Chimica PDF - Appunti di Chimica Generale
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Tor Vergata University of Rome
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Questi appunti forniscono una panoramica sulla chimica generale, coprendo argomenti come le interazioni molecolari, gli atomi e la tavola periodica. Vengono discusse le teorie atomiche, la configurazione elettronica e le proprietà periodiche degli elementi. I concetti chiave vengono spiegati con esempi.
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La chimica è la scienza che studia come le molecole interagiscono tra loro e come queste interazioni avvengono, bisogna partire dal blocco principale ovvero la materia: la materia si può dividere in sostanze pure e miscele, le sostanze pure sono divise a loro volta in elementi (sostanze che non poss...
La chimica è la scienza che studia come le molecole interagiscono tra loro e come queste interazioni avvengono, bisogna partire dal blocco principale ovvero la materia: la materia si può dividere in sostanze pure e miscele, le sostanze pure sono divise a loro volta in elementi (sostanze che non possono essere ulteriormente decomposte attraverso reazioni chimiche e che sono costituiti da atomi aventi le stesse proprietà chimiche) e composti (combinazioni di elementi in rapporti ben definiti, stechiometrici); mentre le miscele sono divise in miscele omogenee o miscele eterogenee. Gli elementi che interagiscono tra loro sono 118, tutti racchiusi nella tavola periodica, di questi centodiciotto soltanto quattro rappresentano il 96% di un organismo vivente (O ossigeno, H idrogeno, N azoto e C carbonio), tutti gli altri sono presenti in percentuali molto minori. A seguito di un'interazione, affinché si verifichi una reazione si deve partire da dei reagenti arrivando a dei prodotti diversi dai reagenti. L’ATOMO L’unità fondamentale della materia è l’atomo: quando si parla di atomi si hanno una serie di teorie differenti, partendo da Democrito e Dalton - i primi a scoprire che la materia fosse costituita da particelle - arrivando alla teoria quantomeccanica. L'atomo è la più piccola particella di un elemento che non subisce alterazioni nelle trasformazioni chimiche, ma che può subire trasformazioni fisiche. Democrito fu uno dei primi ad ipotizzare una realtà costituita da particelle indivisibili, gli atomi, che si muovono in modo ordinato; mentre dalton, dopo aver rielaborato la teoria di Democrito, formulò la propria dove affermava che gli atomi di un elemento si combinano, per formare un composto, solamente con numero interi di atomi di altri elementi; non possono essere né creati né distrutti, ma si trasferiscono interi da un composto ad un altro. Uno dei primi a visualizzare, invece, una struttura scientifica dell’atomo fu Thomson, il quale si rese conto della presenza di particelle cariche negativamente all’interno di questo studiando l’attrazione dei raggi al suo interno. L'esperimento che fece fu far passare delle scariche elettriche attraverso un gas rarefatto, e dall’elettrodo negativo venivano originati raggi luminescenti che egli chiamò raggi catodici; comprese che questi raggi erano composti da particelle cariche negativamente e li chiamò elettroni. La visione di Thomson fu quella dell’‘atomo a panettone’, secondo la quale l’atomo era tutto carico positivamente con al suo interno dei “canditi” negativi; ma fu smentita poiché faceva pensare che l’atomo all’interno fosse pieno, mentre in realtà non è così. Si passa quindi alla teoria di Rutherford, il quale ipotizzò che tutta la carica positiva fosse concentrata all’interno di un piccolo volume corrispondente al nucleo dell’atomo, costituito da neutroni e protoni, e che al di fuori di questo fossero presenti gli elettroni, di massa molto inferiore a quella del nucleo, che giravano seguendo delle particolari traiettorie che compiono dei circuiti. Precedentemente si era scoperto che la massa del protone e del neutrone fosse più elevata rispetta all’elettrone, questo infatti significava che il nucleo fosse più pesante rispetto a tutto il resto. La teoria di Rutherford però non basta, l’elettrone non può girare casualmente intorno al nucleo poiché l’elettrone dopo aver emesso energia cadrebbe all’interno del nucleo e non risulterebbe in un sistema stabile. Si passa quindi alla teoria di Bohr, secondo la quale l’elettrone si trova su particolari orbite, poste ad una certa distanza dal nucleo, che descrivono traiettorie circolari e che sono caratterizzate da una specifica energia. Questa energia viene indicata con “n”, e di conseguenza anche queste orbite sono indicate in base a questa, più “n” aumenta più ci si allontana dal nucleo. Tutti questi atomi hanno un aspetto in comune, ovvero se vengono sollecitati con la luce danno origine ad uno spettro di emissione, ogni atomo ne ha uno caratteristico e questo spiega le differenti distribuzioni: quando incontra la luce viene spostato nell’orbitale successivo e nel momento in cui ritorna alla sua posizione normale emette luce. Intervengono adesso una serie di nuove scoperte, come quella della relatività di Einstein: ipotizzò che la luce incidente fosse costituita da un flusso di corpuscoli chiamati fotoni, i quali posseggono un'energia; la spiegazione dell’effetto fotoelettrico portò alla conclusione che la luce avesse una doppia natura, ondulatoria e corpuscolare. Poco tempo dopo venne pubblicata anche la teoria di De Broglie sulla scoperta della dualità onda corpuscolo: non può esistere una particella che abbia una massa senza che esista anche un’onda, e viceversa non può esistere un’onda senza che esista una particella; e quella di Heisenberg secondo la quale non possiamo conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella. Tutte queste teorie vennero fuse insieme da Schrodinger a formulare il modello quantomeccanico, basato sulla teoria ondulatoria e corpuscolare dell’elettrone, e che permette di individuare alcune zone dello spazio dove è possibile trovare l’elettrone. Il quadrato della funzione d’onda “Ψ” ci dà la probabilità di trovare l’elettrone nell’atomo, questa probabilità si chiama “orbitale”; un elettrone si trova su un orbitale caratterizzato da quattro numeri quantici: “n, l, m, s” n: il numero quantico principale che corrisponde alla distanza dal nucleo, rappresenta l’energia di un orbitale che può variare da 1 ad infinito, ma non può essere infinito in quanto esistono 118 elementi che corrispondono al livello energetico n= 7. l-> il numero quantico angolare che indica il numero dei sottolivelli e la forma dell’orbitale, varia da 0 a n-1, per 0 abbiamo l’orbitale sferico s m-> il numero quantico magnetico che indica su quale asse si trova l’elettrone, varia da –L a +L, compreso zero, con L=1 orbitale bilobato (può essere in tutte e tre le direzioni nello spazio per questo ci serve m) s-> numero quantico di spin, che può essere orario +½ o antiorario –½ CONFIGURAZIONE ELETTRONICA Per scrivere la configurazione elettronica di un elemento bisogna seguire delle regole di riempimento: 1. Principio di Aufbau: riempire in ordine crescente di energia a partire dal livello più basso, n=1 2. Esclusione di Pauli: non possono esistere due elettroni con gli stessi numeri quantici, i numeri quantici sono quattro e quello che cambia è il numero di spin, in ogni casella possono posizionarsi quindi solo due elettroni a spin antiparallelo. 3. Regola di Hund: riguardo gli orbitali p, d, f, ovvero quelli isoenergetici, se non ci sono abbastanza elettroni per riempire tutto l’orbitale, questi si disporranno prima tutti in un verso e poi tutti nell’altro. Regola dell’ottetto: secondo questa regola tutti gli atomi tendono a raggiungere la maggiore stabilità data dal riempimento dell’ultimo livello energetico, ad esempio un elemento del settimo gruppo cercherà di prendersi un elettrone in quanto gliene manca solo uno, tutti gli altri elementi invece cercheranno di metterli in condivisione. Gli atomi presenti nella tavola periodica possono essere riconosciuti da una serie di parametri: il primo è il simbolo, ma ancora più importante è il numero di protoni “numero atomico Z”, poiché gli atomi sono neutri sappiamo che il numero dei protoni è uguale a quello degli elettroni; il “numero di massa A” indica invece la somma di neutroni e protoni, è fondamentale sapere il numero dei neutroni perché esistono gli isotopi – specie di uno stesso elemento che differiscono per il numero di neutroni. Questo acquisisce un significato particolare messo in relazione agli elementi pesanti, ovvero quelli con tanti elettroni, poiché man mano che ci si allontana dai primi elementi della tavola periodica i nuclei diventano più pesanti, ed alcuni di questi elementi danno origine alla radioattività in quanto cercano di riportarsi ad una condizione stabile eliminando particelle dal loro interno. I protoni e i neutroni hanno una massa simile, pesano intorno ai 10^-24g, mentre gli elettroni intorno ai 10^-28g; i protoni sono carichi positivamente e gli elettroni negativamente, i neutroni hanno carica nulla. L'atomo può cambiare identità, ci può essere un’instabilità che un elemento cerca di sistemare emettendo delle particelle dall’interno oppure energia; la stabilità si ha quando il rapporto tra protoni e neutroni è uguale, man mano che il numero dei neutroni aumenta questi atomi tendono a decadere, ovvero a trasformarsi in qualcos’altro -> decadimento radioattivo. Ci sono tre tipi di decadimento: decadimento α -> vengono emessi raggi alpha (elio, due protoni e due neutroni), possiedono un basso potere penetrante decadimento β -> vengono emesse particelle con una massa uguale a quella dell’elettrone, possono essere sia positive che negative decadimento γ ->vengono emesse radiazioni elettromagnetiche Questi elementi che emettono particelle possono essere dannosi per il DNA in quando vanno ad interagire con le basi azotate del nostro codice genetico; in altri casi invece questa radioattività può essere sfruttata anche per scopi medici. La rapidità con cui questi nuclei decadono può essere calcolata attraverso il tempo di dimezzamento, ovvero il tempo necessario affinché questi isotopi raggiungano metà della concentrazione iniziale; il carbonio 14, ad esempio, impiega cinquemila settecento trenta anni e viene appunto utilizzato per capire l’età di reperti archeologici. LA TAVOLA PERIODICA La tavola periodica ci fornisce diverse informazioni sugli elementi, il primo a metterli in ordine fu Mendeleev, il quale li ordinò in base alla loro massa – oggi sono ordinati per numero atomico. La tavola è divisa in righe e colonne, le righe rappresentano i periodi, e le colonne i gruppi: all’interno di una riga gli elementi aumentano per numero atomico Z, ognuna di queste righe corrisponde ad un livello energetico; all’interno di un periodo, ogni elemento differisce per un protone ma il livello energetico è lo stesso; all’interno di un gruppo invece, gli elementi hanno tutti la stessa configurazione elettronica esterna, ma sono appartenenti a livelli energetici differenti. I gruppo “metalli alcalini”, II gruppo “metalli alcalino terrosi”, VII gruppo “alogeni”, VIII gruppo “gas nobili”, nella terra di mezzo ci sono gli elementi di transizione che hanno gli orbitali “d” e “f”, e che danno origine al legame metallico. Le proprietà periodiche degli elementi sono quattro: 1. Raggio atomico: è la metà della distanza minima di avvicinamento tra i nuclei di due atomi dello stesso elemento; siccome lungo il gruppo aumenta la dimensione dell’atomo, di conseguenza lungo il gruppo aumenta il raggio atomico, mentre siccome lungo il periodo aumenta la carica e l’attrazione tra le particelle, di conseguenza diminuisce il raggio atomico. 2. Energia di ionizzazione: è l’energia che dobbiamo dare ad un atomo per allontanare un elettrone, generando così un catione; aumenta lungo il periodo e diminuisce lungo il gruppo 3. Affinità elettronica: è l’energia che si libera quando ad un atomo neutro viene dato un elettrone, generando così un anione; lungo il periodo aumenta la carica nucleare e di conseguenza anche l’affinità elettronica, mentre diminuisce lungo il gruppo. 