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This document is a legal study on the Universal Declaration of Human Rights. It discusses the historical context and various perspectives surrounding human rights. It examines the evolution and significance of this landmark document in international law.

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DISPENSA “DALLA DICHIARAZIONE UNIVERSALE ALLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO” CAPITOLO I. LA DICHIARAZIONE 60 ANNI DOPO 1.1 premessa La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea Generale il 10 dicembre 1948 e...

DISPENSA “DALLA DICHIARAZIONE UNIVERSALE ALLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO” CAPITOLO I. LA DICHIARAZIONE 60 ANNI DOPO 1.1 premessa La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea Generale il 10 dicembre 1948 e considerata l’atto fondativo della tematica dei diritti umani a livello internazionale, induce una riflessione sui risultati conseguiti in termini di individuazione, riconoscimento, arricchimento e tutela di tali diritti contro il disconoscimento e le violazioni alle quali rischiano di essere sottoposti. 1.2 I diritti umani nella Carta delle Nazioni Unite Essa è ritenuta fondativa di un nuovo ordine internazionale (fondato sul rispetto dei diritti dell’uomo) in contrapposizione a quello delle ideologie e dei regimi, sconfitto dalla seconda guerra mondiale e basato su concetti quali la superiorità di una razza sulle altre e l’asservimento dell’individuo allo stato; pertanto, essa ha rappresentato una svolta nella concezione dei rapporti Stato-individuo (tema prima considerato irrilevante per il diritto internazionale in quanto oggetto esclusivo di domestic jurisdiction). Ai sensi dell’art. 1 della Carta ONU, tale organizzazione si pone come fine anche quello di “promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali senza distinzioni di razza, sesso, lingua e religione”, affianco all’obiettivo del mantenimento della pace: il rispetto dei diritti umani è quindi, al contempo, una valore e una condizione indispensabile al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; la pace stessa deve essere intesa come fondata sul rispetto dei diritti umani. La Carta non impone agli Stati membri un obbligo immediato e precettivo (gli organi delle Nazioni Unite non sono forniti di poteri decisionali di natura obbligatoria e gli atti a carattere generale che elaborano incontrano l’ostacolo della domestic jurisdiction, non potendo dunque intervenire su questioni di competenza interna degli Stati). Dunque, la Carta propone un obbligo graduale e programmatico di agire cooperando con l’ONU per promuovere il rispetto e l’osservanza dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Quanto alla definizione di diritti umani, questa era decisamente vaga quando è stata delineata nel ‘45, mancando una posizione unanime della comunità internazionale circa l’esistenza di un gruppo di diritti fondamentali dell’uomo. → Per esempio, la proprietà: diritto fondamentale (concezione liberale occidentale) o furto? Oppure, la vita: nonostante il carattere primordiale rispetto ad ogni altro diritto umano, permangono dibattiti sulla questione dell’aborto, dell’eutanasia e della pena di morte. 1.3 Il ruolo e i caratteri della Dichiarazione universale Rispetto alla Carta dell’ONU, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo rappresenta la traduzione di tale espressione in un equilibrato catalogo analitico e dettagliato di tali diritti, non limitandosi ad una mera elencazione dei classici diritti di libertà. Guardando ai diritti in essa contenuta, emerge come nella Dichiarazione, sebbene ispirata prevalentemente a concezioni liberali e giusnaturalistiche, siano confluite istanze di diversa matrice culturale ed ideologica, ed è anche in virtù di ciò che la si può definire davvero universale. L’impostazione liberale e giusnaturalistica emerge chiaramente nell’art.1 che afferma il carattere innato e universale dei diritti umani: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza Altre matrici ideologiche possono essere rintracciate, per esempio, nelle istanze di ispirazione cristiana tese alla valorizzazione delle formazioni sociali: l’uomo non viene considerato solo come mero individuo isolato, ma, come testimoniato dall’art. 29, anche all’interno della comunità in cui vive, ​ nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità. Significativo è sicuramente il contributo delle istanze socialiste, grazie alle quali l’uomo rientrano nella Dichiarazione i diritti economici, sociali e culturali, in virtù della considerazione dell’uomo non come individuo astratto fornito di diritti innati ed immutabili, bensì come soggetto che vive in un determinato periodo storico, con i propri bisogni materiali ed esigenze concrete. Il contributo dei paesi socialisti -a riprova dell’universalità della Dichiarazione- venne accolto, nonostante il clima di forte contrapposizione ideologica tra Est e Ovest che caratterizzava gli anni della guerra fredda. 1.4 Gli sviluppi e le “generazioni” dei diritti umani La Dichiarazione ha senz’altro un forte valore politico e morale; sul piano giuridico, essendo emanata dall’Assemblea Generale, essa non possiede valore obbligatorio vincolante, bensì esortativo: nel Preambolo emerge la consapevolezza di tale limite, in quanto si parla di un “ideale comune da raggiungere da tutti i popoli e tutte le Nazioni”, per esempio attraverso la promozione della conclusione di convenzioni internazionali sui diritti umani. Ci si impegna quindi a garantire: ​ Un ideale da raggiungere tramite l’adesione alle Convenzioni; ​ La creazione di misure di controllo/garanzia dei principi espressi dalle Convenzioni di cui sopra; ​ L’ampliamento dei diritti della Dichiarazione al fine di tutelare le categorie più vulnerabili e rispondere all’esigenza di tener conto delle nuove istanze emergenti, quali quelle dei paesi nati dalla decolonizzazione. In relazione a questo terzo punto, è emersa nei successivi atti dell’Assemblea, una distinzione in diverse categorie dette “generazioni” di tali diritti, utile non solo a fini classificatori, ma anche per far emergere le origini, le ideologie e le istanze di cui tali diritti sono espressione. PRIMA GENERAZIONE: Diritti civili e politici, espressione dell’ideologia occidentale e liberale, ritenuti tendenzialmente innati ed universali, rinvenibili in documenti quali la Costituzione degli Stati Uniti e la Dichiarazione (francese) dei diritti dell’uomo e del cittadino; sono oggetto specifico del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1996. Tra i diritti civili ricordiamo: eguaglianza davanti alla legge, libertà personale, divieto di schiavitù, libertà di movimento, di informazione e di pensiero. Tra i diritti politici ricordiamo: diritto di associazione politica, di elettorato passivo e attivo. SECONDA GENERAZIONE: Diritti economici, sociali e culturali, ispirati sia all’ideologia socialista (uomo come una soggettività con bisogni materiali, esigenze concrete e aspirazioni) che alla solidarietà cristiana. Ricordiamo il diritto al lavoro, alle associazioni sindacali, allo sciopero, all’ assistenza sanitaria e all’istituzione; TERZA GENERAZIONE: risultato delle istanze politico-economiche