusiva (in un unico grado di giudizio): - per le cause penali più gravi (reati da punire con la pena di morte o con pene corporali) - per le liti fra cittadini della citta dominante e quelli di altri comuni (cause “miste”) - per le cause riguardanti direttamente il potere centrale (cause regie e cause demaniali). Le cause minori erano, invece, trattate in primo grado dai tribunali dei singoli comuni, mentre al tribunale centrale spettava la competenza in appello. I tribunali centrali signorili erano, poi, dotati di poteri discrezionali ed equitativi, che consentivano di applicare in modo non rigoroso e letterale le norme giuridiche, così da facilitare il funzionamento del sempre più complesso sistema delle fonti del diritto (diritto romano, Statuti, consilia dei giuristi, precedenti sentenze) ed evitare la paralisi della macchina della giustizia. b) i fori privilegiati Accanto ai tribunali ordinari vi erano, poi, i tribunali speciali, che sottraevano determinate categorie di persone o determinate materie alla competenza dei giudici ordinari. Gli ecclesiastici, ad esempio, godevano della prerogativa di essere giudicati in via esclusiva dai tribunali vescovili (privilegio del foro esclusivo) non solo in relazione a questioni attinenti al diritto canonico ma anche con riferimento alle cause civili e penali. Erano previsti giudici speciali anche per le controversie che sorgevano nelle fiere e nei mercati, in occasione di contratti conclusi in quei contesti o di reati commessi in quelle occasioni. A richiedere l’intervento di giudici speciali era il carattere particolare di quelle riunioni che esigevano una soluzione velocissima, poiché al chiudersi del mercato o della fiera ognuno doveva essere libero di recarsi altrove, in luoghi dove sarebbero stati diversi i giudici e diverse le leggi e le consuetudini da osservare. I Comuni titolari della giurisdizione ordinaria rinunciavano, quindi, a esercitarla a favore di giudici speciali – comunque nominati dagli organi pubblici (consoli o podestà) – che risolvevano immediatamente le controversie civili o criminali. Agli ebrei era riconosciuta la facoltà di vivere secondo la legge mosaica e di ricorrere alla giurisdizione dei rabbini per la soluzione di controversie fra ebrei di natura religiosa, civile e penale. I soldati potevano essere giudicati solo da speciali tribunali militari. c) le fonti del diritto penale comunale Le norme penali utilizzate nei Comuni tra il XII e il XIV secolo avevano diversa origine. 1) Vi erano in primo luogo le leggi del diritto romano-giustinianeo (il cosiddetto ius commune) 2) poi c’erano gli Statuti comunali(statuta). Ogni Comune si dotò di un suo liber statutorum, che non fu mai un testo rigido e chiuso a ulteriori aggiornamenti o integrazioni: l’attività di normazione proseguì nel tempo con continue aggiunte ai capitoli originari. Di conseguenza, lo Statuto non era mai esaustivo o completo, perché non contemplava tutti i casi che potevano verificarsi nella realtà. Non era neppure una fonte esclusiva, poiché coesisteva con altre fonti di produzione del diritto, come il diritto romano comune. 3) Anche la dottrina, cioè la scienza giuridica, svolse un ruolo importante nella produzione e applicazione del diritto penale dei Comuni. Infatti, gli Statuti contenevano – almeno all’inizio – un numero limitato di norme dedicate al diritto penale: poche norme che individuavano e sanzionavano pochi reati, di solito quelli più gravi e pericolosi per l’esistenza del Comune stesso (come i reati politici) oppure quelli che turbavano maggiormente la pace sociale. Gli Statuti erano, dunque, caratterizzati dalla sommarietà e incompletezza, e ci vollero decenni perché da poche norme dedicate a risolvere alcuni problemi si arrivasse a dei veri e propri testi normativi articolati e complessi, formati da tante norme. Di conseguenza, fu necessario che la dottrina – cioè i Glossatori - supplissero all’incompletezza degli Statuti – da applicare pur sempre in via prioritaria – con il ricorso al diritto romano-comune, che era più complesso, più esaustivo, scientificamente superiore. Gli Statuti ponevano, poi, molti problemi interpretativi - cioè problemi di lettura e comprensione della singola regola, di applicazione concreta nella realtà quotidiana: tutti problemi per la cui soluzione i giuristi facevano ampio ricorso al diritto romano-comune come uno strumento in grado di fornire elementi utili per interpretare il significato della norma statutaria (per esempio, lo Statuto parlava di omicidio colposo, ma senza specificare cosa fosse la colpa: il diritto romano-comune forniva le chiavi interpretative per capire la distinzione fra dolo e colpa). Ecco perché i giuristi trecenteschi affermavano che lo Statuto doveva essere interpretato secondo il diritto comune. Questo atteggiamento della dottrina dipendeva anche dalla fondamentale convinzione che il diritto romano-comune fosse espressione di razionalità e il solo deposito di principî generali del diritto universalmente validi in ogni luogo e potenzialmente applicabili a chiunque, mentre gli Statuti erano l’espressione di scelte e di politiche del diritto provvisorie e contingenti decise volta per volta dai Comuni, e quindi complessi normativi in continua evoluzione, differenti da luogo a luogo e nello spazio. In sostanza, il diritto romano funzionava come un diritto comune a tutti i diritti “propri” locali (i cosiddetti iura propria), nel senso di essere un diritto da applicare in via sussidiaria rispetto agli Statuti, per colmarne le lacune o interpretare il contenuto delle loro disposizioni. d) le pene All’inizio, gli Statuti erano formati da poche norme, che sanzionavano pochi reati, e solitamente si trattava dei reati più gravi (come i reati politici o gli omicidi). Con il passare del tempo, però, i Comuni aumentarono il loro interesse per la repressione delle condotte che violavano la pace sociale, che causavano violenze e inimicizie fra cittadini. Di conseguenza, con il passare del tempo gli