4. Elettronegatività: è la tendenza di un atomo ad attrarre elettroni, ha senso parlare di elettronegatività solo quando l’atomo è legato ad un altro atomo per formare una molecola; aumenta lungo il periodo e diminuisce lungo il gruppo (il più elettronegativo è il fluoro METALLI I metalli si trovano nella parte sinistra e in basso della tavola periodica, sono quasi tutti solidi a temperatura ambiente (fatta eccezione per il mercurio che è liquido), sono buoni conduttori per via delle loro caratteristiche chimiche che portano alla formazione del legame metallico e difficilmente si trovano in natura tali e quali di solito si trovano uniti all’ossigeno formando gli ossidi e questa ossidazione può essere più o meno marcata in base alla natura del metallo. sono elettropositivi, ovvero quando reagiscono tendono a cedere gli elettroni e quindi a formare ioni positivi, cationi; inoltre, sono insolubili in acqua e vengono facilmente attaccati dagli acidi inorganici formando sali e liberando idrogeno. NON METALLI Sono situati nella parte destra della tavola, esistono in minor quantità rispetto ai metalli, e possono essere solidi liquidi o gas a temperatura ambiente. Contrariamenti ai metalli, sono elettronegativi, ovvero tendono ad acquistare elettroni formando anioni; hanno comportamenti molto variabili, sono elementi molto diversi tra loro ma in comune hanno la tendenza alle scarse proprietà metalliche. SEMIMETALLI Sono solo cinque elementi, e sono posti nella posizione intermedia tra i metalli e i non metalli; infatti, hanno caratteristiche intermedie tra questi due. sono il boro, il silicio, l’arsenico, il tellurio e l’astato. LEGAMI CHIMICI I legami chimici sono interazioni attrattive fra due o più atomi. Perché si legano gli atomi? Tutti gli atomi sono legati tra loro a formare delle molecole più o meno complesse, l’unica eccezione sono i gas nobili. Gli atomi si legano perché vanno a formare un ottetto, hanno infatti la tendenza a riempire i loro orbitali esterni, in quanto hanno un vantaggio energetico e si portano ad una situazione energetica più bassa per essere più stabili. Secondo la regola dell’ottetto, un atomo è particolarmente stabile quando ha otto elettroni nello strato di valenza, la valenza è il numero di elettroni che un atomo perde, guadagna o mette in comune quando si lega ad altri atomi; la valenza di un atomo corrisponde quindi al numero di legami che questo può formare. Questa energia viene definita come “energia di legame”, l’energia necessaria per rompere il legame una volta formato; più è alto questo valore, più il legame è forte (si misura in kilojoule/mole). Un legame si forma quando si può isolare una molecola o una specie stabile diversa rispetto agli atomi originali. Esistono tre tipi di legame chimico: legame metallico, si origina dall’unione di due metalli; legame covalente, nasce dall’unione di due non metalli; legame ionico, si origina dal legame tra un metallo e un non metallo. Il legame chimico è una connessione tra atomici che si forma quando gli elettroni di valenza si trasferiscono in nuove posizioni raggiungendo delle configurazioni elettroniche ad energia minore, questo si può conseguire trasferendo completamente gli elettroni o mettendoli in condivisione. 1. LEGAME IONICO ΔE >1,9 Il legame ionico avviene quando abbiamo due atomi con una differenza di elettronegatività molto grande, ad esempio, i metalli e gli alogeni. se questa è molto grande, anziché condividere gli elettroni, ci sarà un atomo che cederà completamente gli elettroni, senza nessun tipo di condivisione. Il legame ionico non è altro che il risultato di un'attrazione elettrostatica che si instaura tra le cariche di un anione e un catione, è un legame abbastanza forte (siamo intorno ai 400 kilojoule), ii quali si associano per formare un reticolo ionico dove tutti gli ioni che si vengono a formare vanno ad interagire tra loro. Es: se abbiamo il sodio e il cloro, il sodio ha un elettrone sull’orbitale più esterno e al cloro manca un elettrone, il sodio cede l’elettrone al cloro, nel momento in cui il sodio cede l’elettrone diventa positivo mentre il cloro diventa carico negativo. Questi due ioni possono formare un reticolo solido e cristallino, definito anche sale, e denominato cloruro di sodio. 2. LEGAME COVALENTE Il legame covalente si viene a formare quando si ha una condivisione o compartecipazione di almeno una coppia di elettroni. A seconda del numero di coppie di elettroni condivise tra due atomi uguali, potranno formarsi legami covalenti singoli - se si mette in comune una sola coppia di elettroni-, doppi o tripli. Il legame covalente si divide in covalente puro (apolare), ovvero quando la carica è perfettamente distribuita tra gli atomi, e covalente polare, quando l’atomo più elettronegativo tende ad attrarre maggiormente verso di sé gli elettroni. Con un ΔE minore di 0,4 abbiamo il legame covalente puro, con il ΔE che si trova invece tra o,4 e 1,4 abbiamo il covalente polare; nel caso del legame covalente polare si ha una formazione del dipolo, ovvero una specie in cui possiamo vedere dei poli diversi di carica, uno positivo e uno negativo. il legame covalente può essere inoltre definito da alcune proprietà: ENERGIA DI LEGAME, ovvero l’energia necessaria per rompere un legame di qualunque tipo ORDINE DI LEGAME, che corrisponde al numero di coppie di elettroni di legame fra due atomi e quindi al numero dei legami instaurati LUNGHEZZA DI LEGAME, la distanza fisica tra i due nuclei degli atomi legati tra loro; dipende dall’ordine di legame, se abbiamo un legame triplo i due atomi sono attratti in maniere molto più forte e la distanza è quindi più corta rispetto ad un legame singolo POLARITA’ DI UNA MOLECOLA Un legame è polare quando è costituito da atomi con una differenza di elettronegatività relativamente grande, questo genera una separazione di carica: l’atomo più elettronegativo addenserà su di sé una carica negativa e quello più elettropositivo una carica positiva, ci sarà quindi questa separazione di carica che formerà il dipolo; la forza del dipolo andrà a dipendere dalla carica e dalla distanza a cui si trovano i poli del dipolo. Ma ci sono delle eccezioni, ad esempio, l’acqua è costituita dall’ossigeno e dall’idrogeno, abbiamo quindi un atomo elettronegativo (ossigeno) unito a due atomi elettropositivi (idrogeno); con la CO2 è uguale, c’è un atomo centrale più due laterali, ma CO2 è apolare nonostante la differenza di elettronegatività tra gli atomi sia maggiore di 0,4. Questo dipende anche dalla simmetria della molecola, la CO2 è una molecola simmetrica e ogni qualvolta c’è un centro di simmetria abbiamo che la somma dei due dipoli, essendo uguali ma diretti in due direzioni opposte, si annulla. Una molecola è polare se la somma dei momenti dipolo di tutti i legami è diversa da zero, è apolare invece quando la somma è pari a zero. 3. LEGAME DATIVO Il legame dativo è da considerarsi un legame covalente, l’unica differenza rispetto agli altri legami covalenti è che anziché esserci una compartecipazione degli elettroni, c’è un atomo che condivide tutti gli elettroni che ha mentre l’altro li accetta, li condividono comunque ma c’è un donatore e un ricevente. Molto comune è lo ione ammonio NH4 che si viene a formare quando l’ammoniaca entra in relazione con uno ione positivo di idrogeno: l’ammoniaca NH3 ha un doppietto elettronico, quindi, può cedere due elettroni, l’H+ è l’atomo di idrogeno (con un elettrone che gli viene tolto e quindi con l’orbitale “s” vuoto), condividono quell’elettrone e formano lo ione ammonio. Ufficialmente si dovrebbe indicare con una freccetta verso l’atomo che accetta gli elettroni. La teoria degli orbitali molecolari considera gli elettroni come funzioni d'onda. Quando si forma un legame chimico, questo viene trattato come il risultato della combinazione delle funzioni d'onda degli elettroni degli atomi coinvolti. Questa combinazione porta alla sovrapposizione degli orbitali atomici, dando origine a nuovi orbitali molecolari. Gli orbitali molecolari risultanti non si limitano a descrivere solo i legami tra gli atomi, ma tengono conto anche delle coppie di elettroni solitari. Di conseguenza, questa teoria fornisce una descrizione più completa e accurata della distribuzione degli elettroni in una molecola. LEGAME SIGMA E LEGAME PIGRECO Nel legame covalente, quando mettiamo in compartecipazione una coppia di elettroni, possiamo ottenere due tipi di legami diversi: il legame sigma e il legame pi greco. se mettiamo in compartecipazione due o tre coppie di elettroni, otteniamo legami doppi o tripli; quando ho un legame semplice ho un legame sigma, quando ho un doppio legame ho un legame sigma e un pi greco, con un triplo legame invece ho un legame sigma e due pi greco. Il legame sigma avviene lungo la congiungente dei nuclei dei due atomi, ed è il legame più forte; mentre quello più debole, e primo a rompersi, è il legame pi greco. RISONANZA La teoria della risonanza descrive le molecole che possono essere rappresentate da più strutture di Lewis, chiamate strutture limite di risonanza. Queste strutture si differenziano per la disposizione degli elettroni, ma non per la posizione degli atomi. Ad esempio, i legami tra gli atomi possono essere rappresentati in modi diversi. Prendiamo lo ione carbonato (CO₃²⁻) come esempio: solitamente lo si rappresenta con un legame doppio e due legami singoli. Tuttavia, possiamo anche descriverlo con una rappresentazione che utilizza una "formula di risonanza", in cui le diverse configurazioni sono indicate con frecce doppie. Quando facciamo ciò, assegniamo cariche diverse agli atomi: il carbonio risulta coinvolto in un legame in meno, mentre un ossigeno ne ha uno in più. Ogni volta che è possibile rappresentare una molecola con legami diversi, possiamo parlare di risonanza. Per lo ione carbonato, tutti e tre gli atomi di ossigeno sono equivalenti. Perché, allora, attribuire il legame doppio solo a uno degli ossigeni? È come se il legame doppio "ruotasse" tra i tre atomi di ossigeno. Questa delocalizzazione dei legami viene indicata con frecce doppie che mostrano lo spostamento del doppio legame su ciascun ossigeno. Se andiamo a misurare le lunghezze dei legami nello ione carbonato, ci aspetteremmo di trovare due legami più lunghi e uno più corto, corrispondenti ai legami singoli e doppi. In realtà, tutte le lunghezze dei legami risultano uguali, confermando la delocalizzazione elettronica caratteristica della risonanza. ESPANSIONE DELL’OTTETTO L'espansione dell'ottetto si verifica in molecole dove un atomo centrale ha più di otto elettroni di valenza, superando la regola dell'ottetto classica. Questo fenomeno è possibile perché alcuni elementi possono utilizzare orbitali di livello energetico superiore, come gli orbitali d, per ospitare gli elettroni aggiuntivi. L'espansione dell'ottetto si osserva frequentemente con elementi appartenenti al terzo periodo (o periodi successivi) della tavola periodica, come fosforo (P), zolfo (S), cloro (Cl) e iodio (I). Questi elementi, grazie alla presenza di orbitali d liberi nel loro guscio di valenza, possono ospitare un numero maggiore di elettroni rispetto agli otto previsti dalla regola dell'ottetto. Un esempio classico di espansione dell'ottetto è rappresentato dalla molecola di esafluoruro di zolfo (SF₆). In questa molecola: l'atomo centrale di zolfo (S) forma sei legami covalenti con sei atomi di fluoro (F), ognuno dei quali contribuisce con un elettrone al legame. Gli atomi di fluoro rispettano la regola dell'ottetto, avendo otto elettroni nel loro guscio di valenza; l'atomo di zolfo, invece, possiede 12 elettroni di valenza, derivanti dalle sei coppie di legame, superando il limite degli otto. Questa configurazione è stabile perché lo zolfo utilizza i suoi orbitali d per accomodare gli elettroni in eccesso. L'espansione dell'ottetto può avvenire tramite una promozione elettronica, un processo in cui un elettrone da un orbitale a bassa energia (come un orbitale s o p) si sposta in un orbitale a energia superiore (come un orbitale d). Questa promozione è facilitata quando i livelli energetici degli orbitali coinvolti non sono troppo distanti tra loro. Prendiamo come esempio l'atomo di fosforo, con configurazione elettronica di valenza 3s² 3p³. In condizioni normali, il fosforo ha tre elettroni spaiati negli orbitali 3p, che gli consentono di formare tre legami covalenti. Tuttavia, se il fosforo assorbe energia dall'esterno, uno degli elettroni appaiati nell'orbitale 3s può essere promosso in un orbitale 3d. La configurazione risultante, 3s¹ 3p³ 3d¹, genera cinque elettroni spaiati, permettendo al fosforo di formare cinque legami covalenti, come nella molecola PCl₅ (pentacloruro di fosforo). 