dei paesi del Terzo Mondo tese alla liberazione (politica ed economica) dei popoli dalla dominazione straniera. Sono diritti che appartengono sia all’individuo che al popolo di cui egli fa parte; in riferimento ai diritti dei popoli, ricordiamo la Carta africana del 1981. → diritto di autodeterminazione dei popoli e allo sviluppo (“diritto inalienabile dell’uomo in virtù del quale ogni persona e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e contribuire ad uno sviluppo economico, sociale e politico nel quale tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali possano pienamente realizzarsi”). Tale generazione comprende il diritto all’ambiente sano, alla pace, alle risorse del patrimonio comune dell’umanità, al fine di realizzare “un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà possano essere realizzati” (art. 28). Da ricordare è il rapporto tra diritti dell’uomo e dei popoli: i diritti dell’individuo NON sono fruibili se nella società sussistono condizioni di dominazione straniera, oppressione interna e sottosviluppo. Quest'ultimo elemento potrebbe venir sfruttato come alibi per giustificare il sacrificio dei diritti dell’individuo nei regimi dittatoriali; per questo la Dichiarazione sottolinea la corretta prospettiva da adottare, tesa all’eliminazione (mediante la cooperazione internazionale) delle cause strutturali che possono compromettere il godimento effettivo dei diritti internazionali, il loro allargamento e potenziamento. *QUARTA GENERAZIONE: Questa generazione è la più recente, nella quale è ancora meno agevole individuare con certezza valori condivisi. Comprende i diritti da difendere da sviluppi tecnologici e scientifici nella misura in cui essi possano compromettere l’integrità fisica e/o morale dell’uomo. Alla base vi è il riconoscimento della dignità dell’uomo e la conseguente volontà di protezione nell’ambito scientifico, medico e tecnologico. Ricordiamo, per esempio: il divieto di manipolazioni genetiche; di pratiche eugenetiche, di clonazione umana e il principio del consenso informato. Ciò viene espresso anche all’interno del protocollo addizionale alla Convenzione di Oviedo e ribadito nella “Dichiarazione Universale sul genoma umano e sui diritti umani ( 1997 )” la quale considera il genoma umano un vero e proprio patrimonio dell’umanità, unità fondamentale che definisce l’appartenenza alla “famiglia umana” (da cui l’uguaglianza a prescindere dalle caratteristiche genetiche del singolo). Particolare rilevanza acquisisce l’art 2 della Convenzione di Oviedo che descrive il primato dell’essere umano, in quanto, lo stesso non può essere sottomesso alle necessità del progresso scientifico o di imprecisati interessi collettivi: l’uomo non è il mezzo della ricerca e del progresso, bensì il fine di esse, strumentali al benessere della persona. È significativo citare altre convenzioni nate con l’obiettivo di tutelare categorie vulnerabili, quali la “Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna (1979)”; oppure la “Convenzione sui diritti del fanciullo (1989)”; la “Convenzione relativa ai diritti dei disabili (2006)”. L’ONU opera anche con attività di prevenzione e repressione di gross violations (violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani) con la creazione di Tribunali Penali Internazionali per punire tali crimini con un effetto aggiuntivo di dissuasione dal compimento degli stessi. Tali tribunali “speciali” sembrano rispondere ad un orientamento selettivo del Consiglio di Sicurezza, pertanto è da apprezzare la nascita della Corte Penale Internazionale, nata con l’accordo di Roma del 1998 e avente carattere permanente e competenza “generale” (seppur limitata dall’adesione allo Statuto degli Stati). 1.5 L’affermazione di obblighi di rispetto dei diritti umani e i procedimenti di controllo La comunità internazionale ha traslato i propri sforzi da obblighi di cooperazione e promozione del rispetto dei diritti umani a obblighi precisi, istantanei e precettivi di rispetto: l’ONU, l’OIL e l’UNESCO propongono agli Stati e sollecitano a ratificare progetti di convenzioni che diventano vincolanti una volta che gli stati vi aderiscono. Alle norme convenzionali vincolanti solo per gli Stati parti, si aggiungono le norme internazionali consuetudinarie generali, idonee ad imporre agli Stati (a prescindere dalla loro eventuale volontaria accettazione da parte degli Stati) il rispetto di un nucleo irrinunciabile di diritti umani, a partire dal divieto delle gross violations of human rights (violazioni massicce e sistematiche dei diritti umani tra cui: il genocidio; l’apartheid; la schiavitù; la tortura e i trattamenti disumani anche se si registra il tentativo di aumentare il numero delle norme incluse nella materia). Queste norme hanno carattere erga omnes, cioè, ogni stato che rileva una violazione può reagire attraverso mezzi quali proteste, rimostranze diplomatiche, misure di ritorsione (quali la sospensione delle relazioni diplomatiche o dei rapporti commerciali sino all’isolamento dello Stato in questione); ovviamente tra le contromisure non è contemplato l’uso della forza armata poiché in contrasto con l’art 2 della Carta ONU. Se guardiamo alle convenzioni internazionali di carattere universale sul tema dei diritti umani osserviamo un’ampia adesione, pur notando l’uso da parte di alcuni Stati di riserve e dichiarazioni con le quali si tende ad obbligarsi limitatamente alle norme simili a quelle già incluse nel proprio ordinamento interno, escludendo disposizioni più innovative. Maggiore disponibilità è rintracciabile nell’ambito di convenzioni regionali, concluse in cerchie più ristrette di Stati maggiormente disponibili ad assumersi obblighi circa il rispetto dei diritti umani e a sottoporsi a meccanismi di controllo, in virtù di fiducia reciproca e di una visione comune derivante da un’affinità di tradizioni, culture, sistemi politici omogenei. Questa caratterizzazione regionalistica è sostenuta dalle Nazioni Unite al fine di proteggere tali diritti, pur spingendo verso una promozione e protezione di tutti i diritti umani. → Esempio calzante di quanto detto sopra è la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo promossa dal Consiglio d’Europa (1950) sostenuta da un meccanismo di garanzia e controllo circa il rispetto di tali diritti da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha sede a Strasburgo. In tale sede, all’individuo viene riconosciuto potere di azione giudiziaria contro gli Stati innanzi ad un giudice internazionale specializzato; ciò sostiene la considerazione di un individuo sempre più attore nel diritto internazionale (≠ precedente concezione dell’uomo suddito dello Stato). Nell’Unione Europea, importanti sono stati gli sviluppi consacrati nella Carta dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore con il Trattato di Lisbona del 2007. Oltre a quello europeo, è degno di nota anche il sistema americano di tutela dei diritti umani interno all’Organizzazione degli Stati Americani. PROCEDIMENTI DI CONTROLLO ​ Per quello che concerne le Nazioni Unite, il procedimento di controllo delle convenzioni universali nei confronti degli Stati è affidato a Comitati ad hoc composti da esperti della materia, i quali si occupano di esaminare rapporti sui progressi, su