Statuti divennero sempre più complessi e articolati, poiché contenevano norme nuove e sempre più numerose. Era frequente il ricorso a pene particolarmente severe e crudeli. Si poteva giungere a un elevato livello di ferocia nel sanzionare certi tipi di crimini, perché si prendeva più in considerazione il danno arrecato che la persona del condannato e i suoi diritti. Nei casi di omicidio – ad esempio – gli Statuti prevedevano generalmente la pena di morte per decapitazione, qualunque fosse la qualità della persona offesa. Talvolta, a tale pena andava aggiunta quella della confisca generale dei beni, come nel caso di omicidio commesso con premeditazione, che era considerata una circostanza aggravante. Inoltre, il cadavere del condannato a morte poteva essere sottoposto a ogni sorta di ignominia, e comunque sempre alla misura dell’esposizione pubblica e poi della sepoltura anonima in luogo non consacrato. Particolare attenzione era, poi, riservata all’assassinio, che era considerato una forma di omicidio più grave perché qualificato dal movente del lucro (divenne una figura autonoma di reato vista la particolare diffusione che ebbe nel medioevo). Per punire il colpevole di assassinio era previsto un aggravamento di pena rispetto alla pena contemplata per l’omicidio: l’assassino era sottoposto alla morte per strascinamento a coda di cavallo per le vie della città o alla morte per attanagliamento o alla forca (e non alla decapitazione). Altra conseguenza prevista in quasi tutti gli Statuti era la confisca totale dei beni, la scomunica irrogata dall’autorità ecclesiastica, la perdita di ogni dignità e beneficio di ceto. L’assassino, poi, era considerato a tutti gli effetti “fuori legge”, per cui poteva essere impunemente ucciso da chiunque lo avesse incontrato per strada e riconosciuto. La pena di morte mediante il rogo era usata contro i colpevoli di eresia e stregoneria, ma pure per chi avesse commesso un infanticidio, un aborto o il reato di avvelenamento. Il supplizio della ruota (legati a una ruota che veniva fatta girare mentre il boia spezzava uno a uno gli arti con un martello in una lenta agonia) era contemplato per i casi di parricidio, uccisione di parenti e per l’uccisione del padrone. Il processo ACCUSATORIO in uso nei Comuni a partire dal XIII secolo 1. E’ un processo che inizia solo su domanda di parte: non può mai iniziare d’ufficio (ex officio), cioè per decisione autonoma e discrezionale di un giudice, che sia in qualche modo venuto a conoscenza della possibile consumazione di un reato (denuncia anonima, segnalazione della polizia, ecc.). Si presuppone sempre, quindi, la pre-esistenza di un conflitto in atto tra due parti e ci vuole la presentazione di un atto di accusa contro il reo - la querela - formulato dalla vittima del presunto reato oppure dai suoi familiari (come nel caso di omicidio). Peraltro, in alcuni casi particolari il processo può iniziare anche su denuncia di un qualsiasi soggetto che abbia assistito alla consumazione del reato: si tratta dei casi di reati pubblici o ordinari (detti anche crimini), cioè dei reati considerati più pericolosi e gravi per lo Stato, quindi puniti con pene più gravi, come ad esempio i reati politici, i reati a sfondo religioso (l’eresia, la bestemmia, il sacrilegio), i reati a sfondo sessuale (adulterio, stupro, rapimento), l’incendio doloso, l’omicidio, i reati di “falso” (falsificazione di monete o titoli), la corruzione, il peculato, ecc. Nel caso invece dei reati privati o straordinari (detti delitti) – considerati meno pericolosi e gravi per lo Stato, solitamente puniti con pene meno gravi - è sempre necessaria la querela della parte lesa: si tratta, ad esempio, dei casi di furto, rapina, incendio non doloso, ingiurie, aggressione, ferimento, percosse, diffamazione, ecc. Peraltro, con il passare del tempo i Comuni ritennero di dover intervenire per tutelare meglio le persone danneggiate dai reati privati/straordinari, che per esempio avrebbero potuto decidere di non presentare querela per paura delle conseguenze o perché minacciati o pagati per restare in silenzio. Di conseguenza, si affermò progressivamente il principio che chiunque potesse denunciare l’avvenuta consumazione anche di reati privati/straordinari: tuttavia, per poter procedere con le indagini, il giudice avrebbe dovuto ottenere il consenso della parte lesa. 2. È un processo triadico, cioè basato sulla presenza di tre parti (accusatore, accusato, giudice). È concepito come una lite fra due parti avverse, che si scontrano di fronte a un organo neutrale (il giudice monocratico o un collegio di giudici) che deve operare come risolutore di conflitti indipendente e imparziale, stando cioè sempre al di sopra delle parti. Di conseguenza, nella fase iniziale del processo il giudice non svolge un ruolo attivo, cioè non inizia di sua iniziativa il processo né cerca di sua volontà le prove, bensì si limita a reagire a determinate richieste delle parti: il giudice si limita a sovraintendere al regolare svolgimento del processo, consente lo svolgimento corretto dello scontro processuale tra accusa e difesa, vigila sui comportamenti delle le parti in modo che rispettino le regole e le forme indicate per la celebrazione dei giudizi (disponendo la nullità degli atti non conformi a tali regole). Infine, il giudice emette la sentenza sulla base delle prove prodotte dalle parti: sono le parti che devono indicare le prove da acquisire in giudizio; il giudice non può cercare prove di sua iniziativa personale. 