4. LEGAME METALLICO Il legame metallico è una forma di interazione forte che si verifica frequentemente tra gli atomi di elementi metallici, in particolare tra quelli appartenenti agli elementi di transizione. Questo legame è responsabile della formazione di strutture cristalline ordinate, chiamate reticoli metallici, e delle proprietà caratteristiche dei metalli. Gli atomi metallici hanno una naturale tendenza a cedere i loro pochi elettroni di valenza, trasformandosi in cationi. Tuttavia, nel legame metallico, questi elettroni non vengono trasferiti a un altro atomo né condivisi in un legame covalente. Invece, si distribuiscono in una nuvola elettronica che avvolge l’intera struttura cristallina. I cationi metallici si organizzano in posizioni fisse e ordinate, formando un reticolo cristallino, mentre gli elettroni ceduti dagli atomi rimangono liberi di muoversi all'interno della struttura. Questa nuvola elettronica funge da "collante" che tiene uniti i cationi e genera un'attrazione reciproca tra le cariche opposte, stabilizzando la struttura. Le particolari caratteristiche dei metalli derivano dalla presenza della nuvola elettronica e dal comportamento collettivo degli elettroni di valenza. Tra le principali proprietà troviamo: 1. Elevata conducibilità elettrica e termica: gli elettroni liberi possono muoversi facilmente attraverso il reticolo, trasportando energia elettrica e calore in modo molto efficiente. 2. Lucentezza: la nuvola elettronica riflette la luce, conferendo ai metalli il loro aspetto brillante. 3. Duttilità e malleabilità: a differenza dei solidi ionici, che si rompono facilmente sotto sforzo, i solidi metallici tendono a deformarsi senza spezzarsi. Questo accade perché i cationi possono scivolare l’uno sull’altro senza rompere il legame, grazie alla presenza della nuvola elettronica. 4. Resistenza al calore: la struttura metallica si riscalda rapidamente poiché gli elettroni mobili distribuiscono efficacemente il calore in tutto il reticolo. A differenza del legame ionico, che genera strutture fragili e poco duttili, il legame metallico produce reticoli robusti, in grado di sopportare deformazioni senza rompersi. La presenza degli elettroni mobili rende i metalli estremamente adattabili e conferisce loro proprietà uniche, come la capacità di condurre elettricità e calore con estrema efficienza. SCISSIONE Un legame covalente consiste nella condivisione di due elettroni tra due atomi. Questo legame può essere scisso in due modi principali: scissione omolitica e scissione eterolitica. La scissione dipende da diversi fattori, come la presenza di gruppi legati più o meno elettronegativi e l'uso di fonti di calore o luce. Scissione Omolitica: In questo caso, il legame covalente si rompe in modo che ciascun atomo coinvolto ottenga uno degli elettroni condivisi, generando così due radicali. Un radicale è una specie chimica che possiede un elettrone spaiato e può reagire facilmente con altre molecole. Scissione Eterolitica: In questo tipo di scissione, uno dei due atomi prende entrambi gli elettroni del legame covalente, mentre l'altro atomo rimane senza elettroni. Questa scissione genera uno ione positivo e uno ione negativo. Molte reazioni biologiche coinvolgono interazioni tra gruppi funzionali nucleofili ed elettrofili. Nucleofili: Sono gruppi ricchi di elettroni e capaci di donarli ad altri atomi. Un esempio di nucleofilo potrebbe essere il carbonio, che può agire da nucleofilo se ha un gruppo o un atomo circostante che dona elettroni. Elettrofili: Sono gruppi o atomi che, avendo una carica parzialmente positiva o una carenza di elettroni, sono attratti dagli elettroni e tendono ad acquisirli. Un carbonio, ad esempio, può agire sia da nucleofilo che da elettrofilo a seconda dei gruppi o degli atomi che lo circondano. Nelle reazioni biochimiche, si utilizzano convenzioni specifiche per rappresentare il movimento degli elettroni: Gli elettroni non impegnati nel legame, ma importanti per il meccanismo di reazione, vengono indicati con puntini rossi. Le frecce ricurve vengono utilizzate per mostrare il movimento dei doppietti elettronici. Le frecce ricurve con la punta a forma di amo indicano invece il movimento di un singolo elettrone durante le reazioni radicaliche. FORMA DELLE MOLECOLE La Teoria VSEPR (Valence Shell Electron Pair Repulsion), o "Teoria della repulsione delle coppie di elettroni di valenza", è un modello chimico che descrive come gli atomi in una molecola si dispongono spazialmente in relazione alla repulsione tra le coppie di elettroni che si trovano negli orbitali esterni dell'atomo centrale. La disposizione di questi atomi e la forma della molecola dipendono dal numero e dalla disposizione delle coppie di elettroni di valenza attorno all'atomo centrale, che tende a minimizzare le repulsioni tra di esse. Il principio di base della teoria VSEPR è che gli elettroni di valenza, che sono carichi negativamente, si respingono tra di loro. Di conseguenza, le coppie di elettroni tendono a disporsi nella maniera che permette loro di trovarsi alla maggiore distanza possibile tra di loro, riducendo così la repulsione e stabilizzando la struttura molecolare. La disposizione geometrica degli atomi e delle coppie elettroniche dipende dal numero totale di coppie di elettroni che circondano l'atomo centrale. Questo include sia le coppie di elettroni condivisi (legami covalenti) che le coppie non condivise, o coppie di elettroni liberi (non coinvolte nei legami chimici). Inoltre, è importante notare che le coppie di elettroni liberi (cioè quelle che non partecipano alla formazione di legami) esercitano una repulsione maggiore rispetto alle coppie di elettroni leganti. Di conseguenza, la presenza di coppie libere può alterare la geometria molecolare rispetto a quella ideale che si formerebbe se tutte le coppie di elettroni fossero condivise in legami. LE GEOMETRIE MOLECOLARI La geometria molecolare risultanti dalla teoria VSEPR dipende dal numero di coppie di elettroni di valenza che circondano l'atomo centrale. Ad esempio, se ci sono due coppie di elettroni, la disposizione ideale è lineare, con un angolo di legame di 180° tra le coppie di elettroni. Se ci sono tre coppie di elettroni, la geometria che si forma è triangolare, con angoli di legame di 120°. Infine, con quattro coppie di elettroni, la disposizione geometrica è tetraedrica, con angoli di legame di 109,5°. Queste sono le geometrie ideali, ma in presenza di coppie di elettroni liberi, la forma effettiva della molecola può essere diversa. Ad esempio, se ci sono coppie di elettroni liberi, gli angoli di legame si riducono rispetto ai valori ideali, poiché le coppie libere richiedono più spazio e esercitano una repulsione più forte. Le coppie di elettroni liberi e le coppie di elettroni condivisi (che formano i legami) hanno un comportamento simile in termini di repulsione, ma la repulsione tra le coppie di elettroni liberi è più intensa. Questo avviene perché le coppie libere sono localizzate più vicine all'atomo centrale e non sono "accettate" da un altro atomo, quindi occupano più spazio rispetto alle coppie di elettroni che formano i legami. La geometria finale della molecola, quindi, tiene conto della presenza di coppie di elettroni liberi, che tendono a "deformare" la molecola e a ridurre gli angoli di legame rispetto a quelli ideali. Inoltre, le coppie di elettroni liberi sono coinvolte in interazioni di repulsione più forti rispetto ai legami, e questo fattore viene considerato quando si determinano le forme effettive delle molecole. IBRIDAZIONE Il concetto di ibridazione degli orbitali è fondamentale per comprendere la struttura e le proprietà chimiche delle molecole. Prima di approfondire, è utile ricordare che gli orbitali atomici non rappresentano contenitori fisici in cui sistemare uno o due elettroni, ma strumenti matematici che ci permettono di prevedere le regioni dello spazio in cui è più probabile trovare gli elettroni. Gli orbitali atomici puri (s, p e, in certi casi, d) possono combinarsi, dando origine a nuovi orbitali detti ibridi, che possiedono caratteristiche intermedie rispetto a quelle degli orbitali originali. Questa trasformazione, chiamata ibridazione, avviene sotto specifiche condizioni: 1. Gli orbitali coinvolti devono avere energie comparabili e lo stesso numero quantico principale. 2. Gli orbitali ibridi devono essere utilizzati per formare legami covalenti o ospitare coppie di elettroni non condivise. L'ibridazione è essenziale per spiegare la geometria molecolare e le proprietà chimico-fisiche di molte sostanze, superando i limiti della descrizione basata solo sugli orbitali atomici puri. Durante la formazione di legami, gli orbitali atomici si combinano modificando forma e simmetria per generare orbitali ibridi. Questi nuovi orbitali si orientano nello spazio per minimizzare le repulsioni elettroniche e consentire una disposizione stabile degli atomi. È importante sottolineare che: Il numero di orbitali ibridi generati è uguale al numero di orbitali atomici che si combinano. La forma e la geometria degli orbitali ibridi sono diverse rispetto a quelle degli orbitali atomici originali. La somma degli elettroni contenuti negli orbitali atomici è uguale a quella degli orbitali ibridi risultanti. I principali tipi di ibridazione includono sp, sp2, sp3, dsp3 e d2sp3, con ognuno associato a una specifica geometria molecolare e disposizione elettronica. IBRIDAZIONI DEL CARBONIO Il carbonio, appartenente al IV Gruppo e dotato di 4 elettroni di valenza, è un elemento chiave per comprendere l'ibridazione. Esso può assumere diverse configurazioni elettroniche ibride a seconda dei legami che forma. - IBRIDAZIONE SP3 Nell'ibridazione sp3, un orbitale s e tre orbitali p si combinano per generare quattro orbitali ibridi isoenergetici. Questa configurazione si trova, ad esempio, nella molecola di metano (CH4), dove gli orbitali sp3 si dispongono in modo tetraedrico con angoli di 109,5°. La simmetria tetraedrica consente una distribuzione uniforme degli atomi attorno al carbonio, rendendo la molecola particolarmente stabile. - IBRIDAZIONE SP2 In questa configurazione, un orbitale s e due orbitali p si combinano per formare tre orbitali ibridi sp2 disposti in modo planare, con un angolo di 120°. L'orbitale p rimanente, non ibridizzato, si posiziona perpendicolarmente al piano degli sp2, partecipando alla formazione di legami π. Un esempio di molecola con ibridazione sp2 è l'etene (C2H4), in cui si formano cinque legami σ e un legame π che contribuiscono alla rigidità strutturale della molecola. - IBRIDAZIONE SP Quando un orbitale s e un orbitale p si combinano, si generano due orbitali ibridi sp disposti linearmente con un angolo di 180°. I due orbitali p rimanenti, perpendicolari tra loro e agli sp, partecipano alla formazione di doppi o tripli legami π. Questa configurazione si osserva, ad esempio, nell'etino (C2H2), una molecola con legami estremamente forti e una struttura lineare. L'ibridazione