eventuali difficoltà e sulle misure di attuazione messe in campo dagli Stati parte. ​ Nelle convenzioni universali sono spesso previsti procedimenti di natura conciliativa (e non arbitrale o giudiziaria) per dirimere le controversie tra Stati parte sull’applicazione/interpretazione; non si concludono con sentenza, bensì con proposte e raccomandazioni NON vincolanti. ​ Il sistema più penetrante di controllo sulla condotta degli Stati consiste nell’esame di comunicazioni: ai singoli individui che lamentano di essere vittime di violazioni di un diritto umano ad opera di uno Stato parte è attribuito un “diritto di azione” in virtù del quale il singolo ha il potere di costringere lo Stato a dare conto del proprio comportamento innanzi ad un Comitato previsto dalla convenzione. ​ Più rara è invece l’attribuzione all’organo di controllo del potere autonomo di svolgere un’inchiesta sulle violazioni dei diritti umani in uno Stato parte; un organo a cui tale potere è riconosciuto è il Comitato istituito dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene crudeli e degradanti. Tutti i procedimenti illustrati si concludono con atti di natura NON obbligatoria: l’organo di controllo non può imporre una data soluzione allo Stato riguardo all’osservanza dei diritti previsti dalla convenzione. Fatto salvo il procedimento di esame dei rapporti, tutti gli altri sono previsti in clausole o protocolli facoltativi, pertanto sono esperibili solo nei confronti degli Stati parti che abbiano accettato anche le suddette clausole. Ciononostante, secondo la prassi affermatasi, i Comitati operano con spirito “giudiziario”, esprimendo giudizi e chiedendo la cessazione o l’adozione di determinati comportamenti, organizzando talvolta meccanismi di supervisione per verificare che lo Stato si adegui alle richieste. Ricordiamo infine i procedimenti di controllo eventualmente attivabili all’interno delle Organizzazioni internazionali nei confronti degli Stati membri, a prescindere dalla loro adesione a specifiche convenzioni sui diritti umani. ​ Procedimento di sospensione di alcuni diritti nei confronti di uno Stato membro UE che abbia violato in maniera grave e persistente valori e libertà fondamentali (art. 7 Trattato sull’Unione Europea) ​ Procedimenti attivabili da singoli individui previsti dal ECOSOC (il Consiglio Economico Sociale delle Nazioni Unite) ​ Procedimenti di supervisione del comportamento degli Stati membri delle Nazioni Unite arricchiti dalla creazione del Consiglio dei diritti umani istituito nel 2006 dall’Assemblea Generale. Va notato come tali procedimenti consentano il superamento del limite della domestic jurisdiction anche grazie alle numerose risoluzioni di condanna adottate dall’Assemblea Generale e dal Consiglio Economico e Sociale verso la violazione dei diritti umani. Ciò quindi ci induce a pensare che le Nazioni Unite possano effettivamente occuparsi delle pratiche previste per le violazioni dei diritti umani riconosciuti dagli atti. 1.6 Le funzioni del Consiglio di sicurezza Principalmente verso la fine della Guerra Fredda il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha aumentato il suo impegno a riguardo dei casi di “emergenza umanitaria” adottando sia strumenti non implicanti l’uso della forza (come il divieto di esportazione di armi) che misure militari (ex: Somalia; l’ex Jugoslavia; il Ruanda; Timor Est; Liberia; Congo) operando grazie a forze di peace-keeping messe a disposizione dagli Stati membri oppure delegando a organizzazioni regionali/gruppi di Stati ad operare in tal senso (con il rischio, in quest’ultimo caso, di un abuso di mezzi coercitivi da parte degli Stati delegati). Il fine di queste misure è umanitario e comprende obiettivi quali: difendere zone protette, ristabilire condizioni di pace e assicurare le condizioni necessarie all'invio di aiuti, cibo e medicine alle popolazioni civili. Non si può negare il rischio di discrezionalità nella valutazione dell’emergenza umanitaria da parte del Consiglio di Sicurezza, in particolare per il diritto di veto dei membri permanenti che possono condizionarne l'attività in maniera selettiva. Ciononostante, il testo ritiene apprezzabile la tendenza in esame, specialmente in riferimento alla qualificazione dell’emergenza umanitaria come minaccia per la pace; questo testimonia una nuova sensibilità per i diritti umani radicatasi nella comunità internazionale, in quanto la loro violazione massiccia e sistematica riveste la stessa gravità di una minaccia alla pace. Inoltre, la gestione di gravi crisi umanitarie da parte del Consiglio di sicurezza (da preferirsi rispetto alla gestione unilaterale degli stessi ad opera dei singoli Stati) rappresenterebbe una garanzia della sicurezza dei rapporti internazionali, tendendo a migliorare anche la fiducia negli interventi umanitari. 1.7 osservazioni conclusive Traendo alcune conclusioni, non si può negare l’enorme progresso sul piano giuridico: dal punto di vista del trattamento degli individui il diritto internazionale si è evoluto notevolmente grazie all’azione delle Nazioni Unite. Dal punto di vista del rispetto dei diritti umani però assistiamo ad una involuzione con gravi violazioni compiute da regimi dittatoriali e anche nei paesi non dittatoriali, alcune correnti si lanciano nella giustificazione della tortura come strumento di guerra al terrore (il waterboarding e la vicenda che ha riguardato Guantanamo) alle quali si aggiunge il comportamento di alcuni paesi europei, colpevoli secondo un’inchiesta di una Commissione del Parlamento Europeo, di sequestrare persone sospettate di terrorismo e trasferirle in paesi terzi per torturarle. Per tutelare i diritti umani, quantomai fragili e vulnerabili è necessario un impegno costante da parte delle istituzioni e dei cittadini, i quali dovrebbero essere a loro volta educati alla promozione e al rispetto degli stessi diritti umani incoraggiando una cooperazione a tutti i livelli e con tutte le parti interessate, come ribadito dall’Assemblea Generale nella risoluzione 62/171 del 2007: la cultura dei diritti umani è il migliore strumento per promuoverne un’osservanza spontanea e generalizzata. CAPITOLO II. TENDENZE DELLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI RISERVE AI TRATTATI SUI DIRITTI UMANI 2.1 Premessa La giurisprudenza internazionale (comprendente anche atti non vincolanti degli organi di controllo istituiti dai trattati sui diritti umani) mostra una specialità circa le riserve degli Stati parti di tali trattati. Tale atteggiamento si esprime anzitutto nella tendenza a favorire la più ampia partecipazione ai trattati sui diritti umani, ma anche nell’affermazione della competenza degli organi di controllo a giudicare l’ammissibilità delle riserve, nella formulazione di criteri di tale ammissibilità, nella definizione delle conseguenze derivanti dall’inammissibilità di una riserva. Evidenziamo come le posizioni più avanzate siano state rilevate dagli organi che controllano il rispetto delle convenzioni sui diritti umani rispetto agli organi giudiziari con competenze generali ( Ex: CIG ). 