3. L’accusatore – il querelante o il denunciante – può presentare un’accusa scritta (il cosiddetto libello accusatorio) oppure un’accusa orale, ma in questo caso l’accusa orale deve poi essere trascritta nel libro delle accuse da un notaio, in modo che risultino i nomi delle parti, il luogo ed il tempo del delitto, la richiesta di procedere. Al momento della presentazione dell’accusa, l’accusatore deve prestare il giuramento de veritate e il giuramento de calumnia, cioè deve giurare sia sulla verità dell’accusa sia che non sta accusando con animo calumniandi. Inoltre, è necessario promettere di proseguire l’accusa nei termini stabiliti e dare una garanzia (una fideiussione) per il pagamento di eventuali multe e spese processuali che si potrebbe essere condannati a pagare. Ci sono, poi, dei casi in cui i giudici possono esercitare un controllo di natura preventiva – un filtro – sulle persone che accusano o querelano e sulla loro idoneità a farlo. Ad esempio, non possono accusare senza autorizzazione preventiva dei giudici le donne (se non per reati particolarmente gravi o che le riguardino come persone direttamente offese), gli impuberi (cioè, i minori di 12 anni se femmine e di 14 se maschi), i figli sotto la patria potestà senza il consenso del padre, i soldati senza il consenso dei loro superiori, i servi senza il consenso dei loro padroni; non possono mai presentare accuse gli eretici, né i complici in un reato e altre categorie di soggetti ritenuti non legittimati ad accusare o querelare per varie ragioni. Un altro controllo esercitato dal giudice come filtro processuale è quello che riguarda la natura del reato. Come si è già visto, se il reato è “privato/straordinario” (meno grave e punito con pena meno severa) può accusare solo la parte lesa con querela; se il reato è “pubblico/ordinario” (più pericoloso per lo Stato, quindi più grave e punito più severamente) chiunque può presentarsi come accusatore. 4. A questo punto si procede alla citazione in giudizio dell’accusato. Nella citazione si ordina all’accusato di comparire in giudizio entro un dato termine e gli si notificano gli estremi essenziali dell’accusa (chi è l’accusatore, il capo di imputazione, ecc.). La citazione in giudizio può essere ripetuta fino a un massimo di 3 volte. se anche dopo la terza volta l’accusato non si presenta in giudizio, allora il giudice emette una sentenza di bando, così detta perché viene resa pubblica a mezzo di banditori e che non deve essere intesa come una “messa al bando” dal paese. Infatti, con questa sentenza il “contumace/bandito” è invitato a presentarsi in giudizio entro un termine preciso, con l’avviso che se non dovesse presentarsi in giudizio, allora verrà automaticamente condannato del reato di cui è stato accusato, anche se non sono state portate in giudizio prove decisive contro di lui: dunque, la contumacia dell’accusato dopo una sentenza di bando equivale a rendere una confessione. Per effetto di questa condanna il “contumace/bandito” perde il diritto all’integrità fisica e alla vita (può essere arrestato e portato davanti ai giudici da chiunque o persino ucciso da chiunque), perde il diritto all’integrità dei suoi beni (gli possono essere confiscati, con conseguenti ripercussioni sul benessere dei familiari), perde gli incarichi pubblici ricoperti, gli può essere imposto il divieto di risiedere in determinati luoghi o addirittura nell’intero Stato, gli può essere imposto l’obbligo di risiedere in un certo luogo. Da notare che i termini moderni di “bandito” e di “banditismo” hanno origine proprio dal fatto che questi soggetti contumaci e “banditi” - essendo spesso colpevoli - restavano alla macchia, latitanti, e si guardavano bene dal presentarsi davanti ai giudici. Però, così facendo, i “banditi” potevano perdere i loro beni, i loro uffici, le loro prerogative e per sopravvivere non restava loro che darsi al crimine, ai furti, alle rapine. Per contrastare tale fenomeno di banditismo molti Statuti stabilirono allora il principio per cui chi uccideva un soggetto bandito poteva godere dell’immunità e/o conseguire una taglia come premio. Gli Statuti, inoltre, miravano a fare il vuoto intorno al bandito, punendo qualsiasi comportamento di favoreggiamento posto in essere a suo vantaggio da chiunque, persino dai suoi parenti. Era punito chiunque avesse prestato aiuto o consiglio ai banditi, chi li avesse accolti nella propria casa, persino un’intera comunità che avesse offerto eventualmente ospitalità ai banditi. In pratica, si cercava di imporre a tutti gli abitanti di un luogo l’obbligo di adoperarsi, affinchè i banditi fossero siano consegnati alla giustizia. 5. Se invece l’accusato si presenta in giudizio nel termine stabilito nella citazione, il giudice gli fa prestare il giuramento de veritate e quello de calumnia. Dopo il giuramento, l’accusato deve: 1) o negare di aver commesso il reato; 2) oppure confessare la sua colpa (e in questo caso si passa direttamente alla pronuncia della sentenza di condanna). Se invece dovesse negare di essere colpevole, allora si verifica la cosiddetta litis contestatio, cioè il momento dell’accettazione formale del processo da parte dell’accusato/convenuto. 6. A questo punto il giudice interroga le parti per cercare di circoscrivere l’oggetto del processo e indirizzare quindi la ricerca e l’acquisizione delle prove. Si tratta di verificare 1) se effettivamente sia stato commesso un reato e 2) se l’accusato (o qualcun altro) potrebbe averlo commesso. L’interrogatorio dell’accusato avviene sulla base di domande proposte al giudice dall’attore - le positiones - a cui l’accusato deve rispondere con le parole credo oppure nego. Se l’accusato risponde credo a una domanda, i fatti oggetto di quella singola domanda rimangono confessati e provati. Se l’accusato risponde nego, allora si deve procedere per cercare altre prove diverse dalla confessione. Ovviamente, quante più accuse/affermazioni formulate nelle singole positiones l’accusatore riesce a farsi confermare dall’accusato con un credo, tanto più risulterà credibile la ricostruzione del fatto prospettata dall’accusatore e tanto più facile sarà per lui ottenere una condanna. A questo scopo, già nel Duecento i trattati intitolati De positionibus insegnano le tecniche corrette per porre le domande nelle positiones. Per esempio, si consiglia di non formulare la domanda descrivendo un fatto con troppe frasi e parole, oppure esponendo troppi fatti tutti insieme (come “affermo che tu nel tal giorno