sp3 e sp2 del carbonio spiega le differenze strutturali e proprietà tra due allotropi ben noti: diamante e grafite. Diamante: Gli atomi di carbonio nel diamante sono ibridizzati sp3, formando una struttura tetraedrica estremamente compatta. Questo conferisce al diamante un'elevata densità (3,51 g/cm³), durezza e resistenza meccanica. Grafite: Nella grafite, gli atomi di carbonio sono ibridizzati sp2, formando piani planari di struttura esagonale. Gli orbitali p non ibridizzati si sovrappongono, creando orbitali π delocalizzati. Questa delocalizzazione permette la conducibilità elettrica lungo i piani e rende la grafite morbida e scorrevole, ideale per lubrificanti e materiali scriventi. LEGAMI INTERMOLECOLARI I legami intermolecolari rivestono un ruolo cruciale a livello biologico e sono responsabili dello stato di aggregazione della materia, influenzando direttamente la solubilità e il comportamento fisico delle sostanze. Si tratta di legami che si formano tra molecole diverse, caratterizzati da una natura debole, transitoria e non direzionale: si instaurano, si rompono e si riformano continuamente. Le interazioni tra dipoli, fondamentali in questi legami, comprendono dipoli permanenti, indotti e istantanei. L'insieme di tali interazioni prende il nome di forze di van der Waals, che si suddividono in forze di van der Waals, interazioni ione-dipolo e legami a idrogeno, elencati in ordine decrescente di intensità. Le interazioni intermolecolari, pur essendo più deboli rispetto ai legami covalenti e ionici, sono determinanti per le forze coesive della materia. Governano gli stati di aggregazione e contribuiscono al passaggio tra gli stati solido, liquido e gassoso. Inoltre, tali interazioni influenzano la solubilità delle sostanze e sono essenziali per comprendere le proprietà fisiche dei materiali, conferendo loro specifiche caratteristiche chimico-fisiche. FORZE DI VAN DER WAALS Le interazioni intermolecolari possono essere distinte in base alla natura dei dipoli coinvolti. Esse comprendono: 1. INTERAZIONE FRA DIPOLI INDOTTI ISTANTANEI (FORZA DI LONDON) Queste forze, dette anche forze di dispersione, sono le più deboli tra i legami intermolecolari. Si originano da fluttuazioni momentanee nella distribuzione di carica in molecole apolari. Tali fluttuazioni determinano momenti di dipolo istantanei, che a loro volta inducono momenti di dipolo in molecole vicine. Le forze di dispersione sono fondamentali nei composti apolari. Ad esempio, è grazie a esse che lo iodio si presenta come solido a temperatura ambiente, mentre il bromo è liquido e il cloro è gassoso. L'intensità di queste forze dipende dalla polarizzabilità della specie chimica, che aumenta con le dimensioni atomiche o molecolari. Un dipolo istantaneo si genera quando due molecole non polari entrano in contatto. Gli elettroni più esterni delle molecole, avvicinandosi, subiscono fluttuazioni casuali nella loro distribuzione. Queste fluttuazioni creano una distribuzione momentanea di carica, risultando in un dipolo temporaneo. 2. INTERAZIONE FRA DIPOLO PERMANENTE E DIPOLO INDOTTO (FORZA DI DEBYE) Un dipolo indotto si forma quando una molecola polare si avvicina a una molecola non polare, inducendo in quest’ultima una ridistribuzione delle cariche elettroniche. Questo fenomeno porta alla creazione temporanea di una polarità nella molecola non polare. Ad esempio, se una molecola di ossigeno (O₂) si avvicina a una molecola di acqua, la frazione di carica negativa presente sull'atomo di ossigeno della molecola d'acqua respinge la nube elettronica della molecola di ossigeno e attira la carica positiva nucleare. Questo spostamento dei centri di carica determina l'induzione di una polarità nella molecola di ossigeno, che può quindi interagire con la molecola d'acqua polare. Le interazioni dipolo-dipolo indotto sono più deboli rispetto alle interazioni dipolo-dipolo, ma giocano un ruolo fondamentale in diversi fenomeni chimici. Ad esempio, grazie a queste forze, molti gas apolari come azoto (N₂), ossigeno (O₂) e anidride carbonica (CO₂) mostrano una discreta solubilità in acqua. La polarizzabilità è la capacità di un atomo, ione o molecola di sviluppare un dipolo indotto in risposta a un campo elettrico esterno. La polarizzabilità aumenta con la dimensione atomica o molecolare, poiché gli elettroni più distanti dal nucleo sono trattenuti con minore forza e quindi più facilmente deformabili. Anche gli ioni possono indurre un dipolo in una specie apolare, utilizzando lo stesso meccanismo di induzione descritto sopra. 3. INTERAZIONE FRA DIPOLI PERMANENTI (FORZA DI KEESOM) Un dipolo permanente è presente in una molecola quando uno o più legami covalenti al suo interno sono formati da atomi con diversa elettronegatività. Questa differenza genera una separazione di carica, con una parziale carica positiva su un atomo e una parziale carica negativa su un altro. Molecole che presentano un dipolo permanente sono definite polari. Le interazioni dipolo-dipolo avvengono tra molecole polari. In queste interazioni, l’estremità positiva di una molecola polare è attratta dall’estremità negativa di un’altra e viceversa. Questo fenomeno crea un legame elettrostatico tra i dipoli, rendendo le molecole coese. Queste interazioni sono esotermiche, il che significa che per romperle è necessario fornire energia. Questo aspetto spiega in parte perché è necessario riscaldare un solido polare per fonderlo o un liquido polare per farlo evaporare. La temperatura di fusione o ebollizione di un composto è un indicatore dell’intensità delle forze intermolecolari. Un valore più elevato di queste temperature corrisponde a forze dipolo-dipolo più intense che tengono unite le molecole nella fase solida o liquida. Ad esempio, molecole con forti interazioni dipolo-dipolo avranno temperature di ebollizione e fusione superiori rispetto a quelle con interazioni più deboli. FORZE IONE-DIPOLO Le forze ione-dipolo sono tra le interazioni intermolecolari più intense. Queste forze si manifestano quando uno ione carico positivamente o negativamente interagisce con una molecola polare. Lo ione viene attratto dal polo opposto del dipolo della molecola: uno ione positivo si lega al polo negativo del dipolo, mentre uno ione negativo si lega al polo positivo. Le interazioni ione-dipolo sono particolarmente significative nelle soluzioni, come ad esempio nel caso dell'idratazione degli ioni in soluzione acquosa. L’acqua, essendo una molecola polare, interagisce con gli ioni: Uno ione positivo è circondato da molecole di acqua con l’atomo di ossigeno (parzialmente carico negativamente) orientato verso lo ione. Uno ione negativo, invece, è circondato da molecole di acqua con gli atomi di idrogeno (parzialmente carichi positivamente) orientati verso lo ione L'idratazione di uno ione è generalmente un processo esotermico, in quanto rilascia energia. Questo rilascio energetico può favorire processi di dissociazione elettrolitica. Ad esempio: La dissociazione del legame H-Cl nel cloruro di idrogeno è endotermica e richiede circa 1394 kJ/mol. Per questo motivo, l’HCl puro non si dissocia. Tuttavia, quando l’HCl è introdotto in acqua, si verifica una completa dissociazione in H⁺ e Cl⁻ grazie al grande guadagno energetico derivante dall’idratazione degli ioni H⁺ e Cl⁻. LEGAME IDROGENO Il legame a idrogeno è un tipo di interazione dipolo-dipolo particolarmente intensa. Si verifica quando un atomo di idrogeno, legato a un atomo fortemente elettronegativo come fluoro, ossigeno o azoto, interagisce con una coppia solitaria di elettroni di un altro atomo elettronegativo. Questa interazione è resa possibile dalla polarizzazione del legame covalente, che lascia il protone dell’idrogeno parzialmente esposto e attratto dalle coppie di elettroni libere di un’altra molecola. Un esempio comune è l’acqua, dove i legami a idrogeno tra le molecole determinano molte delle sue proprietà, come il punto di ebollizione elevato. Molecole come ammoniaca e acido fluoridrico possono anch’esse formare legami a idrogeno. Questi legami sono rappresentati graficamente con una linea tratteggiata tra l’atomo di idrogeno e l’atomo elettronegativo dell’altra molecola. Nelle proteine, i legami a idrogeno che si formano tra gli atomi di idrogeno legati all’azoto del gruppo amminico e gli atomi di ossigeno legati al carbonio del gruppo carbonilico giocano un ruolo cruciale nel mantenimento della struttura secondaria. Queste interazioni sono essenziali per la formazione della struttura a α-elica, una disposizione elicoidale stabile e ripetitiva della catena polipeptidica. La presenza di questi legami conferisce alla proteina una forma compatta e robusta, fondamentale per la sua funzionalità biologica. LEGAME IDROFOBICO Quando una sostanza apolare, come l’olio, viene immersa in una sostanza polare come l’acqua, si osserva che "il simile scioglie il simile", un principio basato sulle interazioni molecolari. Le molecole polari tendono a interagire tra loro attraverso legami come il dipolo-dipolo, mentre le molecole apolari formano interazioni idrofobiche. Quando una sostanza apolare viene introdotta in un solvente polare, si formano strutture come le micelle, in cui le code apolari si dispongono verso l’interno, lontane dall’acqua, e le teste polari sono orientate verso l’esterno, a contatto con il solvente. Questa organizzazione permette di minimizzare le interazioni sfavorevoli tra le molecole idrofobiche e l’acqua. Le interazioni idrofobiche sono forze che tengono insieme molecole non polari immerse in un liquido polare, senza la formazione di veri e propri legami chimici. Le molecole d’acqua, unite da un reticolo di legami a idrogeno, tendono a evitare la presenza di molecole idrofobiche, poiché queste interrompono il reticolo stabilito. L’energia richiesta per rompere i legami a idrogeno dell’acqua non è compensata dalla formazione di nuovi legami dipolo-dipolo indotto, rendendo il processo sfavorevole dal punto di vista energetico. Per minimizzare l’energia necessaria, le molecole idrofobiche si aggregano tra loro, riducendo il contatto con l’acqua. Questo fenomeno è osservabile, ad esempio, mettendo molecole di benzene (C₆H₆) in acqua: inizialmente, ogni molecola di benzene circondata da molecole d’acqua causa un alto consumo energetico; con l’aggregazione, il numero di interazioni sfavorevoli è ridotto, rendendo il sistema più stabile. MICELLE E SISTEMI COLLOIDALI Le micelle rappresentano una configurazione tipica delle interazioni idrofobiche. In queste strutture, i gruppi idrofobici sono segregati all’interno, evitando il contatto con l’acqua, mentre i gruppi polari formano un guscio esterno a contatto con il solvente. Questo aumento di disordine nelle molecole d’acqua circostanti, riducendo l’energia complessiva del sistema, incrementa l’entropia. Nei sistemi biologici, molte molecole, come proteine e acidi nucleici, possiedono un’estremità polare (idrofila) e una apolare (idrofobica). Questa caratteristica consente loro di formare emulsioni stabili tra grassi e oli in soluzioni acquose, facilitando numerosi processi biologici essenziali. LA NOMENCLATURA La nomenclatura chimica tradizionale, introdotta da Antoine Lavoisier tra il 1743 e il 1794, fu formalizzata nel 1789. Con il tempo, questa è stata gradualmente sostituita dalla nomenclatura IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry), adottata ufficialmente negli anni ’70 del Novecento e divenuta il sistema standard. I composti binari sono costituiti da atomi di due diversi elementi, come H₂O, NH₃, CO, CO₂ e HCl. I composti ternari contengono invece atomi di tre diversi elementi, ad esempio H₂SO₃, HNO₃, CaCO₃ e NaClO. NUMERO DI OSSIDAZIONE Il numero di ossidazione è una carica positiva o negativa formalmente attribuita a ciascun elemento in un composto. Essa è determinata dal numero di elettroni che l’elemento possiede in più (carica negativa) o in meno (carica positiva) rispetto all’atomo neutro, assumendo che gli elettroni di legame siano assegnati all’elemento più elettronegativo del composto. Il numero di ossidazione, tuttavia, non rappresenta una carica reale ma fittizia, attribuita convenzionalmente a ciascun elemento. Per calcolare i numeri di ossidazione degli elementi di un composto bisogna: 1. Stabilire quale degli elementi è il più elettronegativo. 