2.2 Il parere della Corte Internazionale di Giustizia del 1951 sulle riserve alla Convenzione sul genocidio Il primo contributo dalla giurisprudenza all’evoluzione della disciplina delle riserve alle convenzioni sui diritti umani proviene dal parere della Corte Internazionale di Giustizia del maggio 1951 relativo alle riserve alla Convenzione del 9 dicembre 1948 sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.Fino a quel momento infatti l’orientamento prevalente consentiva una riserva ai trattati se accettata da tutti gli stati parti (quindi solo se espressamente consentita dallo stesso accordo); in caso contrario, la riserva era inammissibile e un’accettazione dell’accordo accompagnata da una riserva inammissibile era anch’essa invalida, con conseguente estraneità dello Stato riservante all’accordo. Tale regola si ispira al principio di integrità dei trattati, derivante a sua volta dal fondamento consensuale del trattato stesso (in idem consensus). La Corte, invece, nel parere suddetto, per la prima volta afferma l’ammissibilità di riserve non espressamente contemplate nel testo dell’accordo, purché compatibili con l’oggetto e lo scopo dell’accordo stesso: in tal modo lo Stato riservante diventa parte dell’accordo (con esclusione della clausola oggetto della riserva), salvo che nei rapporti con gli altri Stati parti che abbiano sollevato un’obiezione alla riserva, considerandola incompatibile con oggetto o scopo del trattato: tra Stato riservante e Stati obiettori l’accordo non entra affatto in vigore. La corte, così, sposava la tesi della “flessibilità” negli accordi anziché quella della integrità. Il parere della CIG, però, come richiesto dall’Assemblea Generale, non tende a dichiarare una regola generale sull’ammissibilità delle riserve ma si riferisce esclusivamente alla Convenzione sul genocidio; come tale, la specifica soluzione della CIG favorevole alla generale applicabilità delle riserve si giustifica con le caratteristiche specifiche di tale Convenzione, diretta a prevenire e reprimere un crimine tanto grave: il chiaro intento è quello di favorire la più ampia partecipazione ad una Convenzione che rappresenta la prima e più forte riaffermazione, da parte dell’ONU, della dignità umana e dei suoi diritti inviolabili subito dopo il dramma della shoah. La “specialità” della materia dei diritti umani costituiva, dunque, già nel 1951 una spinta decisiva ad elaborare regole sulle riserve che ne garantissero la tutela più ampia. 2.3 La competenza degli organi di controllo a pronunciarsi sull’ammissibilità delle riserve La Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati (articoli 19-23) fece proprio il parere della CIG, facendone così una regola generale. Peraltro, la convenzione si è spinta anche oltre il parere della Corte: oltre ad un criterio oggettivo di ammissibilità delle riserve (= sono ammissibili tutte le riserve compatibili con oggetto e scopo, anche se non espressamente previste dal trattato), l’obiezione alla riserva da parte di uno Stato non impedisce l’entrata in vigore dell’accordo - con esclusione della clausola oggetto della riserva - tra Stato riservante e Stato obiettante, salvo che quest’ultimo abbia espresso chiaramente ("definitely") tale intenzione. Tranne quest’ultima situazione, la disciplina delle riserve comporta una sorta di controllo diffuso da parte degli Stati contraenti sulla compatibilità della riserva con l’oggetto e lo scopo del trattato; inoltre, determina una scomposizione del trattato in fasci di rapporti diversi tra gruppi diversi di Stati: tra quelli che accettano il trattato integralmente, tra quelli riservanti e quelli che accettano la riserva, tra i quali il trattato è in vigore (tranne che per la clausola oggetto di riserva), e tra quelli riservanti e gli Stati che si oppongono “nettamente” alla riserva, fra i quali il trattato non è affatto in vigore. Entrambi questi aspetti della disciplina generale delle riserve sono difficili da applicare ai trattati sui diritti umani: il primo per la presenza di numerosi organi giudiziari e para-giudiziari di controllo; il secondo poiché tali accordi non si collocano in una logica meramente sinallagmatica di reciproci obblighi e vantaggi tra gli Stati parti, ma garantiscono valori di carattere oggettivo, ovvero i diritti fondamentali dell’uomo, di cui sono titolari tutti gli individui, a prescindere dalla loro cittadinanza, nei confronti di tutti gli Stati parti. Sul primo aspetto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto la sua esclusiva competenza a valutare l’ammissibilità delle riserve alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e le conseguenze dell’eventuale invalidità di una riserva (sentenza Belilos c. Svizzera). Questa posizione risulta pienamente persuasiva, in virtù dei poteri che la CEDU espressamente attribuisce alla Corte: anzitutto, la sua competenza generale su tutte le questioni concernenti l’interpretazione e applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli; il suo ruolo di garanzia del rispetto degli impegni derivanti da parte degli Stati contraenti; la sua “competenza della competenza”, in quanto, determinando la riserva una limitazione della competenza della Corte a pronunciarsi sulla violazione della disposizione oggetto di riserva, quest’ultima si risolve in una contestazione della sua competenza, sulla quale e è la stessa Corte a doversi esprimere. La corte interamericana dei diritti umani ha assunto una posizione analoga, negando espressamente il controllo “diffuso” degli stati parti, sulla base dei caratteri peculiari dei trattati sui diritti umani sopra ricordati (non sinallagmaticità ma protezione dei DU). A questa giurisprudenza delle corti americana e europea si aggiunge la posizione assunta dal Comitato sui diritti umani (istituito dal Patto sui diritti civili e politici del 1966), che nel Commento generale n. 24 del 1994 ha affermato la propria competenza a giudicare la compatibilità di una riserva al Patto o ai relativi Protocolli con l’oggetto e lo scopo del Patto, e quindi a giudicarne la validità sulla base dei caratteri specifici del Patto (non sinallagmaticità degli obblighi ma protezione dei DU) e della considerazione che tale competenza sia inevitabile nell’adempimento delle sue funzioni (studio dei rapporti statali e delle comunicazioni individuali). La posizione del Comitato solleva qualche perplessità, vista l’assenza di un'espressa disposizione che gli conferisca il potere di decidere su contestazioni alla propria competenza; esso per di più è privo del potere di adottare atti vincolanti, dunque del potere di decidere in maniera giuridicamente obbligatoria verso lo Stato riservante. Dobbiamo però considerare che, la validità di una riserva comporta solo che lo Stato riservante la possa considerare valida ed efficace contestando eventuali funzioni del Comitato ma non che il Comitato non possa esaminare rapporti e comunicazioni esprimendo delle valutazioni. Alcuni organi di controllo non giurisdizionali poi, hanno un vero potere decisionale riguardo alla ricevibilità di un ricorso statale o individuale. (Ex: la competenza del Comitato sui diritti umani a pronunciarsi sulla ricevibilità di una comunicazione di uno Stato parte, ex art.41, e sulla ricevibilità di una comunicazione individuale. In casi come questo, in cui la ricevibilità di comunicazioni coinvolge una clausola oggetto di una riserva, la competenza del Comitato si estende alla valutazione della validità della riserva stessa. 