e di sera, in vicinanza della chiesa, hai usato un rastrello per colpire sulla testa Caio, che era vestito di una cappa rossa e che è caduto a terra e in seguito è morto per tale ferita”), perché l’accusato negando un singolo particolare potrebbe negare tutto (ad esempio, “ho colpito ma non con un rastrello; ho colpito un tizio senza cappa rossa; ho colpito non in testa ma in un’altra parte del corpo; se anche il colpo mortale fosse stato inferto alla testa, non sono io ad aver ucciso”). I trattati consigliano, quindi, di scomporre i singoli elementi dei fatti in tante frasi brevi, del tipo “affermo che tu hai percosso Caio” e se la controparte confessa si procede per gradi ulteriori: “affermo che lo hai percosso il tal giorno” e “che lo hai percosso sulla testa”, e solo alla fine si afferma che “quella percossa fu mortale”. Se l’accusato confessa rispondendo credo a tutte le positiones, allora il processo si avvia alla conclusione con la pronuncia di una sentenza di condanna. 6. Se l’accusato non confessa rispondendo credo a tutte le positiones, allora si dà un termine all’accusato e all’accusatore per produrre le altre prove. In particolare, si richiede all’accusatore di indicare i testimoni e le domande che il giudice dovrà porre loro, le cosiddette intentiones Si chiede poi all’accusato quali domande lo stesso giudice dovrà rivolgere ai testimoni dell’accusa - le quaestiones - e chi saranno i testimoni a difesa da interrogare e con quali domande (sempre dette quaestiones). I testimoni sono interrogati dal giudice senza la presenza delle parti: il giudice interroga i testi rivolgendo loro le domande indicate dalle parti, che però non possono assistere agli interrogatori Anche ai testimoni possono essere chieste delle garanzie, per far sì che compaiano in giudizio a rendere le loro deposizioni: il giudice li può citare in giudizio, disponendo il pignoramento di alcuni loro beni a garanzia della loro comparizione. L’esame dei testimoni (la cosiddetta escussione) inizia dai testimoni indicati dall’accusatore, sulla base delle intentiones aventi ad oggetto i fatti che l’accusatore intende provare (i cosiddetti “capitoli” di prova). Le intentiones dell’accusatore sono legate logicamente alle positiones da lui già poste direttamente all’accusato, dato che devono provare i punti negati dall’accusato nel corso dell’interrogatorio di quest’ultimo. Tuttavia, può accadere che le domande dell’accusatore spesso si allontanino dal fatto iniziale, per esaltare particolari secondari o mettere in difficoltà l’accusato con domande rivolte ai testi che riguardano la reputazione dell’accusato o la sua condizione di vita. Però, in questo modo il fatto di reato tende a passare in secondo piano, perché la prova testimoniale può vertere su argomenti estranei al fatto principale: ad esempio, può avere ad oggetto il rapporto dei testimoni con l’accusato, la cattiva fama dell’accusato che lo rende sospetto agli occhi del giudice. Per quanto concerne invece le domande che l’accusato può fare ai testimoni dell’accusa o a quelli da lui presentati (le quaestiones), il procedimento è quasi standard: si cerca di individuare un punto debole nelle deposizioni dei testimoni dell’accusa, proponendo domande che vertono su singoli particolari della vicenda e sui livelli di certezza del testimone. La tecnica migliore consiste nel fare domande sui “livelli di conoscenza” effettiva (dove, come e quando i testimoni sono venuti a conoscenza del fatto affermato), sviluppando quanto più numerose domande “sui particolari” della loro deposizione. Esempio: Come formulare le quaestiones dell’accusato (da Bonaguida d’Arezzo, giurista toscano del Duecento) In un processo per il reato di bigamia, se un teste dell’accusa ha deposto di essere al corrente del matrimonio di Berta con Tizio, gli si chieda come faccia a sapere di questo matrimonio; se il teste dice di averlo visto, gli si chieda dov’era, se in casa o fuori; se risponde in casa, gli si chieda in quale parte della casa, e se la casa aveva un balcone o era a un solo piano; se dice che era balconata, gli si chieda se il matrimonio avvenne sopra o sotto il balcone; quali erano i confini della casa, se c’erano testimoni e come erano vestiti; con quali parole i nubendi contrassero il matrimonio, ecc.. 7. Il rito accusatorio in uso nel continente europeo è un processo senza giuria, senza cioè una partecipazione popolare alle fasi dello svolgimento del processo, dell’esame delle prove, della pronuncia della sentenza. La sentenza è emessa da un magistrato monocratico o da un collegio di magistrati: non sono giudici popolari, sono giudici “togati”, dipendenti pubblici e professionisti del diritto che hanno studiato per anni le leggi. Questi magistrati sono allo stesso tempo incaricati di svolgere il ruolo di “giudice del fatto” (devono cioè rispondere alla domanda: “l’imputato è colpevole?”) e di “giudice del diritto” (devono cioè rispondere alle domande: le norme che disciplinano lo svolgimento del processo sono state rispettate? C’erano tutti i requisiti richiesti dalla legge per celebrare il processo? C’erano i requisiti richiesti dalla legge per poter considerare una prova come valida e utilizzabile in giudizio? Qual è la pena da applicare al reo riconosciuto colpevole del reato?). Non esiste quindi - come invece già accade in quei secoli in Inghilterra – il ricorso alle giurie popolari. 