2. Attribuire a tale elemento tutti gli elettroni di legame. 3. Valutare la carica assunta dagli atomi dopo questa attribuzione fittizia. La somma dei numeri di ossidazione di tutti gli atomi presenti in una molecola neutra è sempre pari a zero. Invece, in uno ione (monoatomico o poliatomico), la somma dei numeri di ossidazione deve essere uguale alla carica complessiva dello ione. REGOLE GENERALI PER I NUMERI DI OSSIDAZIONE o Il N.O. dell’idrogeno è +1, tranne che nei composti con metalli in cui è -1. o Il N.O. degli elementi del gruppo IA è +1. o Il N.O. degli elementi del gruppo IIA è +2. o Il N.O. del fluoro è sempre -1. o Il N.O. del cloro è -1, eccetto nei composti con l’ossigeno (dove può avere numeri di ossidazione pari a +1, +3, +5 o +7) e in ClF (dove è +1). o Il N.O. del bromo è -1, eccetto nei composti con l’ossigeno, il fluoro e il cloro. o Il boro, l’alluminio e i lantanidi hanno N.O. +3. o Nella maggior parte dei composti, il N.O. dell’ossigeno è -2. o Nei perossidi, in cui vi è un legame O-O, il N.O. è -1. o Nei composti con il fluoro, il N.O. dell'ossigeno è +2. Per tutti gli elementi, il numero di ossidazione positivo più alto corrisponde al numero del gruppo cui l’elemento appartiene nella tavola periodica. Nei composti, l’elemento più elettronegativo avrà sempre un numero di ossidazione negativo, mentre gli altri avranno numeri di ossidazione positivi. SCRITTURA FORMULE COMPOSTI BINARI I numeri di ossidazione dei composti binari seguono una regola importante: la somma dei numeri di ossidazione di tutti gli atomi di uno dei due elementi deve essere uguale, in valore assoluto, alla somma dei numeri di ossidazione di tutti gli atomi dell’altro. In pratica, si incrociano gli indici dei numeri di ossidazione. Gli indici vanno ridotti ai minimi termini e l’indice 1 si omette sempre. Un esempio di composti binari includono CaO (con numeri di ossidazione +2 e -2), Al₂O₃ (con numeri di ossidazione +3 e -2), e K₂O (con numeri di ossidazione +1 e -2). Nella nomenclatura tradizionale, si utilizzano prefissi e suffissi in base ai numeri di ossidazione dei vari elementi. Nella nomenclatura ufficiale (o IUPAC), si indica il numero di atomi di ciascun elemento presente nel composto tramite prefissi di origine greca. Quando è presente un solo atomo di un elemento, non si utilizza alcun prefisso. I prefissi di origine greca per indicare il numero di atomi sono: "mono" (che non viene usato quando l'atomo è uno), "di" per 2 atomi, "tri" per 3 atomi, "tetra" per 4 atomi, "penta" per 5 atomi, "esa" per 6 atomi, e "epta" per 7 atomi. Alcuni nomi tradizionali, come acqua, ammoniaca (NH₃) e metano (CH₄), sono stati accettati come validi a livello internazionale. OSSIDI (o OSSIDI BASICI) METALLO + OSSIGENO I composti binari formati dall'unione di un metallo con l'ossigeno sono ossidi. Poiché l'ossigeno è molto più elettronegativo dei metalli, tutti gli ossidi sono composti ionici e quindi solidi a temperatura ambiente. Nomenclatura tradizionale: a) Se il metallo ha un solo numero di ossidazione: o Ossido di + nome metallo (es. ossido di sodio Na₂O) b) b) Se il metallo ha due numeri di ossidazione: o Ossido di + nome metallo con desinenza "-OSO" per il numero di ossidazione minore. ad esempio: ossido piomboso PbO (numero di ossidazione +2) o Ossido di + nome metallo con desinenza "-ICO" per il numero di ossidazione maggiore. ad esempio: ossido piombico PbO₂ (numero di ossidazione +4) Nomenclatura ufficiale (o IUPAC): Si indica il numero di atomi di ciascun elemento e si utilizzano i prefissi relativi insieme al termine "ossido di". Ad esempio: Na₂O ossido di DIsodio; PbO ossido di piombo (+2); PbO₂ BIossido di piombo (+4) ANIDRIDI (o OSSIDI ACIDI) NON METALLO + OSSIGENO I composti binari formati dall'unione di un non metallo con l'ossigeno sono anidride. La differenza di elettronegatività tra l'ossigeno e i non metalli è piccola; le anidridi sono quindi composti covalenti più o meno polari, che a temperatura ambiente possono essere solidi, liquidi o gassosi. Nomenclatura tradizionale: a) Se il non metallo ha un solo numero di ossidazione: o Anidride + nome non metallo con desinenza "-ICA" (es. anidride carbonica CO₂) b) Se il non metallo ha due numeri di ossidazione: o Anidride + nome non metallo con desinenza "-OSA" per il numero di ossidazione minore. Ad esempio: anidride solforosa SO₂ (+4) o Anidride + nome non metallo con desinenza "-ICA" per il numero di ossidazione maggiore. Ad esempio: anidride solforica SO₃ (+6) c) Se il non metallo ha quattro numeri di ossidazione (ad esempio gli elementi del 7° gruppo con +1, +3, +5, +7): o Anidride IPO + nome non metallo con desinenza "-OSA" per il numero di ossidazione +1. Ad esempio: anidride ipoclorosa Cl₂O o Anidride + nome non metallo con desinenza "-OSA" per il numero di ossidazione +3. Ad esempio: anidride clorosa Cl₂O₃ o Anidride + nome non metallo con desinenza "-ICA" per il numero di ossidazione +5. Ad esempio: anidride clorica Cl₂O₅ o Anidride PER + nome non metallo con desinenza "-ICA" per il numero di ossidazione +7. Ad esempio: anidride perclorica Cl₂O₇ Nomenclatura ufficiale (o IUPAC): Anche i composti tra ossigeno e non metallo sono chiamati ossidi. Si utilizzano sempre i prefissi relativi al numero di atomi di ciascun elemento. Ad esempio: SO₂ BIossido di zolfo (+4); SO₃ TRIossido di zolfo (+6); Cl₂O ossido di DIcloro (+1); Cl₂O₃ TRIossido di DIcloro (+3); Cl₂O₅ PENTAossido di DIcloro (+5); Cl₂O₇ EPTAossido di DIcloro (+7) IDROSSIDI (OSSIGENO + IDROGENO + METALLO) Gli idrossidi sono composti ternari che contengono ossigeno, idrogeno e metalli. In questi composti, l'ossidazione dell'idrogeno è sempre pari a -1, ed essi contengono il gruppo ossidrile (OH⁻). Gli idrossidi sono composti ionici, quindi solidi a temperatura ambiente. Essi derivano dalla reazione tra ossidi (basici) e acqua, mantenendo invariato il numero di ossidazione degli elementi coinvolti nella reazione. Gli idrossidi sono caratterizzati da un comportamento ionico, e la formula dei composti ionici può essere scritta utilizzando le stesse regole usate per i composti binari, considerando l'ossidrile (OH⁻) come un elemento con numero di ossidazione -1. Ad esempio, per bilanciare la reazione tra ossido ferrico e acqua, consideriamo che l'ossido ferrico Fe₂O₃ reagisce con l'acqua H₂O per formare idrossido ferrico Fe (OH)₃. Iniziamo con l'equazione non bilanciata: 1. Bilanciare il ferro (Fe): Poiché c'è 2 atomi di ferro a sinistra (in Fe₂O₃) e 1 a destra (in Fe (OH)₃), dobbiamo mettere il coefficiente 2 davanti a Fe (OH)₃ per bilanciare il ferro: 2. Bilanciare l'ossigeno (O): L'ossido ferrico (Fe₂O₃) ha 3 atomi di ossigeno. Ogni molecola di Fe (OH)₃ ha 1 atomo di ossigeno, quindi con 2 molecole di Fe (OH)₃ avremo 2 atomi di ossigeno a destra. Per bilanciare l'ossigeno, dobbiamo mettere 3 molecole di H₂O a sinistra: 3. Bilanciare l'idrogeno (H): Ogni molecola di H₂O contiene 2 atomi di idrogeno. Con 3 molecole di H₂O, ci saranno 6 atomi di idrogeno a sinistra. Ogni molecola di Fe (OH)₃ ha 3 atomi di idrogeno, quindi con 2 molecole di Fe (OH)₃, avremo 6 atomi di idrogeno a destra. Il bilanciamento dell'idrogeno è corretto. L'equazione finale bilanciata è: - nomenclatura tradizionale degli idrossidi Se il metallo ha un solo numero di ossidazione, il composto si chiama "idrossido di" seguito dal nome del metallo. Per esempio, se il metallo è il sodio (Na), che ha ossidazione +1, il composto si chiama idrossido di sodio e la formula è Na (OH). Se il metallo ha più numeri di ossidazione, si distingue tra l'ossidazione minore e quella maggiore utilizzando il suffisso "-oso" per il numero di ossidazione minore e "-ico" per il numero di ossidazione maggiore. Per esempio, se il rame ha ossidazione +1, il composto si chiama idrossido di rameoso e la formula è Cu (OH). Se il rame ha ossidazione +2, il composto si chiama idrossido di rameico e la formula è Cu (OH)₂. - nomenclatura ufficiale (iupac) degli idrossidi Si indica il numero di gruppi ossidrile (OH) ponendo i prefissi relativi al numero degli atomi dell'elemento. La denominazione è la seguente: "idrossido di" seguito dal nome del metallo e dal numero di atomi di ossidrile. Per esempio: Na (OH) è chiamato idrossido di sodio; Fe (OH)₂ è DIidrossido di ferro (+2); Fe (OH)₃ è TRIidrossido di ferro (+3); Pb (OH)₄ è TETRAidrossido di piombo (+4). Gli idrossidi sono composti ionici ed in acqua si dissociano liberando tutti gli anioni OH ed un catione metallico con tante cariche positive quanti sono gli OH liberati. IDRACIDI O ACIDI BINARI Gli idracidi o acidi binari sono composti formati dall'unione dell'idrogeno con uno degli elementi non metallici del gruppo VII (come F, Cl, Br, I, Se, S). Questi composti sono covalenti e polari. La maggior parte degli idracidi sono gassosi a temperatura ambiente, ad eccezione dell'HF (acido fluoridrico), che è un liquido a causa della presenza di legami a ponte di idrogeno. Gli idracidi derivano da elementi appartenenti al 7° gruppo della tavola periodica, come il fluoro, il cloro, il bromo, lo iodio e il selenio, i cui atomi hanno un numero di ossidazione pari a 1, mentre gli elementi del 6° gruppo, come lo zolfo e il selenio, hanno un numero di ossidazione pari a 2. - La nomenclatura tradizionale prevede che gli idracidi siano chiamati con il nome dell'elemento non metallico seguito dal suffisso "idrico". Per esempio, l'HF è chiamato acido fluoridrico, l'HCl è acido cloridrico, l'HBr è acido bromidrico, l'HI è acido iodidrico, l'H₂S è acido solfidrico e l'H₂Se è acido selenidrico. - Secondo la nomenclatura ufficiale, gli idracidi sono chiamati utilizzando il nome dell'elemento non metallico con il suffisso "uro", seguito dalla dicitura "di idrogeno". Per esempio, l'HF diventa fluoruro di idrogeno, l'HCl è cloruro di idrogeno, l'HBr è bromuro di idrogeno, l'HI è ioduro di idrogeno, l'H₂S è solfuro di idrogeno e l'H₂Se è selenuro di idrogeno. OSSIACIDI O ACIDI TERNARI Gli ossiacidi o acidi ternari sono composti ternari che comprendono idrogeno, ossigeno e un non metallo. Questi composti sono covalenti, polari e possono essere solidi o liquidi a temperatura ambiente. Gli ossiacidi derivano dalla reazione tra anidridi e acqua, in cui gli elementi coinvolti mantengono il loro numero di ossidazione. Nella formula dell'ossiacido, il non metallo è presente e di solito si trova con un solo atomo (tranne alcune eccezioni). Per scrivere la formula di un ossiacido, si deve seguire un ordine specifico: idrogeno, non metallo e ossigeno, mettendo il numero atomico di ciascun elemento sulla parte sinistra della formula. - Nomenclatura tradizionale a) Se il non metallo ha un solo numero di ossidazione: si usa la forma "acido + nome del non metallo" con la desinenza ICO. Ad esempio: o Acido carbonico H2CO3 b) Se il non metallo ha due numeri di ossidazione: o Per il numero di ossidazione minore, si usa la desinenza OSO. Ad esempio: Acido solforoso H2SO3 (ossidazione +4) o Per il numero di ossidazione maggiore, si usa la desinenza ICO. Ad esempio: Acido solforico H2SO4 (ossidazione +6) c) Se il non metallo ha quattro numeri di ossidazione, come gli elementi del 7 gruppo: - acido IPO nome non metallo con desinenza OSO ossidazione +1 - acido + nome non metallo con desinenza OSO per il numero di ossidazione+3 - acido + nome non metallo con desinenza ICO per il numero di ossidazione +5 - acido PER nome non metallo con desinenza ICO per il numero di ossidazione+7 - Nomenclatura ufficiale Nella nomenclatura ufficiale, si attribuisce un aggettivo riferito al numero di atomi di ossigeno presenti nell'acido e al nome del non