2.4 I criteri di compatibilità delle riserve con l’oggetto e lo scopo dei trattati Affermata la propria competenza a valutare la validità di una riserva, le Corti e i comitati di controllo hanno elaborato una serie di criteri per giudicarne la compatibilità con l’oggetto e lo scopo dell’accordo. Decisamente rilevante appare il criterio della corrispondenza degli obblighi assunti mediante il Patto sui diritti civili e politici con quelli derivanti da norme internazionali consuetudinarie (comprese quelle di ius cogens), da cui discende l’invalidità di riserve che escludano l’applicazione di clausole corrispondenti a norme consuetudinarie. Questa posizione appare in contrasto con la facoltà degli stati di derogare nei loro rapporti a norme consuetudinarie mediante accordi; tuttavia, essendo l’oggetto degli accordi la protezione dei diritti umani e lo scopo il miglioramento di tale protezione, sarebbe palesemente incompatibile con tali oggetto e scopo una riserva che abbassi la protezione dei diritti rispetto al livello garantito dalle norme consuetudinarie. Inoltre, spesso gli accordi in materia espressamente dichiarano che la partecipazione a tali accordi non può mai comportare una restrizione della protezione dei diritti già previsti dallo Stato (in virtù di leggi, convenzioni, regolamenti e consuetudini proprie) con il pretesto che l’accordo li protegga in misura minore: una riserva ad un articolo corrispondente ad una norma internazionale consuetudinaria sarebbe dunque in contrasto anche con queste disposizioni. Si ricordi infine che la riserva è una dichiarazione unilaterale di volontà dello Stato, inidonea a sottrarlo agli obblighi nascenti dal diritto internazionale generale. Un’altra ipotesi di riserva invalida è rappresentata da quelle relative ai diritti non sottoponibili a deroga neppure in caso di guerra o di pericolo pubblico che minacci l’esistenza della nazione, in quanto, nel Commento n°24, il Comitato dichiara che le riserve agli articoli che riconoscono tali diritti siano incompatibili con l’oggetto e lo scopo del Patto. Alcuni diritti invece, sono inderogabili poiché irrilevanti nel contrastare un’emergenza nazionale (ex: divieto di imprigionamento per debiti). Possiamo però dire a riguardo dell'inammissibilità di una riserva che ciò si potrebbe capire dall’inderogabilità di un diritto, visto che lo Stato che formula una riserva dovrebbe fornire un’adeguata giustificazione. Aggiungiamo un’altro gruppo di disposizioni reputate dalla giurisprudenza delle Corti e dei comitati sui diritti umani come non suscettibili di riserva, concernenti quelle norme che riguardano l’istituzione di meccanismi di garanzia/controllo sul rispetto dei diritti previsti dall’accordo. ( Riferimento: Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 23 marzo 1995, Loizidou c. Turchia, conformemente al Commento n° 24 del Comitato. In questa sentenza si afferma che gli articoli della Convenzione europea che prevedevano ricorsi individuali e statali erano disposizioni essenziali per l’efficacia del sistema della Convenzione e delimitavano la responsabilità della Corte e della Commissione nell’assicurare il rispetto degli impegni tra le parti limitandone le competenze solo al riconoscimento dei ricorsi sulle violazioni dei diritti e delle libertà contenute nel testo. Così facendo, nascevano disposizioni chiave collegate all’unicità della Convenzione, cioè un trattato di garanzia dei diritti umani e delle libertà fondamentali e portandoci a dire quindi che, grazie anche all’esame della prassi, la Corte affermava che delle riserve a tali norme indebolirebbero incredibilmente i ruoli e le funzioni di Commissione e Corte oltre all’efficacia nel garantire l’ordine pubblico europeo protetto dalla Convenzione ( ritenendo una tale riserva invalida ). Sottoscriviamo quindi la necessità di obblighi degli Stati nella materia della tutela dei diritti umani e di meccanismi che verifichino il rispetto di tali obblighi senza riserve che escludano tali meccanismi, poiché incompatibili con l’oggetto e lo scopo dei trattati. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, poi, l’invalidità di riserve dovrebbe limitarsi solamente a meccanismi a garanzia del rispetto dei diritti umani e non includere procedimenti ( ex: come dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia che permettono di risolvere controversie tra Stati ). Torniamo infatti alla sentenza Loizidou c. Turchia della Corte Europea che ha respinto la difesa turca della propria riserva non confermando che l’ammissibilità di riserve rispetto a procedimenti giurisdizionali sarebbe confermata dalle numerose riserve all’accettazione della giurisprudenza della CIG pur ammettendo l'ammissibilità di queste riserve, non la estende agli organi nati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo a causa delle differenze tra i due organi. La CIG giudica infatti le controversie globali sul diritto internazionale e non esercita solo funzioni di controllo rispetto ad un trattato “normativo” ( come nel caso della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo ). È in conclusione il tratto di controllo sui diritti umani a definire l’intangibilità dei procedimenti di controllo. Parlando poi della CIG, essa ha affermato molteplici volte che l’oggetto e lo scopo della Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio è compatibile con riserve che escludano la competenza della Corte a conoscere delle controversie tra gli Stati parti relative a interpretazione/rispetto/applicazione della Convenzione alle quali si aggiungono le riserve riguardanti la responsabilità di uno stato per genocidio o altri atti ( elencati all’art III ). Le ragioni dietro questa scelta risiedono nella considerazione consensuale della giurisdizione della Corte, anche su norme erga omnes o ius cogens. Nella sentenza 3 febbraio 2006 Congo c. Ruanda, riguardante le attività armate sul territorio del Congo, la Corte ha confermato l’ammissibilità della riserva all’art IX poiché non pregiudica gli obblighi contro il genocidio e riguarda la giurisdizione della Corte. Oltre a questo, la compatibilità della riserva è coerente con un mezzo per escludere un modo particolare di regolare una disputa (“is meant to exclude a particular method of settling a dispute”), non pregiudicando altri procedimenti istituiti da accordi sui diritti umani, precisamente per tutelare gli stessi. Anche il Relatore speciale presso la Commissione del diritto Internazionale delle Nazioni Unite sulle riserve dei trattati, Alain Pellet, ha dichiarato che una riserva a una disposizione convenzionale relativa al regolamento delle controversie o al controllo sull’applicazione del trattato non è incompatibile con oggetto e scopo del trattato a meno che: “ i) La disposizione sulla quale si riferisce la riserva costituisce la ragione d'essere del trattato; dove ii) la riserva ha l'effetto di sottrarsi a un meccanismo di composizione delle controversie o di controllo dell'attuazione del trattato in merito ad una disposizione convenzionale che ha precedentemente accettato se l'oggetto stesso del trattato è l'attuazione di tale meccanismo” ( “i)La disposition sur laquelle porte la réserve constitue la raison d'être du traité; ou ii) la réserve n'ait pour effet de soustraire son autour à un mécanisme de règlement des différends ou de contrôle de la mise en oeuvre du traité au sujet d'une disposition conventionnelle qu'il a antérieurement acceptée si l'objet même du traité est la mise en oeuvre d'un tel mécanisme” ). La disposizione appena citata apre ad una soluzione fondata sull’incompatibilità della riserva con oggetto e scopo del trattato se riguarda meccanismi di controllo sui diritti umani. 