8. Il rito accusatorio è un processo che si svolge in parte in forma orale (con la formulazione di domande e risposte all’accusato e ai testimoni) e in parte in forma scritta, con la verbalizzazione di tutto quanto è compiuto dai giudici e davanti ai giudici. Le prove non vengono sempre esaminate ed acquisite dai giudici alla presenza delle parti e dei loro avvocati, cioè non sempre vengono presentate e contestate davanti alle parti. Per fare un esempio, i testimoni e i periti sono interrogati dai giudici sulla base di domande indicate dalle parti, che però non prendono parte all’interrogatorio: accusa e difesa indicano le prove da acquisire, quali testimoni o periti i giudici dovrebbero interrogare; ma poi – appunto – pensano a tutti i giudici. Ecco, però, perché ogni atto compiuto dai giudici deve essere attentamente e scrupolosamente verbalizzato. In sostanza, manca quello che oggi chiamiamo il “dibattimento”, cioè lo scontro verbale fra accusa e difesa che si affrontano davanti ai giudici e che contestano le rispettive tesi a colpi di prove, che mettono in dubbio l’attendibilità e la rilevanza di queste prove. Alla fine la sentenza è adottata dai giudici non dopo aver assistito al contraddittorio fra accusa e difesa ed essersi fatti un’idea ascoltando l’accusato e i testimoni interrogati da accusa e difesa: sono i giudici stessi a esaminare e interrogare direttamente e in prima persona l’accusato, l’accusatore, i testimoni, i periti. Dopodiché, i giudici si riuniscono da soli in una stanza separata (cioè in “camera di consiglio”) e decidono in segreto come risolvere il processo, sulla base di quanto hanno appreso in aula e rileggendo i verbali del processo (ecco l’importanza della forma scritta, di verbalizzare ogni atto compiuto nel processo). 9. La sentenza deve essere adottata dal giudice SOLO sulla base delle prove legali acquisite nel corso del processo. Prova legale significa che: a) le prove sono solo ed esclusivamente quelle indicate a priori dalla legge; b) per poter essere utilizzate in giudizio, le prove devono presentare tutti i requisiti indicati a priori dalla legge (ad esempio, vale la regola “un solo testimone equivale a zero testi”, unus testis nullus testis); c) le prove in possesso di tali requisiti hanno un’efficacia particolare, cioè un valore probatorio, predeterminato dalla legge e quindi incontestabile da parte dei giudici. Di conseguenza, in presenza di una prova legale attestante la colpevolezza dell’imputato il giudice non può dichiarare di non essere personalmente convinto da tale prova e rifiutarsi di condannare, salvo addurre la contestuale esistenza di un’altra prova legale che attesti l’innocenza dell’imputato. Se poi non ci sono prove legali, allora il giudice non può mai condannare, anche se personalmente si è convinto della colpevolezza dell’imputato. Questo “prove legali” si usano perché sono state bandite le ordalie: il passaggio da un sistema in cui il giudizio dovrebbe provenire da Dio a un sistema in cui la decisione è presa dai giudici (che sono uomini fallibili, che decidono sulla base di testimonianze date da uomini altrettanto fallibili) è un cambiamento così profondo che - perché sia accettato - è necessario che il popolo creda che la decisione finale del caso non dipende dalla discrezionalità umana, ma che sia dettata da regole logiche e razionali. I giudici devono, quindi, fare affidamento su prove logiche e razionali indicate, descritte a priori in ogni dettaglio dalle leggi (documenti, testimoni, confessioni, e così via). Ma un documento può essere falsificato, i testimoni si possono contraddire o possono essere minacciati o corrotti, chi confessa può faro perché minacciato o corrotto, e in generale le prove possono essere talvolta oscure o ingannevoli. Si deve quindi permettere ai giudici di valutare gli elementi liberamente e giudicare sulla base della loro convinzione? O si deve escogitare un sistema migliore, in cui a ciascun strumento di prova è assegnato il proprio valore e in cui l’accettazione o il rifiuto dei vari tipi di prove (come l’attendibilità dei testimoni o la verifica dell’autenticità dei documenti) siano soggetti a regole precise? Ecco perché si opta per un sistema di prove dotte o legali, così dette perché sono le leggi a indicare a priori i requisiti delle singole prove e a dire quale valore abbiano, allo scopo di salvaguardare le parti da ogni rischio di errore o di arbitrio da parte dei giudici. La “legalità” dei mezzi di prova è, quindi, un modo per difendere l’imputato dalla discrezionalità soggettiva dell’autorità giudicante. Il reo è “convinto” della sua colpevolezza e condannato per effetto della contestuale presenza contro di un insieme di prove prestabilite ex ante nel loro numero, qualità, condizioni, caratteristiche. 10. Le sentenze non sono motivate. Il loro contenuto dal punto di vista delle argomentazioni giuridiche, delle spiegazioni del motivo per cui si è giunti a una determinata decisione, è molto povero, scarno. C’è ovviamente il dispositivo, la parte in cui si dice se l’imputato è colpevole o meno, e nel primo caso quale sarà la pena da scontare. 11. La sentenza può essere di condanna, o di assoluzione per innocenza (oggi si direbbe perchè il fatto di reato non sussiste o non è attribuibile all’imputato), oppure di assoluzione per mancanza di prove 12. Il processo può avere, però, anche un esito diverso da queste 3 ipotesi. Per esempio, si può verificare l’ipotesi della contumacia dell’accusato, che non si presenta in processo per rispondere alle accuse rivolte nei suoi confronti. In casi del genere il diritto romano e il diritto canonico prevedevano che se l’accusato, dopo le citazioni in giudizio previste dalle norme (a volte 3 reiterate successivamente, a volte solo 2) fosse rimasto assente, allora non era possibile emettere una sentenza di condanna. Era solo possibile confiscare i beni dell’accusato contumace. Tuttavia, le consuetudini dei Comuni italiani ratificate negli Statuti stabilivano in senso diverso. Con il suo rifiuto a comparire in giudizio, l’accusato si poneva al di fuori dalla comunità e in uno stato di inimicizia con la collettività. Di conseguenza, contro l’accusato/indagato che fosse contumace (per le ragioni più svariate, perché poteva essersi dato alla fuga, oppure era lontano e inconsapevole di essere indagato, ecc.) il giudice poteva emettere una sentenza di messa al bando con l’indicazione di un nuovo termine per comparire in giudizio. A questo punto, se il contumace non si fosse presentato in giudizio entro il nuovo termine previsto e indicato nella sentenza di bando, allora l’accusato contumace e “bandito” (in quanto destinatario di una sentenza di bando) poteva essere condannato in relazione al reato per cui era inquisito, senza bisogno di cercare e fornire ulteriori prove della sua colpevolezza: la contumacia equivaleva a una confessione presunta. La condanna del contumace che fosse anche stato “bandito” produceva anche effetti che potevano variare dalla perdita della capacità di ricoprire incarichi pubblici alla perdita del diritto all’integrità fisica e anche della vita, alla perdita dei beni (si subiva la confisca generale di tutti i beni, con ripercussioni economiche su tutta la famiglia del condannato), al divieto di risiedere in determinati luoghi o addirittura nell’intero Stato. 