metallo, che termina in ICO. Successivamente, tra parentesi, si indica il numero di ossidazione del non metallo. Ad esempio: HClO Acido ossoclorico (+1); HClO2 Acido diossoclorico (+3). DECOMPOSIZIONE IN ACQUA DEGLI ACIDI La decomposizione in acqua degli acidi si riferisce al processo in cui gli acidi si dissociano in ioni quando vengono disciolti in acqua, un solvente polare. Questo processo dipende dal tipo di legame che tiene insieme l'atomo di idrogeno all'altro atomo nella molecola dell'acido. Negli ossiacidi, l'idrogeno è legato a un atomo di ossigeno tramite un legame covalente polare. Quando l'acido viene dissolto in acqua, tale legame si rompe, causando la separazione dell'idrogeno come ione H+ e formando un anione che dipende dal non metallo e dall'ossigeno. Il solvente polare (acqua) facilita la dissociazione, creando una soluzione di ioni. Negli idracidi, l'idrogeno è legato a un non metallo molto elettronegativo come il cloro, il fluoro, o il bromo tramite un legame covalente polare. Anche in questo caso, quando l'acido è dissolto in acqua, il legame covalente si rompe e l'idrogeno si separa come ione H+, lasciando un anione costituito dal non metallo. SALI BINARI I sali binari sono composti ionici formati da un metallo e un non metallo. Questi sali si ottengono generalmente tramite reazioni di combinazione tra un metallo e un non metallo o da reazioni di ossidazione e riduzione, che possono essere descritte come segue: 1. Formazione dei sali binari: Dal metallo con un solo numero di ossidazione: Il metallo cede elettroni per formare cationi positivi, mentre il non metallo acquisisce elettroni per formare anioni negativi. Dal metallo con numeri di ossidazione variabili: In questo caso, il metallo può formare più cationi con numeri di ossidazione diversi, e il nome del sale dipenderà dal numero di ossidazione del metallo. Nomenclatura tradizionale: a) Metallo con un solo numero di ossidazione: In questi casi, il nome del sale viene formato dal non metallo che termina con "-uro" e dal nome del metallo senza indicare il numero di ossidazione, poiché è implicito. b) Metallo con numeri di ossidazione variabili: Se il metallo ha più di un numero di ossidazione, si specifica il numero di ossidazione con il suffisso "-oso" per il numero minore e "-ico" per il numero maggiore. Nomenclatura ufficiale: Si scrive prima il nome del non metallo terminante in "-uro", seguito dal nome del metallo. Ad esempio, il Dicloruro di ferro (FeCl₂) - il ferro ha ossidazione +2. SALI TERNARI I sali ternari sono composti ionici formati da un metallo, un non metallo e ossigeno. Questi sali derivano da reazioni in cui è coinvolto un ossido o un anione poliatomico contenente ossigeno, come i carbonati, solfati, nitrati, ecc. Nomenclatura tradizionale: Si scrive prima il nome dell'anione poliatomico, seguito dal nome del catione metallico. Se il metallo ha un solo numero di ossidazione: o Si scrive il nome del metallo seguito dall'anione, senza bisogno di indicare il numero di ossidazione, es Carbonato di calcio (CaCO₃) Se il metallo ha più numeri di ossidazione: o Si utilizzano le desinenze "-oso" per il numero di ossidazione minore e "-ico" per il numero di ossidazione maggiore. Esempio, Carbonato ferroso (FeCO₃) - Fe in ossidazione +2; Solfato rameico (CuSO₄) - Cu in ossidazione +2. Nomenclatura ufficiale: Il nome dell'anione è preceduto dal termine "-ato" e dal numero di ossidazione del non metallo tra parentesi. Il nome del metallo segue, con il suo numero di ossidazione tra parentesi, se necessario. Ad esempio, il Carbonato di calcio (CaCO₃) - Anione carbonato (CO₃²⁻), numero di ossidazione 4 per il carbonio. LA MOLE La massa degli atomi, espressa in grammi, presenta valori estremamente piccoli e difficili da gestire. Per semplificare, si è introdotta la massa atomica relativa, che permette di confrontare le masse degli atomi senza ricorrere a numeri scomodi. Storicamente, il primo riferimento fu l’idrogeno, l’elemento più leggero (massa = 1), ma successivamente si adottarono altre scale: prima la sedicesima parte della massa di un atomo di ossigeno, poi, dal 1961, la dodicesima parte della massa di un atomo di carbonio-12 (il suo isotopo più abbondante). Questo standard è oggi universalmente riconosciuto. L’unità di massa atomica (u.m.a.), indicata con il simbolo "u", corrisponde a 1/12 della massa di un atomo di carbonio-12, ovvero circa 1,66059×10−24 grammi. Da questa definizione derivano due concetti fondamentali: Massa atomica relativa: il rapporto tra la massa assoluta di un atomo e la dodicesima parte della massa di un atomo di carbonio-12. Massa molecolare relativa: la somma delle masse atomiche relative degli atomi che compongono una molecola. Sebbene i termini "peso atomico" e "peso molecolare" siano meno rigorosi, sono ancora comunemente utilizzati. La massa atomica di un elemento, come riportato nella tavola periodica, rappresenta un valore medio ponderato, calcolato tenendo conto della massa e dell’abbondanza relativa dei suoi isotopi. Per facilitare ulteriormente i calcoli in chimica, si utilizza il concetto di mole. Una mole rappresenta 6,022 × 10²³ particelle (numero di Avogadro) e corrisponde alla quantità in grammi pari alla massa atomica o molecolare di una sostanza. Ad esempio: Una mole di carbonio-12 ha una massa di 12 grammi. Il numero di particelle (N) in un campione si calcola con la formula: N=n×NA Dove n è il numero di moli e NA è il numero di Avogadro. Il numero di moli (n) può essere determinato dividendo la massa del campione (m) per la massa molare (M): PRINCIPIO DI AVOGADRO Il principio di Avogadro stabilisce che volumi uguali di gas, nelle stesse condizioni di temperatura e pressione, contengono lo stesso numero di molecole, indipendentemente dalla loro massa. Questo significa che, pur avendo lo stesso numero di particelle, gas diversi hanno masse differenti. A temperatura e pressione standard (0°C e 1 atm), una mole di qualunque gas occupa un volume di 22,414 litri. Questo valore, noto come volume molare, è indipendente dalla natura chimica del gas. Anche se due sostanze contengono lo stesso numero di moli, le loro masse saranno diverse, poiché la massa molare dipende dalla natura chimica delle particelle che compongono la sostanza. Ad esempio: una mole di sale (NaCl) avrà una massa diversa da una mole di acqua (H2O) o di ossigeno (O2). COEFFICIENTI STECHIOMETRICI Ogni equazione chimica deve essere bilanciata sia nella massa che nella carica, poiché le specie reagenti e i prodotti seguono rapporti quantitativi precisi, definiti dai coefficienti stechiometrici. Questi rapporti consentono di determinare le quantità relative di reagenti e prodotti coinvolti in una reazione chimica, uno studio noto come stechiometria. Un esempio pratico è la reazione tra alluminio (Al) e bromo liquido (Br2) per formare bromuro di alluminio (AlBr3). La reazione bilanciata è: In questa equazione, i coefficienti stechiometrici indicano che: 2 moli di alluminio reagiscono con 3 moli di bromo liquido, per formare 2 moli di bromuro di alluminio. GLI STATI DELLA MATERIA La materia può esistere in diversi stati di aggregazione: solido, liquido e gassoso. Questi stati dipendono dalla distanza tra le particelle, dalle forze intermolecolari che le legano e dalla libertà di movimento delle particelle stesse. Le interazioni intermolecolari giocano un ruolo cruciale nel determinare lo stato della materia, influenzando la coesione tra le particelle e, quindi, le loro proprietà fisiche. Stato solido: Le particelle sono molto vicine tra loro e legate da forti forze intermolecolari. Hanno una disposizione regolare, un volume e una forma propri. Stato liquido: Le particelle sono meno vincolate, permettendo un certo grado di movimento. Un liquido ha un volume proprio, ma assume la forma del contenitore in cui si trova. Stato gassoso: Le particelle sono lontane tra loro e in movimento libero. Un gas non ha né volume né forma propri, ma si espande per riempire l’intero spazio disponibile. Gli stati di aggregazione non sono immutabili: possono variare in funzione della temperatura (T) e della pressione (P). Questo rende possibili i passaggi di stato, trasformazioni fisiche reversibili che permettono alla materia di cambiare da uno stato fisico a un altro senza alterare la struttura molecolare. I passaggi di stato più comuni includono: o Fusione (solido → liquido) o Solidificazione (liquido → solido) o Evaporazione o ebollizione (liquido → gas) o Condensazione (gas → liquido) o Sublimazione (solido → gas) o Brinamento (gas → solido) Questi cambiamenti sono di natura fisica, non chimica: la molecola rimane invariata, ma varia il modo in cui le molecole interagiscono tra loro. 1. STATO GASSOSO Le particelle di un sistema gassoso hanno un'energia cinetica maggiore rispetto all'energia di interazione tra di esse, il che consente loro di occupare tutto lo spazio disponibile. Questo comportamento implica che i gas non abbiano una superficie di separazione e riempiano interamente il volume del recipiente in cui si trovano. Un gas ideale è un modello teorico che semplifica lo studio dei gas reali, basandosi su alcune ipotesi: le particelle non hanno volume, si muovono costantemente in modo casuale e in linee rette, non interagiscono tra loro con attrazioni o repulsioni e subiscono solo urti elastici. Inoltre, l'energia cinetica media delle particelle è direttamente proporzionale alla temperatura misurata in Kelvin. La maggior parte dei gas reali segue il comportamento ideale a basse pressioni e alte temperature. Il comportamento dei gas è descritto attraverso quattro variabili fondamentali: - Pressione - Volume - Temperatura - quantità di sostanza La pressione è generata dagli urti delle particelle contro le pareti del contenitore e può essere espressa in unità come atmosfere, pascal o millimetri di mercurio. Il volume del gas coincide con quello del contenitore, mentre la temperatura, generalmente misurata in Celsius, deve essere convertita in Kelvin per i calcoli. La quantità di sostanza, infine, è espressa in moli. LEGGE DI BOYLE La legge di Boyle descrive la relazione tra pressione e volume di un gas mantenuto a temperatura costante: il prodotto tra pressione e volume è una costante, indicando che le due grandezze sono inversamente proporzionali. Questo significa che, a parità di temperatura, un aumento della pressione comporta una riduzione del volume e viceversa. Ad esempio, comprimendo un gas, come accade in una siringa, il volume diminuisce e la pressione interna aumenta. Questo principio trova applicazione anche nel processo respiratorio: durante l'inspirazione, l'aumento del volume polmonare riduce la pressione, permettendo l'ingresso dell'aria; durante l'espirazione, il volume si riduce, aumentando la pressione e spingendo l'aria fuori. La distinzione tra gas e vapore dipende dalla temperatura critica. Un gas rimane tale al di sopra della sua temperatura critica, mentre un vapore può essere liquefatto mediante compressione al di sotto di essa. Questo comportamento consente di comprendere le transizioni tra gli stati aeriforme e liquido e il ruolo della temperatura e della pressione in tali cambiamenti. P x V = cost P1 x V1 = P2 xV2 LEGGE DI CHARLES La Legge di Charles, nota anche come legge isocora, descrive la relazione tra pressione e temperatura per una massa di gas mantenuta a volume costante. Secondo questa legge, all'aumentare della temperatura assoluta di un gas (misurata in Kelvin), aumenta proporzionalmente anche la sua pressione, e viceversa. Ciò significa che, se il volume del gas è fisso, un aumento della temperatura provoca un incremento proporzionale della pressione. Allo stesso modo, una diminuzione della temperatura comporta una riduzione della pressione. Questo comportamento si basa sul fatto che, con l'aumento della temperatura, l'energia cinetica media delle particelle aumenta, intensificando la frequenza e la forza degli urti contro le pareti del