2.5 Gli effetti delle riserve inammissibili La specialità della disciplina delle riserve ai trattati sui diritti umani riguarda anche gli effetti della inammissibilità di una riserva. Seguendo la disciplina generale della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (risultante dall’Art.20, part.4, lett.b) l'obiezione a una riserva impedisce la formazione dell'accordo tra lo Stato riservante e quello obiettante, mentre l'accordo, senza la clausola della riserva, è valido tra lo stato riservante e quelli che accettino la riserva (art.21). La divisione in una serie di rapporti anche se coerente con la reciprocità esistente tra gli obblighi assunti, non è coerente con i caratteri, gli scopi e la stessa struttura degli obblighi derivanti dagli accordi sui diritti umani, obblighi a beneficio degli individui titolari di diritti e questi diritti sono tutelati sotto la giurisdizione degli Stati parti anche riguardo ai cittadini di stati riservanti indipendentemente dalla loro cittadinanza. Tutti gli stati contraenti possono far valere l'adempimento di tale obbligo anche tramite procedimenti di controllo previsti, mentre i cittadini possiedono il diritto di ricorso agli organi di controllo. Il mancato accordo tra lo stato riservante e quello obiettante è quindi la promozione dei procedimenti di controllo nei rapporti reciproci. Gli stessi organi di controllo si sono distanziati dalla suddetta disciplina creando la “severability doctrine”, la quale comporta che una riserva giudicata inammissibile viene separata dall’accordo e si considera l’accettazione dello stesso come piena e incondizionata, applicando il brocardo “utile per inutile non vitatur”. La stessa Corte Europea dei diritti dell'uomo, seguita dalla Corte interamericana dei diritti umani e dal Comitato dei diritti umani, hanno ampliato la dottrina affermando che (qualcosa) si fonda sulla volontà dello stato riservante senza che la riserva avesse valore ai fini dell'accettazione della Convenzione. (Sentenza Belios 29 aprile 1988 della Corte Europea: “La Svizzera è e si considera obbligata dalla Convenzione indipendentemente dalla validità della dichiarazione”). Tornando ancora all'affare Loizidou ( evidenziate le restrizioni turche all'accettazione delle clausole facoltative contenute negli articoli 25 e 46 della Convenzione Europea ), la Corte aveva giudicato invalide tali restrizioni grazie anche alla “Natura particolare della Convenzione, strumento dell'ordine pubblico europeo per la protezione degli esseri umani e della sua missione di assicurare il rispetto degli impegni risultanti per le Alte Parti Contraenti alla Convenzione”. Questa giurisprudenza si collega a quella nata con il parere della CIG del 1951 poiché favorisce la piu ampia partecipazione alle convenzioni sui diritti umani, distanziandosi affermando l’integrità dell’accordo in esame in caso di riserva inammissibile, anche se ciò porta ad una forzatura del fondamento consensuale dell’ obbligatorietà dei trattati. Alcuni stati obiettano infatti che se l’esclusione di una clausola del trattato rappresenti una conditio sine qua non per lo Stato riservante, l’invalidità della riserva dovrebbe portare all’invalidità della stessa accettazione, evitando l’imposizione della clausola oggetto anche a tale Stato. L’unico caso in cui l’applicazione della severability doctrine ha determinato una reazione seria si è verificato nell’ affare Kennedy davanti al Comitato dei Diritti umani da parte di Trinidad e Tobago (convenuto in base al primo Protocollo facoltativo al Patto, denunciando, il 27 marzo 2000, tale Protocollo). 2.6 Conclusioni Possiamo concludere affermando alcuni elementi: 1)​ Si è consolidato un metodo obiettivo di valutazione dell’ammissibilità delle riserve agli accordi sui diritti umani, in base alla compatibilità con oggetto e scopo dell’accordo; 2)​ Si è affermata la competenza degli organi di controllo nel valutare la validità delle riserve, 3)​ La severability doctrine ha limitato l’invalidità di una riserva alla sola riserva, senza pregiudicare l’accettazione del trattato che resta pienamente valida. La disciplina risultante da questa giurisprudenza fornisce una protezione dei diritti umani maggiore rispetto a quella che deriverebbe dalle regole generali sulle riserve ai trattati multilaterali e che, giuridicamente parlando, appare fondata sulla specialità della materia dei diritti umani rispetto alle regole comuni del diritto internazionale generale. III. L’INTERVENTO MILITARE IN LIBIA: RESPONSIBILITY TO PROTECT O… RESPONSABILITÀ PER AGGRESSIONE? 3.1 Premessa La legittimità delle risoluzioni degli organi delle Nazioni Unite e l’intervento militare di paesi come Francia; Regno Unito e successivamente Italia ( ai quali si aggiunge la NATO ) sono messi in dubbio da eventi drammatici come la grave crisi libica ( iniziata a Bengasi alla metà di febbraio 2011 con dei moti popolari contro il governo di Gheddafi e con la violenta repressione da parte delle forze governative ) ( la retorica occidentale attraverso un’informazione incompleta e non obiettiva, ha promulgato una visione secondo la quale, la rivolta contro Gheddafi è considerabile “una svolta democratica” e i bombardamenti della NATO come “un’assistenza al rispetto dei diritti umani” ). Ci interroghiamo quindi se le risoluzioni siano coerenti con la Carta e il diritto internazionale e se l’intervento militare sia stato conforme all’intervento del Consiglio di Sicurezza. 3.2 La sospensione della Libia dal Consiglio dei diritti umani Considerando inizialmente le risoluzioni delle Nazioni Unite, esse sembrano seguire il diritto Internazionale e la Carta, esprimendo per alcuni l’interesse dell’ONU per i diritti umani e l’affermazione della “responsibility to protect”, la quale responsabilità, sorge quando uno Stato non assicuri la protezione della sua popolazione o commetta gross violations ed è in capo al CdS ( in base al capitolo VII della Carta ). Guardando attentamente però, si comincia a considerare dubbia la loro legittimità. Dopo la repressione dei moti di Bengasi infatti, il CdS ha approvato la risoluzione S-15/1 del 25 febbraio 2011 nella quale esprimeva una condanna per le gross violations ( comprendenti attacchi contro i civili, detenzione e tortura di dimostranti pacifici ) e decideva di istituire una commissione di inchiesta internazionale per indagare e accertare le violazioni raccomandando inoltre all’A.G. di sospendere la Libia dal Consiglio dei diritti umani ( istituito con risoluzione 60/251 del 15 marzo 2006 ). Per quanto apprezzabile l’interesse verso i diritti umani, dobbiamo notare che le misure prese siano state adottate prima dell’accertamento dei fatti e senza prendere in considerazione le violazioni e i crimini commessi anche dai ribelli ( uccisioni di mercenari, umiliazioni e torture ). 