13. È anche possibile che il processo accusatorio finisca senza la pronuncia di una sentenza, il che accade nell’ipotesi della mancata prosecuzione dell’accusa. Per esempio, l’accusatore non può proseguire l’accusa, perché non ha prove contro il sospettato e quindi abbandona il processo, oppure ritira formalmente l’accusa per qualche motivo rinunciando ad essa (per l’intimidazione esercitata dall’imputato sull’accusatore o sui testimoni) E’ anche possibile che accusatore e accusato trovino un altro modo di risolvere il loro conflitto, stipulando cioè una “pace privata” (vedi punto successivo). 14. Il processo può terminare prima di arrivare alla sentenza anche a seguito di un accordo di pace fra le parti che stipulano una pace privata. La pace privata è frequente e accettata dagli Statuti, perché è importante garantire la concordia tra i cittadini, fra le famiglie, e quindi la stabilità politica e sociale del Comune. La pace è, poi, una soluzione che risponde a un altro interesse del Comune: quello di diminuire il numero dei “banditi”, poiché la pace può essere usata dall’accusato contumace per uscire dalla situazione in cui si è venuto a trovare a seguito della sentenza di bando. La pace raggiunta tra le parti assume rilievo processuale solo quando è giudiziale, cioè presentata al giudice e da questi accettata. In alcuni casi il giudice può comunque continuare il processo, oppure accogliere parzialmente la pace, poiché esiste un margine discrezionale nella sua valutazione. Le paci extragiudiziali hanno natura contrattuale: sono accordi stipulati al di fuori di un processo e dinanzi a un notaio, con cui una parte perdona le offese dell’altra e si impegna a non citarla in giudizio per ottenere giustizia oppure a interrompere il processo una volta iniziato, garantendo in caso contrario il pagamento di una somma. Non sempre, però, è possibile stipulare una pace privata. Secondo il diritto romano le parti possono arrivare a un accordo di pace che ponga fine al processo SOLO SE il reato è pubblico/ordinario (quindi grave e pericoloso) e punito con la pena di morte. Nel Medioevo, però, i casi in cui la pace è lecita aumentano, fino a comprendere anche altre ipotesi di reato. D’altra parte, ci sono Statuti comunali che vanno contro il diritto romano e limitano l’applicazione della pace SOLO ai reati poco gravi, i reati non capitali (cioè puniti con pene diverse dalla pena di morte) e solitamente con pene pecuniarie. Sugli effetti della pace privata ci sono dispute in dottrina: - tesi dell’efficacia assoluta. Alcuni sostengono una tesi che dilata le conseguenze della pace raggiunta oltre le parti processuali: la pace raggiunta dalle parti e accettata dal giudice pone fine al processo e impedisce a chiunque di riproporre le accuse in futuro (cioè non solo alle parti stesse dell’accordo, ma anche a chiunque altro volesse ricominciare il processo) - tesi dell’efficacia relativa. La pace ha valore solo per le parti che l’hanno conclusa, ma non per altri, che possono quindi accusare o decidere di far continuare il processo anche se l’accusatore originale ha stipulato la pace. Inoltre, per alcuni Statuti l’accusatore stesso potrebbe a un certo punto cambiare idea e decidere di far riprendere il processo. Il modello processuale INQUISITORIO medievale Il modello processuale inquisitorio era descritto nella compilazione giustinianea e quindi era stato studiato dai Glossatori. Tuttavia, un forte impulso al suo impiego e alla progressiva affermazione del rito inquisitorio come un sistema processuale alternativo a quello accusatorio è da ricercarsi nelle decisioni assunte dal IV Concilio lateranense del 1215 convocato da Innocenzo III. Lo scopo perseguito da Innocenzo III e dal IV Concilio lateranense era quello di modificare le modalità di svolgimento dei processi nelle corti ecclesiastiche per conseguire lo scopo di - attuare un maggiore controllo gerarchico e centralizzato sullo svolgimento dei processi, - migliorare l’efficienza dei tribunali nell’emettere le sentenze, rendendo i processi più veloci e aumentando la fiducia degli ecclesiastici e dei laici in decisioni giuste. Vennero, quindi, fissate alcune importanti regole concernenti l’amministrazione della giustizia nei tribunali ecclesiastici: - il processo penale canonico era una procedura condotta per iniziativa del giudice istruttore e la presenza di un querelante o di un accusatore di altro tipo non era sempre e comunque necessaria; - il clero non poteva assistere ai processi che riguardavano reati commessi con spargimento di sangue; - non si potevano usare le ordalie né tollerarne l’uso; - tutti gli atti del processo dovevano essere redatti per iscritto, perché la scrittura consentiva di esercitare il controllo delle autorità giudiziarie centrali su quelle locali. - fu introdotta la distinzione fra inquisizione generale e inquisizione speciale. L’inquisizione generale – la fase iniziale del processo inquisitorio - non era necessariamente rivolta contro una persona specifica, perché spesso non si sapeva con certezza chi potesse essere il reo. Inoltre, questa prima fase era “informale”, nel senso che iniziava quando fosse giunta la notizia dell’avvenuta consumazione di un reato, anche se non si fosse conosciuta l’identità del colpevole: questa pima fase del processo, infatti, serviva proprio a scoprire chi fossero le persone “infamate”, cioè sospettate di essere gli autori del reato. Quando da tale fase di inquisizione generale fosse emerso chi erano i “diffamati”, costoro sarebbero stati citati in giudizio e formalmente imputati: in tal modo si sarebbe aperta la 2 fase del processo - la inquisizione speciale - rivolta ad accertare se gli imputati fossero colpevoli o meno. Mentre fra Duecento e Trecento il diritto canonico si evolveva in questo senso, nei Comuni italiani il rito accusatorio era ancora la forma processuale ordinaria e il giudice non poteva procedere ex officio, cioè in assenza di una querela o di una denuncia. Tuttavia, con il passare del tempo, molti Statuti comunali iniziarono a concedere al podestà e ai giudici l’arbitrium inquirendi, cioè il potere di decidere arbitrariamente se iniziare le indagini e aprire quindi il processo per un certo numero di reati, di solito i reati pubblici-ordinari (cioè i crimini) più gravi. In seguito, il catalogo dei reati perseguibili ex officio si allungò fino a ricomprendere tutti i reati: venne cioè concesso ai giudici il potere di decidere se attendere l’iniziativa di parte (e in mancanza non iniziare il processo) o se esercitare l’azione penale ex officio sempre e comunque. Questo aspetto dell’esercizio d’ufficio dell’azione penale da parte dei giudici cittadini è il primo importante dato che certifica come il modello processuale inquisitorio si sia progressivamente imposto anche nei Comuni, prima affiancando il modello accusatorio (in modo che era possibile scegliere se procedere con l’uno o con l’altro rito) e poi diventando il modello prevalente a scapito di quello accusatorio. Il sempre più frequente avvio dei processi ex officio implicava a sua volta un aumento dell’importanza del ruolo svolto dal giudice pubblico e della funzione pubblica del processo, facendo passare in secondo piano il ruolo del contraddittorio fra accusa e difesa e allo stesso tempo ponendo in secondo piano il profilo della vittima. La cosiddetta parte attrice (od attore) era scavalcata dall’iniziativa ex officio avviata dal giudice sulla scorta della rilevanza assunta dal reato commesso. Tutto ciò era la conseguenza del fatto che lo Stato (i Comuni, in questo caso) volevano estendere il raggio d’azione del loro intervento nei rapporti fra i privati in modo sempre più massiccio ed esaustivo, aumentando la produzione di norme (le regole statutarie) che indicavano: 1) i comportamenti penalmente rilevanti (quali condotte dovessero assurgere al rango di reato per il bene della collettività e della esistenza del Comune stesso); 2) quali fossero le pene applicabili; 3) quali fosse la procedura da seguire per accertare se fosse stato realmente commesso un reato e chi ne fosse il colpevole. Per i Comuni l’amministrazione della giustizia penale era sempre più un mezzo di governo della comunità, da non lasciare alla sola iniziativa delle vittime: garantire l’ordine pubblico era sempre di più una questione di credibilità del potere politico cittadino e la buona amministrazione della giustizia diveniva sempre più un criterio di misurazione dell’efficacia del potere di governo. Di conseguenza, la giustizia non era più percepita come un fatto tra privati: perseguire un reato diventava un officium, un dovere, delle autorità pubbliche, perchè il reato era un danno commesso non solo nei confronti di un individuo ma anche della pace sociale: il reo offendeva non solo la vittima ma anche la comunità intera; i reati non potevano restare impuniti, perché la vittima doveva ottenere una giusta vendetta, ma allo stesso tempo la società era interessata al ristabilimento dell’ordine pubblico violato; la pena inferta equivaleva a un risarcimento comminato non solo a favore della vittima ma anche della collettività e della pace sociale violata. La dottrina e giuristi medievali dovettero tener conto di questo cambio di prospettiva. Uno dei più famosi giuristi penalisti del Trecento, Alberto Gandino, affermò nel suo Tractatus de maleficiis che era ormai consuetudine dei suoi tempi che i giudici dei Comuni procedessero ex officio per tutti i reati. Lo stesso Gandino riportava le ragioni per preferire il modello dell’inquisizione (inquisitorio) rispetto a quello dell’accusa (accusatorio): 1) i “malefici” (i reati) non dovevano rimanere impuniti: con il processo accusatorio si arrivava raramente a tale risultato, perchè c’erano gli avvocati, le formalità procedurali, i lunghi esami dei testimoni che allungavano i tempi e complicavano la raccolta delle prove; 2) nel rito accusatorio l’accusatore rivolgeva spesso accuse calunniose, oppure iniziava la causa per motivi personali che però non lo inducevano poi ad arrivare sino alla conclusione e alla scoperta della verità; invece, nel rito inquisitorio se l’accusatore avesse desistito dall’accusa, il giudice avrebbe potuto decidere di proseguire il processo; 3) nel rito inquisitorio erano minori le formalità e le regole processuali da seguire a pena di nullità degli atti; 4) nel rito inquisitorio il giudice non era un semplice “arbitro” dello scontro fra le parti, ma forniva un contributo essenziale alla scoperta dei crimini e alla loro punizione dirigendo personalmente le indagini e andando alla ricerca di ogni tipo di prova, senza aspettare le richieste delle parti o le allegazioni delle prove da esse indicate. In seguito, nel Quattrocento e Cinquecento, si stabilì che la presenza di un’accusa della parte offesa (la querela) o di un privato cittadino (la denuncia) era solo uno dei possibili presupposti per l’inizio del processo, poichè in realtà il giudice poteva sempre aprire ex officio le indagini. Vediamo allora i principali caratteri del rito inquisitorio: 1. Il rito inquisitorio inizia quando i privati si rivolgono al giudice con una querela (la parte lesa o i suoi familiari) o con una denuncia (qualsiasi privato cittadino), oppure il giudice può anche agire d’ufficio nei