contenitore, il che si traduce in una maggiore pressione. P/ T = k LEGGE DI GAY-LUSSAC La Legge di Gay-Lussac, anche nota come legge isobara, descrive la relazione tra volume e temperatura per una massa di gas mantenuta a pressione costante. Questa legge stabilisce che, all'aumentare della temperatura assoluta (misurata in Kelvin), aumenta proporzionalmente anche il volume del gas, e viceversa. quando la temperatura aumenta, le particelle acquisiscono maggiore energia cinetica, il che intensifica la loro velocità e gli urti contro le pareti del contenitore. Per mantenere la pressione costante, il volume del gas deve aumentare, riducendo così la frequenza degli urti per unità di superficie. Per utilizzare correttamente la Legge di Gay-Lussac, è fondamentale che la temperatura sia sempre espressa in Kelvin, calcolata come: T(K)=t(°C) +273,1 V/T= k V1/T1 = V2/T2 EQUAZIONE DI STATO DEI GAS IDEALI Lo stato gassoso e il comportamento dei gas sono descritti dall'equazione di stato dei gas ideali, una relazione fondamentale che collega le tre variabili principali (pressione, volume e temperatura) con la quantità di sostanza presente. L'equazione è espressa come PV=nRT Dove: P è la pressione, generalmente espressa in atmosfere (atm). V è il volume del gas, misurato in litri (L). n è il numero di moli del gas. R è la costante universale dei gas, pari a 0,082 T è la temperatura assoluta, espressa in Kelvin I GAS REALI I gas reali non si comportano come gas ideali poiché le loro particelle possiedono un volume finito e interagiscono attraverso forze intermolecolari. Queste caratteristiche influenzano il comportamento dei gas, specialmente in condizioni di bassa temperatura o alta pressione, dove il sistema si allontana dall'idealità fino a raggiungere un cambiamento di stato, trasformandosi in liquido. Il modello cinetico aiuta a comprendere quando un gas può avvicinarsi al comportamento ideale: A temperature elevate (T↑) A pressioni basse (P↓) Con volumi grandi (V↑) Viceversa, a basse temperature (T↓) o alte pressioni (P↑), il comportamento reale si discosta dall’idealità, richiedendo l’uso di modelli correttivi per descrivere il sistema. VOLUME REALE Il volume totale disponibile per le particelle non coincide con il volume del recipiente (V) a causa del volume occupato dalle particelle stesse, definito "covolume" (b). L’equazione per il volume reale è: Dove b è una costante caratteristica del gas, determinata sperimentalmente, e rappresenta il volume minimo che una mole di gas può occupare. PRESSIONE REALE Le forze attrattive tra molecole, soprattutto in prossimità delle pareti del contenitore, riducono il numero di urti con le pareti e, quindi, abbassano la pressione rispetto a quella prevista per un gas ideale. Il termine correttivo per la pressione è proporzionale al quadrato della densità del gas (n^2/V^2): Dove a è un parametro sperimentale che rappresenta l’intensità delle forze attrattive tra molecole. EQUAZIONE DI VAN DER WAALS Combinando i termini correttivi per volume e pressione, si ottiene l’equazione di stato dei gas reali, detta equazione di Van der Waals: In questa equazione: P è la pressione del gas, V è il volume totale del recipiente, n è il numero di moli, T è la temperatura in Kelvin, R è la costante universale dei gas, a e b sono parametri caratteristici del gas specifico. Quando il gas è molto rarefatto (V↑), i termini correttivi per volume e pressione diventano trascurabili, e l’equazione di Van der Waals si avvicina all’equazione di stato del gas ideale: PV=nRT 2. STATO LIQUIDO Lo stato di aggregazione della materia dipende dai legami e dalle interazioni tra le particelle, che sono generalmente deboli e di natura temporanea. Questi legami regolano sia gli stati di aggregazione sia la solubilità delle sostanze. Nei liquidi, le proprietà fisiche sono principalmente influenzate dalle forze di van der Waals, come le interazioni dipolo-dipolo e le forze di London. Le caratteristiche principali dei liquidi possono essere descritte attraverso quattro proprietà fondamentali: pressione di vapore, viscosità, tensione superficiale e capillarità. - la pressione di vapore rappresenta la tendenza del liquido a evaporare, ed è legata al punto di ebollizione - la viscosità misura la capacità delle molecole di scorrere le une sulle altre; essa rappresenta una resistenza, determinata dalle forze di coesione, che si oppone al movimento del liquido. - la tensione superficiale è la resistenza di un liquido a un aumento della sua superficie, dovuta alle forze di coesione tra le particelle lungo la superficie. Le molecole sulla superficie del liquido, non essendo attratte uniformemente in tutte le direzioni, tendono a essere richiamate verso l’interno, il che conferisce alle gocce una forma sferica per minimizzare il rapporto superficie/volume. Con l’aumento della temperatura, la tensione superficiale diminuisce a causa dell’agitazione molecolare, che contrasta le forze di coesione e favorisce una maggiore bagnabilità. - la capillarità è il fenomeno per cui un liquido polare può salire spontaneamente lungo un tubo stretto, grazie alla combinazione di forze di coesione e adesione. Un elemento rilevante per modificare la tensione superficiale è rappresentato dai tensioattivi. Queste sostanze abbassano la tensione superficiale di un liquido, facilitando la bagnabilità delle superfici e la miscibilità tra liquidi diversi. I tensioattivi hanno una struttura anfifilica, composta da una testa polare idrofila e una coda non polare idrofoba. Questa configurazione li rende ideali per applicazioni come detergenti ed emulsionanti, permettendo di superare le barriere di compatibilità tra liquidi di diversa natura. PRESSIONE DI VAPORE E VOLATILITA’ La pressione di vapore descrive la tendenza di un liquido a evaporare ed è una proprietà strettamente legata al movimento termico delle particelle. Le particelle di un liquido sono in costante moto di agitazione termica, con un’energia cinetica media che dipende dalla temperatura. Questo movimento permette alle particelle sulla superficie del liquido di superare le forze intermolecolari, dando origine al fenomeno dell'evaporazione, un passaggio di stato che coinvolge solo le particelle superficiali. Ogni liquido possiede una specifica volatilità, ovvero la tendenza a evaporare. In un sistema chiuso, si stabilisce un equilibrio dinamico tra evaporazione e condensazione. Questo equilibrio genera una pressione, definita pressione di vapore, che è costante a una data temperatura ed è caratteristica di ogni liquido. La pressione di vapore dipende da tre fattori principali: la temperatura, la natura dei legami intermolecolari, e la massa molecolare della sostanza. La vaporizzazione può avvenire attraverso due processi distinti: 1. Evaporazione: avviene solo sulla superficie del liquido ed è un processo continuo che non richiede temperature elevate. 2. Ebollizione: avviene quando la pressione di vapore del liquido eguaglia la pressione atmosferica esterna. Questo processo interessa l’intera massa del liquido e avviene a una temperatura specifica, definita come temperatura di ebollizione. La temperatura di ebollizione di un liquido varia in funzione della pressione esterna. Ad esempio: Al livello del mare, dove la pressione atmosferica è di 1 atm, l’acqua bolle a 100 °C. Sull’Everest, dove la pressione atmosferica scende a circa 0,34 atm, l’acqua bolle a una temperatura più bassa, intorno ai 70 °C. La relazione tra pressione di vapore e temperatura di ebollizione evidenzia come una riduzione della pressione esterna comporti una diminuzione della temperatura necessaria per raggiungere l’ebollizione. Le transizioni di fase rappresentano cambiamenti nello stato fisico della materia e comportano sempre un trasferimento di energia sotto forma di calore. PROCESSI ENDOTERMICI Sono quelli in cui è richiesto calore per avviare il cambiamento di fase: Fusione: passaggio da solido a liquido. Evaporazione: passaggio da liquido a gas. Sublimazione: passaggio diretto da solido a gas. In questi processi, l'energia viene assorbita dal sistema e la variazione di entalpia (ΔH) è positiva (ΔH>0). PROCESSI ESOTERMICI I processi inversi, come la solidificazione, la condensazione e la deposizione, rilasciano calore nell'ambiente. In questo caso, ΔH è negativo (ΔH0) del sistema, cioè il grado di disordine. Questo processo può essere accompagnato da una liberazione di calore (ΔH0, dissoluzione endotermica). Una soluzione si forma quando tra soluto e solvente si instaurano forze di coesione della stessa natura di quelle presenti tra le particelle dei componenti puri. Questo principio è sintetizzato nella regola "simile scioglie simile": Liquidi miscibili: i due componenti presentano forze intermolecolari simili, ad esempio acqua e alcol. Liquidi non miscibili: i due componenti hanno forze intermolecolari di natura diversa, ad esempio acqua e olio. SOLUZIONI DI SOLIDI IONICI IN ACQUA Quando un solido ionico, come il cloruro di sodio (NaCl), si dissolve in acqua, avviene un processo chiamato solvatazione (o idratazione). Gli ioni del solido vengono circondati da molecole di acqua, che formano nuove interazioni con essi. L’energia necessaria per rompere il reticolo cristallino del solido è compensata dall’energia liberata durante la formazione delle nuove interazioni tra solvente e soluto. Tuttavia, la miscibilità non è sempre completa: ad esempio, NaCl non può essere sciolto in acqua in proporzioni illimitate. La solvatazione è essenziale per il processo di dissoluzione ed è particolarmente evidente nel caso di solventi polari come l’acqua. Durante la solvatazione ionica, il solvente forma legami specifici, come i legami ione-dipolo, con gli ioni del soluto. Ad esempio, quando NaCl si dissolve in acqua, si separa nei suoi ioni costituenti, Na+ e Cl−, che vengono stabilizzati dall’acqua attraverso l'idratazione. Non tutte le sostanze si dissociano in ioni durante la dissoluzione. Gli elettroliti, comeHCl, si dissociano totalmente o parzialmente, conducendo elettricità in soluzione. Al contrario, i non- elettroliti, come il glucosio (C6H12O6), si dissolvono senza separarsi in ioni, mantenendo la loro struttura molecolare. La solubilità rappresenta la quantità massima di soluto che può essere sciolta in una determinata quantità di solvente a una temperatura specifica. Una soluzione satura è quella in cui il soluto aggiunto oltre la sua solubilità non si dissolve più. Al contrario, una soluzione sovrasatura contiene più soluto di quanto sia solubile alla temperatura data, ma è instabile e può cristallizzarsi se perturbata. EFFETTO DI PRESSIONE E TEMPERATURA SULLA SOLUBILITÀ La solubilità dei soluti nei liquidi varia in base a pressione e temperatura, con effetti specifici per gas, solidi e liquidi. La pressione influisce soprattutto sulla solubilità dei gas, mentre la temperatura può influire diversamente a seconda che il processo di dissoluzione sia esotermico o endotermico. Per quanto riguarda la pressione, una variazione non modifica significativamente la solubilità di soluti liquidi e solidi. Tuttavia, nel caso di un gas disciolto in un liquido, la solubilità aumenta proporzionalmente alla pressione esercitata dal gas sopra il liquido, come descritto cA = k PA dalla Legge di Henry: cA=k⋅PA, dove cA è la solubilità del gas, k la costante di Henry e PA la pressione parziale del gas. Questo equilibrio dipende strettamente dalla pressione esterna: un aumento di pressione facilita l’ingresso del gas in soluzione, mentre una diminuzione provoca la liberazione del gas. Un esempio pratico è l’apertura di una bottiglia di bevanda gassata, dove la riduzione di pressione causa la fuoriuscita di CO2. Inoltre, nelle immersioni subacquee, l’aumento della pressione con la profondità porta a una maggiore dissoluzione di gas nel sangue, e una risalita rapida può causare embolia gassosa, un fenomeno pericoloso legato alla rapida liberazione dei gas disciolti. La