3.3 Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e l’autorizzazione all’uso della forza Il CdS è intervenuto prontamente nella crisi libica adottando all’unanimità la risoluzione n.1970 del 26 febbraio 2011, con la quale condanna la violenza e l’uso della forza contro i civili e la violazione massiccia e sistematica dei diritti umani e, ai sensi dell’art 41 della Carta (pur senza dichiarare espressamente la minaccia alla pace) adotta le seguenti misure: esige la cessazione immediata della violenza, chiede alle autorità libiche di soddisfare le legittime richieste della popolazione e di agire nel rispetto dei diritti umani e di consentire l’ingresso a osservatori internazionali, deferisce la situazione libica dopo il 15 febbraio al Procuratore della CPI, impone un embargo sulle armi alla Libia, adotta sanzioni individuali (divieti di viaggio, congelamento di fondi) contro alcune personalità di spicco del regime. Non avendo adempiuto le autorità libiche a tali richieste, il CdS decise di adottare (con 10 voti a favore e 5 astensioni) una nuova risoluzione, la n.1973 del 17 marzo 2011. Con essa, il Consiglio, ai sensi del Capitolo VII della carta, autorizzava gli Stati membri interessati a prendere “tutte le misure necessarie” (=autorizzazione implicita all’uso della forza) per proteggere la popolazione e le aree popolate da civili minacciate di attacco, agendo a titolo nazionale o nel quadro di organizzazioni regionali e in cooperazione con il Segretario generale, il quale avrebbe fatto immediato rapporto al Consiglio su qualsiasi misura decisa. Inoltre, sempre al fine di proteggere i civili, imponeva una no fly zone: il divieto di tutti i voli nello spazio aereo libico - esclusi quelli rientranti in “tutte le misure necessarie” e altri voli con scopi umanitari. Infine, ai sensi del capitolo VIII della carta, richiedeva agli Stati membri della Lega Araba di cooperare nell’applicazione delle misure decise. 3.4 L’apparente legittimità della risoluzione n.1973 e la responsibility to protect Apparentemente la risoluzione in parola sembra conforme alla Carta. In primo luogo, autorizzando l’uso della forza in presenza di violazioni massicce e sistematiche (cd gross violations) dei diritti umani, equipara queste ultime ad una violazione o ad una minaccia alla pace, ovvero ad uno dei presupposti per l’intervento del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capitolo VII della carta (art 39). Tale qualificazione corrisponde ad una prassi ormai ampia e consolidata, tesa a valorizzare quel legame tra rispetto dei diritti umani e il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale presente già nella Carta dell’ONU, in particolare negli articoli 1 (tra i fini dell’Organizzazione, par.3: “promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti”) e 55 (“il rispetto e l'osservanza universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”... “al fine di creare le condizioni necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni”). Tale prassi trova dei lontani precedenti nelle risoluzioni adottate contro la Rhodesia del Sud e il Sud Africa (anni ‘60-’70) per la loro politica di apartheid e si è consolidata dopo la fine della Guerra Fredda, quando negli anni ‘90 - a partire dalla risoluzione n.688 del 5 aprile 1991 di condanna della repressione delle popolazioni curde da parte dell’Iraq - il Consiglio, qualificando diverse situazioni di emergenza umanitaria come minacce alla pace, ha potuto affermare la propria competenza (altrimenti assente) in materia di protezione dei diritti umani, decidendo le misure previste nel capitolo VII e operazioni di peacekeeping al fine di prevenire o far cessare le gross violations. Nonostante la selettività degli interventi (dovuta alla natura politica e al sistema di voto del Consiglio), la prassi in parola ha trovato una consacrazione giuridica nel concetto di responsibility to protect (R2P), elaborato dalla International Commission on Intervention and State Sovereignty e formalmente riconosciuto nella risoluzione n.60/1 del 16 settembre 2005 dell’Assemblea Generale (cd. 2005 World Summit Outcome). Essa dichiara che: ogni Stato ha la responsabilità a proteggere la sua popolazione da genocidio, pulizia etnica, crimini di guerra e crimini contro l’umanità; la comunità internazionale ha la responsabilità di aiutare, tramite i mezzi pacifici appropriati, a proteggere la popolazione; gli Stati membri, qualora le autorità nazionali siano unwilling or unable di adempiere alle loro responsabilità e i mezzi pacifici si rivelino inadeguati, si dichiarano pronti ad agire, mediante il CdS e conformemente alla Carta, con un’azione collettiva ai sensi del capitolo VII, in collaborazione con le competenti organizzazioni regionali. Le risoluzioni delle NU concernenti la crisi libica, comprese la 1970 e la 1973 del CdS, appaiano espressamente fondate proprio su tale responsibility to protect. La n.1973 appare conforme alla Carta anche per quanto riguarda l’autorizzazione all’uso della forza: oltre alla formula “tutti i mezzi necessari” (risalente alla risoluzione con cui una coalizione di Stati fu autorizzata implicitamente a usare la forza per liberare il Kuwait occupato dall’Iraq nel 1990 e da allora più volte ripresa), essa è inquadrabile nei poteri attribuiti al CdS dagli articoli 39 (potere di accertare la minaccia alla pace e di fare raccomandazioni, cui sono equiparabili le autorizzazioni, per mantenere o ristabilire la pace) e 42 (potere di adottare misure militari). Inoltre, la n.1973 sembra rispondere anche ad un requisito indispensabile affinché le autorizzazioni all’uso della forza siano legittime, ovvero che il CdS, pur delegando a Stati la conduzione delle operazioni, non abdichi alla propria “responsabilità principale” del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che i Membri delle NU gli conferiscono (art 24) ma continui ad esercitare il proprio controllo sulle operazioni: essa, infatti, chiede che gli Stati intervenuti agiscano in stretta coordinazione con il Segretario generale, il quale è tenuto a informare immediatamente il CdS di ogni azione intrapresa. Infine, anche l’autorizzazione agli Stati ad operare tramite organizzazioni o accordi regionali (con esplicito riferimento alla Lega Araba, ma applicabile anche alla NATO, che ben presto ha assunto la direzione militare) trova riscontro nella Carta: secondo l’art 53, infatti, il CdS può utilizzare tali organizzazioni per azioni coercitive sotto la sua direzione o autorizzare un’azione da parte loro, purché ne mantenga il controllo - condizione anche questa apparentemente soddisfatta nel testo della risoluzione. 