seguenti casi a) quando c’è un interesse pubblico da tutelare (ad esempio, il giudice può semplicemente invocare la necessità di salvaguardare la pace sociale e la tranquillità pubblica); b) se c’è la mala fama – l’infamia – che grava su qualcuno (per esempio, a causa della cattiva reputazione di cui gode qualcuno, perché è un recidivo o un pregiudicato, ecc.); c) in caso di flagranza di reato, cioè quando una persona è stata sorpresa nell’atto di commettere un reato; d) nel caso del cosiddetto notorio, che si verifica quando il reato è stato commesso tempo addietro (quindi non c’è flagranza) davanti a molta gente e quindi è ben “noto” alla maggior parte della cittadinanza sia che il reato è stato effettivamente commesso sia chi sia il suo autore; e) ogniqualvolta giunga al giudice in qualche modo una dettagliata notizia di reato, cioè la comunicazione che forse è stato commesso un reato (ad esempio, perché c’è stata la notifica da parte di pubblici ufficiali, oppure perchè è giunta una lettera anonima). In tutti questi casi si instaura una commistione fra la figura dell’accusatore privato e quella del giudice inquirente: questo è uno dei motivi per cui il processo “inquisitorio” è definito come un modello processuale diadico, cioè basato sulla presenza di due sole persone: l’accusato e il giudice inquirente-accusatore (mentre il modello “accusatorio” è triadico, a tre parti). Un altro motivo per cui si parla di rito processuale “a due” è che il giudice inquirente – dopo aver svolto le indagini e diretto l’acquisizione delle prove in giudizio – prende anche parte all’emissione della sentenza, in qualità di giudice monocratico o di membro di un collegio giudicante. Dunque, nel rito inquisitorio il giudice non è un soggetto “terzo” e imparziale rispetto alle 2 parti dell’accusatore e dell’imputato: nel rito inquisitorio il giudice inquirente è una sorta di “factotum”, che può svolgere contemporaneamente il ruolo di accusatore, di organo inquirente e di organo giudicante. 2. Il giudice inquirente svolge un ruolo attivo nella ricerca di tutti i tipi di prove, sia di quelle a carico del presunto colpevole, sia delle prove in suo favore. Infatti, l’accusato non può difendersi ricercando personalmente le prove o incaricando un avvocato di farlo. Ovviamente questo crea una situazione di disparità fra accusa e difesa. La dottrina e gli Statuti precisano che il giudice inquirente dovrà essere sempre imparziale e che ricercherà sempre ogni tipo di prova, cercando di non farsi guidare da pregiudizi contro l’accusato o da convinzioni personali su come dovrebbero essersi svolti i fatti. Ma il giudice riuscirà veramente ad agire sempre in questo modo? Ovviamente non sempre. 3. La 1° fase del processo inquisitorio descritto negli Statuti comunali si chiama inquisizione generale (detta anche processo informativo), durante la quale il giudice istruttore: a) accerta per prima cosa l’effettiva consumazione di un reato e quindi l’esistenza del cosiddetto “corpo del reato” (esiste un cadavere? Sul cadavere ci sono segni di ferite d’arma bianca o di arma da fuoco? Esiste la casa bruciata? C’è una cassaforte svaligiata? Ecc.); b) se il giudice non conosce già il nome del presunto colpevole (ad esempio, perché mancano la querela o la denuncia, oppure perché querela e denuncia sono troppo generiche e non fanno nomi), allora il giudice va alla ricerca di eventuali testimoni che abbiano visto chi ha commesso il reato. I testimoni sono esaminati in segreto, verbalizzando tutto: in questa fase i testimoni non sono obbligati a giurare di dire la verità, perché non li si vuole intimorire, bensì far sì che parlino il più possibile. In assenza di testimoni, il giudice cerca di scoprire delle circostanze – degli indizi – dai quali risalire all’identità del probabile colpevole (per esempio, una persona è stata vista fuggire dal luogo del reato, oppure è stata vista con la probabile arma del reato in mano, oppure ha addosso la refurtiva, ecc.). 4. Una volta appurato che un reato è stato commesso e che c’è un sospettato, solo allora si può passare alla 2° fase del processo, quella dell’inquisizione speciale (o processo offensivo), durante la quale si procede alla ricerca delle prove che possano deporre a carico o in favore del sospettato. Se il sospettato non è già stato arrestato in via cautelare e non è già a disposizione del giudice, allora si deve procedere alla sua citazione in giudizio. Una volta che l’accusato è comparso in giudizio davanti al giudice, si procede al suo interrogatorio (detto costituto). Si inizia con un 1° interrogatorio ordinario e generico (detto “costituto de plano”), in cui si fanno domande generiche, per esempio riguardo alle generalità dell’interrogato, a dove era il giorno del reato, se sa che è stato commesso un reato, ecc. In un secondo momento si passa a un 2° interrogatorio più specifico e dettagliato, svolto in modo aggressivo e serrato, per mettere in evidenza le contraddizioni nelle risposte date dall’inquisito: si tratta di un interrogatorio basato su continue “opposizioni” a quanto da lui sostenuto e per questo si chiama “costituto opposizionale”. L’interrogato non ha diritto all’assistenza di un difensore, né a conoscere in modo chiaro e preciso in singoli capi di imputazione contro di lui, né ha il diritto di conoscere quali siano le prove già raccolte contro di lui o in suo favore. L’interrogatorio viene svolto in segreto (senza la presenza del pubblico, senza difensori, senza comunicare all’accusato nulla in via preventiva e di garanzia di ciò che potrebbe essergli contestato nell’interrogatorio) e si verbalizza tutto, messo per iscritto e inserito nel fascicolo processuale. L’indagato è obbligato a rispondere e non ha il diritto a restare in silenzio: se rifiuta di rispondere alle domande può essere messo sotto tortura. In alcuni paesi si può ricorrere alla tortura anche se l’imputato dice di non sapere o di non ricordarsi le cose che gli vengono chieste (“reticenza”); oppure si può tortura