temperatura ha un effetto variabile sulla solubilità, influenzato dal tipo di processo termico coinvolto. Nelle dissoluzioni esotermiche, che rilasciano calore (ΔH0), un aumento di temperatura favorisce la solubilità, poiché il sistema utilizza l’energia termica per agevolare la dissoluzione. Nel caso dei gas, l’aumento della temperatura riduce generalmente la solubilità. L’energia cinetica aggiuntiva rompe le interazioni intermolecolari e facilita l’uscita delle molecole di gas dalla soluzione, rendendo difficile il mantenimento del gas disciolto. CONCENTRAZIONE La concentrazione di una soluzione rappresenta il rapporto tra la quantità di soluto disciolta e la quantità totale di soluzione. Essa può essere espressa con diverse unità di misura, che variano a seconda della natura della soluzione e della specificità del contesto. Una delle unità più comuni è la concentrazione percentuale, che può essere espressa in diversi modi: Percentuale massa su massa (% m/m): indica la quantità di soluto in grammi sciolta in 100 grammi di soluzione. Percentuale massa su volume (% m/V): esprime la quantità di soluto in grammi sciolta in 100 mL di soluzione. Percentuale volume su volume (% V/V): indica il volume di soluto in millilitri sciolto in 100 mL di soluzione. Questo metodo viene utilizzato, ad esempio, per calcolare il grado alcolico delle bevande. Ad esempio, una bevanda con una gradazione alcolica del 5% contiene il 5% di alcol in volume. Per una bottiglia da 33 cl con il 5% di alcol, la quantità di alcol è di 1.65 cl. Un'altra misura della concentrazione è la concentrazione in parti per milione (ppm), che indica il numero di parti di soluto presenti in un milione di parti di soluzione. La concentrazione molare (M), o molarità, è il rapporto tra il numero di moli di soluto e il volume della soluzione espresso in litri. Le soluzioni con concentrazione nota possono essere preparate utilizzando metodi come la diluizione o la titolazione. La concentrazione molale (m), o molalità, rappresenta il rapporto tra il numero di moli di soluto e la massa del solvente espressa in chilogrammi. Infine, la frazione molare (X) di un componente di una soluzione è il rapporto tra il numero di moli di quel componente e il numero totale di moli di tutti i componenti della soluzione. La frazione molare è una misura adimensionale ed è compresa tra 0 e 1. In una soluzione con due componenti, se uno ha una frazione molare di 0.2, l'altro avrà una frazione molare di 0.8. Diluizione LE PROPRIETA’ COLLIGATIVE Le proprietà colligative sono proprietà fisiche delle soluzioni che dipendono esclusivamente dal numero di particelle di soluto presenti nella soluzione, e non dalla natura del soluto stesso. Esse descrivono gli effetti che un soluto ha su un solvente, in particolare per quanto riguarda alcune caratteristiche come la tensione di vapore, il punto di ebollizione, il punto di congelamento e la pressione osmotica. Le quattro principali proprietà colligative sono: 1. Abbassamento della tensione di vapore 2. Innalzamento della temperatura di ebollizione 3. Abbassamento della temperatura di congelamento 4. Pressione osmotica Tutti questi effetti sono influenzati dal numero di particelle di soluto presenti nella soluzione, non dalla loro natura chimica. La dissociazione del soluto in particelle più piccole, come nel caso degli elettroliti, aumenta l'effetto sulle proprietà colligative. Per calcolare l'effetto di un soluto dissociato sulle proprietà colligative, si introduce il fattore di Van't Hoff (i), che tiene conto della dissociazione del soluto in più particelle. Il fattore di Van’t Hoff è espresso come: Dove: α è il grado di dissociazione (ovvero la frazione di soluto che si dissocia in ioni); v è il numero di particelle in cui il soluto si dissocia (per esempio, NaCl si dissocia in 2 particelle: Na+ e Cl−). Per un non elettrolita, come lo zucchero o l'urea, α=0, quindi i=1 e non si verifica dissociazione. Per un elettrolita forte, come i sali o gli acidi forti, α=1 e i è uguale al numero di particelle generate dalla dissociazione del soluto. Gli elettroliti deboli, come gli acidi o le basi deboli, hanno un valore di α tra 0 e 1, quindi anche i avrà un valore intermedio. Per calcolare la concentrazione effettiva delle particelle nella soluzione, si deve moltiplicare la concentrazione nominale del soluto per il fattore i. Questo fattore di correzione è fondamentale per determinare l'effetto reale sulle proprietà colligative, specialmente quando si tratta di soluti elettroliti che dissociano in più particelle. 1. ABBASSAMENTO DELLA TENSIONE DI VAPORE La tensione di vapore è una misura della tendenza di un liquido ad evaporare. Ogni liquido ha una tensione di vapore caratteristica che dipende dalla temperatura, dalle forze di attrazione intermolecolari e dalla massa delle particelle del liquido stesso. Quando un liquido volatile viene posto in un recipiente chiuso, evapora fino a quando la velocità di evaporazione uguaglia quella di condensazione, raggiungendo un equilibrio dinamico. A questo punto, la pressione esercitata dal vapore in equilibrio con il liquido è la sua tensione di vapore. In una soluzione contenente un soluto non volatile, la tensione di vapore sarà sempre inferiore a quella del solvente puro. Questo accade perché le molecole di soluto che si trovano sulla superficie limitano l'accesso delle molecole di solvente alla superficie stessa, rendendo più difficile l'evaporazione del solvente. LEGGE DI RAOULT La legge di Raoult descrive questo fenomeno, affermando che la tensione di vapore di una soluzione è il prodotto della frazione molare del solvente e della sua tensione di vapore nel caso puro. Quando il soluto non è volatile, la sua tensione di vapore è praticamente zero, e quindi la tensione di vapore complessiva della soluzione dipende solo dal solvente. dove P0solvente è la tensione di vapore del solvente puro e Psolvente è la tensione di vapore della soluzione. L'abbassamento della tensione di vapore è direttamente proporzionale alla frazione molare del soluto nella soluzione. Questo fenomeno è osservato nei diagrammi di stato, dove la curva della tensione di vapore della soluzione è sempre più bassa rispetto a quella del solvente puro. 2. INNALZAMENTO EBULLIOSCOPICO L’innalzamento ebullioscopico si riferisce all'aumento della temperatura di ebollizione di una soluzione rispetto al solvente puro. Quando un soluto non volatile viene disciolto in un solvente, il punto di ebollizione della soluzione aumenta. Questo avviene perché la presenza di particelle di soluto riduce la capacità del solvente di evaporare, abbassando la sua tensione di vapore. Di conseguenza, la soluzione raggiunge il punto di ebollizione solo quando la sua tensione di vapore è sufficientemente elevata da uguagliare la pressione esterna, e questo richiede una temperatura più alta rispetto al solvente puro. Il fenomeno dell’innalzamento ebullioscopico è direttamente proporzionale alla molalità della soluzione, che esprime il numero di moli di soluto per ogni chilogrammo di solvente. La relazione che descrive l'effetto è la seguente: Dove: ΔTe è l'incremento del punto di ebollizione, Ke è la costante ebullioscopica molale del solvente, m è la molalità della soluzione. L’aumento della temperatura di ebollizione è anche proporzionale al numero di particelle di soluto disciolte, e non dipende dalla loro natura chimica. Ad esempio, sia il comune sale da cucina (NaCl) che il sale iodato (miscele di NaCl, KI, KIO₃) causano lo stesso innalzamento del punto di ebollizione in base alla quantità di particelle disciolte. Nelle soluzioni di elettroliti si utilizza questa formula: 3. ABBASSAMENTO CRIOSCOPICO L'abbassamento crioscopico è l'abbassamento della temperatura di congelamento di una soluzione rispetto al solvente puro. Questo fenomeno si verifica perché le particelle di soluto interferiscono con la formazione di cristalli di solvente durante il processo di congelamento. La presenza di soluto ostacola l’allineamento ordinato delle molecole di solvente, che è necessario per formare la fase solida (cristalli). Di conseguenza, la soluzione rimane liquida a una temperatura inferiore rispetto al solvente puro. Il cambiamento della temperatura di congelamento è anch’esso proporzionale alla molalità della soluzione e viene espresso dalla formula: Dove: ΔTc è la diminuzione del punto di congelamento, Kc è la costante crioscopica molale del solvente, m è la molalità della soluzione. Anche qui nelle soluzioni di elettroliti si utilizza la formula: Come per l’innalzamento ebullioscopico, l’abbassamento crioscopico dipende dal numero di particelle di soluto e non dalla loro natura. In altre parole, soluti diversi che dissociano in un numero maggiore di particelle avranno un effetto più marcato sul punto di congelamento. Il principio che governa entrambi i fenomeni, l'innalzamento ebullioscopico e l'abbassamento crioscopico, è che l’effetto dipende esclusivamente dalla concentrazione di particelle di soluto, indipendentemente dalla loro natura chimica. Questi fenomeni sono particolarmente utili in diverse applicazioni pratiche. Ad esempio, l’aggiunta di sale all'acqua per cucinare la pasta ha un impatto minimo sul tempo di ebollizione: sebbene l’acqua salata abbia una temperatura di ebollizione leggermente più alta rispetto all’acqua pura, la differenza non è sufficiente per ridurre significativamente il tempo di cottura. Tuttavia, aggiungere il sale prima che l'acqua inizi a bollire può evitare di dimenticarlo, evitando anche il rischio di una cottura meno salata. Altri esempi si trovano nella natura e nelle tecnologie. Alcuni organismi che vivono in ambienti estremamente freddi, come i pesci antartici, utilizzano l’abbassamento crioscopico a loro favore. Producono alti livelli di composti come il sorbitolo e il glicerolo, che riducono il punto di congelamento del loro sangue, impedendo il congelamento a temperature inferiori a quelle di congelamento dell'acqua circostante. Un altro esempio è l’uso di sali (come il cloruro di sodio) per abbassare il punto di congelamento dell'acqua sulle strade, prevenendo la formazione di ghiaccio pericoloso durante l'inverno. Allo stesso modo, l’antigelo, che contiene etilenglicole, sfrutta l’abbassamento crioscopico per proteggere i motori degli autoveicoli dalle basse temperature. 4. PRESSIONE OSMOTICA La pressione osmotica è un fenomeno che riguarda il movimento delle molecole di solvente in una soluzione attraverso una membrana semipermeabile. Le membrane semipermeabili sono quelle che permettono il passaggio del solo solvente, ma non delle particelle di soluto, come accade per esempio nelle membrane biologiche. Nei sistemi biologici, la comprensione dei fenomeni di osmosi e diffusione è fondamentale per prevedere come si comportano soluzioni differenti separate da una membrana biologica. In presenza di una membrana, i due fenomeni di mescolamento possono avvenire in due modi distinti: 1. Diffusione (membrana permeabile): Quando la membrana è permeabile, il soluto e il solvente si mescolano liberamente per diffusione, ossia tendono a distribuirsi uniformemente nelle due soluzioni, spostandosi dal punto di maggiore concentrazione a quello di minore concentrazione. 2. Osmosi (membrana semipermeabile): Quando la membrana è semipermeabile, solo il solvente può attraversarla, mentre le molecole di soluto restano bloccate. In questo caso, il solvente si muove spontaneamente da una zona di bassa concentrazione di soluto (soluzione più diluita) verso una zona di alta concentrazione di soluto (soluzione più concentrata), cercando di diluire la soluzione più concentrata. OSMOSI E PRESSIONE OSMOTICA L'osmosi è quindi il movimento spontaneo del solvente attraverso una membrana semipermeabile. Questo fenomeno ha un effetto pratico importante: la soluzione più concentrata tende a aumentare di volume, mentre quella più diluita tende a diminuire il suo volume. Ciò accade fino a quand