3.5 I motivi dell’illegittimità nella condotta del Consiglio di sicurezza Per quanto il CdS goda di ampia discrezionalità nell’accertare e qualificare una situazione come minaccia alla pace ai sensi dell’art 39 e nell’adottare le misure che ritenga più necessarie per ristabilire la pace e la sicurezza ai sensi degli artt 41 e 42, esso non è legibus solutus: come affermato in un parere della CIG, la natura politica dell’organo non lo sottrae dall’osservanza delle disposizioni convenzionali che lo riguardano, in particolare quelle che costituiscono dei limiti al suo potere o dei criteri del suo giudizio - in specie l’obbligo per il Consiglio di agire in conformità ai fini e principi delle N.U. e che le sue decisioni siano prese in conformità alla Carta. Ebbene, prima di deliberare misure così gravi come l’autorizzazione all’uso della forza sarebbe stato necessario svolgere un’inchiesta seria e indipendente per accertare le gross violations, anziché basarsi su notizie propagate dai media (alcune poi rivelatesi false) o denunce di vari governi: le misure decise, dunque, non appaiono adeguatamente motivate. Tale omissione ha condotto ad un ulteriore vizio ancora più grave che ha inficiato la legittimità della risoluzione n.1973: la qualificazione erronea della situazione in Libia, considerata esclusivamente come una “emergenza umanitaria” idonea a costituire una minaccia alla pace. Infatti, per quanto fosse presente anche una violazione dei diritti umani, in realtà la crisi libica consisteva in una guerra civile in cui degli insorti si contrapponevano al governo legittimo: in una situazione del genere, l’autorizzazione, pur formalmente diretta alla protezione dei civili, si prestava ad essere utilizzata come pretesto per intervenire militarmente contro il governo e a sostegno degli insorti, il che non rientrerebbe nei poteri del consiglio né delle N.U. - tenute al rispetto della sovranità dei Membri e dell’autodeterminazione dei popoli. Infine, rispetto alla decisione di adottare misure militari si sono verificate le omissioni forse più gravi: il CdS, infatti, in primo luogo ha omesso qualsiasi iniziativa volta alla soluzione pacifica della crisi (art. 2 della Carta ), venendo così meno alle funzioni conciliative delle controversie proprie del Consiglio previste dal capitolo VI; in secondo luogo, non ha mai sostenuto i tentativi di soluzione politica della crisi fatti dall’Unione Africana (e accolti dal governo libico ma respinti dagli insorti), boicottando con la sua inerzia il ruolo “prioritario” che il capitolo VIII (art. 52) assegna alle organizzazioni regionali nella soluzione di controversie locali. In altre parole, la condotta del Consiglio comporta una violazione delle stesse condizioni che la risoluzione dell’AG sulla responsibility to protect prescrive prima di decidere un’azione coercitiva del CdS, consentita solo quando i mezzi pacifici contemplati dai capitoli VI e VIII si siano rivelati inadeguati - mezzi che nel caso della crisi libica non sono stati affatto impiegati o sostenuti, rendendo così l’autorizzazione all’uso della forza in esercizio della R2P illegittima. 3.6 L’illiceità dell’azione militare degli Stati intervenuti e della NATO e i loro crimini di guerra Se dunque l’autorizzazione all’uso della forza è illegittima, allora è evidente che essa sia inidonea a rendere legittima l’azione militare dei Paesi intervenuti (prima singolarmente, poi nel quadro della NATO), che risulta quindi illecita in virtù del generale divieto dell’uso della forza. Ma pur considerando legittima la risoluzione n.1973, la condotta degli Stati intervenuti e della NATO non sembra essere neppure conforme all’autorizzazione, sia riguardo ai limiti e mezzi previsti per l’impiego della forza che agli scopi della stessa autorizzazione. Sotto il primo profilo, occorre anzitutto ricordare che la risoluzione esclude categoricamente dai “mezzi necessari” un’occupazione militare sotto qualsiasi forma di qualunque parte del territorio libico: un divieto così ampio che include qualsiasi presenza militare straniera, compresa quella di consiglieri e istruttori militari, il cui invio (anche dall’Italia) risulta quindi illecito; si aggiunga che insieme a loro sono giunte dall’estero ai ribelli anche armi, sulle quali era stato invece posto un embargo dalla precedente risoluzione 1970 non solo al governo di Gheddafi, ma alla Libia in generale. Quanto all’impiego della forza, consentito solo nella maniera più limitata possibile, è parso sin dall’inizio eccessivo a vari Stati e alla stessa Lega Araba che aveva richiesto la no fly zone, soprattutto in rapporto all’obiettivo stabilito (la protezione dei civili). La violenza estrema della successiva azione militare, che ha incluso migliaia di raid, l’assedio di Tripoli e Sirte, bombardamenti senza sosta anche deliberati di numerosi obiettivi civili facendo tra di loro un numero spaventoso di vittime, ha escluso definitivamente la conformità dell’intervento rispetto all’obiettivo “umanitario” della risoluzione. La configurazione di tali condotte come crimini di guerra commessi dai dirigenti politici e militari della NATO e dei Paesi intervenuti dovrebbe essere oggetto di indagini da parte del Procuratore della CPI, a cui la risoluzione n.1970 ha affidato il compito di indagare sulla situazione in Libia dopo il 15 febbraio 2011 e non solo sui crimini del regime di Gheddafi; la loro responsabilità dovrebbe essere verificata non solo per le stragi di civili dovute ai loro bombardamenti ma anche per il loro ruolo determinante nel consentire ai ribelli di commettere, dopo la presa di Tripoli, estesi e gravissimi crimini internazionali (esecuzione sommaria di prigionieri, violenze, torture e stragi di civili, lavoratori migranti e mercenari stranieri), di cui ben potrebbero risultare complici e corresponsabili. 3.7 Lo stravolgimento del fine umanitario dell’intervento e la sua configurazione come guerra di aggressione Sotto il secondo profilo di illegittimità, pur essendo la protezione dei civili il fine esclusivo della risoluzione, i bombardamenti sono stati fin da subito diretti a provocare la caduta del governo di Gheddafi - come risulta dalle esplicite e costanti dichiarazioni dei governanti degli Stati intervenuti, del Segretario NATO e di dirigenti dell’UE. Un tale stravolgimento del fine della risoluzione sembra confermato anche dai riconoscimenti del Consiglio nazionale di transizione (rappresentante degli insorti) quale unico interlocutore rappresentante della Libia (anziché come partito insurrezionale quale era) da parte di vari Stati (a cominciare da Francia, Qatar, Italia): riconoscimenti non fondati sull’effettività di governo né giustificabili in nome della legalità internazionale (vista l’assenza di una base “democratica” o “popolare” di tale Consiglio, ben presto qualificatosi per crimini massicci e generalizzati) ma tesi solo a sostituire un governo “amico” a quello effettivo, costituendo quindi un’illecita ingerenza negli affari interni della Libia. Un intervento militare per rovesciare il governo di uno Stato non potrebbe mai essere autorizzato dal CdS (che può decidere misure militari solo per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza), perciò è chiaro che l’intervento in Libia non avesse alcuna copertura nell’autorizzazione del CdS (diretta solo alla protezione dei civili dalle violazioni massicce e sistematiche dei diritti umani) e si configuri come un grave illecito internazionale, forse il più grave di tutti: la guerra di aggressione - consistente, secondo la definizione dell’A.G. (risoluzione n.3314 del 14 dicembre 1974) nell’uso della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato - a seguito della quale è stato imposto alla Libia un nuovo governo, tra l’altro senza la minima considerazione per la volontà del popolo libico (violazione del principio di autodeterminazione).

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